Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

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mercoledì 25 gennaio 2012

Una doverosa precisazione

Rossana Rossanda - ilmanifesto
25.01.2012
Alberto Asor Rosa si è doluto che io abbia interpretato il suo articolo del 19 gennaio scorso come un appoggio al governo Monti. Ebbene sì, confesso di averlo letto appunto in questi termini, dando poca attenzione a qualche aguzzo segnale sparso nel testo (leggi l'editoriale di Rossanda del 20 gennaio). Asor Rosa invece mi ha spiegato che nelle sue intenzioni la sottolineatura della compattezza marmorea e super partes dell'accordo fra presidenza della Repubblica, governo e parlamento, che ha sbarcato Berlusconi, mirava invece a metterci in guardia dalla speranza di cavarcela senza opporgli un altrettanto solido programma. Non posso quindi che dare atto ad Asor Rosa di questa "bevuta", supplicandolo di non contare troppo, d'ora in poi, sulle mie capacità di decriptare, leggendola al secondo grado, una scrittura deliberatamente paradossale.

Ma mi chiedo anche perché l'ho letto in questo modo. Prima ragione: il vedere tante persone, e di assoluta serietà, sollevate dal vedersi levar di torno il cavaliere e di avere a palazzo Chigi un esecutivo di una correttezza privata cui erano disabituate. Fino a prendere sul serio per neutre le misure che esso decide. È super partes tassare in uguale proporzione ricchi e poveri, più il lavoro che il capitale, più il capitale produttivo che la finanza, privatizzare i residui servizi pubblici, fingere di non capire il senso del referendum sull'acqua? Era ai ragazzini che don Milani spiegava come nulla sia più ingiusto che offrire la stessa tazza di minestra a chi è affamato e a chi si è stancato del caviale. Noi adulti ce lo siamo scordato?

La seconda ragione è che non apprezzo affatto l'improvviso decisionismo del presidente della Repubblica. Fino a mezzora prima di scaricare Berlusconi, Giorgio Napolitano esortava implacabilmente destra e sinistra a non confliggere, e si difendeva da qualsiasi richiesta di prendere posizione.

Né aveva usato il messaggio alle camere per richiamare al rispetto della divisione dei poteri chi vituperava i magistrati una volta alla settimana, se mai invitava i magistrati a maggior temperanza. Ha preferito disinnescare il parlamento basandosi su qualche «allora vado a casa» farfugliato dal cavaliere, e scegliendo fulmineamente senza troppe consultazioni il professor Mario Monti, piuttosto che sciogliere le Camere come è forse in suo potere. Lasciandovi Berlusconi e i suoi che, fra un anno, in campagna elettorale, giocheranno ancora una volta sul populismo rifiorente in tutta l'Europa proprio contro le politiche di rigore.

Terza ragione, non penso che fossimo un mese fa all'ultima spiaggia. Ma su questo, come del resto sugli altri punti, sono largamente d'accordo con gli articoli di Ida Dominijanni ("Effetti collaterali", il manifesto 12/11 e "Baciare il rospo?" 19/11). Sotto il profilo politico l'erosione è avvenuta da un pezzo, da quando l'Urss è saltata e il Pci è saltato a piedi uniti sul carro liberista, come è avvenuto con Occhetto e D'Alema (ed era vagheggiato ben prima dai fautori dell'unità nazionale). Sotto il profilo economico se è vero che l'Italia è molto in basso - tre miseri BBB, rispetto agli sgargianti tre AAA della Germania e ai due della Francia - il suo indebitamento non s'è formato ieri, non per colpa precipua di Berlusconi, non è tutto in preda alle banche estere come quello greco, sarà un poco alleviato dalla manovra con la quale la Bce si svincola dalla stupida proibizione tedesca di finanziare i debiti degli stati. E soprattutto non si può ignorare che il rigore prediletto da Monti, a sua volta prediletto dal nostro Presidente, ha paralizzato la crescita - siamo dovunque in recessione (perfino la Germania rallenta), cresce dovunque la disoccupazione e calano le entrate pubbliche.

