Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 24 dicembre 2011

Il debito spiegato ai cittadini

di Maria Lucia Fattorelli. Fonte: asudnet
Questo è il testo di riferimento della relazione presentata dall’autrice al Seminario sull’audit del debito organizzato a Liegi il 12 e13 dicembre scorso dal CADTM, il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (www.cadtm.org). Il testo è stato tradotto da Aldo Zanchetta per la Campagna del congelamento del debito ed è disponibile anche sul sito della campagna: http://cnms.it/campagna_congelamento_debito.

Maria Lucia Fattorelli è coordinatrice dal 2001 dell’Audit cittadino del Brasile (www.divida-auditoriacidada.org.br); ha fatto parte della Commissione per l’Audit sul debito dell’Ecuador (2007-2008) ed è stata consigliera tecnica della Commissione di inchiesta parlamentare sul debito pubblico (2009-2010). Essa ringrazia Rodrigo Ávila, João Gabriel Pimentel Lopes e Laura Carneiro de Mello Senza per la loro collaborazione a questo articolo.

La recente crisi del debito negli Stati Uniti e le nuove informazioni sugli attuali problemi economici dei paesi europei rivelano il modo in cui il debito pubblico è stato utilizzato a beneficio del settore bancario e finanziario.

E’ necessario innanzi tutto sottolineare che il debito pubblico non è in sé un fatto negativo. Infatti dovrebbe trattarsi di un importante strumento di finanziamento delle politiche pubbliche, una delle ragioni per le quali gli Stati sono autorizzati a contrarre dei debiti, evidentemente sotto certi limiti e condizioni. I prestiti devono consentire di ottenere dei fondi che, sommati alle altre entrate fiscali, consentono al governo di svolgere il proprio ruolo soddisfacendo i bisogni di base della popolazione. Tuttavia molti studi, audit e inchieste hanno già rivelato che invece di contribuire al progresso delle politiche pubbliche, certe somme significative registrate come debito pubblico non corrispondono a denaro ottenuto mediante prestiti. Inoltre una gran parte del debito sovrano viene utilizzato per pagare interessi e ammortamenti di debiti precedenti la cui contropartita non è nota.

Si può identificare facilmente il problema principale: lo strumento del debito pubblico si trasforma in un mezzo di distrazione di risorse pubbliche. La mancanza di trasparenza in questi processi e la grande quantità di privilegi –sia a livello giuridico che finanziario, con numerose ramificazioni- consente di affermare che questo modello funziona come un “sistema debito” a beneficio di un settore ristretto dei mercati finanziari.

Il “sistema debito” è un affare molto redditizio. Il sistema finanziario privato è un complesso di attori depositari di una serie di privilegi giuridici, politici, finanziari e economici. Questi attori sono grandi imprese con alla loro testa grandi banche e potenti agenzie di rating.

Negli Stati uniti questo sistema si è recentemente mobilitato per salvare le banche dall’imminente rischio di fallimento. La dimensione di questo piano di salvataggio è stata rivelata il 21 luglio scorso dal senatore Bernie Sander[1] che ha presentato i risultati di un audit realizzato dal Government Accountability Office[2] (commissione di inchiesta del Congresso incaricata dell’esame della contabilità pubblica). Questo rapporto dimostra che la Federal Riserve (FED) fra il dicembre 2007 e il giugno 2010 ha speso circa 16.000 miliardi di dollari per i piani di salvataggio, ammontare trasferito direttamente (e segretamente ndt) alle banche e alle grandi imprese applicando un tasso di interesse vicino allo zero

Le rivelazioni di questo rapporto di audit governativo forniscono sicuramente uno degli esempi più rimarchevoli dei privilegi del settore finanziario la cui crisi ha costituito il primo passo dell’attuale crisi del debito sovrano non solo negli Stati uniti ma anche in Europa. Queste somme erogate dalla FED superano il totale del debito pubblico statunitense (stimato attualmente in 14.500 miliardi di dollari) e del prodotto nazionale lordo (14.300 miliardi di dollari nel 2010).

L’audit di questa operazione deve proseguire perchè mostra chiaramente come immensi debiti privati vengono trasformati in debiti pubblici. I principali beneficiari di queste erogazioni della FED sono, secondo il rapporto:

Audacia, più audacia

di Samir Amin. Fonte: asudnet
Le circostanze storiche create dall'implosione del capitalismo contemporaneo richiedono una sinistra radicale, così al Nord come al Sud, che sia capace di formulare un'alternativa politica al sistema esistente. Il proposito di questo articolo è mostrare perché è necessaria l'audacia e cosa questa significhi.

Perché audacia?

1. Il capitalismo contemporaneo è un capitalismo di monopoli generalizzati. Con questo voglio dire che i monopoli non sono più le isole più grandi in un mare di imprese relativamente autonome, bensì un sistema integrato che controlla assolutamente tutti i sistemi di produzione. Piccole e medie imprese, incluse le grandi corporazioni che non sono strettamente oligopoli, sono sotto il controllo di una rete che rimpiazza i monopoli. Il loro grado di autonomia si è ridotto al punto da arrivare a convertirsi in subcontraenti dei monopoli.

Questo sistema di monopoli generalizzati è prodotto da una nuova fase di centralizzazione del capitale che ha avuto luogo durante gli anni 80 e 90 nei paesi che compongono la Triade: Stati Uniti, Europa e Giappone.

I monopoli generalizzati, in questo momento, dominano l'economia mondiale. “Globalizzazione” è il nome che hanno dato all'insieme delle domande tramite le quali esercitano il proprio controllo sui sistemi produttivi della periferia del capitalismo globale (periferia intesa come il mondo al di sotto della Triade). Questo non è nient'altro che una nuova fase di imperialismo.

2. Il capitalismo dei monopoli generalizzati e globalizzati è un sistema che garantisce che questi monopoli facciano gravare le imposte sulla massa di plusvalore(trasformata in profitto) che il capitale estrae dallo sfruttamento del lavoro. Per quanto questi monopoli stiano operando nelle periferie del sistema globale, la rendita monopolica è rendita imperialista. Il processo di accumulazione capitalista – che definisce il capitalismo in tutte le sue forme storiche – è determinato dalla massimizzazione della rendita monopolica/imperialista.

Questo spostamento del centro di gravità dell'accumulazione del capitale è la fonte della continua concentrazione dell'ingresso e della ricchezza a beneficio dei monopoli, ampiamente controllata dalle oligarchie (plutocrazie) che governano i gruppi oligopolistici a spese della remunerazione del lavoro e della remunerazione del capitale non monopolico.

3. Questo mette a rischio la stessa crescita, disequilibrando la fonte di finalizzazione del sistema economico. Con questo mi riferisco al fatto che il segmento crescente del plusvalore non può essere investito nell'espansione e nell' approfondimento dei sistemi di produzione e, di conseguenza, l'investimento finanziario dello smisurato plusvalore diventa l'unica opzione per sostenere l'accumulazione sotto il controllo dei monopoli.

L'implementazione che il capitale realizza in determinati sistemi, permette alla finanziarizzazione di operare in modi diversi, generando:

LE LEZIONI DELLA CRISI

di Michele Nobile. Fonte: anarkismo
Intervento letto al Convegno-dibattito "Dentro la crisi del capitale", organizzato dalla Confederazione Cobas Firenze il 15 dic. 2011 e al quale hanno partecipato anche Guglielmo Carchedi, Domenico Moro e Roberto Massari.
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Lezione 1.
Nell'autunno 2008 molti commentatori e politici di sinistra annunziarono la fine del cosiddetto neoliberismo. Si facevano così due errori, tra loro connessi. Il primo errore concerneva proprio la caratterizzazione dell'epoca, la stessa nozione di neoliberismo. Il secondo errore concerneva il rapporto tra crisi economica, sbocchi politici e radicalizzazione sociale.
Ora siamo nella fase in cui governi e padronato intendono effettivamente far pagare alla classe dei salariati i costi della crisi capitalistica e del salvataggio delle banche private. Con l'eccezione parziale della Grecia, questo accade senza che al momento si profili una risposta delle classi dominate europee all'altezza dell'attacco che ad esse viene portato.

La prima lezione è che non esiste alcun nesso meccanico tra crisi, anche crisi grave, e fuoriuscita dalla cosiddetta globalizzazione neoliberista; e non esiste neanche nessun nesso meccanico tra crisi e rilancio della lotta di classe. Bisogna chiedersi perché.

