Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 17 maggio 2013

In Spagna appello intellettuali di sinistra propone di uscire dall'Euro

- controlacrisi -
                   
Dalla Spagna un manifesto sottoscritto da dirigenti politici, intellettuali e personalità della sinistra dichiara la necessità della rottura con la gabbia della moneta unica europea. Un manifesto che per certi aspetti ricalca una discussione che è stata avviata in Italia da alcuni compagni "coraggiosi" che incontra sempre più consenso. Queste personalità politiche della sinistra come Julio Anguita e Manuele Monereo, intellettuali marxisti come Miguel Riera, Joan Tafalla, Joaquim Miras hanno sottoscritto un manifesto politico che chiede esplicitamente l'uscita della Spagna dall'euro. Una dichiarazione di rottura il cui unico limite è la dimensione nazionale della soluzione, tema sul quale la discussione in Italia è più avanzata. In Italia ( Vasapollo e Porcaro ad esempio) sostengono la creazione di una area economica e alternativa che integri i paesi Pigs europei e i paesi mediterranei sul modello Alba.
Manifesto per il recupero della sovranità economica, monetaria e cittadina
USCIRE DALL’EURO
La drammatica situazione sociale ed economica in cui è sprofondata la nostra società esige una politica capace di creare le condizioni per uscire dalla crisi. È una necessità urgente. Il tempo è un dato primario per i rischi di aggravamento e degradazione che esistono, per l’enorme sofferenza sociale provocata dal persistere delle politiche di tagli, austerità e privatizzazione del pubblico.
La rete in cui siamo presi è fatta da un livello di disoccupazione catastrofico, da un indebitamento del paese con l’estero impossibile da affrontare e da un’evoluzione dei conti pubblici che porta al fallimento economico dello Stato. Oltre 6 milioni di disoccupati, oltre 2,3 miliardi di euro di passivo lordi con l’estero, e un debito pubblico di quasi un miliardo di euro, crescente e che si avvicina al 100% del PIL, sono dati che definiscono un disastro inimmaginabile, mettono in pericolo la convivenza e distruggono diritti sociali fondamentali.
Una crisi di questa portata ha cause complesse e multiple, dalla crisi generale del capitalismo finanziario agli sprechi e alla corruzione, passando per un sistema fiscale tanto regressivo quanto ingiustamente applicato, ma, anche a rischio di semplificare l’analisi per scoprire le soluzioni, bisogna attribuire all’entrata del nostro paese nella moneta unica la principale ragione di questa desolante situazione.
Come ora si riconosce, non c’erano le condizioni per stabilire una moneta unica tra paesi tanto disuguali economicamente senza accompagnarle con una fiscalità comune. La sua creazione implicava, d’altra parte, un quadro propizio all’instaurazione di politiche regressive e antisociali di tutti i tipi secondo i dettami della dottrina neoliberista, che ha avuto nella costruzione dell’Europa di Maastricht la sua massima espressione. Come si è valutato a suo tempo, lo Stato del welfare non è compatibile con l’Europa di Maastricht.
Con l’entrata nell’euro, il nostro paese ha perso uno strumento essenziale per competere e mantenere un ragionevole equilibrio negli scambi economici con l’estero, quale era il controllo e la gestione del tipo di cambio rispetto al resto delle monete. D’altra parte, c’è stata una cessione di sovranità a favore della BCE in quanto a liquidità e applicazione della politica monetaria, un’istituzione dominata fin dalle origini dagli interessi del capitalismo tedesco.

Spagna , l'apartheid della riforma sanitaria

Fonte: il manifesto | Autore: Giuseppe Grosso
                 
SIN PAPELES · Stravolto il modello assistenziale, da settembre niente più cure mediche gratuite
Storia di Alpha Pam, viveva da 8 anni a Maiorca, è morto di tubercolosi perché non curato. Un circolo vizioso che «contravviene ai diritti umani», denunciano i Médicos del mundo MADRID È la cronaca di una morte annunciata questa storia d'altri tempi che accade nella Spagna di oggi. Un ragazzo senegalese di 28 anni è morto in una pozza di sangue, stroncato da una malattia curabile come la tubercolosi. Ma dietro la morte del giovane Alpha Pam, da 8 anni residente a Maiorca, non c'è solo la tisi. C'è anche e soprattutto la riforma della sanità del Partido popular , che dallo scorso settembre ha stravolto il modello assistenziale spagnolo, vincolandone l'accesso al requisito della residenza fiscale. Per gli immigrarti senza permesso di soggiorno - come Alpha Pam - è una vera e propria condanna, perché la condizione di clandestinità impedisce loro, a priori, di soddisfare i requisiti della nuova legge e quindi di beneficiare delle cure mediche gratuite. Un circolo vizioso che «contravviene ai diritti umani», spiega Inés Díez, legale di Red Acoge, un'associazione per la tutela dei migranti che insieme a Médicos del mundo (Mdm) e Amnesty international sta lottando per ripristinare l'accesso universale alle cure mediche. «Ma per contrastare la riforma abbiamo poco margine di manovra: l'unica possibilità, come già hanno fatto alcune regioni, è agire sul piano amministrativo contestando al governo un'invasione di competenze». La gestione sanitaria, infatti, spetta alle singole regioni, che in molti casi si avvalgono dell'autonomia decisionale per attutire gli effetti più duri della riforma. In attesa che il Tribunale costituzionale decida sul ricorso presentato da Catalogna, Paesi baschi, Canarie e Navarra, sono molte le comunidades autónomas disobbedienti che continuano a tenere aperte a tutti le porte degli ambulatori. In questa lista di regioni dissidenti non rientrano però le Baleari - la comunidad governata dal Pp nella quale viveva Alpha - nonostante Mdm avesse già segnalato alle autorità alcuni gravi casi di mancata assistenza a malati cronici o a pazienti con malattie infettive, segnalati soprattutto nell'ospedale di Inca. Lo stesso in cui Alpha Pam, per due volte si è visto negare una visita medica. Solo al terzo tentativo e dopo insistenti proteste il ragazzo è riuscito a strappare una visita di cinque minuti: non gli viene fatto nessun esame e - nonostante i sintomi della tubercolosi fossero evidenti, secondo quanto riferisce Mdm - anziché essere ricoverato, viene congedato con una lista di medicine (a suo carico) e una fattura per la visita. Qualche settimana dopo Alpha Pam muore solo nella sua abitazione e diventa - ed era solo questione di tempo - la prima vittima diretta dell'austerità. Un'austerità esercitata sulla pelle dei più vulnerabili, che, pur macchiata di sangue, è rivendicata dal governo: con la riduzione dell'accesso alla sanità pubblica, l'esecutivo conta di risparmiare fino a 500 milioni di euro; e se mezzo miliardo in più nel bilancio (una parte comunque minima del budget della sanità) può significare qualche vita in meno, pazienza. I conti innanzitutto.
Peccato però che siano sbagliati. «Secondo tutti gli studi che abbiamo a disposizione - spiega Manuel Espinel, medico di pronto soccorso e dirigente di Médicos del mundo la spesa medica per gli immigrati sarebbe persino inferiore, dato che si tratta generalmente di persone giovani e in buona salute. Meno del 10% dei pazienti che ricorrono al servizio sanitario nazionale, incluso pediatria e pronto soccorso, sono immigrati». Inoltre la limitazione dell'assistenza di base potrebbe paradossalmente far lievitare i costi della sanità, invece di contenerli: «Eliminando l'assistenza medica primaria - continua Espinel - si fomenta l'utilizzo del pronto soccorso, che ha dei costi molto più elevati rispetto a un'assistenza preventiva di base». E allora perché il governo - mentre la Chiesa tace - infierisce su un collettivo già così debole? La componente ideologica pesa probabilmente più di quella economica e le pressioni della corrente più reazionaria e conservatrice del Pp - come nel caso dell'imminente riforma dell'aborto hanno avuto senz'altro un ruolo determinante nella decisione del governo. Alle limitazioni della riforma fa da tuttavia da contrappeso il senso di responsabilità di molti medici (la maggior parte) che, anche nelle regioni che applicano la riforma senza sconti, prestano assistenza a tutti e in alcuni casi stilano una vera lista di pazienti «irregolari» parallela a quella ufficiale. Il problema sono però le medicine, che, per chi non ha la tessera sanitaria, costano a prezzo pieno.
Lo sa bene Maria Tanya Tigre Castro una dei pochi sin papeles che ha accettato di raccontare la sua storia. Maria Tanya, un lavoro in nero come badante, è diabetica cronica. Tredici anni fa arrivò in Spagna dall'Ecuador e da 8 la sua vita dipende dalle iniezioni quotidiane di insulina, che fino allo scorso settembre erano coperte dal sistema sanitario. «Poi un giorno - racconta Maria Tanya - il mio medico mi ha detto che ero stata cancellata dal sistema e ho dovuto farmi carico delle medicine sostenendo uno sforzo economico incredibile». Solo la pressione di Mdm e della dottoressa di Maria Tanya - che per un periodo ha persino contribuito personalmente all'acquisto delle medicine - ha fatto in modo che l'amministrazione madrilena tornasse a farsi carico della terapia.
La vicenda di Maria Tanya è tutt'altro che eccezionale: «I casi di esclusione più frequenti - precisa Espinel - riguardano diabetici e portatori di Hiv. La maggior parte di essi non va dal medico se non in caso di urgenza perché crede di non poter ricevere aiuto. Uno degli effetti più nefasti di questa riforma - prosegue Espinel - è proprio quello di aver generato confusione e paura tra gli immigrati». Un effetto secondario che non fa che aumentare il senso di emarginazione di questo collettivo, penalizzato doppiamente: alla negazione del diritto alla salute si aggiunge lo stigma sociale che la riforma del Pp proietta sui sin papeles .

