Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 14 dicembre 2013

Renzi e i comunisti

Autore: Paolo Ciofi - controlacrisi
                
Occorrerà tornare con attenzione sul significato e sulle conseguenze della clamorosa scalata di Matteo Renzi al vertice del Pd attraverso il plebiscito delle primarie. Intanto però una cosa è certa. Renzi è senza dubbio il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di costruire e di praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai fondamenti la civiltà occidentale, modellata sul paradigma del liberismo finanziario americano.
Ma il nuovo segretario fiorentino è anche un frutto maturo della Bolognina, quando Occhetto sciolse il Pci tagliando le radici del movimento operaio e cancellando un’intera esperienza storico-politica su cui si è costruita la Repubblica democratica. Cosicché, invece di rinnovare la sinistra e di promuovere innovazione, ha prodotto subalternità alla cultura liberista e ai poteri dominanti nell’economia e nella società, separando le nuove forme della politica dalla base operaia e popolare, abbandonata alla deriva senza rappresentanza e rappresentazione.
Non è difficile vedere che tra i due fenomeni vi è un intreccio. Come un lampo che illumina la scena, Reichlin ha dato un giudizio da tenere sempre a mente, e che non mi stanco di ripetere: “abbiamo confuso il liberismo con il riformismo”. È la dichiarazione esplicita della subalternità del Pd, che nella mutazione genetica che lo ha allontanato anche dalla socialdemocrazia e persino dalla sinistra - come testimonia il nome stesso - ha generato una crisi di rappresentanza oggi diventata esplosiva e un modo di fare politica, capovolto nelle sue finalità, che con il Pci nulla ha a che fare. Non per caso Occhetto ha dichiarato al Mattino che Renzi è un suo legittimo erede.
Almeno fino a Berlinguer, il Pci si proponeva di trasformare la società sulla via costituzionale della democrazia, dell’uguaglianza e della libertà, e dell’accesso della classe lavoratrice alla direzione dello Stato. Quelli che a torto si sono dichiarati suoi eredi, da Occhetto a D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, avevano l’obiettivo massimo di amministrare quel che passa il convento, senza alcun disegno strategico alternativo. Ma neanche questo sono stati capaci di fare, e alla fine sono apparsi come gli immobili conservatori dello statu quo. Ora, di fronte a un dato di fatto inoppugnabile, e alla cancellazione del Pci dal sistema politico da più di vent’anni, che senso ha presentare da più parti, con grande frastuono di tromboni e di trombette, la vittoria di Renzi come una resa dei conti definitiva con i comunisti?
Evidentemente, non si tratta di un semplice fraintendimento, e neppure della constatazione ovvia che il vincitore proviene dalla componente ex Dc, o che l’appeal di D’Alema è sceso sotto i tacchi. C’è qualcosa di più profondo che muove la classe dirigente del capitalismo italiano e i media ad essa connessi , di cui occorre indagare le motivazioni e le finalità. Non mi riferisco solo al fatto che le Tv e la stampa dominante - a cominciare da la Repubblica nonostante l’avverso parere di Scalfari - hanno spinto in tutti i modi il compulsivo pifferaio di Firenze. In tanti acclamano Renzi come il nuovo eroe che schiaccia l’idra del comunismo. È una novità che dà da pensare, soprattutto se viene interpretata come un’indicazione programmatica per il presente e per il futuro.
Qualche esempio ci aiuta a capire. “Il Pci non esiste più”. Con le primarie del Pd “si è consumato un evento epocale per la politica italiana: finalmente è stato chiuso il Pci”, annuncia trionfante in prima pagina il Giornale diretto dal condannato e graziato Salustri. Quindi, viva Berlusconi (anche lui condannato ma non graziato), che finalmente con il sindaco fiorentino ha debellato il suo nemico storico. Davvero un risultato epocale.
Anche il Corriere della sera applaude per il felice decesso, ma con i necessari distinguo, come si addice a un celebrato serbatoio del pensiero della borghesia una volta illuminata. Il Pci morto e sepolto? Non proprio, sottilizza il prof. Panebianco, a quanto pare esperto anche in necrologia: meglio dire “forse agonizzante”. Sebbene lui, in tutta sincerità, preferirebbe scolpire un bell’epitaffio sulla tomba del morente. Ma per giungere a questo esito, precisa il politologo-necrologo, Renzi deve agguantare “l’ oro del Pci”. Che non è il famoso oro di Mosca, bensì il patrimonio immobiliare del vecchio partito, ossia le sedi dei circoli e le case del popolo costruite con le mani e con il cuore da milioni di donne e di uomini. In tal modo il becchino del Pci dovrebbe prosperare con il patrimonio di chi il Pci l’ha costruito. Se le parole hanno un senso, questa sarebbe a dir poco appropriazione indebita. Comunque, una bella lezione di moralità politica, messa a punto da un addottorato ed esperto professore.
Le variazioni sul tema sono infinite, essendo il Corriere ricco di benpensanti teste anticomuniste, a cominciare dal capostipite Mieli. Così, se Battista è contento perché il noto pensatore e scienziato della politica Oscar Farinetti prende il posto di Enrico Berlinguer, e Di Vico ci spiega che la strumentalizzazione del movimento dei forconi altro non è se non “la vecchia tattica del Pci di contrapporre simbolicamente Paese legale e Paese reale”, un Cazzullo di giornata tira le somme: “sembra dissolversi una volta per tutte il mito del comunismo italiano, per cui un’ideologia criminale diventava per l’élite della penisola giusta o comunque nobile”.
Quando la storia ha tanti buchi come un colabrodo, fa brutti scherzi. E allora ci si dimentica che il Pci in Italia, per quanti errori possa aver commesso, ha sempre combattuto per la democrazia e la libertà, per i diritti dei lavoratori e per l’uguaglianza sostanziale; che in Italia i comunisti non hanno incarcerato nessuno, al contrario il loro capo Antonio Gramsci è stato fatto morire in carcere dal fascismo; che non hanno attentato alla vita dei loro avversari politici, al contrario Palmiro Togliatti ha subito un attentato che lo ha ridotto in fin di vita. Non sono stati i comunisti italiani a incendiare le Camere del lavoro, e dopo la Liberazione a sparare contro i contadini a Portella della Ginestra e gli operai a Reggio Emilia. O a organizzare trame eversive e il terrorismo, messo in atto fino alla esecuzione dell’operaio comunista Guido Rossa, proprio per impedire che i comunisti potessero governare e cambiare l’Italia secondo i principi della democrazia costituzionale.
Diciamolo con chiarezza, senza tema di smentite. Tutte le principali conquiste sociali, civili e politiche ottenute in Italia a cominciare dalla Costituzione - che oggi si vorrebbero rovesciare nel loro contrario - non sarebbero state possibili senza la presenza e lotta dei comunisti. Il Pci ha dato dignità, rappresentanza e forza politica agli operai, ai lavoratori “del braccio e della mente”, alle donne, ai giovani e anche agli anziani: a tutti coloro che deprivati del potere economico e politico hanno lottato per un avanzamento di civiltà costruendo un vasto sistema di alleanze.
Oggi, di fronte a una crisi e a politiche regressive che distruggono la vita di tante persone e l’intero ambiente in cui la vita si riproduce, le parole di Enrico Berlinguer ci appaiono di sconcertante attualità: “La difesa del potere d’acquisto dei salari per il sindacato costituisce un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe, e per il nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile per qualificare un nuovo tipo di sviluppo generale dell’economia italiana”. Per lui era chiaro che bisognasse aprire la strada a una civiltà più avanzata nel cuore dell’Europa, che superasse il modo di produzione capitalistico fondato sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’emarginazione di strati sempre più ampi di popolazione, liberando nel contempo lo Stato dall’occupazione dei partiti e combattendo i privilegi ovunque annidati. Tanto più che in mancanza di un’alternativa al potere della classe dominante la democrazia degrada e si corrompe, convertendosi in oligarchia. E la barbarie è alle porte.
Un tema che oggettivamente si ripropone oggi, sebbene sia stato cancellato dal sistema politico il soggetto della trasformazione, e il lavoro, frantumato e diviso, non abbia alcun peso nella configurazione della politica. Mentre nella società monta il malessere, il disincanto e la rabbia che non trovano sbocchi, e affiorano qua e là pessimi segnali di squadrismo fascista. Sotto la dittatura del capitalismo finanziarizzato globale, che intende sostituire alla centralità del lavoro la centralità dell’impresa in ogni ambito della vita, stiamo andando verso una regressione storica.
Una Restaurazione, che però non è un semplice ritorno al passato, giacché la dittatura del capitale ha bisogno in Italia di una cospicua modernizzazione che elimini vaste sacche di parassitismo e di inefficienze del sistema, e di una controriforma istituzionale verso il decisionismo presidenzialista. Ma che più in generale, per realizzarsi compiutamente, deve impiantare una sofisticata costruzione ideologica, che cancelli la discriminante di classe tra capitale e lavoro, e dunque anche nell’immaginario sopprima la sua antitesi. Vale a dire le lavoratrici e i lavoratori postfordisti del nostro tempo, figli della rivoluzione digitale e scientifica, politicamente organizzati come soggetto libero e autonomo.
Il lavoro che si organizza e si rappresenta in forma politica nella sua libertà e autonomia: è questa fondamentale conquista storica del Novecento che vogliono definitivamente eliminare in Italia e in Europa, senza il rischio di possibili ricadute e riviviscenze. Insomma, una sepoltura tombale per l’eternità. Precisamente a questo scopo serve l’abbattimento della Costituzione, pericoloso riferimento ideale e simbolico, oltre che progetto di un possibile cambiamento. E poiché i comunisti italiani sono quelli che più si sono avvicinati a una trasformazione in senso socialista di una società capitalisticamente avanzata per una via democratica e costituzionale diversa dal modello sovietico e dalla socialdemocrazia, questo spiega il rigurgito di anticomunismo postdatato ma anche preventivo e a futura memoria, specificatamente italiano e non solo berlusconiano, che è stato rilanciato in occasione del plebiscito per Renzi.
Dei comunisti italiani va cancellata dunque la storia e anche la memoria: perché a nessuno venga in mente che ci si possa organizzare e lottare in forme democratiche e di massa per un sistema economico diverso e per una società solidale di diversamente uguali, in cui il massimo profitto non sia la stella polare e l’economia venga posta al servizio dell’uomo e non viceversa, e in cui buongiorno voglia dire davvero buongiorno. Quello che ci fanno sapere, a scanso di equivoci risuscitando la gogna anticomunista, è che dal capitalismo non si può uscire, e che questa società ingiusta e insostenibile non si può rovesciare. Non solo: il governo - ci dicono - è cosa nostra, di noi che stiamo sopra. Voi che state sotto non avete voce in capitolo, e lì dovete restare. Questa è la sostanza. E queste sono le questioni di fondo che emergono dopo la mirabolante ascensione del segretario fiorentino.