Lezione 2.
La risposta alla prima questione è che la nozione di globalizzazione neoliberista è analiticamente errata e politicamente fuorviante. Non è vero che i poteri d'intervento economico degli Stati dei paesi a capitalismo avanzato siano in via d'obsolescenza o di drastico ridimensionamento. Gli Stati capitalistici hanno effettivamente dei limiti d'azione: ma non è vero che essi siano impotenti di fronte alla cosiddetta globalizzazione dei mercati finanziari e delle merci, o che ne siano vittime. Questa non è altro che l'idea liberale secondo la quale a «più mercato» corrisponde «meno Stato».
Al contrario, nonostante la marcata instabilità finanziaria, l'epoca cosiddetta «neoliberista» ha oramai una durata maggiore della cosiddetta «età d'oro» interventista e «keynesiana». Se le banche centrali e i governi dei paesi a capitalismo avanzato fossero stati impotenti a fronte dei «mercati globali», allora la «grande recessione» o una depressione sarebbe iniziata nel 1982, oppure nel 1987, o nel 1990, o nel 1992, oppure nel 1997 o nel 1998 o nel 2001.

Il fatto è che i rapporti strutturali tra la sfera economica e quella statale non sono più gli stessi dei primi anni Trenta del secolo scorso. È per questo che nel 2008 le economie dei maggiori paesi a capitalismo avanzato non sono entrate in una spirale depressiva simile a quella degli anni 1929-1933. Ed è per questa stessa ragione che non c'è nulla di simile a un New deal e che, al contrario, vengono rilanciate le ricette di politica economica e anti-sociale etichettabili come neoliberali.

Affermare che i poteri d'intervento degli Stati a capitalismo avanzato non siano affatto in via d'obsolescenza non significa dire che attuando una «saggia politica» la crisi non avrebbe avuto luogo. Non significa neanche escludere che essa non possa, infine, sfuggire ad ogni controllo e precipitare in una fase depressiva acuta e prolungata.

Quel che è cambiato rispetto alla «età d'oro» detta keynesiana sono gli obiettivi e gli strumenti dell'intervento economico degli Stati, non la loro capacità assoluta d'intervenire.

La seconda lezione è dunque che i poteri d'intervento economico e sociale degli Stati capitalistici non sono affatto ridotti ma, nel corso degli ultimi trenta anni, sono stati ridefiniti i termini e le priorità della politica economica e monetaria.

Le politiche statali sono state ridefinite in funzione della crescente concorrenza internazionale e degli squilibri mondiali tra un polo importatore, gli Stati Uniti, e i poli esportatori della Germania e del Giappone.

Le regole dei sistemi finanziari sono state ridefinite in modo da permettere il flusso finanziario dal resto del mondo in direzione degli Stati Uniti, indispensabile per mantenere l'attuale configurazione dell'economia mondiale.

I sistemi pensionistici nazionali e le normative regolanti le istituzioni finanziarie sono state riformulate in modo da massimizzare il drenaggio del risparmio dei lavoratori verso il mercato dei capitali.

In Europa le politiche di bilancio e la politica monetaria sono state sottoposte a nuove regole al fine di promuovere l'euro come moneta di riserva internazionale, a fianco ma ancora in posizione subordinata al dollaro. Sull'onda della crisi del debito estero dei cosiddetti «paesi in via di sviluppo» sono state abbattute le barriere all'esportazione di capitale e di merci in questi paesi, e poi realizzati investimenti dall'estero in occasione della privatizzazione di industrie e servizi statali.

Asse Carolingio

di Elisabetta Teghil. Fonte: sinistrainrete
L’evoluzione del capitale verso l’accentramento sfocia nel potere, sempre più dominante, delle multinazionali.

Alla radice dei rapporti economici, c’è la tendenza imperiale alla globalizzazione, ma la necessità di realizzare l’unificazione economica e politica che gli è necessaria spiega l’attuale fase di offensiva che svolgono gli Stati Uniti che hanno assunto il ruolo di” Stato del capitale” e che si propongono di assoggettare, con ogni mezzo a disposizione, tutte le potenze lette, a questo punto, come rivali, con l’alleanza dell’Inghilterra.

Infatti ,c’è un “asse carolingio” ispirato, soprattutto, da esigenze di sopravvivenza, da parte della Francia e della Germania, all’offensiva in atto delle multinazionali anglo-americane, di cui i rispettivi governi si fanno braccio esecutivo.

Da qui, l’ondivagare della Francia e della Germania che, alle volte, cercano di salvare gli anelli deboli della catena, Grecia, Irlanda, Spagna e Italia, perché temono che, se cadono i bastioni esterni dell’eurozona, cada anche il centro, altre volte, invece, sembrano attirate dall’idea di non farsi coinvolgere dalle vicende di questi paesi e, magari, di limitarsi a proteggere solo e soltanto la loro ridotta dove si sono asserragliate.

Da qui, il senso dei patti segreti tra Francia e Germania.

L’obiettivo degli Stati Uniti è quello di ricondurre la Germania a Stato “occupato” e di realizzare il sogno americano di ridurre la Francia a “protettorato”, così come era stato coltivato nell’immediato dopoguerra.

A questo proposito sono illuminanti gli studi di Annie Lacroix-Riz su quando gli americani volevano governare la Francia.

Allora, si capisce che non sono i mercati che, paradossalmente diventano qualcosa di neutrale ed ingovernabile, ad attaccare l’eurozona, ma ci sono gli interessi anglo-americani che, potendo contare su paesi fortemente atlantizzati come il Belgio, puntano a staccare i piccoli paesi, come l’Olanda e la Svezia che, per dimensioni demografiche e mezzi economico-militari, non costituiscono preoccupazione e che hanno messo a segno un colpo importante, mandando alla guida dell’Italia un primo ministro il cui compito principale è declinare qui i loro interessi. Operazione resa possibile, anche, dal fatto che già potevano contare sulla più alta carica istituzionale e sul maggior partito già di opposizione.
BEST WISHES

venerdì 23 dicembre 2011

Lettera a Babbo Natale: perché i ricchi in Italia non pagano?

Fonte: sbilanciamoci
Venti docenti di economia chiedono a Monti perché la ricchezza “liquida” – titoli, depositi, investimenti finanziari – sfugge del tutto alla manovra. È annullata così la pretesa di equità con cui il governo si era presentano agli italiani. Una brutta storia di Natale, su cui vale la pena discutere

Spett. Direttore, i firmatari di questa lettera sono tutti docenti universitari di economia. Chiediamo ospitalità ad alcuni giornali, fra cui il suo, per rivolgere al Presidente Monti una domanda che riteniamo piuttosto importante. Ci auguriamo che lui stesso o qualche altro esponente del governo vorrà darci risposta.

La domanda è questa: perché nella manovra economica da poco approvata non è presente una seria tassazione di tipo patrimoniale della ricchezza mobiliare? Si tratta di un'assenza conturbante, in quanto questo provvedimento avrebbe alcuni ovvi vantaggi. In primo luogo potrebbe fornire un gettito sostanzioso: secondo i dati ufficiali dell'Associazione Italiana Private Banking, "Il valore della ricchezza investita nel private banking in Italia nel 2010 ha superato i livelli pre-crisi, al livello più alto da sempre, con 896 miliardi". Questa naturalmente è solo una parte dell'imponibile. Aliquote anche molto miti consentirebbero di mantenere inalterata l'indicizzazione delle pensioni, con ovvi guadagni di equità e riducendo drasticamente gli effetti recessivi della manovra. Infine è il caso di sottolineare il guadagno di consenso che il governo ne ricaverebbe, per effetto della maggiore equità del prelievo complessivo della manovra; ed è noto come il consenso sia un capitale prezioso nei momenti di difficoltà.

Ciò che soprattutto ci preoccupa come economisti è però che accanto a questi ovvi effetti positivi non riusciamo a vederne di negativi. In altri termini, ci sembra che non vi sia alcun motivo di efficienza che possa giustificare l'assenza del provvedimento che auspichiamo. È diffusa fra l'opinione pubblica la convinzione che tale assenza dipenda solo da ragioni di iniquità, e cioè dalla volontà di proteggere i redditi alti scaricando il peso del riequilibrio dei conti su quelli più bassi. Vogliamo sperare che non sia così; ma per fugare ogni dubbio è essenziale che il governo fornisca una spiegazione chiara e convincente. E anche sincera. Una motivazione che circola ufficiosamente, e cioè che non sia possibile sapere dove si trova la ricchezza mobiliare, è smentita dai dati che abbiamo citato più sopra, nonché da quelli forniti dalla relazione della Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie italiane nel 2010. Né si può dire che la manovra così com’è preveda implicitamente un serio intervento sulla ricchezza mobiliare: il gettito proveniente dalla tassazione dei capitali scudati e dei beni di lusso ammonta solo al 6% della manovra complessiva netta, e al 4% delle maggiori entrate. Neanche la motivazione che non è possibile tassare la ricchezza mobiliare perché questa fuggirebbe all'estero è credibile. Come dimostrano i dati sul private banking, la ricchezza mobiliare dei cittadini italiani più ricchi è enorme, e non è certamente una tassazione con una piccola aliquota che li indurrebbe a trasferirne surrettiziamente la proprietà a prestanome stranieri. Al rischio che una patrimoniale di tal fatta possa colpire anche i risparmi della classe media si può facilmente porre rimedio stabilendo un’equa quota esente, che renderebbe oltretutto l’imposta progressiva. Possibili problemi di liquidità per il pagamento dell'imposta sarebbero facilmente evitabili concedendo adeguate (ma non eccessive) rateizzazioni.

