Fonte: controlacrisi
Per gentile concessione delle Edizioni Alegre proponiamo la postfazione di Salvatore Cannavò al volume "Debitocrazia" di Damien Millet e Eric Toussaint, in questi giorni in libreria.
di Salvatore Cannavò
Il libro curato da Toussaint e Millet è stato scritto in larga parte nel 2010 e non tiene conto, quindi, del caso italiano. Ma già dalla scorsa estate, e anche prima, gli esperti del Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo fondato in Belgio all’inizio degli anni Novanta, hanno messo l’Italia sotto osservazione perché, scorrendo gli esempi più eclatanti riportati nel volume e la dinamica che sottende alla formazione del debito pubblico, anche il nostro paese rientra nell’elenco di quei casi in cui si può fare appello all’annullamento del debito illegittimo o illecito. La formazione del debito pubblico italiano, infatti, è una cronistoria del paese e evidenzia i meccanismi di un funzionamento specifico del capitalismo in cui i benefici fiscali per le grandi imprese e i più ricchi si sposano all’utilizzo della macchina pubblica per una gestione centralizzata e classista della spesa sociale.
Se si guardano i presidenti del Consiglio degli anni di maggior picco del debito i responsabili della situazione hanno il nome e cognome degli uomini della nomenklatura democristiana, e poi socialista, che ha retto il paese per circa cinquant’anni: Arnaldo Forlani, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita, Giulio Andreotti, Giuliano Amato e poi, dal 1994, anno di fondazione della Seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Lamberto Dini. Con l’avvento del nuovo centrosinistra la dinamica del debito è stata invertita, sia nel primo (1996-1998) che nel secondo (2006-2008) governo Prodi. Ma tra il 1994 e il 2010, centrosinistra e centrodestra hanno governato 8 anni per uno: Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi, ancora Prodi, ancora Berlusconi. Le cose non sono cambiate di molto.
Il debito in Italia
In realtà, la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi dieci-quindici anni che hanno visto l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private.
Se nel dopoguerra il rapporto tra debito e Pil si colloca al 45 per cento e scende fino al 33 del 1964 (effetto del boom economico), la crisi del centrosinistra e i primi segnali di rallentamento del boom, producono un rialzo rapido che porta il debito al 55 per cento del 1973 anno della crisi petrolifera. La crisi non produce rialzi consistenti anche per effetto dell'inflazione: si sale al 63 per cento nel '78 per ridiscendere al 59 del 1980. E qui cominciano i guai. La sequenza è così impressionante che vale la pena riportarla in dettaglio: nel 1980 il rapporto è del 59 per cento; nell'81 del 61; nell'82 del 66, nel 1983 del 71; poi ancora, 77 nel 1984, 84 nel 1985, 88 nell'86, 92 nel 1987, 94 nell'88, 98 nell'89, 100 per cento nel '90, 104 nel '91 e 111 nel '92. Poi salirà ancora, fino al 124 per cento del 1995. Sarà il governo Prodi, e poi gli altri governi del centrosinistra, a riportarlo al 109 per cento nel 2001. Poi, nel corso degli ultimi dieci anni, tranne la parentesi rigorista del governo Prodi, il debito torna di nuovo ad aumentare fino a superare di nuovo il 120 per cento nel 2011, l’anno della crisi.
La galleria fotografica degli uomini della cosiddetta Prima Repubblica supporta l’interpretazione dominante secondo la quale il debito è il frutto di una scellerata politica clientelare e truffaldina propria del “regime” democristiano. Non c’è dubbio che un clientelismo dissennato in Italia sia stato parte integrante dell’anomalo sviluppo del paese e cemento di una maggioranza politica che ha retto dal 1948 al 1992. Essenziale anche per contenere una situazione nazionale che altrimenti rischiava di esplodere. Il debito si impenna alla fine degli anni Settanta, quelli del movimento operaio incandescente ma anche dell’esplosione della crisi economica scatenata dal crack del 1973. La miscela può essere davvero pericolosa. La dilatazione della spesa pubblica è così il modo originale dei governi Dc e Psi di contrastare l’influenza del partito comunista isolandolo socialmente all’interno di un corpo sociale che viene nutrito, principalmente nel Mezzogiorno, da una spesa pubblica fuori controllo.
Ma a pesare di più è altro. Il rapporto tra debito pubblico e spesa sociale e/o pubblica non è così immediato. La spesa sociale in rapporto al Pil aumenta in linea con le entrate fiscali tra il 1980 e il 1990 e poi addirittura si riduce. Se nel 1960 la spesa per sanità era il 10,5 del Pil nel 1994 sale al 10,7, cioè resta ferma. La spesa per l’istruzione scende dal 10,9 al 9 per cento mentre la famigerata spesa pensionistica passa dal 32,9 per cento del 1960 al 33,6 per cento del ’94. Dal 1994, la politica economica italiana è improntata al massimo rigore a riforme previdenziali continue e a una compressione dello stato sociale sintetizzato dalle varie manovre economiche che si sono succedute dal 1992 a oggi: facendo la somma dalla manovra varata dal governo Amato del 1992, la “manovra-monstre” da 90 mila miliardi di lire fino alle ultime misure prese dal governo Berlusconi nel 2011, si supera la soglia dei 500 (cinquecento) miliardi di euro. Una gigantesca redistribuzione del reddito all’inverso.
Neoliberismo in soccorso alle imprese
In compenso la spesa per interessi non cessa di aumentare costituendo la vera palla al piede dell’economia italiana. La prolungata fase di tassi alti, voluti dagli Usa alla fine degli anni Settanta, impone anche all’Italia un “costo del debito” che alla lunga diventa insopportabile.
C’è poi un dato troppo spesso ignorato. Le difficoltà evidenti dell’economia internazionale che durano ormai da decenni – e che i boom momentanei, come quello tecnologico di inizio anni 2000 o quello immobiliare della metà dello stesso decennio non riescono a nascondere – sono state affrontate da uno Stato che si è posto decisamente al servizio dell’impresa tramite la riduzione delle tasse e l’aumento del sostegno pubblico. Una miriade di finanziamenti a pioggia, di incentivi, defiscalizzazioni è stato messo in piedi in un ginepraio di intrecci e conflitti di interesse difficile da definire con precisione.