I forconi e la politica dei diritti


- repubblica -

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 13 dicembre 2013
Sapevamo che la povertà si estendeva, che dilagavano le diseguaglianze, che la percentuale della fiducia dei cittadini nelle istituzioni era precipitata al 2%. Eppure questi dati venivano considerati come pure registrazioni statistiche.
Valutate alla stregua di variazioni di sondaggi e non come lo specchio di una situazione reale che rivelava quanto la coesione sociale fosse a rischio. Ora quel momento è arrivato, e bisogna chiedersi come una situazione così difficile possa essere governata democraticamente. È problema capitale per le istituzioni, che non possono ridurlo ad affare di ordine pubblico. Ma è compito pure delle forze politiche che non possono trasformare le critiche legittime nella tentazione di raccogliere consensi nella logica della spallata al sistema, della tolleranza di metodi violenti.

I cittadini si sono sentiti privati della rappresentanza, affidati alle pure dinamiche economiche, amputati dei diritti. Da qui bisogna ripartire. La provvida decisione della Corte costituzionale mette di fronte alla necessità di una legge elettorale centrata non solo sulla governabilità, ma sul recupero della rappresentanza. E la dimensione dei diritti è quella dove si fa più evidente l’intreccio tra le varie questioni.

Torniamo per un momento a Prato, dove la drammatica morte dei cinesi non è stata causata da un semplice incendio, ma proprio alla negazione dei loro diritti. Se ad essi fossero stati garantiti un lavoro legale e la sicurezza, il diritto alla salute e quello all’abitazione, dunque il rispetto minimo della dignità della persona, nessuno di loro sarebbe morto. Questo non è un caso eccezionale, ma la testimonianza di una separazione sempre più diffusa dell’economia dai diritti, che trascina con sé anche quella tra politica e diritti, causa non ultima della disaffezione dei cittadini. L’azione del Governo è in grado di colmare questa distanza?

Oggi la risposta non può che essere negativa. L’attuale maggioranza ha come sua componente essenziale il Nuovo Centrodestra, apparso a qualcuno come una sorta di destra moderna e che, al contrario, al posto dei diritti civili pone i “valori non negoziabili”, ribaditi come irrinunciabile segno di identità. Al posto dei diritti del lavoro ha insediato una logica che ha fatto deperire le garanzie. Al posto del rispetto dell’altro ha collocato il reato di immigrazione clandestina e l’ostinato rifiuto di allargare la cittadinanza. Al posto della legalità costituzionale vi è ancora la coda lunga delle norme che hanno distorto la legge in custode di interessi privati. Ognuno di questi casi ha nomi e cognomi, corrispondenti esattamente a quelli di esponenti della nuova forza politica. E questo è un ostacolo che continua ad impedire una esplicita strategia di uscita dalla non politica dei diritti che ci affligge da anni.

Cominciamo dalle clamorose inadempienze del Parlamento. Fin dal 2010, prima la Corte costituzionale, poi la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le persone dello stesso sesso, unite in una convivenza stabile, hanno «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Parole che non hanno trovato ascolto nelle aule parlamentari, sì che un diritto fondamentale continua ad essere ignorato. Il silenzio, che riguarda anche il riconoscimento delle unioni tra persone di sesso diverso, è destinato a continuare? Non meno scandaloso è quanto sta accadendo a proposito dell’accesso alle tecniche di procreazione assistita. La legge del 2004, il più scandaloso prodotto delle ideologie fondamentaliste, è stata demolita nei suoi punti essenziali da giudici italiani ed europei, ma per il Parlamento è come se nulla fosse accaduto e non vi è stato quell’intervento che, riconducendo a ragione quel che resta della legge, è necessario per restituire alle donne l’esercizio pieno dei loro diritti. Inoltre, è fallito per fortuna il tentativo di approvare una legge sulle decisioni sulla vita in contrasto con il diritto fondamentale all’autodeterminazione e con la norma costituzionale che vieta al legislatore di «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ma non si fa nessun passo nella direzione di approvare le poche norme necessarie per eliminare ogni dubbio intorno al diritto della persona di morire con dignità. E così il diritto di governare liberamente la propria vita — il nascere, il costruire le relazioni personali, il morire — è ricacciato in una precarietà che testimonia di una vergognosa indifferenza del legislatore. Sarà mai possibile rovesciare questa attitudine?