I nani d’Europa e la società dimenticata

    
I nani d’Europa e la società dimenticata

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di Sergio Bruno -
Analisi economiche sbagliate, nessuna attenzione a disoccupazione, giovani e problemi sociali. Politici europei e tecnocrati, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa. Come è possibile che la cultura di governo sia divenuta tanto povera e ottusa?
La sera del 6 maggio scorso, Antonio Padellaro, parlando di Andreotti e della sua epoca su “la7”, diceva che se i politici di adesso sono normali quelli di allora erano dei giganti o che, se erano normali quelli… Personalmente riserverei il termine di gigante a personaggi quali Churchill e Roosevelt, quelli che avevano voluto Bretton Woods ancor prima che la guerra terminasse nella convinzione che i conflitti commerciali erano la premessa di quelli armati, e ai padri fondatori dell’Europa, animati da convinzioni simili. Forse la classe politica successiva, quella che ha gestito il periodo del benessere, era un tantino meno gigante, ma sempre fatta di figure che avevano una discreta cultura e comunque il senso dello stato. Evidentemente la statura è andata diminuendo con il tempo, ma era difficile prevedere che si potesse cadere così in basso.
Per additare i perversi protagonisti della finanza negli anni ’50 Harold Wilson parlò dei banchieri svizzeri come gli “gnomi di Zurigo”. Oggi, per dipingere politici europei e tecnocrati che, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa, mi sembra il caso di parlare dei “nuovi nani” della scena politica europea. La loro infima statura culturale, associata a pervicace arroganza, è infatti al di là di ogni possibilità di redenzione, come vorrei di seguito argomentare. L’idea che una società possa organizzarsi, che possa agire attraverso la mano pubblica anche fuori dai tempi di guerra sembra estranea alla sensibilità e al cervello dei nuovi nani. La tragicità, in termini di frustrazione e di spreco sociale ed economico, della disoccupazione giovanile che affligge gran parte d’Europa non scuote il loro animo. E la cosa più grottesca è che le sofferenze da questi nani imposte sono inutili. Gli stupidi possono ravvedersi a fronte di evidenze certe e semplice buon senso. Questi nani no.
Diagnosi, correzioni, nuove prospettive
Negli ultimi mesi vi sono state importanti ammissioni di errori da una parte dei tecnici e degli accademici che avevano sostenuto l’esigenza dell’austerità fiscale. Sono anche emersi sempre più nitidamente fatti che, senza bisogno di tante riflessioni, pongono in evidenza le possibilità di successo di politiche espansive. I nani sembrano non essersene resi conto e mantengono la rotta della perdizione europea.
A porre i primi dubbi sulla saggezza della drastica terapia di austerity hanno cominciato quelli dell’Fmi, Blanchard (chief economist di quella struttura) in testa. Come ho argomentato (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Il-bilancio-espansivo-che-serve-all-Europa-16614) non si è trattato certo di un “pentimento completo”, ma si è tornati ad ammettere, come negli anni ’70, che i “moltiplicatori” di spesa pubblica e imposizione possono essere diversi da zero e diversi tra loro. Come conseguenza imprevista dell’errore sui moltiplicatori l’austerità, nella misura in cui è stata praticata in Europa, ha prodotto recessione e di ciò il Fmi ha dato atto. In qualche misura il Fmi sembra essere tornato a modelli interpretativi simili a quelli che le banche centrali di tutto il mondo usavano negli anni 1970, quando i “moltiplicatori” venivano stimati e pubblicati.
Quasi contemporaneamente lo Iags (un’associazione tra tre autorevoli centri di ricerca europei) ha prodotto un rapporto che, anche esso sulla base di una rivisitata stima dei moltiplicatori, suggerisce, sulla base di un adeguato modello di ottimizzazione dinamica, di rimodulare nel tempo le politiche di rientro dal debito per i paesi cui è stato prescritto (tra i quali l’Italia) in modo da minimizzare l’impatto recessivo delle politiche stesse. Una proposta certo timida ma che va nella direzione giusta, anche se non abbastanza. Vi sarebbe infatti bisogno di politiche effettivamente espansive, piuttosto che solamente meno recessive.

«La crisi abitativa è arrivata prima di quella economica»

    
«La crisi abitativa è arrivata prima di quella economica»

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di Giorgio Salvetti -
«Le fondamenta che hanno retto il business del mattone stanno cedendo. La crisi sarà lunga. Mancano politiche di welfare anche abitativo e i primi a pagare sono i più disagiati. Ma è un circolo vizioso che finisce per far saltare l’intreccio tra immobiliaristi, speculazione e finanza che ha pompato l’economia tra il 1998 e il 2007, e che di fatto così ha cercato di sostituire l’industria manifatturiera». Pierluigi Rancati, segretario generale del sindacato inquilini Sicet Lombardia, è pessimista e sa di cosa parla.
A che punto è la crisi abitativa in Italia?
C’era già prima della crisi economica e immobiliare ed è molto peggiorata dopo il 2008. Il divario tra i prezzi delle case, gli affitti e i redditi è sempre più elevato. Anche se prezzi e affitti tendono a calare, i redditi subiscono una contrazione molto maggiore. Senza considerare che molti affitti sono stati stipulati prima della crisi e a questo punto sono insostenibili. Inoltre si contrae sempre di più il sistema di protezione sociale che comprende anche la casa. La politica di austerità espansiva in questo modo produce una crisi di lungo periodo che ha dimensioni generazionali. Peggiorerà, nonostante sia i mercati che i governi continuino a rilanciare la speranza di un’imminente ripresa.
Avete fatto degli studi che confermano queste previsioni pessime?
Ad esempio l’evoluzione della domanda più disagiata di casa in Lombardia fino al 2018 indica una richiesta di edilizia pubblica a canone sociale di 400 mila unità, e una domanda di edilizia convenzionata, che in Italia chiamano co-housing, di 127 mila unità. Significa che sempre più persone non hanno i soldi per accedere all’edilizia cosiddetta libera dove invece l’offerta è sempre più sproporzionata alle possibilità di assorbimento del mercato. A questo si deve aggiungere che 9 sfratti su 10 sono per morosità. Ci vorrebbe una vera politica pubblica della casa che invece non esiste. Non solo non c’è più l’equo canone, ma la legge che l’ha sostituita non funziona. L’idea che i privati potessero investire sull’edilizia sociale si è rivelata per quello che è: un’illusione.
Ma non ci sono soldi, come si può finanziare un piano di edilizia pubblica?
Quelli che non hanno i soldi sono i cittadini che non riescono in queste condizioni ad avere un tetto. Quanto alle risorse per realizzare un piano di edilizia pubblica bisogna considerare che il fisco sul comparto immobiliare è stato munifico e generoso, altro che Imu. Per non parlare della fiscalità molto modesta sul reparto delle costruzioni e sugli oneri urbanistici. Qui vanno cercate le risorse che servono.
Come mai la bolla del mattone in Italia non è scoppiata con virulenza come invece è accaduto negli Stati uniti o in Spagna?
Il modello dell’economia a debito in realtà è scoppiato anche da noi. In Italia le case invendute sono sempre di più, i dati sono contrastanti ma si parla di un minimo di 400 mila abitazioni, o forse del doppio. Se qui non è già saltato tutto è per la politica economica moderatrice delle famiglie che sono le prime operatrici del mercato della casa. Ma le banche sono sempre più esposte con gli immobiliaristi, che però falliscono o sono tenuti in vita con prestiti sempre più rischiosi. Si cerca di congelare la situazione nella speranza che passi la nottata. E invece così le cose non miglioreranno.
Cosa pensi della vicenda di Ragusa?
La casa è il bene ultimo su cui ci si rifà per recuperare i crediti. I pignoramenti sono in costante aumento. Non solo gettano nella disperazione le persone, ma oltretutto non risolvono il problema neppure dei creditori. Una banca che si rifà sulla casa di un debitore si ritrova con in mano un bene che non riesce a vendere o che si vende all’asta, ma molto deprezzato. Il debito resta in pancia alle banche che l’hanno creato. Pignorare non risolve nulla.
Il Manifesto – 15.05.13

Misure di austerita'!!

Wall Street, la lobby delle banche interviene sulle regole. Speculazione pronta a ripartire
Alla fine la lobby delle banche di Wall Street l'ha spuntata. Una delle norme piu' significative della riforma del sistema finanziario americano - quella che pone dei limiti ai rischi che i grandi istituti possono assumere nel settore dei derivati - e' stata annacquata.
A riportarlo è il New York Times, che parla di un accordo raggiunto tra i rappresentanti dei grandi gruppi del settore del credito e quelli delle autorita' di regolamentazione. Le modifiche apportate alla norma - denuncia il quotidiano newyorkese - potrebbero di fatto conferire a poche grandi banche il potere di continuare a controllare il mercato dei derivati, ''il principale colpevole della crisi finanziaria''. Si tratta di un mercato da 700.000 miliardi - si ricorda - un ''business redditizio'' che finora si e' potuto sviluppare nell'ombra, al di fuori delle regole che vigono a Wall Street. E appena cinque banche posseggono oltre il 90% di tutti i prodotti derivati, ''come fosse un club privato''. La preoccupazione ora e' che i trader che si occupano di questi prodotti di finanza speculativa ''possano riprendere le vecchie abitudini'', quelle che hanno portato al disastro del 2007-2009.

giovedì 16 maggio 2013

Bangladesh

Bangladesh: l’orrore del capitalismo reale
Bangladesh: l’orrore del capitalismo reale