Una stima degli aiuti pubblici alle imprese, spesso a fondo perduto e senza risultati economici apprezzabili, anzi in buona parte provocando ulteriori disastri, ha cercato di farla Marco Cobianchi autore del saggio Mani bucate (Chiarelettere, 2011): «Due voci indicano i fondi usciti dalle casse pubbliche e finiti in quelle delle aziende: “contributi in conto corrente” e “contributi in conto capitale”. Nel bilancio 2010 la somma delle due voci fa 40 miliardi di euro. Questa cifra però comprende anche le risorse destinate agli investimenti per le imprese pubbliche come Ferrovie dello Stato, Anas e aziende del trasporto locale, alle quali arrivano ogni anni circa 15 miliardi, per cui il totale dei soldi pubblici al privato si riduce a 25 miliardi». La cifra è stimata per difetto perché, si legge ancora nel volume, ci sono gli interventi «a sostegno delle imprese che producono energia verde, circa 3,5 miliardi» e se si sommassero anche gli sconti fiscali concessi in continuazione «non si dovrebbe arrivare molto lontani dalla spaventosa cifra di 30 miliardi di euro: più di due terzi del disavanzo pubblico da recuperare entro il 2013, poco meno della metà di quanto lo Stato paga di interessi sul proprio debito in un anno». Come si vede, è un’analisi impietosa e supportata da dati che, se proiettati nell’arco di decenni, consentono di mettere nella giusta prospettiva il dato del debito pubblico e la gestione del bilancio statale. Altro che spesa per le pensioni o per lo stato sociale.
Accanto agli incentivi c’è poi la politica fiscale. Anche qui, la vulgata prevalente dice che in Italia la pressione fiscale è tra le più alte d’Europa, la Banca d’Italia ha recentemente messo l’allarme sulle prospettive dei prossimi anni, quando la pressione fiscale complessiva dovrà superare la soglia record del 44 per cento. In realtà, secondo i dati Eurostat, dal 2000 al 2010 la pressione fiscale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento. Se la pressione complessiva in Italia è rimasta più o meno stabile, riducendosi solo dello 0,3 per cento in dieci anni – e, comunque, destinata ad aumentare per effetto delle manovre economiche dell’ultimo governo Berlusconi – quella sui redditi delle società è passata dal 41,3 per cento al 31,4 con una riduzione del 9,9 per cento.
Paga il lavoro
Con queste premesse qual è la principale fonte delle entrate fiscali in Europa? La risposta è facile, il lavoro. Se la media di imposizione fiscale sul lavoro nella Ue a 27 è del 32,9 per cento, la media dell’imposizione fiscale sul capitale è del 24,7 per cento (dati Eurostat riferiti al 2009).
Va detto però che la riduzione del peso fiscale in Italia passa soprattutto tramite un’altra voce, l’evasione fiscale. Anche qui, le stime sono generiche: 120, 160 forse 200 miliardi di euro all’anno non versati regolarmente nelle casse dello Stato. Riuscire a recuperare anche solo un terzo di quelle cifre, basterebbe per avere conti pubblici in ordine, migliorare i dati di bilancio, ridurre il debito, migliorare le spese sociali, la sanità, l’istruzione, proteggere le pensioni. Se la stima dell’evasione è incerta e ambigua, certa e misurabile è invece l’analisi delle tasse realmente versate. Secondo le tabelle pubblicate dal Bruno Tinti nel suo saggio “Un programma contro l’evasione fiscale” pubblicato dalla rivista Micromega , l’88 per cento dei contribuenti italiani, pari a 36.163.280 persone è composto da lavoratori dipendenti (20.970.919) e pensionati (15.292.361) mentre gli “Altri” rappresentano il 12 per cento (5.359.777). Gli “altri”, scrive Tinti, «non possono essere che lavoratori autonomi, imprenditori, professionisti, artigiani, commercianti». Il gettito fiscale prodotto dalla prima fascia, lavoratori e pensionati, è pari al 93 per cento mentre gli “altri” pagano solo il 7 per cento delle entrate da imposte sulle persone fisiche.
Il prospetto pubblicato dal Ministero dell’economia e delle finanze per le imposte 2010 aiuta a capire meglio il problema. Nell’anno 2010 le entrate tributarie del bilancio dello Stato sono state pari a 406.671 milioni di euro, in flessione di 2,5 miliardi rispetto al 2009. Ma chi ha pesato su questa riduzione? Le entrate provenienti dall’Imposta sul reddito (Ire) sono aumentate di quasi 7 miliardi mentre quelle provenienti dall’imposta sulle società (Ires) si sono ridotte anche se “solo” di 167 milioni. Ma a pesare è stata anche la riduzione drastica dell’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi da capitale (-6 miliardi) e al venir meno delle entrate una tantum per il riallineamento dei valori contabili per l’adozione Ias che ha inciso per 4,4 miliardi. Insomma, la rendita da un lato e la ristrutturazione dei principi contabili dei bilanci aziendali hanno prodotto un ammanco di circa 10,5 miliardi di euro.
Un gigantesco trasferimento di risorse verso i redditi più alti, i profitti e la rendita, spiega dunque gran parte del problema.
Una controprova è data dall’andamento dei salari. Propagandando la necessità di garantire i profitti per aumentare gli investimenti, e quindi l’occupazione, le politiche neoliberiste, che hanno dilatato il debito, hanno prodotto una riduzione drammatica dei salari, dello Stato sociale e una generalizzazione delle privatizzazioni. Secondo l’Ires-Cgil, in dieci anni, dal 2000 al 2010, i salari hanno perso circa 5.500 euro del loro potere di acquisto mentre i profitti netti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) dal 1995 al 2008 sono cresciuti di circa il 75,4% e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87%. Gli effetti della gestione del debito pubblico si condensano in queste cifre. Non solo, sempre secondo la ricerca della Cgil l’andamento degli investimenti in rapporto ai profitti, negli ultimi trent’anni, è calato del 38,7%. I profitti, cioè, non sono stati reinvestiti nella crescita economica ma nella rendita finanziaria che ha garantito ulteriori profitti grazie agli interessi dei debiti pubblici, agli interessi dei debiti privati dei lavoratori – cresciuti per effetto della riduzione dei salari - alle speculazioni monetarie e dei prodotti derivati, trasformando la finanza globale in un Casinò. Quando il gioco è finito, quando i debiti sono divenuti troppo alti è sopraggiunta la crisi. Ma con la nazionalizzazione delle perdite prodotte dai grandi istituti finanziari il debito privato è stato trasportato nel debito pubblico facendolo pagare a tutti.
