di DUCCIO BASOSI. Fonte: democraziakmzero
“Lottavano così come si gioca (…) / loro avevano il tempo anche per la galera / ad aspettarli fuori rimaneva / la stessa rabbia la stessa primavera…”
Sono le parole di Fabrizio De André a risuonarmi in testa mentre osservo, partecipe, l’esito della bellissima manifestazione di Occupy Wall Street a New York, il 17 dicembre: decine di manifestanti, in favore di telecamera, oltrepassano la rete che delimita uno spazio privato di proprietà della Trinity Church, nel centro di Manhattan; la polizia interviene e li arresta a decine (il New York Times parla di 50 arresti); loro si fanno ammanettare e in fila ordinata, sotto lo sguardo vigile di decine di agenti e di centinaia di mediattivisti, si dirigono verso i cellulari della NYPD che li portano via. Tutto intorno, centinaia di manifestanti scandiscono gli slogan “you beat us, we multiply, Occupy will never die” e “we are unstoppable, another world is possible” (tutti e due hanno un ritmo sincopato, diverso da quello quadrato degli slogan italiani, e quasi musicale).
Nella città da cui tutto il movimento è partito, gli occupanti hanno deciso di festeggiare a loro modo i tre mesi dall’inizio della protesta: occupando! L’iniziativa Occupy 2.0 inizia nel primo pomeriggio, con un presidio tra la Sesta strada e Canal Street. Si tratta di uscire dal ghetto, ormai isolato e circondato, di Zuccotti Park. Nelle radio di movimento, Lou Reed e altri artisti si esibiscono a sostegno della manifestazione. Nonostante la temperatura prossima allo zero, a metà pomeriggio ci sono almeno tremila persone pronte a partire per il corteo, che qui chiamano “parade”.
L’atteggiamento è dialogante, anche con i poliziotti, invitati ripetutamente a unirsi ai manifestanti, anche con domande provocatorie (tipo: “Come garantirete un’istruzione ai vostri figli”?). Rumoroso e creativo, il corteo percorre vari isolati ingrossandosi via via, segno che le parole d’ordine del movimento continuano a esercitare una presa indiscutibile in vasti strati della popolazione statunitense. Per la maggior parte del percorso il corteo sfila sui larghi marciapiedi di Manhattan (occupare la carreggiata senza permesso farebbe scattare arresti di massa, come già è accaduto alcune settimane fa durante una manifestazione sul ponte di Brooklyn). Poi, quando la testa del corteo giunge vicino al terreno abbandonato della Trinity Church, alcune scale di legno sbucano per magia da sotto gli striscioni che le nascondevano e decine di manifestanti si riversano al di là della rete. Poi gli arresti.
Gli occupanti newyorchesi sono di tutti i colori, anche se in prevalenza bianchi. Ci sono molti studenti, ma anche le “nonne per la democrazia”. Anche se l’idea stessa di lanciare Occupy 2.0 implica che il movimento riconosce di trovarsi davanti al rischio concreto di spegnersi, il clima in piazza è di un entusiasmo contagioso. Ci sono artisti, performance teatrali e musicisti. Ci sono le bandiere nere degli anarchici e i militanti di Socialist Worker, ma per il resto ognuno sembra avere un cartello scritto in proprio. C’è chi distribuisce gratuitamente un giornale di otto pagine di pregevole fattura: “The Occupy Wall Street Journal”.
Le parole d’ordine sono chiare: “liberiamo i beni comuni”; “no alla guerra, tassiamo i ricchi”; “noi siamo il 99%”. Allo stesso tempo, ogni manifestante sembra però avere la propria battaglia personale da condurre: c’è chi raccoglie le firme per la liberazione di Bradley Manning, il soldato accusato di aver passato a Wikileaks i file segreti del Dipartimento di Stato; c’è chi lotta contro il “fracking”, vale a dire il pompaggio di acqua a alta pressione nei pozzi petroliferi per ottimizzare l’estrazione del greggio; c’è chi denuncia l’approvazione da parte del Congresso di una clausola nel National Defense Authorization Act (NDAA) per il 2012 che sembra autorizzare la detenzione amministrativa senza limiti di tempo (e senza processo) per i sospettati di terrorismo.