La restaurazione della legalità attraverso i diritti investe direttamente l’essenziale tema del lavoro, che ha conosciuto una sua “riduzione privatistica” soprattutto attraverso l’articolo 8 del decreto 138 del 2011, dove si consente la possibilità di stipulare, a livello aziendale o territoriale, contratti collettivi o intese in deroga alle leggi. Il negoziato tra datori di lavoro e sindacati non avviene più con la garanzia della legge a tutela di diritti essenziali, ma torna ad essere affidato ai rapporti di forza, mai così “asimmetrici” come in questo tempo di crisi pesantissima. Questa norma deve essere cancellata, così come ha fatto la Corte costituzionale dichiarando illegittime norme limitative della rappresentanza sindacale, con una decisione che ci ricorda la necessità di una legge in materia che, nella logica costituzionale, riconosca ai lavoratori i diritti strettamente connessi alla loro condizione. E la questione del reddito di cittadinanza, della quale ci si vuol liberare con qualche mossa infastidita, rappresenta una buona occasione per ripensare il tema difficile del rapporto tra lavoro, cittadinanza, eguaglianza, dignità.

Il filo è sempre quello che connette diritti e restaurazione della legalità. Lo vediamo discutendo di carcere, dove i diritti si scontrano con trattamenti inumani e degradanti e dove la responsabilità del Parlamento non si individua soltanto intorno ad amnistia e indulto, ma con la pari urgenza di incidere sulle cause del sovraffollamento, che hanno le loro radici in reati legati all’immigrazione o al traffico di stupefacenti, all’inadeguatezza del codice penale. Lo vediamo a proposito della tutela della privacy che, da una parte, esige maggior rigore all’interno; e, dall’altra, impone di non considerarla una questione “domestica”, ma un tema che imporrebbe una presenza del governo italiano in quella dimensione internazionale dove si gioca una inedita partita di legalità costituzionale. Lo vediamo nel deperimento continuo del diritto alla salute e di quello all’istruzione.

Viviamo ormai in una situazione in cui la Costituzione è ignorata proprio nella parte dei principi e dei diritti. E lo stesso accade nell’Unione europea, amputata della sua Carta dei diritti fondamentale, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati. La simmetria tra Italia e Europa è rivelatrice. La lotta ai populismi, anche nella prospettiva delle prossime elezioni europee, passa proprio attraverso l’esplicito recupero del valore aggiunto assicurato proprio dalla garanzia dei diritti.
Questo catalogo, ovviamente parziale, consente di cogliere i nessi tra politica e società, i limiti delle impostazioni solo economicistiche, la rilevanza dei principi di eguaglianza, dignità, solidarietà. Ma serve anche a mostrare non solo l’inaccettabilità di qualsiasi sottovalutazione dei diritti, ma pure la debolezza d’ogni posizione che ritenga possibile separarli dalla democrazia. È vero, i diritti sono deboli se la politica li abbandona. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?

(13 dicembre 2013)

Il miglior passaporto del mondo


La decisione del governo maltese di vendere la cittadinanza per 650mila euro dimostra che il passaporto Ue è ancora un bene ricercatissimo e che il capitale umano vale quanto quello finanziario.
Ci sono vari modi in cui un cittadino non Ue può entrare in possesso di un passaporto Ue. Il primo è che il suo paese entri nell’Ue, come ha fatto la Croazia a luglio e come vorrebbero fare tanti ucraini. Un altro è affrontare la pericolosa traversata del Mediterraneo e sperare alla fine di ottenere asilo politico. Un altro ancora è staccare un assegno.
Il piano di Malta per offrire la cittadinanza a 650mila dollari non è una idea nuova. Cipro offre un passaporto a tre milioni di dollari e il Regno Unito fa lo stesso quando qualcuno decide di investire più di un milione di sterline, qualificandosi così per restare a tempo indeterminato. Altri paesi dell’Ue hanno altre procedure ancora per dare la cittadinanza alle persone che vogliono attirare.
Ma la legge annunciata il mese scorso dal nuovo governo maltese è la più esplicita che si possa immaginare. Ci sono dei controlli, ma a quanto pare dovrebbe trattarsi di una procedura alquanto semplice. Il primo ministro Joseph Muscat ha detto che il piano punta ad attirare soggetti di “grande valore” che possono investire nell’isola.
Si calcola che tale possibilità attirerà fino a trecento persone l’anno, e anche se il passaporto in un primo tempo sarà per una persona sola, questa potrà aggiungere i propri familiari sborsando 25mila dollari per ciascuno. Chi entra in possesso di un passaporto Ue acquisisce pieni diritti e può viaggiare e lavorare in ciascuno dei Ventisette paesi membri.
Tutto ciò potrebbe sembrare un po’ venale, e da un certo punto di vista lo è, ma riflette vari aspetto del nostro mondo moderno. Il primo è positivo: un passaporto Ue è senza dubbio il passaporto più ambito al mondo. La versione britannica è leggermente migliore di quella degli altri paesi dell’Ue perché offre maggiori possibilità di viaggiare liberamente. Anche quello svizzero e norvegese lo sono.
Un passaporto degli Stati Uniti, invece, non è altrettanto utile per due ragioni. La prima è che in reazione ai controlli doganali statunitensi parecchi paesi impongono requisiti per i visti altrettanto severi. L’altro, sempre più importante, è che le tasse statunitensi e gli obblighi di segnalazione sono particolarmente onerosi per i cittadini americani che vivono all’estero. Si tratta ancora di un rivolo, ma il numero di cittadini statunitensi che restituiscono il passaporto negli ultimi tre anni è aumentato vertiginosamente.

Una strada legale

Il secondo è che ora i paesi cercano di attirare capitale umano quanto capitale vero e proprio e capitale finanziario. Una generazione fa i paesi facevano a gara ad attirare le società straniere per costruire fabbriche, spesso offrendo loro i finanziamenti per farlo. Da allora però l’interesse si è spostato su incentivi finanziari più generici, e ciò ha creato un mondo in cui aziende come Google o Amazon pagano ovunque tasse irrilevanti. L’Irlanda da questo punto di vista ha riscosso un successo particolare.
Adesso il nuovo obiettivo è il capitale umano, persone brillanti, di talento, facoltose, perché siamo riusciti a creare un mondo nel quale le aziende e i soldi possono spostarsi attraverso i confini nazionali alla velocità della luce, ma dove la mobilità umana incontra ancora barriere alquanto sostanziali. Nel complesso, i posti nei quali per i cittadini del mondo sviluppato è difficile lavorare sono posti nei quali non vorremmo veramente andare. Per le persone meno fortunate quanto a paese di nascita il mondo non è affatto un’unica entità globale, in quanto è loro precluso l’accesso a moltissimi posti di questo pianeta. Noi guardiamo il mondo dal nostro piedistallo privilegiato. Ma dall’altra parte le cose appaiono molto diverse.
Molti si sentiranno a disagio davanti all’idea che la cittadinanza possa essere un bene di consumo, in vendita come qualsiasi altro. David Hanson, responsabile laburista per l’immigrazione, nutre “serie preoccupazioni” al riguardo della proposta maltese: “Rischia di diventare una strada secondaria per poter avere accesso e risiedere ovunque nell’Ue, e non è di sicuro una politica immigratoria appropriata”.
In ogni caso, la proposta ha il pregio di essere chiara. È una strada legale che conduce al portone d’ingresso della cittadinanza Ue, mentre il sistema attuale è inaffidabile e, malgrado gli sforzi volti a dimostrare il contrario, anche alquanto arbitrario. Esso costringe l’Europa a porsi alcune domande difficili e spinose. Per esempio, quali persone vogliamo attrarre e quali no? A chi vogliamo dare il benvenuto? Chi preferiamo che se ne stia alla larga?
Per molti nel resto del mondo l’Europa è una storia di successo. Di fronte al dilagare della miseria economica nella parte meridionale del continente, sarà bene tenerlo a mente.