Anche qui, la controprova è data dai numeri. Dividendo i 1.911 miliardi di euro di debito pubblico italiano (al 31 luglio 2011) per i 60 milioni di cittadini ne deriva un debito personale per ognuno, ognuna di noi di 31.863 euro. Ma chi possiede il credito? I piccoli risparmiatori, lavoratori, artigiani, piccole imprese? No. Secondo i dati della Banca d’Italia solo il 13 per cento del debito italiano è posseduto da privati residenti in Italia, il 26,8 per cento è nelle mani di “istituzioni finanziarie monetarie” (banche, fondi comuni), il 13,5 per cento da assicurazioni e fondi pensione, il 3,65 per cento direttamente dalla Banca d’Italia e il 43 per cento è nelle mani di soggetti non residenti, cioè all’estero, presumibilmente grandi istituzioni finanziarie (dati 2009).
Il peso del debito è utilizzato per giustificare politiche di austerità uguali in tutto il mondo: riduzione delle spese sociali, riduzione del sistema pensionistico, congelamento o riduzione degli stipendi pubblici, aumento della flessibilità del lavoro, privatizzazione di settori vitali come l’acqua, l’energia, i trasporti, la salute e la scuola, riduzione delle sovvenzioni ai ceti più disagiati, giro di vite su stipendi e salari. Lo spostamento di risorse nel bilancio pubblico dai servizi sociali al pagamento di interessi sul debito è brillantemente illustrato dall’ultima nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza per il 2011: la spesa per interessi di 70,4 miliardi del 2009 è destinata a salire a 94,3 miliardi nel 2014 e la sua incidenza sugli stipendi dei dipendenti pubblici passerà dal 58 al 78 per cento, quella sulle pensioni dal 30 al 35 per cento mentre l’incidenza sulla spesa sanitaria passa dal 63,7 per cento del 2009 al 77,6 per cento del 2014.
È giusto chiedere l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività.
Congelare e rivoltare il debito
Come è giusto contestare la legittimità di un debito contratto per applicare politiche sociali ingiuste, in violazione dei diritti economici, sociali, culturali e civili dei popoli. Nei paesi europei la scelta di indebitarsi per favorire le classi più agiate e il capitalismo più sfrenato è del tutto evidente: salvataggio delle banche e riduzione delle aliquote per i più ricchi e, per quanto riguarda l’Italia, il vero e proprio favoreggiamento di un’evasione fiscale che ingrassa i profitti delle grandi imprese e i redditi più alti.
Anche guardando al diritto internazionale non esiste l’obbligo assoluto di rimborsare i debiti: per gli Stati viene prima l’obbligo di proteggere i diritti umani e i diritti economici, sociali e culturali delle loro popolazioni. Si guardi l’articolo 103 della Carta dell’Onu, in cui si prescrive la superiorità dello Statuto delle Nazioni Unite, quando ad esempio impone «l’elevamento dei livelli di vita», il «pieno impiego» o «lo sviluppo dell’ordine economico e sociale», su tutti gli altri obblighi contratti dagli Stati. Analoghi esempi possono essere fatti per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948, articolo 28), i Patti sui diritti economici, sociali e culturali (1966, articolo 1), la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo (1986, articolo 2).
Questo fondamento giuridico è riscontrabile in diversi testi internazionali come è stato riportato precedentemente nel volume. Tra le cause illecite o immorali che generano l’illegalità di un debito possiamo trovare: l’acquisto di materiale militare sulla base dell’articolo 26 della Carta dell’Onu; i debiti contratti per applicare piani di aggiustamento strutturale (vedi Convenzione di Vienna del 1983); debiti contratti senza che i popoli ne siano a conoscenza e altri casi ancora. Si tratta di debiti “odiosi” perché finalizzati a misure non conformi al diritto internazionale, alla protezione dei diritti umani, sociali, economici e culturali. Sono illegittimi anche i debiti privati trasformati in debiti pubblici.
In questo senso non si può non essere d’accordo con la proposta avanzata dal Cadtm e che in Italia è stata già ripresa in ambiti tra loro diversi. La sospensione unilaterale del rimborso del debito per dare vita a un audit pubblico (una verifica dei conti) sotto controllo dei cittadini al fine di determinare quali debiti devono essere annullati o ripudiati o rinegoziati a causa della loro illegittimità, illegalità o per il loro carattere odioso.
Si tratta del primo passo necessario a costituire un rapporto di forza adeguato per raffreddare la stessa tensione finanziaria. Ottenuta la moratoria bisognerebbe realizzare l’audit, fondamentale per radiografare il debito e per il quale è essenziale la partecipazione di cittadini e cittadine, dei movimenti, delle associazioni, dei sindacati. I quali possono designare un proprio rappresentante nella Commissione di audit che deve insediarsi.
Ovviamente, un simile obiettivo richiede una forte mobilitazione sociale perché non esiste, oggi, un governo in grado di accettare una simile proposta. Allo stesso tempo, questa proposta può aiutare a selezionare un governo possibile del paese: chi davvero abbia a cuore il futuro della popolazione, dei lavoratori e delle lavoratrici, dei giovani e dei pensionati, dei vari strati sociali colpiti dalla crisi non dovrebbe che sposare una simile tesi e voltare le spalle agli interessi delle grandi banche e delle società finanziarie.
Chi paga?