 L’orrore del capitalismo reale

di Fabio Marcelli -
Dicesi capitalismo il sistema economico nel quale la produzione è finalizzata al profitto di chi ha capitale da investire e non al benessere della società nel suo complesso. Tale sistema è contrassegnato da una profonda iniquità e da una profonda irrazionalità. Iniquità perché determina le condizioni per lo sfruttamento e la miseria crescente della maggioranza della società. Irrazionalità perché rende impossibile ogni gestione e programmazione dell’economia in conformità ai bisogni reali delle persone.
Nell’attuale situazione di globalizzazione, derivante dall’abbattimento delle frontiere per le merci e soprattutto per i capitali, non già per le persone, il capitalismo assume varie caratteristiche ulteriori, se possibile ancora più dannose di quelle classiche. Mi limiterò in questa sede a citarne due. La prima, che ho avuto più volte occasione di citare su questo blog, è la prevalenza della finanza che si ritorce anche contro la stessa produzione reale, provocando crisi senza uscita apparente come quella che stiamo vivendo. La seconda è la sua estensione su scala planetaria, che sfrutta per penetrare i posti nei quali è più facile lo sfruttamento della forza lavoro e la devastazione dell’ambiente. Questa seconda caratteristica viene utilizzata per disinvestire in patria, provocando disoccupazione e spostarsi su mercati del lavoro più favorevoli.
Nessuno osi dire che la presenza delle multinazionali in Paesi come il Bangladesh costituisce un’opportunità per le popolazioni che ci vivono. La realtà è che vengono stravolte le tradizionali economie di sussistenza, si demolisce preventivamente ogni possibile ruolo dei sistemi pubblici e si creano quindi le condizioni per il reclutamento di manodopera che vede come unica possibilità di sopravvivenza lo sfruttamento selvaggio in luoghi come quelli dove pochi giorni fa sono morte sotto le macerie circa mille fra operaie e operai.
Situazioni che, tendenzialmente, si vorrebbero introdurre anche in Paesi come il nostro, dove del resto continuano a intensificarsi gli incidenti sul lavoro, cui si accompagnano sempre più spesso suicidi di disoccupati e altri fenomeni di disperazione, dei quali fanno le spese ignari passanti o appartenenti alle forze dell’ordine.
La classe politica che fa finta di governarci è ovviamente del tutto sorda e cieca di fronte a fenomeni di questo genere. Innanzitutto perché, nella sua gran parte, è stata acquistata da tempo un tanto al chilo dai padroni del vapore o ne fa parte direttamente. In parte perché priva di cultura e consapevolezza storica.
Qualcuno spieghi a Pd e grillini che esiste la lotta di classe. Solo che, almeno in Italia e da molti anni a questa parte la fanno solo i padroni. Gli altri subiscono e si disperano. E il mondo va a rotoli. Obiettivo Bangla Desh?
dal Fatto quotidiano

“Con la Fiom per contestare i diktat della Bce”

    
Landini: “Con la Fiom per contestare i diktat della Bce”

Landini

di Roberto Mania (La Repubblica) -
Landini, la manifestazione della Fiom di sabato prossimo a Roma, più che un’iniziativa sindacale sembra una scelta politica, per riunire la “sinistrasinistra” da Sel a una parte del Movimento 5 stelle. È questo il vostro obiettivo?
«No. Il nostro obiettivo è un altro: far cambiare le politiche economiche messe in campo dai governi Berlusconi e Monti. Va rimesso al centro il lavoro perché è la vera emergenza. Bisogna cambiare non solo in Italia ma anche in Europa».
Obiettivi politici, appunto.
«Guardi che la Fiom nella sua storia, così come la Cgil, ha sempre avuto l’ambizione di svolgere un ruolo politico per una maggiore giustizia sociale. Anche questo è il nostro mestiere».
È difficile però chiedere un cambio di rotta a un governo che non ha ancora deciso nulla. Cosa pensa dei primi orientamenti di Letta?
«Questa manifestazione l’abbiamo indetta prima di sapere quale sarebbe stato il nuovo governo. L’abbiamo fatto perché fuori dal Parlamento c’era, e c’è, una richiesta di cambiamento. Proprio per questo nei giorni scorsi la Fiom ha scritto ai gruppi parlamentari e ha incontrato alcune forze politiche per illustrare la propria piattaforma. I primi orientamenti di Letta? Mi pare che stia venendo fuori un governo troppo condizionato da Berlusconi ».
Dunque, una manifestazione contro il governo Pd-Pdl?
«Di certo non pensiamo che la soluzione che chiedeva il paese fosse il governissimo Pd-Pdl. D’altra parte il governo Monti era già sostenuto dalle forze politiche che hanno dato vita al nuovo esecutivo e che sono state penalizzate dal voto. I due terzi degli elettori hanno chiesto di cambiare rotta. E molte forze politiche, Sel, M5S, Idv, Rifondazione, Azione civile e diversi esponenti del Pd hanno aderito alla nostra iniziativa».
E il Pd di Epifani?
«L’ho incontrato per illustrargli le nostre proposte. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere. Sto aspettando. Premesso che ho solo due tessere, quella della Cgil e quella dell’Anpi, penso che il Pd stia attraversando una fase molto difficile: in campagna elettorale ha detto e promesso cose che sono in netta contraddizione con ciò che sta facendo».
Un silenzio significativo quello di Epifani?
«Non so se sia un silenzio innocente. In ogni caso in piazza ci sarà una sinistra che propone e pensa che ci siano strade diverse da quelle imposte dalla Bce».
Si sente più in sintonia con il Pd o che il M5S?
«Io sto con la Fiom».
Cosa pensa delle critiche di Grillo ai sindacati?
«Al Movimento abbiamo spiegato che la Fiom vive grazie alle quote che pagano i suoi 360 mila iscritti. Il mio stipendio è il più alto ed è di 2.300 euro netti al mese».
E le risorse pubbliche che arrivano dai Caf? E i contributi figurativi per i sindacalisti?
«La Fiom non riceve nulla dai Caf. Quei soldi, frutto di un servizio, vanno alla Cgil. I contributi figurativi per i sindacalisti sono previsti dalla legge».

Rodotà:“Non entrerò nel comitato governativo”

    
Rodotà:“Non entrerò nel comitato governativo”

Pubblicato il 16 mag 2013

di Anna Lombardi (La repubblica) -
Stefano Rodotà non entrerà nel comitato di saggi che il governo sta per istituire al fine di agevolare il percorso di riforme istituzionali. Non intende accettare procedure extraparlamentari nella revisione della Carta. «Modificare le norme sulla revisione costituzionale che costituiscono la più intensa forma di garanzia – osserva – rischia di mettere in discussione l’intero impianto della Costituzione ».
Professore, Palazzo Chigi sembra però intenzionato a chiederle una partecipazione nella commissione governativa di saggi che affiancherà la commissione affari costituzionali. Repubblica ha anticipato l’apertura del Pdl nei suoi confronti: l’hanno chiamata?
«Finora nessuno mi ha telefonato chiedendomi se voglio far parte del Comitato di saggi del governo. Ma, chiamato o non chiamato, l’idea di una commissione estranea al Parlamento non mi è congeniale: la via corretta delle riforme costituzionali è quella Parlamentare. Modificare poi le norme sulla revisione costituzionale che costituiscono la più intensa forma di garanzia rischia di mettere in discussione l’intero impianto della Costituzione. Aggiungo che io non sono mai stato pregiudizialmente ostile alle riforme. Da anni insisto sulla necessità di lavorare a quella che chiamo la “buona manutenzione della seconda parte” della Costituzione. È l’unico modo per non rischiare di incidere sui diritti e i principi fondamentali della prima parte e per sfuggire alle tentazioni di accentramento dei poteri e di riduzione dei controlli. Modifiche come quelle riguardanti il bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari vanno nella direzione giusta».
E questo come dovrebbe avvenire?
«Si dovrebbe cominciare in Parlamento e nella sede specifica delle commissioni affari costituzionali, ripartendo il lavoro fra le due commissioni di Camera e Senato in modo che i tempi si accelerano. Ma non costituendo una sorta di terza Camera, con le due commissioni che scelgono al loro interno i membri di una commissione speciale che procede a redigere il testo delle nuove norme. Due commissioni, lo dico semplificando, che cominciano a lavorare sui due temi specifici indicati prima». La riforma più urgente? «Senz’altro la riforma elettorale, la sola che potrebbe permetterci di riprendere a discutere seriamente di politica. È grave che il Pdl subordini alle riforme costituzionali il cambiamento della legge elettorale ».
E invece?
«Invece la legge elettorale deve essere modificata subito. E per due ragioni. Una di sostanza: questa legge elettorale ha un vizio di incostituzionalità. L’ha detto la Corte costituzionale, lo ha ripetuto il suo Presidente. Eliminare questo vizio è prioritario. Non mi spingo fino a dire che questo Parlamento è illegittimo: ma certamente è stato eletto con una legge “viziata”. In qualunque paese in cui ci sia un residuo di cultura istituzionale, una situazione di questo genere non sarebbe tollerata. E poi c’è una ragione politica. Berlusconi ha potere di vita o morte su questo governo perché sa che ora può decidere di staccare la spina nel momento in cui i sondaggi gli daranno la ragionevole certezza di vincere le elezioni: facendo l’en plein sia alla Camera che al Senato ».
E con l’eliminazione del Porcellum?
«Questo potere di condizionamento, di ricatto sul governo verrebbe, non dico eliminato del tutto, ma certamente diminuito. Una cosa che ci permetterebbe di tornare alla normalità costituzionale, alla normalità politica. E questa è una priorità istituzionale assoluta ».
Come interpreta l’apertura del Pdl nei suoi confronti?
«Non sono cambiato né ho cambiato le mie idee negli ultimi tempi. Forse ho avuto maggior visibilità e legittimazione per la vicenda legata alla presidenza della Repubblica. Probabilmente l’attenzione che mi viene dedicata è legata a questo fatto. La registrazione di un dato di realtà».
Contribuirebbe a un governo dove, oltre al Pd, c’è anche Berlusconi?
«Non è una cosa astratta, e mi scusi se torno sulla mia vicenda tante volte travisata. Io mi sono speso in quella direzione per un unico motivo: favorire una soluzione di governo che non portasse alla maggioranza attuale».
Ma se le chiederanno di entrare nella Convenzione dirà di sì o di no?
«Questo modo di aggirare il Parlamento non è il mio. C’è incompatibilità fra come si prospetta questa linea di riforma costituzionale e quello che io ho sempre sostenuto. Lo ripeto: a questa extraparlamentarizzazione della riforma costituzionale sono assolutamente contrario».