I sette pilastri della saggezza borghese vacillano non perché non seguano Bruxelles, ma perché la seguono come pecore. Basta guardare le misure, identiche, che nella crisi si prendono in Francia e in Italia. Se invece che Monti ci si fosse rivolti a qualcuno dei molti che del liberismo non ne possono più, non saremmo a goderci una reazione tanto onesta quanto spietata. Su questo siamo d'accordo?

mercoledì 4 gennaio 2012

"Le armi della critica" di Alberto Asor Rosa, una raccolta di scritti e saggi degli anni 60


Fonte: controlacrisi
Ci era sfuggita l'uscita dell'ultimo libro di Alberto Asor Rosa. Trattasi di una raccolta degli scritti del periodo operaista (anni '60) durante i quali Asor Rosa fu uno dei protagonisti delle esperienze dei Quaderni Rossi, Classe Operaia, Contropiano. Vi proponiamo le recensioni di Marco Revelli, Pino Bevilacqua, Tonino Bucci.

Segnaliamo anche l'audio di una lezione sull'operaismo italiano degli anni '60 da Quaderni Rossi a Classe Operaia che Asor Rosa ha tenuto a Roma nel 2009 (anche se fa riferimento a un altro libro, il volumone di Giuseppe Trotta e Fabio Milana edito da Derive Approdi nel 2009).

Quando la classe era operaia

Marco Revelli

Le armi della critica di Alberto Asor Rosa è una raccolta di saggi di critica letteraria di grande potenza analitica. Ma è anche una fonte storica: un´autobiografia culturale in cui l´autore si fa testimone del tempo, aiutandoci a capire l´Italia com´è stata e com´è diventata con molta maggior efficacia di tanta storiografia e sociologia professionali. Per la statura del suo autore, intellettuale che non si è rassegnato al silenzio. E per il carattere dei contributi qui riproposti.

Intanto per il periodo su cui i testi sono focalizzati: sono stati pubblicati tutti tra il 1960 e il 1970. Ci portano cioè in un punto seminale del nostro tempo, gli "anni Sessanta", quando l´Italia diventò quello che sarà, con uno strappo colossale e lacerante rispetto alla sua "tradizione", compiendo "la più ciclopica trasformazione… dai tempi della caduta dell´Impero romano in poi". Sono gli anni del passaggio, spaventosamente repentino, dall´arretratezza semi-agraria al neo-capitalismo della grande industria. Gli anni della migrazione biblica dalle estreme periferie del sud e della crescita impetuosa della classe operaia, giunta per la prima volta a una presa di parola autonoma. Sono dunque gli anni in cui conflittualità e sviluppo marciano insieme. Un concetto oggi inimmaginabile, in tempi in cui la rimozione del conflitto sociale dall´orizzonte mentale si accompagna al ristagno dell´economia.

Sono d´altra parte gli anni della grande crisi della sinistra comunista, quelli che seguono il XX Congresso del Pcus, l´invasione dell´Ungheria, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l´estenuazione dell´egemonia togliattiana. Per questo Asor Rosa, allora venticinquenne (come buona parte dei giovani che parteciperanno del suo stesso percorso "operaista"), può scrivere oggi che "agli anni ´60 mi presentai, ci presentammo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle". Con la sensazione, cioè, della necessità di un taglio netto se si voleva stare dentro le cose, senza esser risucchiati nelle spire della modernizzazione integratrice cui il centro sinistra alludeva.

Ma gli anni Sessanta non sono solo questo. Sono anche gli anni della grande metamorfosi del lavoro intellettuale: della minaccia più radicale alla sua residua (e in parte illusoria) autonomia, con la riduzione della produzione culturale a lavoro "integrato", o comunque a funzione incasellata nel complesso sistema di ruoli predeterminati e formalizzati. Sono cioè gli anni in cui si estingue, definitivamente, la posizione autonoma della critica letteraria. O, meglio, il ruolo critico della letteratura, travolto dall´onnipotenza dell´industria culturale e da un più forte e sistematico "controllo borghese" del proprio mondo. E in questo sta il secondo elemento di interesse di questi scritti. Essi rappresentano infatti il resoconto fedele, perché generatosi in medias res, della riflessione di un gruppo di intellettuali sulla natura del proprio lavoro e sul destino di esso nel pieno di una cesura storica e sociale che ne decretava un cambiamento di stato tanto radicale da prospettarne la fine.

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