Una volta selezionato il debito illegittimo o illecito, la sua quota deve essere addebitata a quelle istituzioni finanziarie e a quei soggetti dai redditi più elevati che hanno una responsabilità diretta nello scoppio della crisi. Annullare un debito il cui costo, altrimenti, sarebbe scaricato sui più poveri, sul lavoro dipendente, sui precari e gli studenti, costituisce un primo passo per ristabilire una giustizia sociale. Occorre poi definire un elenco preciso dei detentori di titoli per tutelare coloro che hanno un piccolo reddito e per i quali i titoli oggetto del debito rappresentano il risparmio di una vita (come si è già visto, si tratta di una decisa minoranza). Va anche detto che coloro che dovessero emergere dall’audit come responsabili di illeciti legati al debito dovrebbero essere puniti e costretti a delle riparazioni finanziarie. La moratoria unilaterale serve anche a rinegoziare tassi di interesse e tempi di rimborso per il debito considerato legittimo o legale considerando che la quota parte del bilancio statale consacrato a tale voce non può inficiare la soddisfazione dei bisogni fondamentali della popolazione: sanità, educazione, stato sociale, stipendi. Se, ad esempio, si stabilisse che il costo del rimborso non può superare il 5 per cento delle entrate, come propone il Cadtm, si tratterebbe di un dimezzamento del costo rispetto alla situazione attuale: a fine 2010, infatti, quel rapporto era del 9,7 per cento.
Le obiezioni da sinistra
Tra le obiezioni fondamentali al non pagamento del debito, ovvero alla moratoria e al congelamento degli interessi, vi sono quelle che provengono dal mondo delle banche, del grande capitalismo e della finanza e che, ovviamente, si dicono contrarie alla proposta perché vi vedono minacciati i propri interessi. Ve ne sono però anche altre che provengono da sinistra. Ne utilizziamo tre:
1) Il “default” sarebbe pagato dalla popolazione e da lavoratori e pensionati . Il problema sarebbe però ovviato da un atto, sovrano, di moratoria – e non di fallimento, “default” – da cui sarebbero esplicitamente esclusi quei settori da proteggere proprio in virtù degli interessi della collettività. Ad esempio i risparmi dei lavoratori, dei pensionati e di tutti coloro che, con un reddito da lavoro dipendente, hanno sempre pagato le imposte dovute.
2) Dopo la moratoria uno Stato farebbe una fatica immensa a finanziarsi di nuovo sui mercati interni e internazionali : nessuno gli farebbe più credito. I casi di Argentina o Ecuador mostrano il contrario, dipende dalle situazioni. In ogni caso, per l’Italia, si tratta di riequilibrare il ricorso al prestito “interno”. Di fronte a un debito di 1.763.8 miliardi di euro la ricchezza netta in Italia (al netto dei debiti privati) nel 2009 ammontava a 8.600 miliardi (9.448 miliardi, quella lorda, di cui 4.800 miliardi in ricchezza immobiliare). Della ricchezza lorda il 37.7 per cento è ricchezza finanziaria pari a 3.561 miliardi, più del doppio del debito così composta: il 29,8 per cento in biglietti, monete, depositi bancari e risparmio postale; il 44,2 per cento in obbligazioni private, titoli esteri, azioni, partecipazioni e fondi comuni; il 17,7 per cento in riserve tecniche di assicurazione; il 3 per cento in crediti commerciali e solo il 5,5 per cento in titoli di Stato. Quasi mille miliardi, invece, è detenuta in forme liquide. Basterebbe incentivare questa massa monetaria per riequilibrare eventuali scompensi.
3) Un default significa uscire dall’euro e scontrarsi con una forte svalutazione con il crollo del potere di acquisto dei salari . L’andamento dei salari degli ultimi dieci anni, quelli in cui è vigore l’euro, non autorizza a parlare di mantenimento del potere di acquisto. L’Europa può imboccare una strada diversa, quella dell’Europa Sociale che rifiuti la dittatura delle banche. In alternativa l’uscita dall’Euro non avrebbe conseguenze peggiori di rimanerci a queste condizioni.
Oltre il debito
La ristrutturazione del debito è una operazione che per risultare efficace non può essere realizzata nel vuoto ma presuppone un programma più ampio. Si tratta, infatti, di accompagnare questa operazione con una politica che aumenti i salari, riduca la precarietà, ristabilisca i diritti sociali e li estenda, ad esempio ai migranti, salvaguardi i beni comuni.
Serve un processo di nazionalizzazione di banche e assicurazioni, a cui il grande capitale ha fatto ricorso solo per salvare i propri interessi e che invece serve per gestire diversamente il debito e garantirsi dalla speculazione finanziaria.
Serve una riforma fiscale che finalmente aggredisca l’evasione fiscale – in larga parte appannaggio delle grandi imprese come dimostrano scatole cinesi finanziarie e largo utilizzo dei commercialisti alla Tremonti – e che faccia pagare di più i redditi alti e di meno, molto di meno, chi riesce appena a sopravvivere. Una riforma fiscale fortemente progressiva, con poche e chiarissime agevolazioni fiscali per il lavoro dipendente, in grado di cumulare la tassazione dei grandi redditi con la proprietà e quindi il patrimonio, la rendita, la speculazione. Una vera Patrimoniale per ridistribuire radicalmente le risorse.
Occorre rimettere in discussione questa Europa, compresa la moneta unica, per realizzare un’Unione davvero democratica e fondata sul consenso e la partecipazione dei popoli. A partire dalla petizione popolare per chiedere un referendum sull’Europa.
Bisogna ridurre drasticamente le spese militari, tramite riduzione delle missioni all’estero e abbattimento della spesa per armamenti da trasformare in spesa per le infrastrutture ecologiche e il risanamento dei territori.
Dobbiamo rimettere al centro dell’economia la variabile indipendente, il vincolo insuperabile, del lavoro e della sua dignità, dei diritti, dell’estensione delle garanzie sociali: salario minimo garantito, reddito sociale, riduzione dell’orario di lavoro, diritto al lavoro contro la precarietà dilagante.
Occorre affrontare con decisione il tema della sostenibilità ambientale dello sviluppo economico con la difesa ecologica dei territori dagli sventramenti prodotti dal profitto e dagli interessi delle grandi imprese multinazionali.