In sostanza, ci sembra che ci siano molti argomenti a favore di una tassazione con un’aliquota non predatoria dei grandi patrimoni mobiliari, che non ci siano validi argomenti contrari sul piano dell'efficienza economica e che non vi siano rilevanti ostacoli di natura tecnica tali da impedirne l’adozione. Un chiarimento sulle ragioni della sua assenza dalla manovra sarebbe quindi opportuno.

Confidando in un'autorevole risposta, e ringraziandoLa per la sua ospitalità,

Giovanni Balcet (università di Torino)
Piervincenzo Bondonio (università di Torino)
Giorgio Brosio (università di Torino)
Roberto Burlando (università di Torino)
Paolo Chirico (università di Torino)
Ugo Colombino (università di Torino)
Alessandro Corsi (università di Torino)
Bruno Dallago (università di Trento)
Silvana Dalmazzone (università di Torino)
Aldo Enrietti (università di Torino)
Mario Ferrero (università del Piemonte Orientale)
Magda Fontana (università di Torino)
Ugo Mattei (università di Torino)
Letizia Mencarini (università di Torino)
Guido Ortona (università del Piemonte Orientale)
Matteo Richiardi (università di Torino)
Lino Sau (università di Torino)
Francesco Scacciati (università di Torino)
Roberto Schiattarella (Università di Camerino)
Vittorio Valli (università di Torino)
THE GOLDEN ASS AND OTHER FABLES (Apuleio) Decline of RAI italian state television

giovedì 22 dicembre 2011

Gli economisti Stiglitz e Roubini: “Anno orribile per l’economia? Il 2012 andrà peggio”.

Fonte: ilfattoquotidiano
Per uscire dalla crisi sarebbe necessario un ripensamento radicale dell'economia e un maggiore ruolo della politica, per diminuire la crescente disuguaglianza tra le classi sociali. Ma i politici hanno finito le munizioni e continuano a sfuggire alle loro responsabilità. Di questo passo la fine dell'euro e un nuovo caos finanziario a livello internazionale sono dietro l'angolo

Non vediamo l’ora di buttarci alle spalle il 2011, annus horribilis degli attacchi speculativi all’euro, dell’austerity, di tagli, lacrime e sangue. Ma il 2012 sarà, se possibile, ancora peggiore. A dirlo sono i due grilli parlanti della finanza internazionale: il premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz e il prof. Nouriel Roubini, uno dei pochi ad aver previsto con precisione la crisi finanziaria del 2007-2008, nella quale siamo ancora intrappolati. Interpellati dal quotidiano economico tedesco Handelsblatt, i due economisti non hanno dubbi: l’anno prossimo ci attende una pesante recessione economica, caratterizzata da sempre maggiori disuguaglianze, da guerre valutarie e commerciali e, se non si riuscisse ad agire in tempo, dalla fine dell’Euro.

“La cosa positiva del 2011 è che, molto probabilmente, è stato migliore del 2012″, ha dichiarato Stiglitz. “Ma ci sono altri aspetti positivi: gli Stati Uniti sembrano aver finalmente preso coscienza del divario crescente tra la percentuale più ricca della popolazione e la massa degli americani. Mentre i movimenti di protesta dei giovani, dalla primavera araba agli “indignados” spagnoli, fino agli occupanti di Wall Street, hanno reso evidente che c’è qualcosa che non funziona assolutamente nel sistema capitalistico”.

Ma nonostante le sollevazioni popolari, con tutta probabilità i problemi politici ed economici dell’Europa e degli Stati Uniti sono destinati a peggiorare ulteriormente nei prossimi dodici mesi. “I capi di stato europei non si stancheranno di ripetere che l’euro deve essere salvato”, continua Stiglitz, “ma chi ha veramente il potere di intervenire con efficacia continuerà a sfuggire alle sue responsabilità, evitando di fare ciò che sarebbe necessario”. Anche perché tutti hanno capito che le probabilità di una pesante recessione continuano a crescere e tutti sanno che, senza crescita, non si possono alleggerire debiti pubblici sempre più pesanti, “ma nessuno fa niente per promuovere la crescita” e i governi europei si troverebbero ormai in una “spirale della morte”.

Nascono gli Stati Uniti d’America Latina

Fonte: fabionews
I processi di integrazione Latinoamericana non si fermano...
Sembra ch ele basi su cui fondare questa unione siano decisamenet più nobili di quelel prettamente economiche-monetarie che hanno governato il processo diintegrazione Europeo
Ciao
Fabio

Da centrostudi sereno regis
Nascono gli Stati Uniti d’America Latina
Claudio Borsello Baldi

Mentre l’Europa, Vecchio Continente, è tutta rivolta su se stessa e non riesce a vedere altro che la propria crisi finanziaria e lo spettro della propria fine, nel Nuovo Continente la cometa natalizia ha portato una lieta novella: la nascita, in coincidenza con il bicentenario delle lotte di liberazione bolivariane, della Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños (CELAC) ossia gli Stati Uniti d’America Latina e del Caribe.

Si tratta del primo passo fondativo di un organismo che ingloba tutti e 33 gli stati delle Americhe esclusi U.S.A. e Canada; e che, con circa 550 milioni di abitanti e circa 7.000 miliardi di dollari di PIL, rappresenta la terza, se non addirittura la seconda (date le vicissitudini europee), area economica del pianeta.

Ma al di là dei dati e dei numeri, è interessante soffermarsi sui principi che questi “giovani” governanti stanno ponendo a fondamento del proprio progetto di comunità regionale, ed in particolare ci interessa confrontarli con il nostro (quasi fallimentare) progetto europeo.

A questo proposito è interessante citare la dichiarazione resa dal presidente nicaraguense Daniel Ortega in occasione della conferenza di Caracas del 2-3 dicembre 2011: “E’ importante guardare all’esempio dell’Unione Europea affinché non commettiamo gli stessi errori, ovvero che non sottomettiamo l’Unione latinoamericana ai dettami del libero mercato e del capitale finanziario speculativo. La nostra Unione sarà sottomessa solo ai principi di sovranità”.

Vengono di seguito proposti alcuni dei passaggi chiave della Dichiarazione di Caracas (firmata da tutti i 33 Capi di Stato e di Governo della CELAC il 3 dicembre 2011), che si può scaricare in versione integrale al link sotto riportato.

1. Le Cape ed i Capi di Stato e di Governo dei Paesi d’America Latina e del Caribe, riuniti a Caracas, […] nell’anno della commemorazione del Bicentenario dell’Indipendenza del Venezuela, ed in memoria ed omaggio alla immensa opera storica del Liberatore Simon Bolivar, concordano:

La vera ragione dell'accanimento sull'art 18.

di Zag in ListaSinistra
In realtà la vera ragione dell'accanimento sull'art 18 è molto sottile , a mio parere. La prima ragione è che in effetti il vero obbiettivo è la legge 300, con tutti i suoi articoli che salvaguardano i diritti e le libertà sul posto di lavoro dei lavoratori. Caduto il totem dell'art 18 , caduta la breccia , il resto diventa solo questione di tempo

La seconda ragione questo attacco non è per la difesa dei precari, come vorrebbero farci credere, in realtà è contro i precari e quelli che sono meno precari.
Dalle statistiche si evince che tra il 2008 e il 2010 sono andati perduti 532 mila posti di lavoro e ben tre quarti (404 mila unità) nel settore industriale.
I ricorsi giudiziari che riguardano l’articolo 18 secondo fonti sindacali si possono stimare in circa 500-600 unità. Quindi più che un ostacolo rappresenta un deterrente.
Licenziare un lavoratore che ha il tempo indeterminato per discriminazione dopo molti anni di lavoro è veramente una rarità e un non senso. e i numeri danno ragione a questa tesi.
Allora?
Allora l'eliminazione dell'art 18 è più rivolta contro i precari.
Sembra un paradosso , ma é così .