mercoledì 15 maggio 2013

Senza più un tetto, solo disperazione

Fonte: il manifesto | Autore: Federico Scarcella
 
La tragedia a Vittoria, nel Ragusano, dove un uomo si è dato fuoco per difendere la sua abitazione, ancora da finire, che era stata messa all'asta per un debito di 10mila euro con la banca
Sfrattato con la sua famiglia. Una figlia che non può andare all'università. Rabbia e dolore per la povertà senza scampo PALERMO. Ha provato a difendere la sua casa, costruita un pezzo dopo l'altro e mai finita. Davanti a quell'edificio - con la facciata senza intonaco, con i mattoni sbreccati e una parete di tufo giallo a murare uno dei due ingressi, chissà, per difendere meglio quel rifugio - Giovanni Guarascio, muratore disoccupato di 64 anni, si è dato fuoco per impedire che il nuovo proprietario della sua abitazione, gli potesse togliere l'unica cosa che gli dava ancora una speranza: un tetto per sé, la moglie e le sue due figlie di 28 e 32 anni, anche loro senza lavoro.
La casa di Guarascio è stata venduta all'asta un anno fa per 26 mila euro, a causa di un debito di 10 mila euro con una banca; una rogna che va avanti da 12 anni e che ha finito per condizionare la sua vita e quella della sua famiglia. Oggi era la giornata dello sfratto, reclamato da oltre sei mesi dal nuovo proprietario, un trentacinquenne di Scoglitti, paese poco distante da Vittoria, che non ha l'aria di navigare nell'oro. Guarascio avrebbe dovuto lasciare le sue quattro mura, portare via i pochi mobili e trasferirsi con altre quattro persone. Dove? Sarà stata la domanda che si è posto prima di tentare d'uccidersi. Il quando era già determinato: subito, ieri stesso, come aveva disposto la legge. Ma poco prima delle 14, mentre era in corso una trattativa tra gli avvocati, alla presenza dell'ufficiale giudiziario, Guarascio si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. La moglie, Giorgia Famà, sua coetanea, una delle figlie e due poliziotti sono subito intervenuti e sono stati investiti dalle fiamme. Portati all'ospedale Guzzardi di Vittoria, le condizioni di Guarascio (che ha ustioni di secondo e terzo grado sul 60% del corpo) sono subito sembrate gravi, tanto da richiedere il trasferimento in elisoccorso al Cannizzaro di Catania, dove è ricoverato anche uno dei poliziotti, Antonio Terranova, che ha ustioni di primo e secondo grado su braccia e torace. Le condizioni degli altri tre feriti non sembrano gravi.
Il braccio di ferro tra Guarascio e la banca era cominciato nel 2001. Il muratore cercava di mandare avanti la famiglia con lavori saltuari e sperando che un giorno avrebbe potuto estinguere il suo debito. Ma le cose sono man mano peggiorate anche dalle sue parti, dove in un tempo non lontano, grazie alla serricoltura, il territorio aveva raggiunto un livello di benessere invidiabile per i canoni del Mezzogiorno.
Guarascio, però, non ce l'aveva fatta e non riusciva a perdonarsi che la figlia più piccola, per mancanza di soldi fosse stata costretta ad abbandonare gli studi universitari. Il muratore le ha tentate tutte, ma la banca è stata inflessibile.
Dopo ripetuti tentativi di trovare un accordo con l'acquirente, spiega l'avvocato di Guarascio, Giulia Artini, stamane il muratore aveva giocato l'ultima carta, proponendo di continuare a vivere da affittuario in quella che fino a quel momento era stata la sua casa. Almeno per un periodo breve, fino al prossimo dicembre, il tempo per cercare un'altra sistemazione. Ma il nuovo proprietario, che già dallo scorso settembre chiedeva lo sfratto, è stato irremovibile. La discussione si è subito animata, e i vicini di casa hanno pensato di chiamare la polizia, che si trovava sul posto quando Guarascio si è dato fuoco. Gli agenti Marco Di Raimondo e Antonio Terranova sono subito intervenuti per soffocare le fiamme, che invece hanno investito anche loro, oltre alla figlia dell'uomo e alla moglie.
Il sindaco di Vittoria, Giuseppe Nicosia, parla di allarme sociale: «E'
arrivato il momento di fermare tutte le procedure di recupero dei crediti e avviare una moratoria che possa consentire alla gente di mantenere la propria casa. Di fronte ad una tragedia immane bisogna agire». Sempre che le sue parole attraversino i muri di palazzo Chigi o delle abbazie dove il governo medita attorno al dilemma dei dilemmi che vive il Paese: Imu o non Imu?

I nani d’Europa e la società dimenticata

Fonte: Sbilanciamoci.info | Autore: Sergio Bruno
                
Analisi economiche sbagliate, nessuna attenzione a disoccupazione, giovani e problemi sociali. Politici europei e tecnocrati, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa. Come è possibile che la cultura di governo sia divenuta tanto povera e ottusa?
La sera del 6 maggio scorso, Antonio Padellaro, parlando di Andreotti e della sua epoca su “la7”, diceva che se i politici di adesso sono normali quelli di allora erano dei giganti o che, se erano normali quelli… Personalmente riserverei il termine di gigante a personaggi quali Churchill e Roosevelt, quelli che avevano voluto Bretton Woods ancor prima che la guerra terminasse nella convinzione che i conflitti commerciali erano la premessa di quelli armati, e ai padri fondatori dell’Europa, animati da convinzioni simili. Forse la classe politica successiva, quella che ha gestito il periodo del benessere, era un tantino meno gigante, ma sempre fatta di figure che avevano una discreta cultura e comunque il senso dello stato. Evidentemente la statura è andata diminuendo con il tempo, ma era difficile prevedere che si potesse cadere così in basso.
Per additare i perversi protagonisti della finanza negli anni ’50 Harold Wilson parlò dei banchieri svizzeri come gli “gnomi di Zurigo”. Oggi, per dipingere politici europei e tecnocrati che, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa, mi sembra il caso di parlare dei “nuovi nani” della scena politica europea. La loro infima statura culturale, associata a pervicace arroganza, è infatti al di là di ogni possibilità di redenzione, come vorrei di seguito argomentare. L’idea che una società possa organizzarsi, che possa agire attraverso la mano pubblica anche fuori dai tempi di guerra sembra estranea alla sensibilità e al cervello dei nuovi nani. La tragicità, in termini di frustrazione e di spreco sociale ed economico, della disoccupazione giovanile che affligge gran parte d’Europa non scuote il loro animo. E la cosa più grottesca è che le sofferenze da questi nani imposte sono inutili. Gli stupidi possono ravvedersi a fronte di evidenze certe e semplice buon senso. Questi nani no.
Diagnosi, correzioni, nuove prospettive
Negli ultimi mesi vi sono state importanti ammissioni di errori da una parte dei tecnici e degli accademici che avevano sostenuto l’esigenza dell’austerità fiscale. Sono anche emersi sempre più nitidamente fatti che, senza bisogno di tante riflessioni, pongono in evidenza le possibilità di successo di politiche espansive. I nani sembrano non essersene resi conto e mantengono la rotta della perdizione europea.
A porre i primi dubbi sulla saggezza della drastica terapia di austerity hanno cominciato quelli dell’Fmi, Blanchard (chief economist di quella struttura) in testa. Come ho argomentato (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Il-bilancio-espansivo-che-serve-all-Europa-16614) non si è trattato certo di un “pentimento completo”, ma si è tornati ad ammettere, come negli anni ’70, che i “moltiplicatori” di spesa pubblica e imposizione possono essere diversi da zero e diversi tra loro. Come conseguenza imprevista dell’errore sui moltiplicatori l’austerità, nella misura in cui è stata praticata in Europa, ha prodotto recessione e di ciò il Fmi ha dato atto. In qualche misura il Fmi sembra essere tornato a modelli interpretativi simili a quelli che le banche centrali di tutto il mondo usavano negli anni 1970, quando i “moltiplicatori” venivano stimati e pubblicati.
Quasi contemporaneamente lo Iags (un’associazione tra tre autorevoli centri di ricerca europei) ha prodotto un rapporto che, anche esso sulla base di una rivisitata stima dei moltiplicatori, suggerisce, sulla base di un adeguato modello di ottimizzazione dinamica, di rimodulare nel tempo le politiche di rientro dal debito per i paesi cui è stato prescritto (tra i quali l’Italia) in modo da minimizzare l’impatto recessivo delle politiche stesse. Una proposta certo timida ma che va nella direzione giusta, anche se non abbastanza. Vi sarebbe infatti bisogno di politiche effettivamente espansive, piuttosto che solamente meno recessive.
Più tardi, con forte eco nelle ultime due-tre settimane, è scoppiato lo scandalo R&R (il riferimento è a un articolo di Reinhart e Rogoff del 2010). I due autori, il cui articolo era sostanzialmente privo di teoria e che si basava solo su evidenze econometriche, argomentavano che i paesi il cui debito pubblico superava il 90% del Pil non potevano che soffrire sul piano dello sviluppo. Il loro articolo era divenuto, al di qua e al di là dell’Atlantico, l’argomento forte dei fautori dell’austerità pubblica e dei mercati non regolamentati, e quindi dell’esigenza di limitare interventi e indebitamento pubblici.