In piazza (e tra gli arrestati) c’erano almeno tre tra preti e pastori protestanti (ma il terreno da occupare era, appunto, di una chiesa protestante, che si è opposta). Nel complesso, l’impressione è quella di trovarsi nel mezzo di un calderone tanto promettente quanto, potenzialmente, cacofonico.
I manifestanti citano spesso Thomas Jefferson (il più libertario tra gli estensori della Dichiarazione di Indipendenza del 1776) e denunciano il tradimento dei valori costituzionali originari (considerati inerentemente buoni) da parte delle élites corrotte. Si tratta di un discorso di indubbia presa negli Stati Uniti, se non altro perché parla direttamente all’idealismo con cui molti statunitensi vedono il proprio paese. Allo stesso tempo è difficile negare che, discutendo con gli occupanti, mi sembra che talvolta eccedano nelle semplificazioni.
Un elemento già registrato sulla costa pacifica, ma che nel contesto newyorchese si esprime al massimo grado, è la mediatizzazione della protesta. Ogni manifestante è anche un mediattivista: non è raro vedere due persone concedersi interviste a vicenda. Il sito web di riferimento qui è www.occupy.tv.
Alla domanda “cosa pensate di fare in futuro?”, non c’è nessuno che si senta di dare una risposta, né per l’immediato, né per i prossimi mesi. Alcuni ripetono che la prospettiva futura è lottare per la giustizia, altri rimandano tutto al momento assembleare, con un vero e proprio culto dell’intelligenza collettiva dell’assemblea. Allo stesso tempo, nel registrare per l’ennesima volta come sia radicata tra gli occupanti la cultura dell’orizzontalità, è difficile credere che le scale nascoste sotto gli striscioni siano sbucate per caso, sull’impeto del momento. Un occupante comunque si sbilancia e, dopo aver premesso che non parla per nessuno se non per se stesso, esprime la certezza che, passato l’inverno, ad aprile il movimento marcerà su Washington. Se sarà davvero così, sarà interessante capire come funzioneranno i meccanismi di coordinamento nazionali tra tante realtà locali così attaccate alle proprie procedure di democrazia diretta.
“Lottavano così come si gioca (…) / loro avevano il tempo anche per la galera / ad aspettarli fuori rimaneva / la stessa rabbia la stessa primavera…”
Sono le parole di Fabrizio De André a risuonarmi in testa mentre osservo, partecipe, l’esito della bellissima manifestazione di Occupy Wall Street a New York, il 17 dicembre: decine di manifestanti, in favore di telecamera, oltrepassano la rete che delimita uno spazio privato di proprietà della Trinity Church, nel centro di Manhattan; la polizia interviene e li arresta a decine (il New York Times parla di 50 arresti); loro si fanno ammanettare e in fila ordinata, sotto lo sguardo vigile di decine di agenti e di centinaia di mediattivisti, si dirigono verso i cellulari della NYPD che li portano via. Tutto intorno, centinaia di manifestanti scandiscono gli slogan “you beat us, we multiply, Occupy will never die” e “we are unstoppable, another world is possible” (tutti e due hanno un ritmo sincopato, diverso da quello quadrato degli slogan italiani, e quasi musicale).
Nella città da cui tutto il movimento è partito, gli occupanti hanno deciso di festeggiare a loro modo i tre mesi dall’inizio della protesta: occupando! L’iniziativa Occupy 2.0 inizia nel primo pomeriggio, con un presidio tra la Sesta strada e Canal Street. Si tratta di uscire dal ghetto, ormai isolato e circondato, di Zuccotti Park. Nelle radio di movimento, Lou Reed e altri artisti si esibiscono a sostegno della manifestazione. Nonostante la temperatura prossima allo zero, a metà pomeriggio ci sono almeno tremila persone pronte a partire per il corteo, che qui chiamano “parade”.