In effetti l'eliminazione dell'art 18 rappresenta un ostacolo per il lavoratore precario che vuol far valere il suo diritto verso la sua azienda, che ha più di 15 dipendenti, e provare che la sua prestazione ha caratteristiche di lavoratore dipendente ( come è nella stragrande maggioranza dei casi) piuttosto che parasubordinato o a progetto (così come recita il suo contratto), e quindi farsi assumere per le prestazioni effettive. Se non ci fosse più l'art 18 la rivendicazione del lavoratore non avrebbe più ragion d'essere in quanto, subito dopo l'assunzione, il datore di lo lavoro può tranquillamente licenziare, con le ragioni le più disparate.

Quindi l'eliminazione dell'art 18 serve per sterilizzare i ricorsi per gli innumerevoli contratti parasubordinati mascherati riducendo drasticamente il potere contrattuale dei lavoratori.

E che l'obbiettivo sia questo lo dimostra ( quello che è passato quasi in sordina) il collegato del lavoro dell' ex ministro socialista Sacconi.

Il Collegato lavoro ha ridotto l'intervallo di tempo per poter far ricorso, in caso di licenziamento, a soli 60 giorni . Il Collegato ha poi introdotto due nuove norme che limitano i “poteri” dei lavoratori precari: la prima prevede che i contratti di lavoro vengano “certificati” da un’apposita commissione al momento della loro stipula impedendo così un eventuale ricorso al giudice. La seconda, l’arbitrato, dà invece la possibilità al datore di lavoro di inserire nel contratto una clausola che dice che in caso di problemi il dipendente si rivolgerà a una commissione arbitrale invece che ai giudici.

Se su questo terreno fertile si aggiunge la proposta di legge di Ichino che rende tutti precari, ecco che il quadro diventa chiaro per tutti.
Per quelli che vogliono vedere, chiaramente.

Zag(c)
"FIAT: LAND,SEA,SKY"

mercoledì 21 dicembre 2011

Il Titanic-Europa e la manovra Monti: ingiusta, inutile e insostenibile.

di Vladimiro Giacché. Fonte: megachip
Tra le tante verità con cui la crisi attuale ci costringe a confrontarci ve n’è una che riguarda la forza dell’ideologia. La resilienza dell’ideologia dominante, la capacità di tenuta del “pensiero unico” si è dimostrata tale che persino entro la crisi del capitalismo peggiore dagli anni Trenta tutti i luoghi comuni che di quella ideologia avevano costituito l’ossatura nei decenni precedenti hanno continuato a operare, per così dire fuori tempo massimo e in un contesto che ne rende evidente la falsità teorica e la dannosità sociale.
La razionalità dei mercati, lo Stato che deve dimagrire, la necessità delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come toccasana, la deregolamentazione del mercato del lavoro come ingrediente essenziale della crescita: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato dagli attori e dalle comparse che occupano la scena politica.

Il problema è che, di mistificazione ideologica in mistificazione ideologica, il distacco dalla realtà aumenta sino a diventare patologico. È quello che accade quando si suggerisce, come terapia per i problemi che stiamo vivendo, di più delle stesse misure che hanno creato quei problemi.

Questo distacco dalla realtà, tipico delle élite politiche che stanno per essere travolte dalla storia, si percepisce distintamente quando si leggono le dichiarazioni di intenti che concludono i vertici europei, i comunicati degli incontri tra capi di governo, le interviste di ministri e presidenti del consiglio, “tecnici” o meno.

E pensare che, se non venisse letto attraverso le lenti dell’ideologia neoliberista, quello che sta accadendo sarebbe in grado di illuminare la vera storia di questi ultimi decenni dell’Italia e dell’Europa.

A cominciare dal vizio di fondo dell’Unione Europea.

Che ha dato vita al suo interno ad un’unione monetaria sbilenca (chi ha detto che “non si tratta di un’area valutaria ottimale” ha espresso lo stesso concetto).

Sbilenca perché alla moneta comune non si è affiancata una politica economica comune. E questo non è potuto avvenire perché all’interno dell’Unione (e anche nell’eurozona) non si è voluto che ci fosse una politica fiscale comune. Il meccanismo tecnico attraverso cui questo è avvenuto si chiama “decisioni all’unanimità” sulle politiche fiscali.

In assenza di regole fiscali comuni (ossia di soglie minime di tassazione e di aliquote fiscali uniformi nei diversi Stati dell’Unione), le imprese hanno potuto fare arbitraggio fiscale, creando o spostando filiali operative nei Paesi in cui la fiscalità era più conveniente (vedi alla voce Irlanda). Questo a sua volta ha ingenerato una concorrenza al ribasso tra le fiscalità e quindi una tendenziale riduzione delle tasse medie sulle imprese su scala europea (in qualche caso nella forma di aliquota più basse che in passato, in altri – come nel caso del nostro Paese - di un ampio e tollerato ricorso all’evasione fiscale).

Democrazia vs. debitocrazia. Perché è giusto non pagare il debito pubblico

Fonte: controlacrisi
Per gentile concessione delle Edizioni Alegre proponiamo la postfazione di Salvatore Cannavò al volume "Debitocrazia" di Damien Millet e Eric Toussaint, in questi giorni in libreria.

di Salvatore Cannavò

Il libro curato da Toussaint e Millet è stato scritto in larga parte nel 2010 e non tiene conto, quindi, del caso italiano. Ma già dalla scorsa estate, e anche prima, gli esperti del Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo fondato in Belgio all’inizio degli anni Novanta, hanno messo l’Italia sotto osservazione perché, scorrendo gli esempi più eclatanti riportati nel volume e la dinamica che sottende alla formazione del debito pubblico, anche il nostro paese rientra nell’elenco di quei casi in cui si può fare appello all’annullamento del debito illegittimo o illecito. La formazione del debito pubblico italiano, infatti, è una cronistoria del paese e evidenzia i meccanismi di un funzionamento specifico del capitalismo in cui i benefici fiscali per le grandi imprese e i più ricchi si sposano all’utilizzo della macchina pubblica per una gestione centralizzata e classista della spesa sociale.

Se si guardano i presidenti del Consiglio degli anni di maggior picco del debito i responsabili della situazione hanno il nome e cognome degli uomini della nomenklatura democristiana, e poi socialista, che ha retto il paese per circa cinquant’anni: Arnaldo Forlani, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita, Giulio Andreotti, Giuliano Amato e poi, dal 1994, anno di fondazione della Seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Lamberto Dini. Con l’avvento del nuovo centrosinistra la dinamica del debito è stata invertita, sia nel primo (1996-1998) che nel secondo (2006-2008) governo Prodi. Ma tra il 1994 e il 2010, centrosinistra e centrodestra hanno governato 8 anni per uno: Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi, ancora Prodi, ancora Berlusconi. Le cose non sono cambiate di molto.

Il debito in Italia

In realtà, la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi dieci-quindici anni che hanno visto l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private.

Se nel dopoguerra il rapporto tra debito e Pil si colloca al 45 per cento e scende fino al 33 del 1964 (effetto del boom economico), la crisi del centrosinistra e i primi segnali di rallentamento del boom, producono un rialzo rapido che porta il debito al 55 per cento del 1973 anno della crisi petrolifera. La crisi non produce rialzi consistenti anche per effetto dell'inflazione: si sale al 63 per cento nel '78 per ridiscendere al 59 del 1980. E qui cominciano i guai. La sequenza è così impressionante che vale la pena riportarla in dettaglio: nel 1980 il rapporto è del 59 per cento; nell'81 del 61; nell'82 del 66, nel 1983 del 71; poi ancora, 77 nel 1984, 84 nel 1985, 88 nell'86, 92 nel 1987, 94 nell'88, 98 nell'89, 100 per cento nel '90, 104 nel '91 e 111 nel '92. Poi salirà ancora, fino al 124 per cento del 1995. Sarà il governo Prodi, e poi gli altri governi del centrosinistra, a riportarlo al 109 per cento nel 2001. Poi, nel corso degli ultimi dieci anni, tranne la parentesi rigorista del governo Prodi, il debito torna di nuovo ad aumentare fino a superare di nuovo il 120 per cento nel 2011, l’anno della crisi.
THE BIG TAX-EVADER
is a small

martedì 20 dicembre 2011

Grecia, un cittadino su quattro sotto la soglia di povertà.

Più di 400mila le famiglie senza reddito.
Fonte: peacereporter
I dati della Confederazione Nazionale del Commercio ellenico dipingono un quadro della situazione delle famiglie in Grecia molto più triste di ogni aspettativa: nove greci su 10 hanno abolito le spese per il vestiario e per le calzature, otto su 10 le spese per i divertimenti e un cittadino su quattro dichiara che non gli bastano i soldi per l'acquisto di generi di prima necessità. Dal resoconto emerge che un cittadino su quattro vive al di sotto della soglia di povertà e uno su quattro è al limite della stessa soglia, mentre due su quattro dichiarano di dover mettere mano ai propri risparmi per sopravvivere. Una tale depressione porterà inevitabilmente alla sparizione della piccola e media impresa, denuncia la Confederazione.