martedì 14 maggio 2013

SCACCO A OBAMA

di Giulietto Chiesa [ 13/05/2013]
L'attentato di Boston, i bombardamenti israeliani su Damasco, la crisi (scongiurata subito) tra Stati Uniti e Corea del Sud sembrano eventi del tutto scollegati, disconnessi tra loro. Io penso che non lo siano e che, anzi, siano tutti segnali del convergere - perfino piu' rapido del prevedibile verso una crisi di piu' vaste proporzioni.
Mi pare di vedere una mano - piu' invisibile di quella, famosa, del “mercato” - che preme perche' si verifichi una resa dei conti. Forse piu' di una resa dei conti: diverse e lontane, ma riconducibili a un unicum di impressionante squilibrio, un “buco nero” nel quale stiamo andando tutti nel piu' disastrante caos di idee dell'ultimo secolo. Ma piu' grande di quello che condusse alla seconda guerra mondiale.
La resa dei conti che vedo avvicinarsi ha sicuramente a che fare con la crisi americana, che si manifesta anche come la crisi della leadership di Barack Obama. Anche, ma non solo. Gli Stati Uniti sembrano una barca alle deriva. Con un presidente che, apparentemente, essendo piu' libero di agire nel suo secondo mandato, era stato dato come all'offensiva su molti fronti. E invece non solo non e' affatto all'offensiva, ma sta subendo un'offensiva interna che appare oscura, ma che ha le sembianze neocon del suo predecessore.
Povero Obama, direbbe qualcuno che l'aveva in simpatia. Ricordo che, al momento della sua prima elezione, ci furono i comitati di sostegno, in Italia, promossi dal Pd. Io, dal canto mio, fin da allora lo definii come «la piu' straordinaria e ben riuscita operazione di maquillage di tutta la storia». Adesso si vede in trasparenza che l'“uomo nuovo” della politica statunitense ha la stessa liberta' di manovra di un fringuello in gabbia. La crisi con la Corea del Nord non e' stato lui a cominciarla. Neanche il suo ministro degli esteri lo ha fatto. Si potrebbe pensare che ci sia un legame diretto, ben piu' solido, tra Kim Yong Un e il Pentagono, o la Cia, o con tutti e due. Il giovanotto di Pyong Yang si mette all'improvviso a strillare e minacciare, apparentemente senza motivo. Tutti i media si mettono a starnazzare anche loro come galline impazzite e, per una decina di giorni, il mondo intero appare sull'orlo di uno scontro nucleare tra il gigante americano e il nano nord coreano. Evidentemente non c'era nulla di piu' serio di un accurato gioco delle parti, nel quale la parte piu' potente faceva finta di sentirsi minacciata, ma sapeva perfettamente che la minaccia di Kim era semplicemente inesistente. Invece lo scopo era diverso: consentire al Pentagono di mettere a punto gli orologi, e portare le armi e le piu' raffinate tecnologie americane negli immediati pressi di Pechino. Washington sa bene, come lo sa Kim Yong Un, che la Corea del Nord puo' essere cancellata in un attimo.
Fatto decantare il polverone, John Kerry si e' affacciato sull'uscio e ha detto che troppo allarme era esagerato e contro-producente. Fine della commedia: si erano messi d'accordo per ricompensare il “dittatore Pazzo”. Resta solo da chiarire chi ha acceso il fiammifero. E, probabilmente, si scoprirebbe che non e' stato Obama, i cui capelli stanno ingrigendo a velocita' supersonica, date le circostanze. Poiche' gli e' stato affidato il compito, forse per lui ingrato, di portare a compimento la profezia dei neocon. Quegli stessi che presero il potere, con un vero e proprio colpo di stato, nell'anno 2000, portando alla presidenza George W. Bush Junior (che era stato sconfitto da Al Gore). Scrissero, nel famoso Project for The New American Century, che la Cina sarebbe divenuta il pericolo principale per la sicurezza degli Stati Uniti nel 2017. E ripeterono la profezia nei documenti successivi concernenti la sicurezza nazionale del futuro. Era il 1998. Forse non era una profezia, sebbene si trattasse di eventi del futuro. Forse avevano fatto i loro calcoli e avevano pensato con quale Cina avrebbero avuto a che fare, tenendo conto dei tassi di crescita del suo PIl, dei suoi armamenti, della sua finanza, della sua tecnologia, della sua popolazione. Se non si tengono sempre presenti quelle previsioni, difficilmente di potra' capire cosa sta succedendo in America e fuori, mentre nel frattempo l'Occidente intero e' entrato nella piu' grave crisi della sua intera vicenda imperiale.

Ripartire dalle parole: non chiamiamola più sinistra

Ripartire dalle parole: non chiamiamola più sinistra
Ripartire dalle parole: non chiamiamola più sinistra

Pubblicato il 14 mag 2013

di Matteo Pucciarelli -
Prima o poi dovrà esserci qualcuno che finalmente, sulla base di dati oggettivi, attinenti con la realtà, ci spieghi con chiarezza e senza passatismi cos’è e chi è la sinistra oggi. C’è bisogno di fare un po’ di pulizia, partendo soprattutto dalle parole.
Sicché a questo proposito – è una “mozione d’ordine” – sarebbe l’ora di smetterla di definire “sinistra” il Partito democratico. Centro, centrodestra, liberali, riformatori, medio-progressisti, tecnici del suono: incardiniamolo in qualche modo questo Pd, va bene, ma non più con “sinistra”. È troppo il rispetto per questa parola – il cui significato originario è una delle cose più belle del mondo – per accostarla ad un gruppo di potere fratricida e notoriamente incapace oggi alleato di Silvio Berlusconi e fedele esecutore di politiche sovranazionali che nulla hanno a che vedere con tutto ciò che anche lontanamente somiglia alla sinistra.
Questo grande fraintendimento dovuto a ragioni squisitamente storiche, sentimentali e di pigrizia mentale – il Partito, gli eredi, le ritualità – è un freno formidabile al futuro e allo sviluppo della sinistra stessa. Quella di cui ora più che mai ci sarebbe bisogno e che nonostante i clamorosi autogol ventennali dei Grandi Dirigenti esiste ancora nella società, magari a propria insaputa.
«Destra e sinistra non esistono più» è un messaggio che fa breccia nell’elettorato proprio grazie all’estrema somiglianza nelle politiche applicate dalle due squadre che si sono fronteggiate durante la Seconda Repubblica – che difatti adesso si sono fuse nella stessa società (per azioni), la Letta&company.
Il linguaggio è una cosa piccola eppure fondamentale. Chiamare sinistra il Pd non fa bene alla sinistra. Se proprio non riusciamo a farne a meno, perlomeno utilizziamo le virgolette: “sinistra”. Quella vera è un’altra cosa.
PS. «Scemo è chi lo scemo fa», diceva il detto. Appunto: sinistra è chi la sinistra fa.
da Micromega online

lunedì 13 maggio 2013

Ius soli: un dibattito falsato. Ecco come si acquista la cittadinanza in europa e nel mondo


iussoliIn questi giorni si è scatenata la solita canea sullo "Ius soli", parola latina che indica l'acquisizione di cittadinanza dovuta alla nascita sul suolo italiano. Le parole di Grillo sul fatto che in Italia lo Ius Soli esiste (un incrocio fra una falsità e una forzatura per far capire altro) hanno scatenato le polemiche da sinistra. Come sempre si tratta di approcci che non spiegano cosa c'è in gioco, che non aprono dibattiti sui modelli e sulle trasformazioni ma si tratta di prese di posizione che sembrano più da tifosi, tanto che chi ascolta non capisce la reale portata della questione. Nell'immaginario popolare, infatti, si pensa che ci saranno le file alle frontiere di mamme partorienti che appena superata la linea di confine partoriranno un figlio italiano. I modelli e le leggi invece sono cose complesse per cui a volta basta parlare delle questioni in termini diversi per farsi capire e far capire (ed anche a "sinistra" spesso c'è i tifosi che non sanno farsi capire).
In Italia il nocciolo della questione sta nel fatto che un figlio di immigrato, nato e residente in Italia da anni deve attendere il compimento del 18esimo anno per iniziare le pratiche di acquisizione di cittadinanza che poi dureranno altri 4 anni. Una situazione assurda per chi ormai da anni vive in Italia ed ha fatto gli stessi percorsi formativi di coloro che sono nati in ospedale insieme a lui. Quello di Balotelli è stato il caso più eclatante. Nato da immigrati ghanesi e adottato da una famiglia bresciana non ha mai potuto giocare in nazionale fino alla fine delle pratiche di acquisizione della nazionalità iniziate dopo il compimento del 18esimo anno.
L'argomento è dunque quanto uno deve aspettare per acquisire la cittadinanza e quindi avere diritti politici e civili. Niente a che vedere con le invasioni barbariche se la questione viene affrontata prevedendo leggi che prendono in considerazione precisi requisiti di acquisizione come avviene in molti altri paesi. Purtroppo, ed è un problema comunicativo anche della cosiddetta sinistra, l'argomento spesso viene posto in termini assoluti per cui l'interlocutore comprende che una simile legge comporterebbe, per di più in una sistuazione di crisi come questa, una specie di invasione e di aggravio per una popolazione già piena di problemi.
Proviamo dunque a guardare cosa succede ora in Italia e cosa accade negli altri paesi.
Nell'Italia che si confronta quotidianamente con le "seconde generazioni", cioè figli di immigrati nati in Italia, l'acquisizione della nazionalità è disciplinata dalla legge n. 91 del 199 considerata come una delle più restrittive in Europa. In Italia, infatti, come in quasi tutti i paesi europei vige lo "ius sanguinis" (cioè l'acquisto di cittadinanza per discendenza di sangue) ma negli altri paesi è molto più semplice acquisire la nazionalità per una straniero nato sul territorio dello stato. La Germania, ad esempio, si è adeguata al fenomeno delle "seconde generazioni": dopo il 2000 se un bambino nasce sul territorio tedesco da genitori stranieri, può avere la nazionalità tedesca se un genitore ha il permesso di soggiorno permanente da almeno 3 anni e residente da almeno 8. In Francia invece vige lo "ius soli" (acquisizione della cittadinanza per nascita sul territorio) dal 1515 anche se con determinate condizioni.
In Italia uno straniero per poter aver diritto a richiedere la cittadinanza, deve dimostrare la residenza ininterrotta e regolare per 10 anni dimostrando di percepire un reddito dichiarato che garantisca l’autosufficienza di circa 8.000 € l’anno, 11.000 € con un coniuge a carico più 516 € per ciascun figlio se ce ne sono. Esistono, però, alcune deroghe. Infatti, possono bastare 4 anni di residenza per i cittadini appartenenti ad uno Stato dell’Unione Europea; 5 anni per gli apolidi ed i rifugiati. La legge prevede che la procedura attraverso la quale ottenere la concessione, deve durare 730 giorni, cioè due anni. In realtà, gli anni che trascorrono non sono meno di quattro. Per i loro figli, nati in Italia, però non ci sono scorciatoie se non l'attesa della maggiore età. Il figlio di stranieri nato nel territorio italiano, infatti ha la possibilità di chiedere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno d’età per poi riceverla negli anni successivi. Ma ci sono due elementi che rendono la legislazione italiana estremamente rigida ed ingiusta: in primis il ragazzo deve aver vissuto ininterrotamente per 18 anni in Italia. Basta andare via anche per un breve periodo e il diritto scompare. E poi al compimento del 18esimo anno ha solo 12 mesi per fare domanda. Altro che Ius soli, qui siamo al medioevo della burocrazia anche sulla legislazione vigente dello Ius sanguinis!