mercoledì 11 dicembre 2013

In tv parlano solo economisti di destra. Ecco perché dalla crisi usciremo con le ossa rotte

- altracitta -   

In tv parlano solo economisti di destra. Ecco perché dalla crisi usciremo con le ossa rotte
economisti mainstream

di Cristiano Lucchi per l’Altracittà
Chi analizza le cause della crisi economica e indica le terapie giuste per superarla? Gli economisti mainstream naturalmente, ovvero quelli intervistati continuamente dai giornali e che appaiono sempre in televisione. I nomi li conoscete senz’altro: Alesina, Giavazzi, Zingales, Ichino, Brunetta, Fornero e via discorrendo, gli altri li trovate nell’immagine accanto. Attenzione però, si tratta di economisti che da sempre sostengono il pensiero del neoliberismo, di quello che potremmo chiamare il pensiero unico della destra applicato all’economia.
Il problema è che la grande visibilità che questi esperti hanno riesce a condizionare l’opinione pubblica e a creare consenso intorno a politiche economiche ingiuste che penalizzano i più poveri e arricchiscono i più ricchi. Ne abbiamo avuto un esempio con le politiche di austerità decise dai governi Monti e Letta approvate da un popolo pronto a sacrificarsi per l’assenza di un dibattito arricchito anche da proposte alternative. Ne abbiamo avuto un saggio con la recente elezione a segretario del Pd di Matteo Renzi, una competizione in cui molti elettori che si reputano di sinistra hanno avallato il programma economico di destra imposto da Renzi perché nel loro immaginario sembra essere l’unico possibile.
La denuncia di questa deriva arriva dagli autorevoli Luciano Gallino, Giorgio Lunghini e Guido Rossi. Per loro si tratta di una gravissima distorsione della realtà che vede complici i principali media del Paese: “La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica“.
Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra – continuano i tre -, vengono rappresentate come comportamenti obbligati immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori”.
Per approfondire questo delicato tema leggete l’articolo integrale “I missionari del Dio Mercato” di Daniela Palma e Francesco Sylos Labini a cui ci siamo ispirati. Lo ha pubblicato il settimanale Left del 7 dicembre ed è comunque leggibile all’indirizzo http://www.syloslabini.info/online/i-missionari-del-dio-mercato/
- See more at: http://altracitta.org/2013/12/11/in-tv-parlano-solo-economisti-di-destra-ecco-perche-non-vediamo-vie-di-uscita-dalla-crisi/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=in-tv-parlano-solo-economisti-di-destra-ecco-perche-non-vediamo-vie-di-uscita-dalla-crisi#sthash.qcH2mBK7.dpuf

Matteo Renzi è il nulla

  


di Rino Genovese
Non è che gli elettori del Pd siano un po’ fessi, che un anno prima decretino la stravittoria di Bersani contro Renzi e il successivo di Renzi contro Cuperlo, come se non ci capissero niente e a loro andasse bene un’ipotesi politica quanto quella opposta. È proprio il meccanismo delle primarie, con il suo risvolto fortemente plebiscitario, a rendere possibili gli splendidi risultati schiaccianti. Il popolo delle primarie è un popolo di suggestionati: si limita a incoronare colui che in quel momento ha dalla sua l’onda della visibilità e del successo agitata dai mass media. I quali, quindi, hanno notevoli responsabilità. Per esempio, con i loro giri di valzer tra cui brillano quelli di Repubblica: prima con Bersani, poi con Napolitano (anche se questi lo ha bloccato nella triste vicenda dell’aprile scorso, impedendogli di presentarsi con un governo minoritario dinanzi alle camere), infine oggi con Renzi che, oggettivamente, è un avversario sia di Napolitano sia di Letta, dato che il suo interesse, del tutto comprensibile, è di non lasciar marcire ulteriormente la situazione e andare al più presto alle elezioni. Tutto quello che accade in Italia, ormai da decenni, dimostra che il quid della politica odierna non è affatto la teologia, come alcuni teorici suppongono, semmai l’estetica: è tutto un fatto di scelte compiute all’interno di una comunicazione politica estetizzata, come lo è del resto l’intera vita sociale (secondo lo schema, tipico dei sondaggi, mi piace / non mi piace, sì/no).
Ma Matteo Renzi è il nulla. Lo dico con cognizione di causa per averlo incontrato una volta, ormai diversi anni fa, alla presentazione fiorentina di un libro di Filippo La Porta (e su Internet c’è una foto che c’immortala in sua compagnia). Filippo e io ci guardavamo smarriti, come a domandarci: «Chi sarà questo ragazzo che parla per non dire niente, eppure lo fa con tanto ardore?» Ignoravamo di trovarci al cospetto del presidente della provincia in persona (l’ente inutile per eccellenza, secondo alcuni, ma utilissimo come trampolino di lancio per diventare sindaco della città, e cioè raggiungere un trampolino più avanzato); eravamo dinanzi al futuro rottamatore e l’avevamo preso per un giovanotto raccomandato dai preti, il quale, andandosene prima della fine – come sempre quelli che hanno da fare –, non mancò di darmi un’amichevole pacca sulla spalla. Il vuoto si posava su di me per benedirmi.
Ora questo vuoto è alla testa dell’unico partito politico sopravvissuto in Italia, la sola organizzazione che abbia un reale radicamento nel territorio nazionale, che abbia alle spalle delle attività economiche (quelle denunciate da alcuni come le coop rosse), che abbia una non trascurabile storia alle spalle, sia pure sempre più confusa e sbiadita. Nell’agone con il suo competitore, l’inesistente Cuperlo una cosa l’ha detta: «Renzi è in continuità con il ventennio berlusconiano». In netta continuità: nel modo che già a Veltroni, che pure ci aveva provato, non era riuscito per via di una storia personale ancora troppo legata, nell’immagine, a quella del vecchio Pci. E si può dire di più: mentre Berlusconi, che certo non aveva dalla sua la gioventù, aveva tuttavia il fascino del grande briccone, del gangster con le ghette dei film americani, Renzi non ha nulla, neanche questo. Perfetto, allora, per essere l’antagonista di Grillo, dato che non si sa chi dei due sia una nullità più dell’altro. La loro totale incompetenza circa qualsiasi dossier è conclamata. Ma forse è proprio da qui che traggono il loro consenso, da una pura capacità di sbraitare. E insomma, se Veltroni – poveretto – si era trovato a fare il berluschino quando Berlusconi risplendeva ancora della sua aureola, ora che il grande briccone finalmente è in difficoltà, per riprendersi i voti andati dal Pd a Grillo chi meglio di Renzi? La sua missione è questa. E sono pronto a scommettere che è l’unica che gli riuscirà.
Che cosa dovrebbe fare la sinistra in tutto questo frangente, ammesso che ce ne sia una e sia capace di battere un colpo? Anzitutto dovrebbe scindersi dalla nebulosa neodemocristiana che si sta formando quasi come un berlusconismo senza Berlusconi. I Renzi, gli Alfano, perfino i Letta, sono destinati a convergere: chiamiamole “convergenze parallele” in onore alla sublime tradizione politica italiana, ma sempre convergenze saranno. L’idea di marcare stretto Renzi, stringendolo nella morsa di una burocrazia di partito che è uscita stracciata dalla candidatura di Cuperlo (l’uomo sbagliato nel momento sbagliato), è del tutto illusoria. Civati, ciò che resta del gruppo di Bersani dopo la grande sconfitta, le forze vive del Pd – se ancora ve ne sono – dovrebbero staccarsi dalla barca del rottamatore e dare vita a una formazione di sinistra europea coinvolgendo nel progetto anche Sel.
Una legge elettorale proporzionale di tipo tedesco, con uno sbarramento al 4 o 5%, favorirebbe un progetto del genere. Poi, in parlamento, si stabilirebbero le alleanze anche con il nuovo centro di Renzi, ma lasciando alla sinistra la sua autonomia organizzativa. Del resto, il ritorno alla legge elettorale precedente – al cosiddetto mattarellum, che è un sistema maggioritario con una quota di proporzionale – potrebbe andare altrettanto bene (e sarebbe anzi la soluzione più facile da realizzare), perché consentirebbe, nella necessità di dichiarare le alleanze in precedenza, di fare patti chiari con il nuovo centro e con Renzi, cui si affiderebbe la leadership in base al principio – che chissà quanto a lungo ancora oscurerà qualsiasi politica – che il leader è colui che più riesce ad attirare gli elettori apparendo sugli schermi televisivi. Grillo è certo un neoqualunquista, ma proprio in quel “neo” sta la sua forza: lui ha infatti mostrato che una parte consistente della comunicazione politica del futuro si farà a partire da Internet, non più dalle televisioni.