L'Istituto nazionale di statistica Elstat ha calcolato che più di 400mila nuclei familiari sono rimasti senza reddito perché nessun componente è occupato e 60.000 famiglie hanno fatto ricorso al tribunale per la regolamentazione dei debiti perché ritengono di non essere più in grado di saldarli.

Sempre più persone cercano un pasto caldo nelle mense per i poveri: negli ultimi tempi i greci che si sono rivolti alle mense allestite dalla Chiesa ortodossa greca sono stati 20.000 in più, ha detto Maria Iliopoulou, direttrice del brefotrofio di Atene. In aumento anche gli insegnanti che denunciano situazioni di denutrizione dei piccoli scolari: i maestri delle elementari di Atene "ci chiedono i pasti per i loro scolari che non hanno da mangiare", ha detto la Iliopoulou al sito on line Newsit.gr. Non mancano anche i casi di degenti negli ospedali che non vogliono lasciare le strutture sanitarie perché non sanno dove dormire.

PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE

PER EVITARE LA CATASTROFE SOCIALE
LA VIA MAESTRA E' IL SOCIALISMO
Fonte: sollevazione
(Bozza di Manifesto del M.P.L.)
Rompendo gli indugi

L’Assemblea di Chianciano Terme del 22-23 ottobre “Fuori dal debito! Fuori dall’Euro” adottò per acclamazione una mozione che istituiva un «Comitato di coordinamento nazionale provvisorio con l’incarico di preparare una seconda assemblea entro la fine di gennaio 2012», e di stilare, in vista di quest’ultima, «una bozza di Manifesto».

Alla nostra prima riunione, svoltasi il 5 novembre, oltre a confermare l’impegno a scrivere e proporre alla prossima assemblea il Manifesto, abbiamo anche indicato la necessità di andare verso la costituzione di un nuovo soggetto politico, il Movimento Popolare di Liberazione.

Il 17 novembre, mentre ci apprestavamo a scrivere il Manifesto, la crisi economica e politica subiva l’accelerazione che sfociò nelle dimissioni del governo Berlusconi e nell’insediamento di quello Monti. Ci sembrò doveroso indicare che si trattava «una congiura ordita dal grande capitalismo finanziario internazionale», e che il paese passava «dalla padella alla brace». Per questo diffondemmo un «Appello al popolo lavoratore», segnalando come urgente il compito di formare un ampio Fronte di resistenza. In quell’Appello indicammo i sette punti di un «programma d’emergenza» per fermare Monti, per «dare uno sbocco all’opposizione sociale diffusa ma ancora incerta e frammentata... affinché si candidasse a guidare il paese per portarlo fuori dall’abisso».

Centinaia sono stati i cittadini che, sottoscrivendo quell’Appello, hanno sottolineato la volontà di aderire.

I fatti hanno superato i più foschi timori. La manovra economica del nuovo governo, giustificata con l’obbligo di “onorare il debito”, non solo è senza precedenti, è concepita come una puntata di un massacro sociale senza fine.

Gli eventi recenti se ci dicono che è urgente costruire un ampio Fronte di resistenza per contrastare Monti e fermare l’offensiva antipopolare, ci confermano che è necessario dare vita ad un nuovo movimento politico. Non ci saremmo decisi a compiere questo passo se fossimo vissuti in tempi ordinari, e se fosse esistita una forza solida e coerente capace di interpretare la fase politica attuale e che avesse ideee e proposte all’altezza della gravissima situazione che viviamo.

Che ci sia bisogno di un nuovo movimento politico, ciò è avvertito da larghi settori del popolo lavoratore che ormai da troppo tempo si trova senza un soggetto di riferimento credibile e certo.

Rompiamo così gli indugi e, tenendo fede alla promessa, proponiamo questo Manifesto [che alleghiamo affinché ognuno possa farlo circolare e stamparselo per leggerlo con la dovuta attenzione].

Fronte ampio di resistenza e movimento politico, com'è ovvio, non sono la stessa cosa.

Un’allenza sociale per far fronte all’emergenza è tanto più forte e ha tante più possibilità di vincere, quanto più è ampia, e per questo essa deve fondarsi su pochi e semplici obbiettivi.

Un Movimento politico degno di questo nome deve invece avere un programma di più ampio respiro, una visione d’insieme, un progetto di alternativa di società, che noi indichiamo appunto nel socialismo.

Speriamo di esserci riusciti con questo Manifesto .
Lo sottoponiamo dunque alla attenzione di coloro i quali, dopo l’Assemblea di Chianciano Terme, sono stati solidali con le nostre battaglie ed hanno espresso interesse a partecipare alla prossima Assemblea del 4-5 febbraio 2012.

Assemblea costituente, non costitutiva, ad indicare il suo carattere aperto a chiunque, condivise le linee generali del Manifesto, volesse unirsi a noi per dare vita, nei tempi e nei modi che comunemente verranno decisi, al MPL.*

Per il Comitato di Coordinamento dell’Assemblea di Chianciano Terme
Massimo De Santi, Leonardo Mazzei, Moreno Pasquinelli.
15 dicembre 2011

L'insistenza di Obama per la detenzione a tempo indeterminato di cittadini USA.

da «Russia Today». Fonte: megachipdue
Credete che il Presidente Obama rimarrà fedele alla sua parola ponendo il veto sulla legge che permetterà al governo di detenere in carcere cittadini americani senza alcuna accusa né processo? Ricredetevi. L'amministrazione Obama ha insistito sul fatto che il presidente porrà il veto sul National Defense Authorization Act per l'anno fiscale 2012, un disegno di legge approvato al Senato la scorsa settimana. In base alla nuova normativa, gli Stati Uniti d'America sono considerati un campo di battaglia e gli americani sospettati di aver commesso un reato di terrorismo possono essere trattenuti senza processo e torturati a tempo indeterminato.

Nonostante le gravi conseguenze per i cittadini e l'evidente attacco alla Costituzione degli Stati Uniti, il provvedimento è riuscito ad essere approvato in tutti e due i rami del Congresso, ma il presidente Obama afferma che non permetterà che diventi pienamente legge.

Secondo il senatore Carl Levin, però, gli americani dovrebbero preoccuparsi un po’ di più in merito alle effettive intenzioni del presidente. Levin, che presiede la Commissione sulle Forze Armate, ha rivelato al Congresso che l'amministrazione Obama ha influenzato la formulazione dell'atto e ha fatto eliminare la parte di testo che avrebbe salvato i cittadini americani dalla prigionia a tempo indeterminato e dalla sospensione dell'habeas corpus.

Il senatore Levin ha di recente dichiarato al Congresso che nella formulazione originale del National Defense Authorization Act i cittadini americani erano stati esclusi dalla disposizione sul permesso di detenzione.
Una volta che i funzionari di Obama hanno visto il testo, però, riferisce Levin,


«l'amministrazione ci ha chiesto di rimuovere quella parte che dice che i cittadini americani e i residenti legali non sarebbero soggetti a questo provvedimento.»

In particolare, la parte che Obama ha chiesto fosse riformulata è la Sezione 1031 del NDAA FY 2012, che dice che «qualsiasi persona che abbia commesso un atto belligerante» potrebbe essere detenuta a tempo indeterminato.

Il nome della “nostra” crisi.

Fonte: finansol
In passato ho pubblicato diversi articoli, su questo stesso sito, sul tema della crisi. Poi ho sostanzialmente smesso, concentrandomi su altre questioni; ora vorrei tornare su questo argomento cercando di recuperare almeno in parte l’attenzione perduta. E comincio con queste note.

La crisi per molti aspetti ancora in atto nonostante un miglioramento, che appare peraltro precario, dei dati economici e finanziari in molti dei paesi occidentali, non ha sorprendentemente, almeno sino ad oggi, un nome “ufficiale” e riconosciuto, anche se ne ha ricevuti diversi nel corso del suo ormai abbastanza lungo percorso. Questo ha molto a che fare anche con i suoi continui cambiamenti di registro e di direzione sia a livello di settori colpiti che di aree geografiche, che infine di soggetti coinvolti, nel corso di questi tre anni e più. Così non si sa spesso quale aggettivo far seguire alla parola crisi se essa viene fuori in qualche discorso o in qualche articolo.

Ma siccome si può forse anche credere a quello che diceva qualcuno, non ricordo chi, nell’antichità, che cioè “nomen est essentia rerum”, che nel nome c’è l’essenza stessa, il senso profondo, delle cose, proviamo a partire alla ricerca di quello che può sembrare più adeguato per il fenomeno in atto.