I numeri sbagliati dell'austerità (e degli economisti)


Da un paio di giorni la comunità degli economisti è sconvolta. Si è scoperto che uno degli articoli scientifici più influenti degli ultimi anni – oltre 2000 citazioni – era sbagliato. Nel 2010, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart di Harvard presentano un paper che sembra dare basi scientifiche e inconfutabili alle politiche di austerità: confrontano molti Paesi, tra il 1945 e il 2009, e scoprono che quelli con i conti più in ordine, cioè con un debito sotto il 30 per cento del Pil, sono cresciuti in media del 4,1 per cento. Quelli con debito tra il 30 e il 90 del Pil del 2,8. Invece quelli con più del 90 per cento (tipo l’Italia) hanno avuto una crescita media negativa, -0,1. Traduzione di politica economica: quando il debito diventa troppo elevato, il cappio degli interessi porta il Paese in recessione. Dunque ridurre il debito pubblico a colpi di tagli e tasse è, per quanto sgradevole, necessario per tornare alla prosperità.
Tre anni dopo, due professori della Amherst in Massachusetts, Robert Pollin e Michael Ash affidano a un loro studente, Thomas Herndon, un esercizio classico ma poco praticato: prendere i dati su cui si basa una famosa ricerca e rifare i conti, come forma di esercizio (quello che dovrebbero fare, ma spesso non fanno, le riviste accademiche prima di pubblicare gli articoli). Risultato: i conti di Rogoff e Reinhart erano sbagliati, pare per colpa di un problema del software Excel che ha escluso alcuni Paesi e alcuni anni che avrebbero cambiato il risultato. I “revisori” ottengono infatti numeri assai differenti: i Paesi con il debito sopra il 90 per cento sono cresciuti, in media, il 2,2 per cento all’anno invece che -0,1 come stimato da Rogoff e Reinhart. Forse un po’ poco, ma niente di drammatico. Nessun politico rischierebbe la rielezione per imporre tagli e aumenti delle imposte sapendo che un debito alto comporta soltanto una crescita un po’ più bassa.

I due economisti di Harvard, che hanno usato le loro ricerche per un best-seller internazionale, ‘Questa volta è diverso’ (Il Saggiatore), ammettono gli errori ma si difendono così: anche nella nuova versione i calcoli dimostrano che i Paesi ad alto debito crescono in media meno di quelli con debiti bassi. Forse è vero. Ma questo ci permette di dire con sicurezza che alto debito e bassa crescita spesso si riscontrano assieme. Ma non è detto che il debito sia la causa della scarsa crescita. Potrebbe anche essere il contrario.

Comunque, grande scandalo: Paul Krugman, sul suo blog, smonta con gusto tutto il lavoro di Reinhart e Rogoff. Così come pochi mesi fa aveva assistito compiaciuto al mea culpa di Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario internazionale: dopo aver spinto per anni per il rigore e la riduzione del deficit, al Fmi si sono accorti che avevano sbagliato i moltiplicatori. Cioè che ogni taglio alla spesa pubblica in tempo di recessione aveva conseguenze sul Pil più gravi del previsto.

In alcuni blog il caso Rogoff&Reinhart è presentato come la definitiva perdita di credibilità degli economisti. Ma se l’economia ambisce a essere una scienza (sia pure sociale), deve sottoporsi al requisito minimo di Karl Popper: le teorie devono essere falsificabili, altrimenti sono richieste di fede. Da quando l’economia si è separata dalla filosofia e dall’etica per sposare la statistica ed evolversi in econometria, le idee devono camminare sui numeri. E se i numeri non le confermano, le idee vanno cambiate.

Quindi, tutto sommato, il grande scandalo è in realtà una buona notizia: uno studente qualsiasi può smentire i luminari di Harvard e, se ha ragione, loro devono chiedere scusa, non c’è principio di autorità che tenga. Però a differenza di altre scienze, il laboratorio dell’economia è la società: il prezzo degli errori lo pagano le persone.

In questi anni molti politici hanno trovato comodo usare gli economisti come oracoli, usando locuzioni come “lo dice anche l’Ocse” (o il Fmi o la Bce) per troncare qualunque dibattito. Ma gli economisti possono sbagliare. E se l’unico fondamento di certe politiche è un’equazione, caduta quella il politico non ha più nulla da dire. Perché aveva delegato ad altri, a tecnici lontani dagli elettori, il compito di elaborare la politica economica. Il dibattito sul rigore e sulle politiche espansive continuerà (dura almeno dalla crisi del 1929). Ma il momento dei sostenitori dell’ortodossia del rigore sembra avviarsi alla fine.
Di Stefano Feltri
tratto da Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2013

domenica 12 maggio 2013

A Bologna è nata "Ross@"

Autore: contropiano.org
Oggi a Bologna è stato avviato il percorso di costruzione di un movimento anticapitalista di massa. Sala piena, decine di interventi, niente retorica e molta misura. No ai "perditempo". Per ora si è dato un nome: "Rossa", anzi Ross@.Nelle prossime ore saremo in grado di descrivere e commentare meglio l'assemblea nazionale tenutasi al teatro Galliera di Bologna.
Alcuni dati possono aiutare a capire: 300 posti a sedere tutti pieni e gente in piedi; stavolta poche "teste bianche", una trentina di interventi, rigorosamente a titolo individuale, ma soprattutto niente omaggi alla retorica e ragionamenti cauti, consapevoli delle incertezze di questa sfida e delle macerie accumulate in questi anni.
Con una introduzione di Giorgio Cremaschi che ha argomentato i punti che sono poi diventati il documento conclusivo dell'assemblea, oggi ha mosso il primo passo il percorso di costruzione (e di ricostruzione) di un movimento anticapitalista di massa.
Un percorso che si è dato anche un nome, anzi un acronimo: Rete per l'Organizzazione Sociale, Solidale e... la chiocciolina finale sta a declinare Anticapitalismo, Antifascismo, Antirazzismo, Antisessismo, Ambientalismo. Praticamente tutta la chiameranno "Rossa", anche per rivendicare un colore che nella storia e nell'identità del movimento operaio ha un suo posto speciale e di estrema attualità.
Rigorosamente indipendente dal centro-sinistra (e dal collateralismo do una certa sinistra), Rossa si dichiara sin da oggi alternativa a ogni compatibilità con i trattati europei e i diktat della Troika, il patto corporativo tra CgilCisl uil Ugl e Confindustria e la destrutturazione reazionaria dell'assetto costituzionale messo in agenda dal governo Letta.
Rossa intende quanto prima lasciarsi alle spalle i residui dei riti del politicismo di una sinistra sconfitta e i suoi linguaggi per andare a misurarsi direttamente con le aspettative, le contraddizioni e le esigenze dei settori popolari e dei lavoratori.
Ognuno si assumerà la responsabilità personale della propria adesione e quella collettiva della coerenza del percorso indicato. Tutte e tutti i compagni e le compagne saranno ben accette, tranne - è stato detto con una battuta particolarmente apprezzata mutuata dal mercato - i "perditempo".
Ci si è lasciati con alcune tappe: promozione di riunioni o assemblea regionali in tutte le regioni, raccolte delle adesioni, assemblea costituente nazionale a settembre, una manifestazione nazionale in autunno contro la monarchia presidenziale, il governo di unità nazionale e la troika europea. Intanto, ovunque sarà possibile, giornata di mobilitazione il 2 giugno contro l'affossamento costituzionale prevista dalla convenzione PD-PdL e il militarismo.
Per ora è nata Rossa. Vederla crescere sarà responsabilità e interesse di tutti coloro che vedono ancora il conflitto di classe come terreno di emancipazione.

LA VOCE DEL LADRONE (Marco Travaglio)

 Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano
Bella l’idea del pellegrinaggio nella sua Medjugorje privata, Brescia, dove da vent’anni sogna di traslocare i processi da Milano. Purtroppo per lui, anziché dai giudici amici, il Cainano ha trovato ad accoglierlo migliaia di contestatori col dito medio alzato, cori “In galera” e cartelli con scritto “Hai le orge contate”. Il pretesto della scampagnata era sostenere un tal Adriano Paroli, il solito ciellino candidato a sindaco. Il quale, a cose fatte, è salito sul palco affiancato – per peggiorare la sua già penosa condizione – dalla Gelmini. E si è scusato di esistere: “Non era previsto un mio saluto…”.
Intanto il Popolo delle Libertà – qualche migliaio di poveretti – sfollava rapidamente la piazza, come alla fine dei concerti quando arrivano gli elettricisti e i facchini a portar via gli strumenti. Il meglio era accaduto prima, quando l’anziano delinquente (parola del Tribunale e della Corte d’appello), aveva intrattenuto i complici sull’imprescindibile tema dei cazzi suoi. Raramente s’erano viste scene più paradossali (a parte il silenzio di Pd, Letta e Napolitano, troppo impegnati contro i 5Stelle per accorgersi di quanto accade a Brescia). Un vecchietto di 77 anni coi capelli bicolori – gialli sulla calotta asfaltata, neri ai lati –, gli occhi che non si aprono più, la dentiera che fischia e una preoccupante emiparesi al labbro superiore, annuncia un piano ventennale per salvare l’Italia da lui governata per 10 anni su 12 (un premier con qualche potere in più di Mussolini, un Parlamento ridotto a bivacco di manipoli, una Consulta e una Giustizia a sua immagine e somiglianza). Un monumentale evasore promette a quelli che pagano le tasse al posto suo di ridurgliele, dopo averle votate (così come Equitalia). Il politico più ricco del mondo lacrima il suo “struggimento per chi ha perso il lavoro” a causa dei suoi governi. Un imputato recidivo che da vent’anni si trincera dietro l’immunità e le leggi ad personam suam per non farsi processare, si paragona a Tortora che rinunciò all’immunità per farsi processare.
Il leader del terzo partito dà ordini al primo, da vero padrone del governo Letta (“ci ho lavorato a lungo, l’ho voluto io, è un fatto storico, epocale”). E quando gli iloti sotto il palco urlano “chi non salta comunista è”, ridacchia: “Io non posso saltare perché coi comunisti ci governo insieme!”. Il vicepremier e ministro dell’Interno Alfano, col ministro Lupi, noti moderati non divisivi e fautori della pacificazione, sfilano contro un altro potere dello Stato. Molto applaudite le parole dello spirito di mamma Rosa: “Mi diceva che sono troppo buono per far politica: da bambino mi impediva di legarmi campanelli alle caviglie per avvertire le formichine del mio passaggio e non schiacciarle”. Due sole volte il Cainano perde il buonumore. Quando evoca Grillo, la mascella si contrae, gli occhi a fessura saettano, la gente tumultua. Quando cita “gli eventi drammatici di questi giorni” si pensa alle donne uccise o sfigurate con l’acido, ai morti di Genova, alla guerra in Siria. Invece lui parla della sua condanna, “me lo chiedono tutti”.
Segue la solita sbobba piduista sulla responsabilità civile dei giudici (che c’è già dal 1988), la separazione delle carriere, i pm ridotti ad “avvocati dell’accusa che vanno dai giudici col cappello in mano” (come Previti quando andava da Squillante col cappello pieno di banconote), le intercettazioni (non gli piacciono, a parte quella Consorte-Fassino), la carcerazione preventiva (non si arresta uno prima del processo: se scappa o delinque ancora, tanto meglio). Poi viene finalmente al punto: “Le carceri sono un inferno”. Lo sanno bene i suoi guardagingilli Castelli, Alfano e Palma, che le hanno ridotte così. Prossima mossa: una bella amnistia. Così escono un po’ di delinquenti e soprattutto non ne entrano altri, tipo lui. Ma questo non lo dice, non è ancora il momento: “Mi fermo qui, sono sopraffatto dalla commozione”. Appena pensa alla sua cella, gli vien da piangere.

Come ci hanno deindustrializzato

Claudio Messora intervista Nino Galloni  - byoblu -

MESSORA: Nino Galloni, economista, ex direttore del Ministero del Lavoro; uno che di cose in questo paese ne ha viste tante. Nino, buongiorno.

GALLONI: Buongiorno!


MESSORA: Benvenuto su byoblu.com, a queste interviste volute dalla rete. Io ero rimasto molto colpito dalla tua affermazione in un convegno che ripresi e misi su Youtube, intitolando il video “Il funzionario oscuro che fece paura a Kohl”. Nel tuo racconto del processo con il quale siamo entrati nell’euro, tratteggiavi questa decisione assunta dalla politica italiana di un vero e proprio progetto di deindustrializzazione del nostro paese. E mi sono sempre chiesto: ma perché mai, alla fine, la politica avrebbe dovuto decidere questo strangolamento, questo inaridimento, la morte del nostro tessuto produttivo? Ho cercato, via via, delle risposte nel tempo, ma oggi che sei qua forse queste risposte ce le puoi dare tu. È un processo, quello di deindustrializzazione, che parte da molto lontano. Riesci a farci una carrellata di eventi e poi arriviamo al focus?

GALLONI: Credo che la data dalla quale dobbiamo necessariamente partire sia il 1947, quando al Trattato di Parigi De Gasperi cede una parte della nostra sovranità, ma in cambio ottiene il riassetto di certi equilibri. La componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà una grande influenza nel campo creditizio e questo, vedremo, sarà un fattore decisivo una trentina di anni dopo.


MESSORA: gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo in questa decisione.


GALLONI: Gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo perché chiaramente gli aiuti del Piano Marshall erano condizionati all’uscita dei comunisti dal governo. In realtà Togliatti, giustamente, si lamentava del fatto che ci fosse questo ricatto, ma era perfettamente consapevole di doverlo fare di uscire dal governo, anche perché tutto sommato alla Russia stalinista non faceva comodo un Partito Comunista al governo, come poi trent’anni dopo non farà scomodo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che tutto sommato era stato additato come interessato a fare avvicinare i comunisti all’area di governo, cosa che poi potrebbe essere sfatata.

Ma torniamo all’industria. Quindi nel 1947 la produzione industriale, per non parlare della produzione agricola italiana, è a livelli del 1938. Il paese è semidistrutto. Tuttavia inizia una ricostruzione. Ad un certo punto di questa ricostruzione, in cui hanno un ruolo le industrie energetiche, quindi Mattei, ma si comincia a sviluppare in modo sorprendente anche il nucleare, ci si trova già negli anni ’60 nel miracolo. Cioè piccole industrie, grandi industrie, industrie a partecipazione statale, soprattutto, e anche cooperative, trainano l’Italia in una situazione completamente diversa. Negli anni ’70 scopriamo che abbiamo superato l’Inghilterra, scopriamo che ci stiamo avvicinando alla Francia, scopriamo che possiamo, dal punto di vista manifatturiero, andare a dar fastidio alla Germania. Nel ’71 si sgancia la moneta dall’oro e questo rende teoricamente tutto più facile: gli aumenti salariali anche in termini reali, la spartizione dei guadagni di produttività che va in parte ai lavoratori e quindi aumentano i consumi, aumentano le vendite, aumenta il valore delle imprese. Questo è un concetto fondamentale che oggi è stato completamente dimenticato. Oggi la consapevolezza e l’orizzonte delle imprese – e di questo ha grave responsabilità la Confindustria – è ridotto all’immediato, al profitto annuale. Le imprese dovrebbero traguardare obiettivi di crescita del valore delle imprese stesse, in modo di contrattare poi con le banche tassi di interesse buoni e invece manca completamente questa consapevolezza.


MESSORA: Negli anni ’70 eravamo all’apice.


GALLONI: All’apice. Diciamo che forse l’anno di maggior crescita è proprio il ’78, che è l’anno, non a caso, del rapimento di Moro.


MESSORA: Cioè noi stavamo raggiungendo e superando le altre economie avanzate.


GALLONI: C’erano stati altri segnali gravissimi di attacco al sistema italiano, come appunto l’omicidio di Mattei, ordinato perché aveva pestato i piedi alle “Sette Sorelle” in Medio Oriente, trovando una formula che ci aveva dato una posizione nel Mediterraneo veramente ragguardevole dal punto di vista della politica estera. E non ci dimentichiamo che Moro era amico degli arabi moderati, quindi aveva contro Israele e aveva contro gli arabi estremisti. Poi abbiamo visto che aveva contro la Russia, che non voleva un avvicinamento del Partito Comunista Italiano al governo e anzi mal sopportava l’importanza in Europa di questo grande partito, e gli americani che temevano – questa è la versione non dico ufficiale, ma su cui concordano molti osservatori, che dobbiamo (va citato in questo caso) alla ricostruzione di mio padre, che era principale collaboratore di Moro a quei tempi – che l’avvicinamento del Partito Comunista all’area di governo, secondo i loro centri studi, i loro servizi, avrebbe potuto vanificare il principale piano strategico di difesa dell’Occidente nei confronti della Russia sovietica, che aveva una supremazia evidente di terra. Quindi un’avanzata dei carri armati sovietici attraverso la Germania orientale, poteva essere fermata prima che i carri arrivassero nella Germania occidentale solo con degli ordigni atomici tattici che erano necessariamente e solo piazzabili e piazzati nel Nord-Est dell’Italia. Quindi se non si poteva fermare con armi atomiche nucleari tattiche l’avanzata dell’esercito sovietico verso occidente, l’Europa era persa e quindi gli americani se ne sarebbero dovuti andare dall’Europa, conseguentemente dal Mediterraneo che – teniamolo sempre presente – è l’ombelico del mondo.

Ma questo è un quadro teorico.