E tutto questo ha un senso se si garantisce una nuova partecipazione popolare con forme di democrazia diretta e di autogoverno a tutti i livelli. Questi Parlamenti e i loro governi hanno concluso il loro tempo, serve una rivoluzione delle forme della partecipazione e della gestione del potere: referendum su tutti i dossier cruciali, organi di partecipazione diretta, autogestione e gestione razionale e democratica dell’economia attraverso nuove istituzioni democratiche e dal basso
Per gentile concessione delle Edizioni Alegre proponiamo la postfazione di Salvatore Cannavò al volume "Debitocrazia" di Damien Millet e Eric Toussaint, in questi giorni in libreria.
di Salvatore Cannavò
Il libro curato da Toussaint e Millet è stato scritto in larga parte nel 2010 e non tiene conto, quindi, del caso italiano. Ma già dalla scorsa estate, e anche prima, gli esperti del Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo fondato in Belgio all’inizio degli anni Novanta, hanno messo l’Italia sotto osservazione perché, scorrendo gli esempi più eclatanti riportati nel volume e la dinamica che sottende alla formazione del debito pubblico, anche il nostro paese rientra nell’elenco di quei casi in cui si può fare appello all’annullamento del debito illegittimo o illecito. La formazione del debito pubblico italiano, infatti, è una cronistoria del paese e evidenzia i meccanismi di un funzionamento specifico del capitalismo in cui i benefici fiscali per le grandi imprese e i più ricchi si sposano all’utilizzo della macchina pubblica per una gestione centralizzata e classista della spesa sociale.
Se si guardano i presidenti del Consiglio degli anni di maggior picco del debito i responsabili della situazione hanno il nome e cognome degli uomini della nomenklatura democristiana, e poi socialista, che ha retto il paese per circa cinquant’anni: Arnaldo Forlani, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita, Giulio Andreotti, Giuliano Amato e poi, dal 1994, anno di fondazione della Seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Lamberto Dini. Con l’avvento del nuovo centrosinistra la dinamica del debito è stata invertita, sia nel primo (1996-1998) che nel secondo (2006-2008) governo Prodi. Ma tra il 1994 e il 2010, centrosinistra e centrodestra hanno governato 8 anni per uno: Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi, ancora Prodi, ancora Berlusconi. Le cose non sono cambiate di molto.
Il debito in Italia
In realtà, la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi dieci-quindici anni che hanno visto l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private.
Se nel dopoguerra il rapporto tra debito e Pil si colloca al 45 per cento e scende fino al 33 del 1964 (effetto del boom economico), la crisi del centrosinistra e i primi segnali di rallentamento del boom, producono un rialzo rapido che porta il debito al 55 per cento del 1973 anno della crisi petrolifera. La crisi non produce rialzi consistenti anche per effetto dell'inflazione: si sale al 63 per cento nel '78 per ridiscendere al 59 del 1980. E qui cominciano i guai. La sequenza è così impressionante che vale la pena riportarla in dettaglio: nel 1980 il rapporto è del 59 per cento; nell'81 del 61; nell'82 del 66, nel 1983 del 71; poi ancora, 77 nel 1984, 84 nel 1985, 88 nell'86, 92 nel 1987, 94 nell'88, 98 nell'89, 100 per cento nel '90, 104 nel '91 e 111 nel '92. Poi salirà ancora, fino al 124 per cento del 1995. Sarà il governo Prodi, e poi gli altri governi del centrosinistra, a riportarlo al 109 per cento nel 2001. Poi, nel corso degli ultimi dieci anni, tranne la parentesi rigorista del governo Prodi, il debito torna di nuovo ad aumentare fino a superare di nuovo il 120 per cento nel 2011, l’anno della crisi.
La galleria fotografica degli uomini della cosiddetta Prima Repubblica supporta l’interpretazione dominante secondo la quale il debito è il frutto di una scellerata politica clientelare e truffaldina propria del “regime” democristiano. Non c’è dubbio che un clientelismo dissennato in Italia sia stato parte integrante dell’anomalo sviluppo del paese e cemento di una maggioranza politica che ha retto dal 1948 al 1992. Essenziale anche per contenere una situazione nazionale che altrimenti rischiava di esplodere. Il debito si impenna alla fine degli anni Settanta, quelli del movimento operaio incandescente ma anche dell’esplosione della crisi economica scatenata dal crack del 1973. La miscela può essere davvero pericolosa. La dilatazione della spesa pubblica è così il modo originale dei governi Dc e Psi di contrastare l’influenza del partito comunista isolandolo socialmente all’interno di un corpo sociale che viene nutrito, principalmente nel Mezzogiorno, da una spesa pubblica fuori controllo.
Ma a pesare di più è altro. Il rapporto tra debito pubblico e spesa sociale e/o pubblica non è così immediato. La spesa sociale in rapporto al Pil aumenta in linea con le entrate fiscali tra il 1980 e il 1990 e poi addirittura si riduce. Se nel 1960 la spesa per sanità era il 10,5 del Pil nel 1994 sale al 10,7, cioè resta ferma. La spesa per l’istruzione scende dal 10,9 al 9 per cento mentre la famigerata spesa pensionistica passa dal 32,9 per cento del 1960 al 33,6 per cento del ’94. Dal 1994, la politica economica italiana è improntata al massimo rigore a riforme previdenziali continue e a una compressione dello stato sociale sintetizzato dalle varie manovre economiche che si sono succedute dal 1992 a oggi: facendo la somma dalla manovra varata dal governo Amato del 1992, la “manovra-monstre” da 90 mila miliardi di lire fino alle ultime misure prese dal governo Berlusconi nel 2011, si supera la soglia dei 500 (cinquecento) miliardi di euro. Una gigantesca redistribuzione del reddito all’inverso.
Neoliberismo in soccorso alle imprese
In compenso la spesa per interessi non cessa di aumentare costituendo la vera palla al piede dell’economia italiana. La prolungata fase di tassi alti, voluti dagli Usa alla fine degli anni Settanta, impone anche all’Italia un “costo del debito” che alla lunga diventa insopportabile.
C’è poi un dato troppo spesso ignorato. Le difficoltà evidenti dell’economia internazionale che durano ormai da decenni – e che i boom momentanei, come quello tecnologico di inizio anni 2000 o quello immobiliare della metà dello stesso decennio non riescono a nascondere – sono state affrontate da uno Stato che si è posto decisamente al servizio dell’impresa tramite la riduzione delle tasse e l’aumento del sostegno pubblico. Una miriade di finanziamenti a pioggia, di incentivi, defiscalizzazioni è stato messo in piedi in un ginepraio di intrecci e conflitti di interesse difficile da definire con precisione.