Le ragioni finanziarie della crisi dell’euro

di Vincenzo Comito - sbilanciamoci -
06/12/2013
 
Secondo alcune stime le necessità di ricapitalizzazione del sistema bancario europeo possano essere valutate tra 1,0 e 2,6 trilioni di euro, una somma colossale
Per valutare cosa si possa fare in concreto per risolvere la crisi dell’euro e dell’eurozona, bisogna analizzare le vere ragioni delle difficoltà presenti. L’analisi appare complessa ed a noi pare che le motivazioni della crisi debbano essere analizzate ad almeno cinque livelli contemporaneamente.
In sintesi e riferendosi al dibattito che si è svolto sul tema negli ultimi anni ci sembra che si possa dire che:
1) alla lunga è molto difficile che possa reggere una moneta senza il supporto di uno stato sovrano. Ora, a fronte dell’euro, non sta un’entità politica europea;
2) la costruzione dell’euro è messa poi sotto tensione dall’esistenza di grandi differenze di competitività tra i vari paesi, in particolare tra quelli del Nord Europa, con in testa la Germania, e quelli del Sud. Accanto alla differenze tra paesi, vanno sottolineate anche le disuguaglianze economiche crescenti rilevabili all’interno dei singoli stati;
3) sul piano ideologico si è poi affermata nell’eurozona l’egemonia della versione tedesca del neoliberismo, con il dogma dell’austerità. È un risultato che, come è noto, nasce dalla visione conservatrice dell’équipe al governo nel paese. Ricordiamo anche che, con il pretesto di ridurre l’indebitamento pubblico, si mira anche, a ridimensionare o a pressoché liquidare il ruolo dello stato nell’economia e, in particolare, il sistema del welfare;
4) il processo di costruzione dell’euro e, più in generale, tutto il processo decisionale dell’eurozona, è ancora marcato sin dall’origine dall’esistenza di un potere burocratico, in totale assenza di democrazia e di partecipazione alle decisioni da parte delle istituzioni elettive.
5) infine bisogna considerare il fronte finanziario, tema sul quale concentriamo oggi la nostra analisi.
La situazione finanziaria all’interno dell’eurozona
Il fronte finanziario è messo di solito in molto rilievo nelle analisi della crisi, ma spesso per le ragioni sbagliate. In effetti, è difficile dire che questa è una crisi del debito pubblico o prevalentemente del debito pubblico, come sostengono con accanimento Berlino e Bruxelles; essa è semmai, in generale, il frutto di un alto livello di indebitamento complessivo delle varie economie.
Essa comporta cioè un livello troppo elevato di debiti del sistema bancario, delle famiglie, delle imprese e del settore pubblico messi insieme. L’indebitamento del settore pubblico è diventato un rilevante problema sostanzialmente con la crisi, tranne che nel caso di Italia e Grecia, paesi nei quali la questione preesisteva.
Contemporaneamente, si è sviluppata una rilevante crisi bancaria.
Va segnalato in particolare, tra l’altro, come la tempesta del sub-prime, importata a suo tempo in Europa dagli Stati Uniti attraverso la cessione da parte del sistema finanziario americano alle banche del nostro continente di una fatta consistente dei titoli spazzatura, si è sommata in Europa con le difficoltà già in atto nel sistema bancario locale o in una parte di esso, in particolare in Spagna, Gran Bretagna, Germania, Irlanda, nonché con gli eccessi del debito pubblico presenti in Italia e in Grecia.
Gli Stati sono intervenuti per evitare il tracollo del sistema bancario e con questo essi hanno aumentato in maniera consistente il livello del loro indebitamento, messo in crisi peraltro anche dalla riduzione delle entrate fiscali, altro prodotto delle difficoltà dell’economia.
A loro volta le banche, che avevano ed hanno in portafoglio un livello elevato di titoli pubblici dei loro paesi, si sono ritrovate ancora di più esposte alla speculazione e alle paure dei mercati internazionali. Si è innescata così una spirale perversa tra sistema bancario e bilancio pubblico, che è uno degli aspetti salienti della crisi dell’eurozona. I due attori sono oggi strettamente interconnessi, come due fratelli siamesi (Soros, 2013).
Il debito privato
Le origini del disastro europeo stanno meno nella spesa troppo elevata dei governi che nell’eccessivo indebitamento privato. Le difficoltà di diversi paesi hanno fatto seguito all’elevato e irresponsabile livello dei prestiti privati presente già prima della crisi, in particolare ai debiti ipotecari in Irlanda ed in Spagna e a quelli delle imprese di nuovo in Spagna. In questi tre paesi i debiti dei privati e delle imprese superavano di molto il 200% del Pil già prima della crisi, ma oggi sono ben otto gli Stati dell’eurozona che si trovano in tale situazione. Oggi il problema dei debiti delle aziende è più grave in Portogallo, Spagna e Italia, dove il Fondo Monetario afferma che rispettivamente il 50%, il 40% e il 30% di essi è dovuto da società che hanno molte difficoltà a pagare gli interessi, ciò che impedisce loro, tra l’altro, di investire e di crescere (The Economist, 2013).
Una recente ricerca del Fondo Monetario Internazionale indica che un alto livello di debiti privati influenza più negativamente la crescita dell’economia di un paese rispetto a quanto faccia un elevato livello del debito pubblico (The Economist, 2013).
Molti paesi dell’eurozona non sono riusciti negli ultimi anni a ridurre in maniera significativa tali debiti a causa dell’austerità che ha approfondito la recessione, mentre le banche sono state riluttanti a riconoscere nei loro bilanci tutti i bad loans in cui erano incappate.
Ormai il sistema bancario europeo, tra l’altro, fa fatica a continuare a finanziare in particolare le piccole e medie imprese, specialmente nei paesi del Sud, ciò che aggrava la crisi; e questo dal momento, in particolare, che le istituzioni finanziarie risultano largamente e drammaticamente sottocapitalizzate, mentre esse temono anche di prestare soldi ad un sistema delle imprese chiaramente in difficoltà.
Secondo un’analisi della PwC (Fleming, 2013), i crediti dubbi del sistema bancario europeo avevano raggiunto alla fine del 2012 il livello di 1,2 trilioni di euro, contro i 514 miliardi di euro della fine del 2008. La previsione era per un ulteriore aumento nei prossimi anni.
Inoltre, è noto come le aziende italiane e spagnole, pur quando esse riescono ad ottenere degli affidamenti bancari, pagano per tali prestiti tassi di interesse ben più elevati di quelli delle concorrenti imprese tedesche o francesi, per l’esistenza di uno spread molto rilevante.
Oggi si stima che le necessità di ricapitalizzazione del sistema bancario europeo possano essere molto sommariamente valutate, secondo alcuni esperti, tra 1,0 e 2,6 trilioni di euro, una somma colossale.
Alla fine e sommariamente, si può dire che i responsabili politici cercano di risolvere la crisi del debito pubblico, mentre si trovano di fronte in realtà soprattutto ad una crisi bancaria. Ricordiamo incidentalmente che il sistema bancario europeo è tre volte più grande come dimensioni e due volte più indebitato di quello statunitense (Blyth, 2013).
Per altro verso, senza interventi adeguati ci ritroveremo con delle banche zombie, incapaci o non desiderose di fornire il credito necessario all’economia, frenando così ogni possibile ripresa (Das, 2013).
Verso uno scenario depresso e deflazionistico come in Giappone?
Lo scenario delle difficoltà bancarie appare simile a quello a suo tempo consolidatosi in Giappone, dove la ristrutturazione del sistema bancario è stata a suo tempo rimandata per l’assenza di consenso politico, ma anche per la mancanza delle grandi risorse necessarie alla bisogna, cosa che ha prodotto un ambiente stabilmente deflazionistico (Bini Smaghi, 2013), da cui non si riesce ad uscire.
Il confronto con il Giappone è ripreso da numerosi studiosi ed operatori. Così Mansoor Mohl-uddin, dirigente dell’Ubs (Mohl-uddin, 2013), sottolinea con forza le similarità delle due situazioni, quella cioè tra le banche dei due paesi. Una prolungata debolezza del settore finanziario in Giappone, con una molto lenta ricapitalizzazione delle banche e una ridotta espansione del credito, ha portato a suo tempo e alla fine ad una prolungata deflazione, al blocco dello sviluppo, ad importazioni limitate e rilevanti surplus commerciali. Questo ha comportato una sopravalutazione dello yen importante e di lunga durata.
Bisogna peraltro aggiungere che a suo tempo il Giappone, pur con tutte le difficoltà, era riuscito a mantenere uno stato di virtuale piena occupazione e una società civile abbastanza forte. Nell’eurozona assistiamo invece ad un approfondirsi dei livelli di disoccupazione, con il rischio ormai evidente della perdita di un’intera generazione e ad uno sfaldamento progressivo della società civile.
Conclusioni
C’è il rischio che qualcosa di simile alla situazione giapponese possa andare avanti nei paesi dell’euro. Bisogna che la Bce segua con convinzione una politica monetaria espansiva e bisogna anche che i governi dell’eurozona rafforzino le banche dell’area, ciò che richiede il varo effettivo di un’unione bancaria, varo cui si oppone peraltro nella sostanza la Germania, che non vuole, tra l’altro, alcuna mutualizzazione dei rischi e delle perdite bancarie.
Più in generale, sarebbe necessario affrontare a livello di eurozona e di unione europea il grande problema dell’indebitamento complessivo del nostro continente, di quello pubblico e di quello privato; ma appare difficile trovare delle soluzioni sino a quando non si sarà stabilito chi dovrà sostenere i costi della necessaria e, prima o poi, inevitabile ristrutturazione dello stesso.
Un quadro non molto brillante.
Naturalmente sarebbe interessante ricordare le ragioni per cui si è creato nel tempo questo grande indebitamento dei privati, delle imprese e delle banche. Ma ci vorrebbe un altro articolo.