L’ultimo bunker della destra

di Marco Bascetta   - ilmanifesto -

Non basta il presente a spiegare il presente. Soprattutto in Italia, dove la “non contemporaneità del contemporaneo” è sempre alacremente all’opera. E di certo vi è solo che non c’è alcuna rivoluzione in corso né in prospettiva, tanto meno quando abbondano i tribuni che la evocano. Il percorso tortuoso conduce a una fine nota: quelle larghe intese che nel nome della “responsabilità” ignorano, quando non reprimono irresponsabilmente tutto ciò che di vivo e di non definitivamente rassegnato esiste ancora in questo paese. Non è la prima volta, ma è la prima volta che una classe dirigente screditata come non mai e nel suo insieme perdente quanto ai numeri e alla capacità di leggere il contesto in cui agisce, si blinda senza offrire alcun compromesso a una società stremata. È qui che i paragoni storiografici di Giorgio Napolitano con gli anni ’70 mostrano come la memoria possa volgere in sclerosi e come il pio desiderio di interpretare una nuova situazione con un vecchio paradigma partorisca più mostri del sonno della ragione, fino a confondere le “convergenze parallele” di un tempo con le marcescenze parallele di oggi.
Lo schema è pressappoco quello, collaudatissimo, della vecchia destra comunista da cui il presidente della repubblica proviene.
Consiste, certo semplificando all’estremo, nello stabilire, in accordo con i poteri forti del momento e con i “mercati”, una serie di “compatibilità”, garantire che le forze sociali rappresentate dalla sinistra le rispettino senza fiatare, nel condannare, reprimere e accusare di fascismo (rosso o a 5 stelle poco importa) ogni forma spontanea di mobilitazione e di dissenso, nell’impedire ogni pretesa di esercizio della democrazia che anche garbatamente si discosti dai canali istituzionali e dagli equilibri politici tra i partiti maggiori.
Ne consegue, oltre all’apprezzamento pratico e ideologico dell’austerità, una profonda ostilità nei confronti dello strumento referendario, per non parlare dei movimenti e del conflitto sociale nonché dei diritti di libertà che potrebbero disturbare il mondo cattolico (e cioè i suoi vertici e ideologi).
Nel suo discorso inaugurale Napolitano ammonisce «mai la piazza contro i partiti!». E per cosa mai bisognerebbe scendere in piazza se non contro leggi inique votate da una maggioranza che non riteniamo rappresentarci? Quando questo accadeva 35 anni fa ci pensava il ministro di polizia delle “convergenze parallele” Francesco Cossiga, oggi chi ci penserà? E’ una politica che abbiamo vista all’opera innumerevoli volte non solo nelle scelte politiche del Pci, ma anche nella partita sempre aspra tra i vertici della Cgil e le rivendicazioni di democrazia sindacale provenienti dagli operai, dalla base, dai metalmeccanici o altri settori del sindacato. Anche nel sindacato i manovratori non vogliono essere disturbati.
Nel frattempo l’Europa a egemonia germanica ha offerto nuovi argomenti alla politica delle compatibilità, la crisi economica ha provveduto a ridimensionare ogni pretesa, si può fingere che il Pdl non sia poi così diverso dalla Dc, tanto da rendere del tutto superflua la vecchia promessa di repertorio degli “equilibri più avanzati”. Le riforme, quelle sì, a sbandierarle non si rinuncia mai. Ma i destinatari a cui debbono piacere sono ormai i capitali vagabondi e capricciosi. Quanto agli altri, da un bel pezzo, quando sentono la parola riforma si rannicchiano per proteggersi la testa dalle bastonate
Questa forma mentis, la dottrina e la pratica patriottica e a democrazia limitata della destra comunista è l’unica solida realtà che il Pds, poi Ds, poi il malnato o mai nato Pd hanno ereditato dalla casa madre ed è infatti l’unica cosa, come dimostra l’impossibilità di rinunciare a Napolitano, che può, in un modo o nell’altro, direi nel peggiore, tenerli insieme, nonostante faide, tradimenti, apocalissi culturali. E a dispetto di ogni mutamento della realtà e della sensibilità sociale. Il contenuto del richiamo all’unità, alla scelta di maggioranza condivisa, è questo e solo questo. Che si discuta, che ci si laceri in una lotta senza quartiere tra le fazioni, che i militanti occupino i circoli o brucino le tessere, la sintesi politica è alla fine questa: Napolitano presidente, governo di larghe intese.
I grillini non sono gli indiani metropolitani del ’77 (ma maniacali cultori della rappresentanza e dell’obbedienza incivile), il Pdl non è neanche lontanamente la Dc, solo la dottrina della destra del Pci resta se stessa. E i suoi antichi schemi reggono, anche senza un Partito degno di questo nome mantengono clandestinamente in vita una specie di centralismo democratico, raccolgono il plauso di Berlusconi, e naturalmente quello europeo. Come la costituzione sovietica riducono al minimo la democrazia esaltandola oltre misura.
È la forma più garbata di connubio tra liberismo e autoritarismo ( nel senso di una indiscutibile autonomia dei manovratori, di una prevalenza sacrale dei governanti sui governati ) a tirare le fila della crisi politica nella figura di Giorgio Napolitano. Si può essere un po’ cinesi anche se al posto del partito unico ce ne sono parecchi e parecchio rissosi.
Probabilmente solo un convinto esodo dal Pd ( ma, per carità, senza aspirazioni a rifondare) potrebbe porre fine a questa storia, all’ipnosi di una unità che nei termini in cui si è data e in quelli, ancor peggiori, in cui promette di darsi condurrà a una distanza siderale dalla società reale e in conseguenza a una pura e semplice disgregazione.
In altre parole si dovrebbe farla davvero finita col Pci, non con quello immaginario con cui Berlusconi si balocca e terrorizza gli allocchi, ma con quella sua eredità reale di cui si serve e con cui volentieri tratta, quella che ha le facce di Violante e D’Alema, di Veltroni e Fassino e anche di diversi solerti giovani che non sanno nemmeno a quale fonte si abbeverano. Per dirlo in estrema sintesi quel Pci che piace a Eugenio Scalfari.
Questa politica è venuta in piena luce con l’elezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della repubblica così come la natura profonda del Pd e la sua intima resistenza a ogni rinnovamento. Non c’è più niente da “stare a vedere”. Luigi Pintor scrisse una volta, a proposito del neonato Pds qualcosa come «pretendono di non venire da nessuna parte e dunque non andranno da nessuna parte». Temo che invece, almeno i più avveduti, dove andare lo sapessero benissimo. Ci sono arrivati, che ora gli piaccia o meno.
Dalle macerie ancora fumanti si leva impaziente la voce dell’ennesimo “rifondatore”, un migliorista naturalmente, con poche idee e molta prosopopea. Quello che vuole rendere l’Italia “più smart”. Il mondo è davvero cambiato, almeno nel gergo, Giorgio Amendola non parlava così.

La trappola dell’euro

di Enrico Grazzini  - micromega -

È necessario ricominciare a discutere in profondità dell'euro e delle sue conseguenze, partendo innanzitutto da un fatto: criticare l'euro non significa affatto essere anti-europei. Anzi è vero il contrario. L'euro sta spaccando l'Europa, mettendo i paesi del Nord contro i paesi del Sud e viceversa. Ma è possibile uscire dalla moneta unica una volta che ci siamo entrati?

Enrico Letta ha appena ottenuto la fiducia bipartisan da parte della destra e del centrosinistra in nome della necessità di uscire dalla crisi seguendo la strada fallimentare tracciata dall'euro a guida tedesca. La sinistra ha invece (per fortuna) rifiutato questa politica economica negando il voto di fiducia al governo. Letta è un appassionato seguace della moneta unica. Già nel 1997 scrisse per Laterza un saggio intitolato (purtroppo profeticamente) “Euro sì. Morire per Maastricht”. Oggi il suo governo promette di farci uscire dalla crisi ma “morire per l'euro”, come recita il saggio di Letta, potrebbe essere il vero risultato. Letta sosteneva già nel 1997 che gli italiani devono essere pronti a sacrificarsi in nome di Maastricht, la cittadina che ha dato i natali all'euro tedesco. Il dilemma insolubile che si porrà di fronte al governo Letta è abbastanza semplice: è impossibile rilanciare l'economia e l'occupazione e contemporaneamente ridurre drasticamente il debito pubblico, come obbligano i vincoli dettati dalla moneta unica euro-tedesca. Da Keynes in poi sappiamo che in tempi di crisi è puro populismo promettere di tagliare la spesa pubblica e rilanciare l'economia.

Letta ha ricevuto dal presidente Giorgio Napolitano il mandato esplicito di fare rimanere a tutti i costi l'Italia nell'eurozona, ma sa perfettamente che l'euro, la moneta unica di marca tedesca, è la causa principale della attuale crisi italiana ed europea. Nutre la speranza, o meglio l'illusione (come del resto prima Pier Luigi Bersani), di avere sufficienti margini di manovra all'interno di questa eurozona guidata dal governo di centrodestra di Angela Merkel. Negozierà lievi modifiche al patto di stabilità: ma la Merkel e la Bundesbank spingono l'acceleratore verso l'austerità, non verso il rilancio dell'economia. Vogliono riscuotere rapidamente i loro crediti, anche a costo di rovinare la costruzione dell'Unione Europea.

In questo contesto anche il Financial Times non prevede buone novità per il governo Letta. Scrive Wolfgang Munchau sul FT del 28 aprile [1]: “paradossalmente la sola maniera di rendere sostenibile la posizione attuale dell'Italia nell'eurozona consiste, in linea di principio, nella capacità di essere pronti a lasciare l'euro. Se invece, per principio preso, il governo italiano scarta questa opzione, aumenta davvero per l'Italia la probabilità di uscire dall'euro, perché ci sarà una minore pressione sui paesi dell'eurozona nell'attuare i cambiamenti necessari”.

Il governo di Mario Monti era filosoficamente e politicamente in piena sintonia con il governo di centrodestra della Merkel. Letta dovrebbe invece minacciare l'uscita dall'euro o un cambio radicale della politica tedesca verso l'Europa. Ma per farlo occorrerebbe avere una statura di statista e una visione lucida della realtà europea che Letta, pronto a morire per Maastricht, quasi certamente non ha.


La camicia di forza dell'euro


Ormai è abbastanza chiaro che l'euro è una camicia di forza e che, come hanno deciso per esempio la Svezia e la Danimarca, avremmo fatto meglio a non rinunciare alla nostra sovranità monetaria per inseguire la disciplina tedesca. La costruzione dell'Europa unita non passa per l'euro, che anzi rovina la cooperazione europea. Ma è possibile uscire dalla moneta unica una volta che ci siamo entrati? E' certamente molto difficile tornare alla lira. Sarebbe preferibile tentare di ribaltare la politica dell'euro, contrastando finalmente con forza e convinzione la politica neoimperialista della Bundesbank e della signora Merkel. Ma è davvero possibile contrastare l'egemonia tedesca sull'euro? O non è anche questa una pura illusione? Un fatto è certo: l'euro e la politica europea sono e saranno il problema centrale della politica e dell'economia italiana. Disgraziatamente però in Italia il problema dell'euro non viene quasi mai discusso nei suoi termini reali, cioè radicali, come è radicale e verticale la crisi che stiamo vivendo. Appare molto probabile che, nonostante qualche auspicabile successo tattico, il giovane Enrico Letta sarà del tutto accondiscendente verso le richieste del governo tedesco e della Troika (BCE, FMI, UE). Letta confermerà che bisogna sacrificarsi in nome dell'euro, che occorre (contro)riformare l'economia nazionale, deregolamentare ancora di più il mercato del lavoro per diventare più competitivi, sbriciolare lo stato sociale, senza prevedere cambiamenti sostanziali sul fronte europeo e tedesco.

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