Nel rintracciare i mutevoli percorsi della crisi e i suoi cambiamenti di denominazione facciamo in particolare riferimento ad un articolo di Marc-Olivier Padis, apparso nel numero di ottobre 2010 sulla bella rivista francese Esprit, rispetto alle cui classificazioni abbiamo peraltro apportato alcuni mutamenti.

Sulla stampa internazionale si è cominciato con il parlare di crisi del sub-prime, con riferimento ai primi momenti della stessa crisi, collegati al crollo subitaneo del mercato statunitense dei mutui ipotecari ad alto rischio. Qualcuno ha successivamente fatto riferimento alla crisi delle cartolarizzazioni, della vendita cioè sul mercato da parte delle istituzioni finanziarie di una parte dei loro crediti verso la clientela e parlato quindi di crisi delle cartolarizzazioni. Poi, quando sono risultate evidenti le profonde difficoltà generali delle banche di molti paesi occidentali, si è parlato in senso lato di crisi finanziaria; qualcuno, in maniera più ristretta, la ha chiamata crisi Lehman, dal nome della banca che è stata dichiarata fallita nel settembre del 2008. Si è così anche fatto riferimento alla crisi del 2008. Quando è risultato evidente che le difficoltà toccavano anche l’economia reale, qualcuno si è azzardato a parlare di crisi di sistema. Con gli sviluppi successivi e con le difficoltà del settore privato che sono state trasferite sui bilanci degli stati, in particolare, tra l’altro, di quelli europei, si è poi arrivati a discutere di crisi dei debiti sovrani o di crisi sovrana. E dimentico forse qualche altra definizione che può essere apparsa sui giornali nel corso di questi anni.
KIM JONG
Nobel for peace? "harry up Iran and Syria!!! "

Il debito pubblico.

lunedì 19 dicembre 2011

Trinity Church: cronaca da New York

di DUCCIO BASOSI. Fonte: democraziakmzero
“Lottavano così come si gioca (…) / loro avevano il tempo anche per la galera / ad aspettarli fuori rimaneva / la stessa rabbia la stessa primavera…”

Sono le parole di Fabrizio De André a risuonarmi in testa mentre osservo, partecipe, l’esito della bellissima manifestazione di Occupy Wall Street a New York, il 17 dicembre: decine di manifestanti, in favore di telecamera, oltrepassano la rete che delimita uno spazio privato di proprietà della Trinity Church, nel centro di Manhattan; la polizia interviene e li arresta a decine (il New York Times parla di 50 arresti); loro si fanno ammanettare e in fila ordinata, sotto lo sguardo vigile di decine di agenti e di centinaia di mediattivisti, si dirigono verso i cellulari della NYPD che li portano via. Tutto intorno, centinaia di manifestanti scandiscono gli slogan “you beat us, we multiply, Occupy will never die” e “we are unstoppable, another world is possible” (tutti e due hanno un ritmo sincopato, diverso da quello quadrato degli slogan italiani, e quasi musicale).

Nella città da cui tutto il movimento è partito, gli occupanti hanno deciso di festeggiare a loro modo i tre mesi dall’inizio della protesta: occupando! L’iniziativa Occupy 2.0 inizia nel primo pomeriggio, con un presidio tra la Sesta strada e Canal Street. Si tratta di uscire dal ghetto, ormai isolato e circondato, di Zuccotti Park. Nelle radio di movimento, Lou Reed e altri artisti si esibiscono a sostegno della manifestazione. Nonostante la temperatura prossima allo zero, a metà pomeriggio ci sono almeno tremila persone pronte a partire per il corteo, che qui chiamano “parade”.

L’atteggiamento è dialogante, anche con i poliziotti, invitati ripetutamente a unirsi ai manifestanti, anche con domande provocatorie (tipo: “Come garantirete un’istruzione ai vostri figli”?). Rumoroso e creativo, il corteo percorre vari isolati ingrossandosi via via, segno che le parole d’ordine del movimento continuano a esercitare una presa indiscutibile in vasti strati della popolazione statunitense. Per la maggior parte del percorso il corteo sfila sui larghi marciapiedi di Manhattan (occupare la carreggiata senza permesso farebbe scattare arresti di massa, come già è accaduto alcune settimane fa durante una manifestazione sul ponte di Brooklyn). Poi, quando la testa del corteo giunge vicino al terreno abbandonato della Trinity Church, alcune scale di legno sbucano per magia da sotto gli striscioni che le nascondevano e decine di manifestanti si riversano al di là della rete. Poi gli arresti.

Gli occupanti newyorchesi sono di tutti i colori, anche se in prevalenza bianchi. Ci sono molti studenti, ma anche le “nonne per la democrazia”. Anche se l’idea stessa di lanciare Occupy 2.0 implica che il movimento riconosce di trovarsi davanti al rischio concreto di spegnersi, il clima in piazza è di un entusiasmo contagioso. Ci sono artisti, performance teatrali e musicisti. Ci sono le bandiere nere degli anarchici e i militanti di Socialist Worker, ma per il resto ognuno sembra avere un cartello scritto in proprio. C’è chi distribuisce gratuitamente un giornale di otto pagine di pregevole fattura: “The Occupy Wall Street Journal”.

Crisi: le banche non hanno colpe.

Fonte: ilcannocchiale
(Scusate il titolo un po' forte ...ma almeno non giriamo attorno al problema e veniamo subito al sodo:-) )
La crisi è colpa delle banche, della Goldman Sachs e delle multinazionali. Si, tutto vero ma… …c’è un ma: le banche non hanno colpe perchè la banche non esistono (o meglio ...non esisterebbero se noi cittadini fossimo un po' più responsabili).
Spesso sentiamo dire che “Le banche sono ricche” e che “…fanno quello che vogliono”. Beh, questo è assolutamente falso. Le banche non sono ricche: sono persone giuridiche proprietarie di una cassaforte dove i cittadini mettono il loro denaro. I cittadini sono ricchi (o meglio, sono i possessori del denaro) non le banche: i soldi nella cassaforte della GoldmanSachs non sono di proprietà della GoldmanSachs. E’ il cittadino a decidere dove depositare i propri risparmi o in quali fondi investire e, di conseguenza, quale banca debba essere più “ricca” (anzi, più potente) di altre.

In soldoni (è proprio il caso di dirlo) il potere ce l’hanno i cittadini risparmiatori, ma non lo sanno o non se ne rendono conto (o preferiscono fidarsi di chi è "più competente”).

Il Gruppo Bancario Intesa-Sanpaolo ha come primo azionista la Compagnia di San Paolo una fondazione in mano ad enti pubblici (Comune di Torino, Regione Piemonte, Camere di Commercio, ecc.) e quindi direttamente ai cittadini (ricordatevene quando andate a votare: saranno i consiglieri eletti da voi a nominare i rappresentanti nelle fondazioni e nelle banche …le stesse banche che poi vi proporranno magari i bond spazzatura o investiranno i vostri risparmi nei derivati finanziari).

Il Monte dei Paschi di Siena è controllato al 49% dall’omonima Fondazione i cui organi d’indirizzo sono nominati dal Comune di Siena, dalla Provincia di Siena, dalla Regione Toscana e dall'Università degli Studi di Siena …cioè da personaggi politici eletti dai cittadini.

Ad Asti la Fondazione CRAsti è proprietaria della banca CRAsti ...e gli azionisti della Fondazione sono tre: Camera di Commercio, Provincia di Asti e Comune di Asti. In pratica gli astigiani sono proprietari della banca (e responsabili diretti/indiretti/morali delle sue azioni).

Sfatiamo anche il secondo mito: “Le banche con i nostri soldi fanno quello che vogliono”. Anche questo non è (più) vero. Esistono esperienze di risparmio autogestito (in Piemonte c’è la Mag4) e di banche più responsabili come ad esempio Banca Etica (scelta anche da BeppeGrillo e dal MoVimento5stelle - vedi QUI) in cui a decidere dove vanno a finire i tuoi soldi, sei tu che li hai depositati.

Se tutti togliessero i loro risparmi dalle banche truffaldine o irresponsabili spostandoli in banche etiche o nelle banche locali come le BCC gli speculatori si estinguerebbero in 5 minuti.

Ora le informazioni le avete: la prossima volta non potrete più dare la colpa alla CIA, ai “poteri forti”, alla massoneria, alle multinazionali o alle banche.

L’Argentina in dieci anni dal collasso al rinascimento. Come liberarsi del Fondo Monetario Internazionale e vivere felici.