Una stima degli aiuti pubblici alle imprese, spesso a fondo perduto e senza risultati economici apprezzabili, anzi in buona parte provocando ulteriori disastri, ha cercato di farla Marco Cobianchi autore del saggio Mani bucate (Chiarelettere, 2011): «Due voci indicano i fondi usciti dalle casse pubbliche e finiti in quelle delle aziende: “contributi in conto corrente” e “contributi in conto capitale”. Nel bilancio 2010 la somma delle due voci fa 40 miliardi di euro. Questa cifra però comprende anche le risorse destinate agli investimenti per le imprese pubbliche come Ferrovie dello Stato, Anas e aziende del trasporto locale, alle quali arrivano ogni anni circa 15 miliardi, per cui il totale dei soldi pubblici al privato si riduce a 25 miliardi». La cifra è stimata per difetto perché, si legge ancora nel volume, ci sono gli interventi «a sostegno delle imprese che producono energia verde, circa 3,5 miliardi» e se si sommassero anche gli sconti fiscali concessi in continuazione «non si dovrebbe arrivare molto lontani dalla spaventosa cifra di 30 miliardi di euro: più di due terzi del disavanzo pubblico da recuperare entro il 2013, poco meno della metà di quanto lo Stato paga di interessi sul proprio debito in un anno». Come si vede, è un’analisi impietosa e supportata da dati che, se proiettati nell’arco di decenni, consentono di mettere nella giusta prospettiva il dato del debito pubblico e la gestione del bilancio statale. Altro che spesa per le pensioni o per lo stato sociale.
Accanto agli incentivi c’è poi la politica fiscale. Anche qui, la vulgata prevalente dice che in Italia la pressione fiscale è tra le più alte d’Europa, la Banca d’Italia ha recentemente messo l’allarme sulle prospettive dei prossimi anni, quando la pressione fiscale complessiva dovrà superare la soglia record del 44 per cento. In realtà, secondo i dati Eurostat, dal 2000 al 2010 la pressione fiscale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento. Se la pressione complessiva in Italia è rimasta più o meno stabile, riducendosi solo dello 0,3 per cento in dieci anni – e, comunque, destinata ad aumentare per effetto delle manovre economiche dell’ultimo governo Berlusconi – quella sui redditi delle società è passata dal 41,3 per cento al 31,4 con una riduzione del 9,9 per cento.
Paga il lavoro
Con queste premesse qual è la principale fonte delle entrate fiscali in Europa? La risposta è facile, il lavoro. Se la media di imposizione fiscale sul lavoro nella Ue a 27 è del 32,9 per cento, la media dell’imposizione fiscale sul capitale è del 24,7 per cento (dati Eurostat riferiti al 2009).
Va detto però che la riduzione del peso fiscale in Italia passa soprattutto tramite un’altra voce, l’evasione fiscale. Anche qui, le stime sono generiche: 120, 160 forse 200 miliardi di euro all’anno non versati regolarmente nelle casse dello Stato. Riuscire a recuperare anche solo un terzo di quelle cifre, basterebbe per avere conti pubblici in ordine, migliorare i dati di bilancio, ridurre il debito, migliorare le spese sociali, la sanità, l’istruzione, proteggere le pensioni. Se la stima dell’evasione è incerta e ambigua, certa e misurabile è invece l’analisi delle tasse realmente versate. Secondo le tabelle pubblicate dal Bruno Tinti nel suo saggio “Un programma contro l’evasione fiscale” pubblicato dalla rivista Micromega , l’88 per cento dei contribuenti italiani, pari a 36.163.280 persone è composto da lavoratori dipendenti (20.970.919) e pensionati (15.292.361) mentre gli “Altri” rappresentano il 12 per cento (5.359.777). Gli “altri”, scrive Tinti, «non possono essere che lavoratori autonomi, imprenditori, professionisti, artigiani, commercianti». Il gettito fiscale prodotto dalla prima fascia, lavoratori e pensionati, è pari al 93 per cento mentre gli “altri” pagano solo il 7 per cento delle entrate da imposte sulle persone fisiche.
Il prospetto pubblicato dal Ministero dell’economia e delle finanze per le imposte 2010 aiuta a capire meglio il problema. Nell’anno 2010 le entrate tributarie del bilancio dello Stato sono state pari a 406.671 milioni di euro, in flessione di 2,5 miliardi rispetto al 2009. Ma chi ha pesato su questa riduzione? Le entrate provenienti dall’Imposta sul reddito (Ire) sono aumentate di quasi 7 miliardi mentre quelle provenienti dall’imposta sulle società (Ires) si sono ridotte anche se “solo” di 167 milioni. Ma a pesare è stata anche la riduzione drastica dell’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi da capitale (-6 miliardi) e al venir meno delle entrate una tantum per il riallineamento dei valori contabili per l’adozione Ias che ha inciso per 4,4 miliardi. Insomma, la rendita da un lato e la ristrutturazione dei principi contabili dei bilanci aziendali hanno prodotto un ammanco di circa 10,5 miliardi di euro.
Un gigantesco trasferimento di risorse verso i redditi più alti, i profitti e la rendita, spiega dunque gran parte del problema.
Una controprova è data dall’andamento dei salari. Propagandando la necessità di garantire i profitti per aumentare gli investimenti, e quindi l’occupazione, le politiche neoliberiste, che hanno dilatato il debito, hanno prodotto una riduzione drammatica dei salari, dello Stato sociale e una generalizzazione delle privatizzazioni. Secondo l’Ires-Cgil, in dieci anni, dal 2000 al 2010, i salari hanno perso circa 5.500 euro del loro potere di acquisto mentre i profitti netti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) dal 1995 al 2008 sono cresciuti di circa il 75,4% e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87%. Gli effetti della gestione del debito pubblico si condensano in queste cifre. Non solo, sempre secondo la ricerca della Cgil l’andamento degli investimenti in rapporto ai profitti, negli ultimi trent’anni, è calato del 38,7%. I profitti, cioè, non sono stati reinvestiti nella crescita economica ma nella rendita finanziaria che ha garantito ulteriori profitti grazie agli interessi dei debiti pubblici, agli interessi dei debiti privati dei lavoratori – cresciuti per effetto della riduzione dei salari - alle speculazioni monetarie e dei prodotti derivati, trasformando la finanza globale in un Casinò. Quando il gioco è finito, quando i debiti sono divenuti troppo alti è sopraggiunta la crisi. Ma con la nazionalizzazione delle perdite prodotte dai grandi istituti finanziari il debito privato è stato trasportato nel debito pubblico facendolo pagare a tutti.
