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di CARLO VERCELLONE. uninomade
Lo scopo di quest’articolo è di caratterizzare, nel quadro teorico post-operaista, il senso logico e storico della marxiana legge del valore, nel passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo.In questa prospettiva, l’analisi si svilupperà in tre stadi. Nel primo si proporrà di precisare cosa bisogna intendere per legge del valore/tempo di lavoro e in cosa consiste la sua articolazione alla legge del plusvalore di cui è una variabile dipendente e storicamente determinata. In riferimento a questa articolazione utilizzeremo la nozione di legge del valore/plusvalore. Nel secondo e nel terzo stadio, l’attenzione sarà focalizzata sulle principali dinamiche che spiegano la forza progressiva della legge del valore/plusvalore nel capitalismo industriale, quindi la sua crisi nel capitalismo cognitivo.
1. Due principali concezioni della legge del valore-lavoro
Nella tradizione marxista coabitano, come rileva Negri (1992), due concezioni della teoria del valore. La prima insiste sul problema quantitativo della determinazione della grandezza del valore. Essa considera il tempo di lavoro come il criterio di misura del valore delle merci. E’ quella che chiamiamo la teoria del valore tempo di lavoro. Questa concezione è ben definita, per esempio, da Paul Sweezy, quando afferma che in una società mercantile-capitalistica “il lavoro astratto è astratto soltanto nel senso, dichiarato nettamente, che sono ignorate tutte le caratteristiche speciali che differenziano un genere di lavoro dall’altro. In definitiva, l’espressione lavoro astratto, come risulta chiaramente dallo stesso uso che ne fa Marx, equivale a lavoro in generale; è ciò che è comune a ogni attività produttiva umana” (Sweezy, 1970, p. 35). In questa visione, la legge del valore è concepita essenzialmente come une legge astorica della misura e dell’equilibrio che regge l’allocazione delle risorse. La nozione di lavoro astratto diviene quasi una categoria naturale, una semplice astrazione mentale, libera da tutte le caratteristiche che, dall’alienazione mercantile all’espropriazione dell’atto del lavoratore, ne fanno una categoria specifica del capitalismo. Abbiamo qui un approccio più ricardiano che marxiano alla teoria del valore-lavoro, la cui genealogia rinvia a un ipotetico modo di produzione mercantile semplice per estendersi in seguito al capitalismo.
La seconda concezione insiste sulla dimensione qualitativa del rapporto di sfruttamento su cui riposa il rapporto capitale-lavoro, rapporto che presuppone la trasformazione della forza-lavoro in merce fittizia. E’ quella che si può chiamare teoria del valore/plusvalore. Essa concepisce il lavoro astratto come sostanza e fonte del valore in una società capitalistica retta dallo sviluppo delle relazioni mercantili e dal rapporto antagonistico capitale-lavoro. Notiamo, a tal proposito, che in Marx la legge del valore-lavoro è concepita direttamente in funzione della legge del plusvalore e non ha nessuna autonomia rispetto a quest’ultima, cioè alla legge dello sfruttamento. A tal proposito, la stessa scelta molto controversa di Marx, nel primo capitolo del libro I del Capitale, di partire dall’analisi della merce, non ha nulla a che vedere con l’ipotesi di una società mercantile semplice che avrebbe preceduto il capitalismo. Deriva, invece, dalla necessità di mostrare come la trasformazione della forza-lavoro in una merce fittizia – e dunque l’articolazione fra il suo valore di scambio e il suo valore d’uso (il lavoro stesso) – spieghi il mistero dell’origine del profitto. Insomma, in Marx non c’è nessun feticismo riguardante la legge del valore/tempo di lavoro, in quanto legge dello scambio di equivalenti, che ne farebbe una sorta di invariante strutturale del funzionamento dell’economia. Al contrario, la legge del valore-plusvalore deve essere qui pensata, innanzitutto sul piano macroeconomico dell’opposizione fra capitale sociale e lavoratore collettivo e non come una problematica della determinazione della misura del valore delle merci individuali. Questa lettura – ci sembra – è tanto più pertinente in quanto, come osserva Hai Hac “il capitale è indifferente al valore delle merci che produce, poiché ciò che gli interessa è solo il plusvalore di cui il valore è portatore. Inoltre, nella misura in cui il plusvalore cresce con lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale, il valore decresce in ragione dello stesso movimento, c’è dunque uno stesso processo che abbassa il valore delle merci ed eleva il plusvalore che esso contiene” (Hai Hac, p. 265, Tome I).