L’atteggiamento è dialogante, anche con i poliziotti, invitati ripetutamente a unirsi ai manifestanti, anche con domande provocatorie (tipo: “Come garantirete un’istruzione ai vostri figli”?). Rumoroso e creativo, il corteo percorre vari isolati ingrossandosi via via, segno che le parole d’ordine del movimento continuano a esercitare una presa indiscutibile in vasti strati della popolazione statunitense. Per la maggior parte del percorso il corteo sfila sui larghi marciapiedi di Manhattan (occupare la carreggiata senza permesso farebbe scattare arresti di massa, come già è accaduto alcune settimane fa durante una manifestazione sul ponte di Brooklyn). Poi, quando la testa del corteo giunge vicino al terreno abbandonato della Trinity Church, alcune scale di legno sbucano per magia da sotto gli striscioni che le nascondevano e decine di manifestanti si riversano al di là della rete. Poi gli arresti.
Gli occupanti newyorchesi sono di tutti i colori, anche se in prevalenza bianchi. Ci sono molti studenti, ma anche le “nonne per la democrazia”. Anche se l’idea stessa di lanciare Occupy 2.0 implica che il movimento riconosce di trovarsi davanti al rischio concreto di spegnersi, il clima in piazza è di un entusiasmo contagioso. Ci sono artisti, performance teatrali e musicisti. Ci sono le bandiere nere degli anarchici e i militanti di Socialist Worker, ma per il resto ognuno sembra avere un cartello scritto in proprio. C’è chi distribuisce gratuitamente un giornale di otto pagine di pregevole fattura: “The Occupy Wall Street Journal”.
Le parole d’ordine sono chiare: “liberiamo i beni comuni”; “no alla guerra, tassiamo i ricchi”; “noi siamo il 99%”. Allo stesso tempo, ogni manifestante sembra però avere la propria battaglia personale da condurre: c’è chi raccoglie le firme per la liberazione di Bradley Manning, il soldato accusato di aver passato a Wikileaks i file segreti del Dipartimento di Stato; c’è chi lotta contro il “fracking”, vale a dire il pompaggio di acqua a alta pressione nei pozzi petroliferi per ottimizzare l’estrazione del greggio; c’è chi denuncia l’approvazione da parte del Congresso di una clausola nel National Defense Authorization Act (NDAA) per il 2012 che sembra autorizzare la detenzione amministrativa senza limiti di tempo (e senza processo) per i sospettati di terrorismo.
In piazza (e tra gli arrestati) c’erano almeno tre tra preti e pastori protestanti (ma il terreno da occupare era, appunto, di una chiesa protestante, che si è opposta). Nel complesso, l’impressione è quella di trovarsi nel mezzo di un calderone tanto promettente quanto, potenzialmente, cacofonico.
I manifestanti citano spesso Thomas Jefferson (il più libertario tra gli estensori della Dichiarazione di Indipendenza del 1776) e denunciano il tradimento dei valori costituzionali originari (considerati inerentemente buoni) da parte delle élites corrotte. Si tratta di un discorso di indubbia presa negli Stati Uniti, se non altro perché parla direttamente all’idealismo con cui molti statunitensi vedono il proprio paese. Allo stesso tempo è difficile negare che, discutendo con gli occupanti, mi sembra che talvolta eccedano nelle semplificazioni.
Un elemento già registrato sulla costa pacifica, ma che nel contesto newyorchese si esprime al massimo grado, è la mediatizzazione della protesta. Ogni manifestante è anche un mediattivista: non è raro vedere due persone concedersi interviste a vicenda. Il sito web di riferimento qui è www.occupy.tv.
Alla domanda “cosa pensate di fare in futuro?”, non c’è nessuno che si senta di dare una risposta, né per l’immediato, né per i prossimi mesi. Alcuni ripetono che la prospettiva futura è lottare per la giustizia, altri rimandano tutto al momento assembleare, con un vero e proprio culto dell’intelligenza collettiva dell’assemblea. Allo stesso tempo, nel registrare per l’ennesima volta come sia radicata tra gli occupanti la cultura dell’orizzontalità, è difficile credere che le scale nascoste sotto gli striscioni siano sbucate per caso, sull’impeto del momento. Un occupante comunque si sbilancia e, dopo aver premesso che non parla per nessuno se non per se stesso, esprime la certezza che, passato l’inverno, ad aprile il movimento marcerà su Washington. Se sarà davvero così, sarà interessante capire come funzioneranno i meccanismi di coordinamento nazionali tra tante realtà locali così attaccate alle proprie procedure di democrazia diretta.
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