Anche qui, la controprova è data dai numeri. Dividendo i 1.911 miliardi di euro di debito pubblico italiano (al 31 luglio 2011) per i 60 milioni di cittadini ne deriva un debito personale per ognuno, ognuna di noi di 31.863 euro. Ma chi possiede il credito? I piccoli risparmiatori, lavoratori, artigiani, piccole imprese? No. Secondo i dati della Banca d’Italia solo il 13 per cento del debito italiano è posseduto da privati residenti in Italia, il 26,8 per cento è nelle mani di “istituzioni finanziarie monetarie” (banche, fondi comuni), il 13,5 per cento da assicurazioni e fondi pensione, il 3,65 per cento direttamente dalla Banca d’Italia e il 43 per cento è nelle mani di soggetti non residenti, cioè all’estero, presumibilmente grandi istituzioni finanziarie (dati 2009).
Il peso del debito è utilizzato per giustificare politiche di austerità uguali in tutto il mondo: riduzione delle spese sociali, riduzione del sistema pensionistico, congelamento o riduzione degli stipendi pubblici, aumento della flessibilità del lavoro, privatizzazione di settori vitali come l’acqua, l’energia, i trasporti, la salute e la scuola, riduzione delle sovvenzioni ai ceti più disagiati, giro di vite su stipendi e salari. Lo spostamento di risorse nel bilancio pubblico dai servizi sociali al pagamento di interessi sul debito è brillantemente illustrato dall’ultima nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza per il 2011: la spesa per interessi di 70,4 miliardi del 2009 è destinata a salire a 94,3 miliardi nel 2014 e la sua incidenza sugli stipendi dei dipendenti pubblici passerà dal 58 al 78 per cento, quella sulle pensioni dal 30 al 35 per cento mentre l’incidenza sulla spesa sanitaria passa dal 63,7 per cento del 2009 al 77,6 per cento del 2014.
È giusto chiedere l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività.
Congelare e rivoltare il debito
Come è giusto contestare la legittimità di un debito contratto per applicare politiche sociali ingiuste, in violazione dei diritti economici, sociali, culturali e civili dei popoli. Nei paesi europei la scelta di indebitarsi per favorire le classi più agiate e il capitalismo più sfrenato è del tutto evidente: salvataggio delle banche e riduzione delle aliquote per i più ricchi e, per quanto riguarda l’Italia, il vero e proprio favoreggiamento di un’evasione fiscale che ingrassa i profitti delle grandi imprese e i redditi più alti.
Anche guardando al diritto internazionale non esiste l’obbligo assoluto di rimborsare i debiti: per gli Stati viene prima l’obbligo di proteggere i diritti umani e i diritti economici, sociali e culturali delle loro popolazioni. Si guardi l’articolo 103 della Carta dell’Onu, in cui si prescrive la superiorità dello Statuto delle Nazioni Unite, quando ad esempio impone «l’elevamento dei livelli di vita», il «pieno impiego» o «lo sviluppo dell’ordine economico e sociale», su tutti gli altri obblighi contratti dagli Stati. Analoghi esempi possono essere fatti per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948, articolo 28), i Patti sui diritti economici, sociali e culturali (1966, articolo 1), la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo (1986, articolo 2).
Questo fondamento giuridico è riscontrabile in diversi testi internazionali come è stato riportato precedentemente nel volume. Tra le cause illecite o immorali che generano l’illegalità di un debito possiamo trovare: l’acquisto di materiale militare sulla base dell’articolo 26 della Carta dell’Onu; i debiti contratti per applicare piani di aggiustamento strutturale (vedi Convenzione di Vienna del 1983); debiti contratti senza che i popoli ne siano a conoscenza e altri casi ancora. Si tratta di debiti “odiosi” perché finalizzati a misure non conformi al diritto internazionale, alla protezione dei diritti umani, sociali, economici e culturali. Sono illegittimi anche i debiti privati trasformati in debiti pubblici.
In questo senso non si può non essere d’accordo con la proposta avanzata dal Cadtm e che in Italia è stata già ripresa in ambiti tra loro diversi. La sospensione unilaterale del rimborso del debito per dare vita a un audit pubblico (una verifica dei conti) sotto controllo dei cittadini al fine di determinare quali debiti devono essere annullati o ripudiati o rinegoziati a causa della loro illegittimità, illegalità o per il loro carattere odioso.
Si tratta del primo passo necessario a costituire un rapporto di forza adeguato per raffreddare la stessa tensione finanziaria. Ottenuta la moratoria bisognerebbe realizzare l’audit, fondamentale per radiografare il debito e per il quale è essenziale la partecipazione di cittadini e cittadine, dei movimenti, delle associazioni, dei sindacati. I quali possono designare un proprio rappresentante nella Commissione di audit che deve insediarsi.
Ovviamente, un simile obiettivo richiede una forte mobilitazione sociale perché non esiste, oggi, un governo in grado di accettare una simile proposta. Allo stesso tempo, questa proposta può aiutare a selezionare un governo possibile del paese: chi davvero abbia a cuore il futuro della popolazione, dei lavoratori e delle lavoratrici, dei giovani e dei pensionati, dei vari strati sociali colpiti dalla crisi non dovrebbe che sposare una simile tesi e voltare le spalle agli interessi delle grandi banche e delle società finanziarie.
Chi paga?