Testi citati nell’articolo
-Bini Smaghi L., Bank capital is Europe big problem, www.ft.com, 31 maggio 2013
-Blith M., La reprise est une illusion, Le Monde, 24 agosto 2013
-Das S., Europe is heading for a relapse back into crisis, www.ft.com, 28 agosto 2013
-Fleming S., Troubled loans at Europe’a banks double in value, The Financial Times, 29 ottobre 2013
-Mohl-uddin M., ECB must act to prevent euro aping strong yen, www.ft.com, 11 novembre 2013
-Soros G., How to save the EU from the euro-crisis, www.guardian.co.uk, 9 aprile 2013
-The Economist, Debtor’s prison, 26 ottobre 2013

martedì 10 dicembre 2013

L'Europa giusta. Iniziamo a costruirla


09/12/2013
Le politiche di austerità nate con l’ossessione per l’insolvenza sul debito pubblico, stanno portando l’Europa verso la dissolvenza: un’immagine sempre più sfocata e scomposta, col rischio di una dissoluzione del progetto europeo che non ha più il consenso dei cittadini.
Nell’ultimo anno il dibattito politico ed elettorale nei paesi europei ha ovunque preso la strada di caratterizzazioni fortemente nazionali, dimenticando la questione comune della direzione che deve prendere l’insieme dell’Europa.
Allo stesso tempo si rafforzano in tutti i paesi le spinte populiste, anti-europee, di estrema destra, con prospettive di successo per forze come l’Ukip inglese, il Front National francese, il partito di destra tedesco anti-euro “Alternativa per la Germania”, l’estrema destra di Austria, Olanda e altri paesi. Si tratta di una deriva pericolosa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo della primavera 2014. Nei prossimi mesi il rischio è che il dibattito contrapponga da un lato l’Europa dell’austerità – gestita quasi ovunque da governi di grande coalizione - e dall’altro il rifiuto dell’Europa in nome di populismi e nazionalismi.
Questa, tuttavia, non è una scelta obbligata. Esiste un’altra Europa possibile, fondata non sul mercato e la finanza, ma sul lavoro, sui diritti, sull’uguaglianza, sulla sostenibilità, sulla democrazia.
Ma di fronte alla crisi europea, in effetti, il nodo irrisolto resta quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e le manifestazioni non funzionano, come si può “costringere” il potere economico e politico a cambiare strada per uscire dalla crisi?
Per realizzare un cambiamento di rotta, più concreta sembra la strada di costruire – senza scorciatoie - un’alleanza tra la “vittime” della crisi. Sul piano sociale, tra lavoratori di tutti i tipi – dipendenti e autonomi, precari e stabili, nativi e immigrati, giovani e vecchi, ricostruendo identità collettive e solidarietà sociali a scala europea. Sul piano economico, tra il lavoro e le imprese, contro il potere della finanza. Sul piano nazionale, tra i paesi della periferia messi ai margini dell’Europa. Un “vertice della periferia” in cui si incontrino movimenti sociali, associazioni, sindacati, forze politiche e, perché no, governi di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo sarebbe un passo importante per dare visibilità e voce all’altra Europa che vogliamo, quella che può fermare l’Europa della finanza e dell’austerità, ma anche le pulsioni verso un ritorno di nazionalismi.
In questa direzione si muove il forum organizzato dalla Scuola del Sociale della Provincia di Roma, in collaborazione con Sbilanciamoci! e European Progressive Economists Network (Euro-pen), “l'Europa giusta. Economia, lavoro e welfare. Analisi e proposte per uscire dalla crisi”. Il forum si svolgerà sabato 14 dicembre a Roma (Porta Futuro, via Galvani) e vedrà la partecipazione di Susan George e di economisti e attivisti italiani, greci, portoghesi, spagnoli, tedeschi. Per iniziare a cambiare la rotta dell'Europa.
PROGRAMMA
Sabato 14 dicembre 2013 • Porta Futuro, Via Galvani, Roma (Testaccio)
Forum
L’Europa giusta
Economia, lavoro e welfare. Analisi e proposte per uscire dalla crisi

ore 9.30-13
Apertura dei lavori
Giulio Marcon, Presidente del Comitato Scientifico della Scuola del Sociale
Massimiliano Smeriglio, Vice Presidente della Regione Lazio

Introduce e coordina
Mario Pianta, Università di Urbino e Sbilanciamoci!