Oggi, esattamente dieci anni fa, tra il 19 e il 20 dicembre 2001, l’Argentina esplodeva. Fernando de la Rúa, ultimo presidente di una notte neoliberale durata 46 anni, appoggiato da una maggioranza nominalmente di centro-sinistra, sparava sulla folla (i morti furono una quarantina) ma era costretto a fuggire dalla mobilitazione di un paese intero. Le banche e il Fondo Monetario Internazionale gli avevano imposto di violare il patto con le classi medie sul quale si basa il sistema capitalista: i bancomat non restituivano più i risparmi e all’impiegato Juan Pérez, alla commerciante María Gómez, all’avvocato Mario Rodríguez era impedito di usare i propri risparmi per pagare la bolletta della luce, la spesa al supermercato, il pieno di benzina.

Il cosiddetto “corralito”, il blocco dei conti correnti bancari dei cittadini, era stato l’ultimo passo di una vera guerra economica contro l’Argentina durata quasi cinquant’anni. L’FMI era stato il vero dominus del paese dal golpe contro Juan Domingo Perón nel 1955 fino a quel 19 dicembre 2001. Attraverso tre dittature militari, 30.000 desaparecidos e governi teoricamente democratici ma completamente sottomessi al “Washington consensus”, l’Argentina era passata dall’essere una delle prime dieci economie al mondo all’avere province con il 71% di denutrizione infantile, dalla piena occupazione al 42% di disoccupazione reale, da un’economia florida al debito pubblico pro-capite più alto al mondo. Con la parità col dollaro, e con la popolazione addormentata dalla continua orgia di televisione spazzatura dell’era Menem (1989-1999), il paese aveva dissipato un’invidiabile base manifatturiera e tecnologica. Nulla più si produceva e si spacciava che oramai fosse conveniente importare tutto in un paese che aveva accolto, realizzato e poi infranto il sogno di generazioni di migranti e da dove figli e nipoti di questi fuggivano.

In quei giorni, in quello che per decenni il FMI aveva considerato come il proprio “allievo prediletto”, salvo misconoscerlo all’evidenza del fallimento, non fu solo il sottoproletariato del Gran Buenos Aires ridotto alla miseria più nera a esplodere ma anche le classi medie urbane. Queste, che per decenni si erano fatte impaurire da timori rivoluzionari e d’instabilità, blandire da promesse di soldi facili e convincere che il sol dell’avvenire fosse la privatizzazione totale dello Stato e della democrazia, si univano in un solo grido contro la casta politica e finanziaria responsabile del disastro: “que se vayan todos”, che vadano via tutti. Era un movimento forte quello argentino, antesignano di quelli attuali, e solo parzialmente rifluito perché soddisfatto in molte delle richieste più importanti.

Presidente Monti, il senso della Sua mission a Palazzo Chigi inizia davvero a sfuggirci

di Emiliano Brancaccio.
” [...] sono i fatti a dimostrarlo: a Palazzo Chigi si guardano i grafici dello spread, si nota come il differenziale si gonfia “quando traspare una minore coesione tra forze politiche e scende nei momenti di unità”. È successo con Berlusconi, si sta ripetendo in piccolo con Monti. Un concetto che il premier spiega ad Angelino Alfano in un faccia a faccia improvvisato sulla porta dell’emiciclo della Camera: il professore è amareggiato per il Berlusconi che va dicendo che il governo può cadere in qualsiasi momento. “Non potete continuare con questo atteggiamento - dice freddamente al delfino - non serve a niente e fa danni. I mercati annusano le fragilità interne e attaccano” [...] (da Repubblica del 17 dicembre 2011).

Che a Repubblica, a Benedetto Della Vedova o a Enrico Letta scappi di dire una sciocchezza sulle determinanti degli spreads, passi. Ma che il Professor Monti assecondi e alimenti simili banalizzazioni per motivi di mera tattica politica, è deprimente. Monti sa bene che la dinamica dei tassi d’interesse europei dipende in larghissima misura dalla possibilità o meno che la BCE sia messa in condizione di agire come prestatore di ultima istanza e, soprattutto, dalla attivazione o meno di un nuovo motore dell’accumulazione europea e di un meccanismo di riequilibrio commerciale tra i membri dell’Unione che non ricada sui soli paesi debitori verso l’estero. Se il prestatore, il motore e il riequilibratore non vedranno la luce, i rischi di cambio cresceranno e gli spreads continueranno ad aumentare. Le politiche di bilancio dei governi nazionali (per non parlare delle risibili politiche di deflazione relativa, che ipocritamente chiamiamo “politiche di crescita”) incidono in misura marginale sull’andamento degli spreads e nel complesso, contribuendo alla recessione, possono provocare effetti esattamente contrari a quelli previsti dalla vulgata.

Presidente Monti, anziché agitare anche Lei in modo del tutto fuorviante lo spauracchio degli spreads, ci dica se il nostro paese sta esercitando le pressioni necessarie sulla Germania e sui paesi in surplus per far capire loro che un riequilibrio dal solo lato dei paesi debitori verso l’estero genera “mezzogiornificazione” dei paesi periferici, ci porta dritti in depressione e accresce le probabilità di distruzione della zona euro. Per salvaguardare l’unità europea occorre attivare il prestatore, il motore e il riequilibratore europei. Se dall’alto della Sua autorevolezza in campo internazionale Lei non vuole o non può contribuire a questo scopo, il senso della Sua mission a Palazzo Chigi inizia davvero a sfuggirci.
PRIZE WINNING FORNERO'S TEARS FACTORY
(italian labour minister Elsa Fornero, prone to emotional displays will attempt to cancel the historical comma 18, defender of the workers status)

domenica 18 dicembre 2011

Rischio depressione.

di Zag. Fonte: ListaSinistra
C'è il rischio depressione, anzi no siamo in piena depressione . La notizia rimbalza da un sito all'altro da un media all'altro. Ma come è possibile? Eppure abbiamo tagliato stipendi, pensioni, abbiam licenziato in tutti questi mesi e anni. Abbiam consentito che i consumi calassero. Abbiam abbassato il potere d'acquisto , con una inflazione che si aggira tra il 2 e il 3 per cento , abbiamo aumentato benzina e alzato per ben due volte l'IVA. Le stime dicono che tra il 2012 e il 2013 vi saranno ben altri 800 mila licenziati. Come è possibile che siamo in recessione?. Tutti ci fanno credere che stiano scendendo dalle nuvole. Eppure i professoroni, quelli della Bocconi dovrebbero sapere e fanno finta di non saperlo, che abbassando la capacità di spesa dei lavoratori i consumi si riducono drasticamente limitandosi solo ai beni indispensabili. E che di converso con tutta la loro buona volontà, lasciando pressochè invariata la capacità di spesa per le classi agiate i beni di lusso non potranno mai eguagliare la massa di moneta che mettono in moto i beni di consumo. Ed ora fanno finta che la notizia quasi li abbiano colti di sorpresa! Certo questa manovra non è che un proseguo delle altre due che l'hanno preceduta e quella che verrà fra gennaio e febbraio sarà la gemella di quest'ultima. Si perché , la Grecia insegna, questa manovra non basta. Perché se siamo in recessione, e lo siamo da un pò, se la produzione industriale( primaria e secondaria, dei beni per la produzione e dei beni per il consumo) cala anzi regredisce diminuisce il PIL e seppure diminuisce il debito( ma non può diminuire visto che il nostro debito è solo debito di interessi per i titoli emessi) il rapporto non può che aumentare. E allora non si potrà che , gioco forza, fare un'altra manovra cercando risorse per tamponare l'emorragia. Gioca forza, si ma rimanendo sempre all'interno della logica della BCE , nella logica del FMI ( che è la stessa) la logica del neoliberismo.

Ora , questa manovra ha appena avuta la fiducia, ma se come fanno tutte le forze al parlamento maggioranza raffazzonata , d'emergenza ed opposizione se pure si facesse una manovra più "equa" , seppure si facesse pagare ai "ricchi" parte del deficit, credete veramente che così facendo si eliminerebbe il debito e ci potremmo avviare verso un percorso roseo e radioso? Certo , direbbero i menopeggisti, meglio un pugno nell'occhio che un calcio negli attributi . Ma basterà questo per porre le basi verso quel futuro che i giovani e meno giovani chiedono? Pensate veramente che la crisi sia solo crisi di crescenza, crisi finanziaria, crisi di debito pubblico? E non è invece tempo di mettere in campo nuove intelligenze nuovi modi di pensare e concepire la crescita e lo sviluppo? Non è forse finito il tempo del populismo e dell'antipolitica ed invece sia proprio giunto il tempo che i lavoratori, che la Politica prendano le redini e indichino quale sviluppo e quale società si vuole?
Su questo fronte invece la discussione è silente.