Una volta selezionato il debito illegittimo o illecito, la sua quota deve essere addebitata a quelle istituzioni finanziarie e a quei soggetti dai redditi più elevati che hanno una responsabilità diretta nello scoppio della crisi. Annullare un debito il cui costo, altrimenti, sarebbe scaricato sui più poveri, sul lavoro dipendente, sui precari e gli studenti, costituisce un primo passo per ristabilire una giustizia sociale. Occorre poi definire un elenco preciso dei detentori di titoli per tutelare coloro che hanno un piccolo reddito e per i quali i titoli oggetto del debito rappresentano il risparmio di una vita (come si è già visto, si tratta di una decisa minoranza). Va anche detto che coloro che dovessero emergere dall’audit come responsabili di illeciti legati al debito dovrebbero essere puniti e costretti a delle riparazioni finanziarie. La moratoria unilaterale serve anche a rinegoziare tassi di interesse e tempi di rimborso per il debito considerato legittimo o legale considerando che la quota parte del bilancio statale consacrato a tale voce non può inficiare la soddisfazione dei bisogni fondamentali della popolazione: sanità, educazione, stato sociale, stipendi. Se, ad esempio, si stabilisse che il costo del rimborso non può superare il 5 per cento delle entrate, come propone il Cadtm, si tratterebbe di un dimezzamento del costo rispetto alla situazione attuale: a fine 2010, infatti, quel rapporto era del 9,7 per cento.
Le obiezioni da sinistra
Tra le obiezioni fondamentali al non pagamento del debito, ovvero alla moratoria e al congelamento degli interessi, vi sono quelle che provengono dal mondo delle banche, del grande capitalismo e della finanza e che, ovviamente, si dicono contrarie alla proposta perché vi vedono minacciati i propri interessi. Ve ne sono però anche altre che provengono da sinistra. Ne utilizziamo tre:
1) Il “default” sarebbe pagato dalla popolazione e da lavoratori e pensionati . Il problema sarebbe però ovviato da un atto, sovrano, di moratoria – e non di fallimento, “default” – da cui sarebbero esplicitamente esclusi quei settori da proteggere proprio in virtù degli interessi della collettività. Ad esempio i risparmi dei lavoratori, dei pensionati e di tutti coloro che, con un reddito da lavoro dipendente, hanno sempre pagato le imposte dovute.
2) Dopo la moratoria uno Stato farebbe una fatica immensa a finanziarsi di nuovo sui mercati interni e internazionali : nessuno gli farebbe più credito. I casi di Argentina o Ecuador mostrano il contrario, dipende dalle situazioni. In ogni caso, per l’Italia, si tratta di riequilibrare il ricorso al prestito “interno”. Di fronte a un debito di 1.763.8 miliardi di euro la ricchezza netta in Italia (al netto dei debiti privati) nel 2009 ammontava a 8.600 miliardi (9.448 miliardi, quella lorda, di cui 4.800 miliardi in ricchezza immobiliare). Della ricchezza lorda il 37.7 per cento è ricchezza finanziaria pari a 3.561 miliardi, più del doppio del debito così composta: il 29,8 per cento in biglietti, monete, depositi bancari e risparmio postale; il 44,2 per cento in obbligazioni private, titoli esteri, azioni, partecipazioni e fondi comuni; il 17,7 per cento in riserve tecniche di assicurazione; il 3 per cento in crediti commerciali e solo il 5,5 per cento in titoli di Stato. Quasi mille miliardi, invece, è detenuta in forme liquide. Basterebbe incentivare questa massa monetaria per riequilibrare eventuali scompensi.
3) Un default significa uscire dall’euro e scontrarsi con una forte svalutazione con il crollo del potere di acquisto dei salari . L’andamento dei salari degli ultimi dieci anni, quelli in cui è vigore l’euro, non autorizza a parlare di mantenimento del potere di acquisto. L’Europa può imboccare una strada diversa, quella dell’Europa Sociale che rifiuti la dittatura delle banche. In alternativa l’uscita dall’Euro non avrebbe conseguenze peggiori di rimanerci a queste condizioni.
Oltre il debito
La ristrutturazione del debito è una operazione che per risultare efficace non può essere realizzata nel vuoto ma presuppone un programma più ampio. Si tratta, infatti, di accompagnare questa operazione con una politica che aumenti i salari, riduca la precarietà, ristabilisca i diritti sociali e li estenda, ad esempio ai migranti, salvaguardi i beni comuni.
Serve un processo di nazionalizzazione di banche e assicurazioni, a cui il grande capitale ha fatto ricorso solo per salvare i propri interessi e che invece serve per gestire diversamente il debito e garantirsi dalla speculazione finanziaria.
Serve una riforma fiscale che finalmente aggredisca l’evasione fiscale – in larga parte appannaggio delle grandi imprese come dimostrano scatole cinesi finanziarie e largo utilizzo dei commercialisti alla Tremonti – e che faccia pagare di più i redditi alti e di meno, molto di meno, chi riesce appena a sopravvivere. Una riforma fiscale fortemente progressiva, con poche e chiarissime agevolazioni fiscali per il lavoro dipendente, in grado di cumulare la tassazione dei grandi redditi con la proprietà e quindi il patrimonio, la rendita, la speculazione. Una vera Patrimoniale per ridistribuire radicalmente le risorse.
Occorre rimettere in discussione questa Europa, compresa la moneta unica, per realizzare un’Unione davvero democratica e fondata sul consenso e la partecipazione dei popoli. A partire dalla petizione popolare per chiedere un referendum sull’Europa.
Bisogna ridurre drasticamente le spese militari, tramite riduzione delle missioni all’estero e abbattimento della spesa per armamenti da trasformare in spesa per le infrastrutture ecologiche e il risanamento dei territori.
Dobbiamo rimettere al centro dell’economia la variabile indipendente, il vincolo insuperabile, del lavoro e della sua dignità, dei diritti, dell’estensione delle garanzie sociali: salario minimo garantito, reddito sociale, riduzione dell’orario di lavoro, diritto al lavoro contro la precarietà dilagante.
Occorre affrontare con decisione il tema della sostenibilità ambientale dello sviluppo economico con la difesa ecologica dei territori dagli sventramenti prodotti dal profitto e dagli interessi delle grandi imprese multinazionali.
E tutto questo ha un senso se si garantisce una nuova partecipazione popolare con forme di democrazia diretta e di autogoverno a tutti i livelli. Questi Parlamenti e i loro governi hanno concluso il loro tempo, serve una rivoluzione delle forme della partecipazione e della gestione del potere: referendum su tutti i dossier cruciali, organi di partecipazione diretta, autogestione e gestione razionale e democratica dell’economia attraverso nuove istituzioni democratiche e dal basso
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