L’Europa senza democrazia
Susan George, Transnational Institute, Attac Francia

Il lavoro in Europa. L’analisi degli “Economisti sgomenti”
Mireille Bruyère, Economistes Atterrés, Francia

Welfare e disuguaglianze in Europa
Maurizio Franzini, Università di Roma “La Sapienza”

L’Europa dell’immigrazione: dal rifiuto alla cittadinanza
Grazia Naletto, Lunaria e Sbilanciamoci!

Discussione
Buffet
ore 14-16.30
Coordina
Angelo Marano, Sbilanciamoci!

La Grecia dopo il “salvataggio” dalla crisi del debito pubblico
Marika Frangakis, Nicos Poulantzas Institute, Atene

La crisi sociale in Portogallo
Ventura Leite, Lisbona

La crisi sociale in Spagna
José Maria Mella, Universidad Autonoma de Madrid, Econonuestra

Come cambiare le politiche europee. Le proposte dell’EuroMemorandum
Trevor Evans, Berlin School of Economics and Law, EuroMemo Group

L’Italia in Europa. Le alternative di Sbilanciamoci!
Andrea Baranes, Sbilanciamoci!

Discussione

ore 17-18.30 Tavola rotonda
Dal Sud, la proposta di un’altra Europa
Coordina
Claudio Gnesutta, Università di Roma “La Sapienza” e Sbilanciamoci!

Partecipano
Giorgio Airaudo, Commissione Lavoro, Camera dei Deputati
Mireille Bruyère, Economistes Atterrés
Trevor Evans, Berlin School of Economics and Law, EuroMemo Group
Marika Frangakis, Nicos Poulantzas Institute, Atene
Susan George, Transnational Institute, Attac Francia
Ventura Leite, Lisbona
José Maria Mella, Universidad Autonoma de Madrid, Econonuestra

Discussione

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lunedì 9 dicembre 2013

Passaparola - La svendita della Banca d'Italia

- Lucio di Gaetano - beppegrillo -


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"Le quote della Banca di Italia che dovevano passare allo Stato potranno essere vendute e potranno essere vendute a soggetti stranieri purché comunitari.
Insomma, viviamo già oggi in un Paese che conta poco nel sistema europeo delle banche centrali, immaginate quanto potrà contare se la sua banca centrale sarà di proprietà degli stranieri!" Lucio Di Gaetano
Il Passaparola di Lucio di Gaetano, ex-dipendente Banca d'Italia
"Sono Lucio Di Gaetano, nella vita mi sono sempre occupato di banche, per cinque anni ho lavorato in Banca di Italia, per altri sette ho lavorato nel settore privato e ora faccio il consulente di azienda.
Sono qui per parlarvi della fregatura che il governo Letta, di nascosto, mentre si dichiarava la decadenza di Berlusconi ha fatto a danno di tutti gli italiani, attraverso il decreto sulla rivalutazione delle quote della banca di Italia, per avere 900 milioni di Euro senza sforare il tre per cento del deficit. Ne regaleremo 450 all’anno agli azionisti della Banca di Italia, che come sapete sono privati.
Ma facciamo un passo indietro, perché la banca di Italia nella governance ha azionisti privati? Perché c’è questa situazione da mondo di Oz dove un istituto di diritto pubblico è partecipato da banche private che sono detenute da fondazioni controllate dai partiti?
La Banca di Italia nasce nel 1893 ed è completamente detenuta da azionisti privati, all’epoca si usava così. Nel '26 il governo fascista la pubblicizza e espropria i suoi azionisti. Successivamente le quote del capitale della Banca di Italia vengono cedute alle banche, nel frattempo pubblicizzate a causa della crisi degli anni '30. Nel '93, a seguito della crisi finanziaria il governo Amato concepisce un mostro giuridico, la privatizzazione delle banche italiane mediante la'attribuzione delle loro quote di controllo alle fondazioni nominate dai partiti.
Il grosso del capitale viene quotato in borsa e di conseguenza oggi ci troviamo nell’azionariato della Banca di Italia, banche che agiscono con logiche di soggetti privati.
Per fortuna il mostro in passato è stato in qualche modo limitato, perché? Perché la ripartizione degli utili prodotti dalla Banca di Italia è sempre stata riservata in minima parte ai suoi azionisti privati, non più dello 0,5 per cento delle riserve, che ammontano più o meno a 22 miliardi di Euro. Per cui anni buoni e anni cattivi non hanno consentito agli azionisti di prendere più di 50 - 70 milioni di Euro all’anno dal capitale della Banca di Italia, che non si è mosso dalla cifra originaria di 156 mila Euro con cui era stato valorizzato.
Nel 2005 il governo Berlusconi fa per miracolo una legge giusta e stabilisce che le quote nel capitale della Banca di Italia, detenute da soggetti non pubblici debbano passare entro tre anni allo Stato.
Sono passati otto anni e quella legge è rimasta inattuata.
Il 27 novembre notte tempo, mentre il Parlamento dichiara la decadenza di Berlusconi e tutti i cittadini sono distratti, Saccomanni fa una clamorosa marcia indietro, con un decreto legge stabilisce che la Banca di Italia non sarà più destinata a diventare un istituto di diritto pubblico detenuto dallo Stato, ma una public company, ovvero una società a azionariato diffuso con azionisti tutti privati.
Inoltre, il capitale della Banca di Italia passerà dagli attuali 156 mila Euro a 7,5 miliardi di Euro, con un forte vantaggio patrimoniale per tutti partecipanti, che saranno obbligati a pagare una imposta, per di più agevolata, del 12%, e avranno, poi, tutto il tempo per eseguire l’obbligo di vendita della quota eccedente il 5% eventualmente detenuta, con una fortissima plusvalenza.
E torniamo alla fregatura di cui parlavamo all’inizio, la cosa più importante è che fino a oggi la Banca di Italia non poteva distribuire un utile superiore al 10% dell’attuale capitale sociale, di 156 mila Euro, più una quota delle riserve, che per prassi non superava mai lo 0,5 per cento all’anno.
Nel progetto del governo Letta questo limite viene alzato al 6% del nuovo capitale sociale di 7,5 miliardi di Euro, vale a dire ben 450 milioni di utili distribuibili all’anno.
Non è cosa di poco conto, perché se i grandi banchieri possono brindare a champagne i cittadini non hanno proprio nulla da festeggiare! Quei 450 milioni, se non fossero dati ai banchieri privati andrebbero dritti nelle casse dello Stato. Come è stato fino a oggi.
Ma non finisce qui, anzi la fine è peggio dell’inizio, perché un’altra incredibile novità di questo magnifico progetto è che le quote della Banca di Italia che dovevano passare allo Stato potranno essere vendute e potranno essere vendute a soggetti stranieri purché comunitari.
Insomma, viviamo già oggi in un Paese che conta poco nel sistema europeo delle banche centrali, immaginate quanto potrà contare se la sua banca centrale sarà di proprietà degli stranieri!
Interessa? Passate parola.
Clicca qui per approfondire l'argomento della settimana testo di Lucio di Gaetano
Grazie a Piero Ricca per la collaborazione.