Zag(c)

L'economia inesistente

di BeppeGrillo
Il valore di ogni cosa presente sul pianeta Terra non supera il 10% del denaro, dei titoli mobiliari e dei valori immobiliari. In altri termini il 90% della presunta ricchezza non esiste. La realtà è che le nostre case valgono un quarto, le azioni delle imprese quotate un decimo, i titoli pubblici possono non valere nulla e non essere più rimborsati. E' un gigantesco falò quello che sta avvenendo dal'inizio del nuovo millennio. Un incendio di proporzioni colossali che sta bruciando la carta straccia che abbiamo stampato, era solo un'iIlusione ottica. Polvere era e polvere diventerà. Pire di debiti pubblici, derivati, monete senza valore (come il dollaro americano), sono alimentati continuamente da governi senza un'idea di futuro. Una corsa folle di una macchina fuori controllo. La crescita è la soluzione, dicono i guidatori, e premono l'acceleratore. Nessun organismo in natura cresce per sempre. Vogliono stampare moneta e vendere debiti per l'eternità. Dentro a questa macchina infernale, l'attività umana serve soltanto a spostare più in là di qualche anno la resa dei conti. Il crack del pianeta. Si lavora come schiavi al servizio di una ricchezza inesistente, per un sogno malato di un modello di società al tramonto. Si scava una buca, si riempie una buca.
Nell'estate di quest'anno l'umanità aveva già utilizzato tutte le risorse rinnovabili prodotte dalla Terra. Ci stiamo mangiando il mondo come una mela, ne rimarrà il torsolo. Sono necessari due pianeti per sostenere questo ritmo. Marte può essere la prossima frontiera del consumismo. La specie umana ricorda le cavallette del cosmo. Quando le risorse naturali non esistono inventa ricchezze virtuali. Lavoriamo al servizio del nulla. Il motore si sta surriscaldando. I cosiddetti Bric, Brasile, Russia, India e Cina, insieme alla Turchia, il Bric mediterraneo, nel 2012 rallenteranno la loro crescita. Per mancanza di clienti. Il Nord America e l'Europa entreranno in recessione. La strategia della Cina per continuare a produrre è di comprare il debito dei Paesi in cui esporta. In sostanza, gli anticipa i soldi per poter vendere le sue merci. Più affondiamo, più neghiamo il problema. Non si può creare ciò che non esiste. Qualcuno mi svegli! AAAARGH!

Il ruolo della Bce: bazooka o cerbottana?

di Gerardo Marletto. Fonte: sbilanciamoci
I sacrifici imposti dai governi europei ai cittadini saranno inutili, se non verranno accompagnati da una riforma dell’architettura finanziaria dell’euro

In questi giorni infiamma il dibattito sulla manovra Monti. In molti la contestano sul piano dell’equità e dello sviluppo, ma molti – da destra a sinistra – sono convinti della sua necessità. Un saggio di Marshall Auerback appena pubblicato (‘Europe’s non-solution: the ‘bazooka’ turned to on itself’, Real-World Economic Review issue 58) ci avverte invece che i sacrifici imposti da Monti – e da altri governi europei – saranno inutili se non verranno accompagnati da una radicale riforma dell’architettura finanziaria dell’Euro. In assenza di questa riforma la prospettiva è una spirale di ulteriori “necessari” sacrifici.

Il punto di partenza dell’analisi di Auerback è che gli Stati europei sono privi di sovranità monetaria: essi sono utilizzatori – e non emettitori – dell’Euro. Da questo punto di vista, somigliano agli Stati Usa che usano il dollaro, una moneta governata a livello federale. Ma questa banale constatazione è ignorata dai leader dell’Eurozona, che si rifiutano fermamente di far ricorso all’unico meccanismo che potrebbe fermare l’aggressione della speculazione: la creazione illimitata da parte della Bce degli euro necessari ad acquistare i titoli emessi dagli Stati dell’Eurozona. Anche la creazione dell’Efsf (il fondo europeo per la stabilità finanziaria) è inutile se non è accompagnato da un chiaro messaggio agli speculatori: tutti i titoli degli Stati dell’Eurozona verranno acquistati. Il che è un altro modo per tornare al punto chiave del ragionamento di Auerbach: chi altri, se non la Bce, può dare credibilità a questo messaggio grazie alla sua capacità illimitata di creare euro? E in mancanza di questo messaggio il risultato è già davanti ai nostri occhi: anche la Francia è “contagiata” dal virus della speculazione e presto sarà il turno della Germania. E ciò accade proprio perché – attraverso l’Efsf – gli Stati “virtuosi” si sono di fatto resi garanti dei debiti degli Stati “viziosi”.

La Bce ha in realtà comprato – e continua a comprare – titoli emessi dagli Stati in difficoltà. Ma questo viene fatto solo per tamponare le più consistenti falle del sistema, non per dare un segnale definitivo agli speculatori. Anzi, appaiono evidenti sia la riluttanza della Bce a usare quest’arma finanziaria, sia la non nascosta aspettativa di rinunciarvi al più presto. (E qualcuno ricorderà che addirittura alcuni consiglieri della Bce si dimisero per esprimere il loro dissenso all’acquisto di titoli greci). E ciò equivale – sottolinea Auerbach – a trasformare un potenziale bazooka in una cerbottana; o peggio, ad armare il bazooka per rivolgerlo contro se stessi.

Se anche la finanza cinese scricchiola

di Vincenzo Comito. Fonte: sbilanciamoci
Mentre l’Occidente è in grave crisi, il sistema finanziario cinese è sotto stress, l’economia frena e l’Fmi propone di ridurre il controllo statale sull'economia
Premessa
Mentre il mondo occidentale è toccato da una crisi molto grave, che riguarda sia gli aspetti finanziari che quelli reali dell’economia, una parte consistente dei paesi emergenti, con in testa i cosiddetti Bric, è riuscita sino a oggi a stare abbastanza lontana dalle difficoltà. Tuttavia, in questo momento il riflesso dei problemi dei paesi ricchi e una serie di questioni interne stanno provocando qualche difficoltà anche per i paesi emergenti. Così il Brasile registra un rallentamento del Pil, forse temporaneo, ma comunque abbastanza vistoso, mentre la Russia è alle prese con dei rilevanti problemi politici e con l’incapacità di sviluppare un sistema industriale moderno – i due fenomeni sembrano tra loro collegati –, mentre l’India mostra crescenti tensioni provocate, da una parte, dall’inefficienza della sua classe politica e di governo e, dall’altra, dall’emergere del fenomeno di una vistosa corruzione dei suoi apparati pubblici: anche in India l’economia rallenta e il sogno di superare i ritmi di sviluppo cinesi sembra debba essere accantonato, almeno per il momento. La Cina, infine, che, come al solito, presenta comunque dei risultati migliori di quelli degli altri tre paesi citati, deve confrontarsi con questioni abbastanza complesse. Uno dei nuclei centrali di tali problemi ruota intorno alla situazione e alle prospettive del suo sistema finanziario.

Il sistema finanziario ombra e la sua dinamica

Per cominciare a concentrare l’attenzione sulle difficoltà attuali del sistema finanziario cinese vogliamo analizzare la questione della crescita recente del sistema finanziario ombra nel paese. Il fenomeno dei sistemi finanziari “nascosti” o comunque lontani da quelli ufficiali non tocca oggi soltanto la Cina o i paesi del Terzo Mondo, ma riguarda anche quelli più sviluppati, dalla Gran Bretagna, con la sua rete di prestatori del giorno di paga – payday moneylenders, che anticipano per un breve periodo piccole somme in contanti a chi non riesce ad arrivare al giorno dell’incasso del salario o dello stipendio, esigendo un tasso di interesse che supera, in certi casi, il 4.000% annuo –, al fenomeno giapponese dei sarakin, istituti criminali che negli anni novanta prestavano denaro alle piccole imprese giapponesi in crisi, facendo intervenire come esattori le bande del crimine organizzato. Ma esso assume caratteri particolari, come al solito, nel paese asiatico. Il sistema non ufficiale è composto di trust companies, banche private, pescecani della finanza, privati cittadini. Mentre le trust companies, che costituiscono comunque la parte più importante di tale sistema ombra, sono imprese regolarmente registrate e con un’organizzazione nota, il fenomeno assume anche forme nascoste. Tanto che non ci sono stime realistiche sull’estensione del problema. Quelle della Banca Centrale cinese parlano di oltre 600 miliardi di dollari, pari all’8% dell’ammontare dei prestiti ufficiali all’economia nazionale. Ma i numeri veri dovrebbero essere molto più elevati. China Confidential (Kynge, 2011) valuta che il sistema finanziario ombra fornisca persino più credito all’economia di quanto riesca a fare il sistema bancario ufficiale, mentre le stesse banche hanno cominciato a prestare soldi alla rete informale per ottenere maggiori rendimenti dai loro capitali.

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