domenica 8 dicembre 2013


Con Tsipras per una lista di cittadinanza europea

Fonte: Micro Mega | Autore: Alfonso Gianni
                 
Dalla crisi nella quale siamo immersi non si può uscire né con brodini caldi (come punta a fare la finanziaria in discussione in Parlamento), né con il nuovo piano di dismissioni e privatizzazioni annunciato dal governo. Occorre rimettere in discussione i trattati europei: ecco perché le prossime elezioni per il rinnovo del parlamento Ue sono così importanti.
Con la legge di stabilità (ex legge finanziaria) attualmente in discussione alla Camera sono entrate in vigore le ultime norme che la governance europea si è recentemente data, derivanti dal Trattato detto Two pack. Nella fattispecie esse consistono nel fatto che il testo della legge di stabilità, prima ancora di essere messo in discussione dai singoli parlamenti, deve ricevere una supervisione dagli organismi europei, i quali hanno il potere di entrare nel merito per verificare se la legge proposta è congrua con gli obiettivi di riduzione del debito che la Ue si è data. In caso contrario il governo è invitato da apporre le correzioni “suggerite” dalla Commissione europea. Solo dopo interverrà il Parlamento.
E’ evidente che siamo di fronte ad un ulteriore passo verso il rafforzamento in senso a-democratico degli organi di governo della Ue. La potestà in materia di bilancio dei singoli parlamenti è completamente esautorata o quantomeno posta , passo per passo, sotto il vigile e invadente controllo degli organismi europei. La situazione è paradossale. In sostanza la politica economica dei singoli stati europei la decide e la fa la Commissione europea, mentre non esiste una vera politica economica a livello complessivo della Ue.
La “prima volta” dell’Italia non è andata bene. Il testo proposto non è piaciuto affatto a Olli Rehn & C. Così la possibilità su cui contava molto Letta di potere fruire nell’anno prossimo di un pacchetto di investimenti da fare fuori dai margini del patto di stabilità pare sfumata. Bisogna usare ancora il dubitativo, perché il ministro Saccomanni ha insistito sul fatto che c’è stato un equivoco sui numeri e sui conti. Il che indica, se non altro, come il testo fosse pasticciato e abborracciato. Poi vi sono state le modifiche introdotte dalla maggioranza di governo con annessa fiducia al Senato. Vedremo ora cosa uscirà dalla Camera. Ma è chiaro che dopo la fiducia al Senato i margini di modifica sono minimi se non nulli.
Se guardiamo al contenuto della proposta di legge governativa, comprensiva delle modifiche già apportate (che sanno tanto di cose previste già in anticipo per dare un contentino al dibattito parlamentare svuotato di sostanza decisionale), non si può non convenire con un bocconiano doc, quale è Tito Boeri, che ironicamente ha scritto che questo governo andrebbe denunciato per omissione di soccorso. Si intende nei confronti della boccheggiante economia italiana.
Del resto il dibattito reale è dominato dalla questione Imu sì Imu no, con il tentativo di risolvere l’elevata contesa con un semplice cambio di nome alla tassa (Iuc). Ma se uno cerca il filo conduttore di una politica economica un minimo coerente nel testo governativo, non lo trova. La paura di incorrere negli strali della Ue – che peraltro come abbiamo visto non è stato evitato – connessa con una gestione tardo neo-democristiana, mi si conceda l’ossimoro, in base alla quale non bisogna scontentare (quasi) nessuno di coloro che hanno una qualche forza contrattuale – non parlo del lavoro dipendente visto che i sindacati tale forza hanno deciso di non esercitarla o l’hanno del tutto perduta – e lobbistica, ha partorito un testo che al massimo tira a campare.
Ma questa è un’illusione del tutto politicista. L’Italia non è solo in crisi, è entrata oramai in una profonda depressione, che per il nostro paese – ma anche per buona parte dell’Europa – ha conseguenze ben peggiori di quella del 1929. Se guardiamo alla minore crescita negli ultimi due lustri, quindi anche prima dell’inizio della crisi economica internazionale; all’aumento della disoccupazione, con punte di disperazione come in quel 41,2% di disoccupazione giovanile; alla riduzione del reddito procapite e quindi allo spostamento di reddito da lavoro verso il capitale e la finanza; all’incremento della povertà fuori e dentro il lavoro, si hanno tutti gli elementi che qualificano uno stato di depressione.
Da qui non si può uscire né con brodini caldi, né puntando su un nuovo piano di dismissioni e privatizzazioni. Anche in questo caso si naviga molto a vista e con scarso senso di responsabilità. Quasi si trattasse di fatti che dipendono più dalle emozioni che non da calcoli economici. La confusione è tanta e invade anche il mondo dei più informati. Sintomatico a questo riguardo era l’editoriale di qualche giorno fa sul Sole 24 Ore di Alberto Quadrio Curzio che cercava di sostenere la possibilità di smontare le perplessità della Commissione europea attraverso una specie di gioco di prestigio. L’autorevole economista dell’Università Cattolica di Milano scriveva testualmente (il virgolettato è necessario altrimenti si stenta a credere): “La stessa (la Cassa Depositi e Prestiti, n.d.r.) è un’azienda privata di mercato pur essendo posseduta dallo Stato all’80% e perciò è sbagliato dire che cessioni di partecipazioni alla Cdp non sono privatizzazioni o addirittura dire che sono mere partite di giro a carico del contribuente.”
A questo punto a Enrico Letta, ascoltate alcune polemiche suscitate dall’articolo dell’autorevole editorialista, non rimaneva che precisare che, al contrario, l’intenzione del governo è proprio quella di vendere le quote di società pubbliche che attualmente sono in possesso della Cdp! Ma tutto ciò è solo un’ipotesi per il futuro, oltre che essere una minaccia per quel poco di pubblico che è rimasto nel nostro paese. Non accontenta quindi gli occhiuti “revisori dei conti” in anticipo di Bruxelles, né tantomeno chi vuole uscire dalla crisi senza impoverire ulteriormente il nostro paese.
Ma tutta questa vicenda – al di là del dettaglio delle norme contenute nella legge su cui conviene tornare una volta che sia definitivamente approvata – sottolinea ancora una volta di più la necessità di abrogare e rimettere in discussione i recenti trattati, il fiscal compact, il two pack, nonché i trattati originari a partire da quello di Maastricht. Questo è il tema che ci troveremo di fronte nella prossima primavera, quando si voterà per il rinnovo del parlamento europeo.
La destra spera di rimettere in sesto le proprie fila acciaccate dopo l’epilogo della vicenda di Berlusconi, puntando su una versione nostrana di un tradizionale antieuropeismo tipico delle destre continentali. Il movimento grillino pare agitare la stessa scelta in chiave ancora più populista, e trova anche nella sinistra estrema qualcuno che lo ascolta o addirittura lo ha preceduto.
Il Pse e le forze che lo compongono puntano sulla candidatura di Martin Shulz a Presidente della Commissione – la nuova formula che personalizza seppure in modo virtuale il voto, rendendo però anche più semplice l’individuazione degli schieramenti in campo. Nel contempo il partito cui Schulz appartiene, la Spd, ha concluso un accordo per dare vita a una Grosse Koalition in Germania assieme alla Merkel. Come noto ha contrattato un programma che ha qualche elemento di novità per ciò che riguarda la situazione interna – fra cui una retribuzione minima oraria – ma è perfettamente coerente con le politiche precedenti seguite dalla Germania in Europa, a partire dal rifiuto degli Eurobonds. In sostanza anche i socialdemocratici si schierano con nettezza contro ogni forma di mutualizzazione del debito e di riequilibrio nei rapporti tra i paesi europei, che sono concause della più grave crisi economica che il continente europeo abbia mai affrontato. Ha ragione quindi Guido Rossi nel dire che più che una Grande Coalizione la si potrebbe definire un’intesa per una Grande Stagnazione.
Sul versante della sinistra anti-austerity ha preso invece corpo la candidatura di Alexis Tsipras, il dirigente di Syriza, la formazione politica che si è battuta con coerenza contro i diktat della Troika in Grecia, senza cedere alle pulsioni di una fuoriuscita dall’Europa e dall’Euro. Su questa base Syriza ha costruito in breve tempo tali e tanti consensi che rendono probabile una sua vittoria, dopo averla già sfiorata, in caso di nuove elezioni in Grecia. La candidatura di Tsipras appare quindi autorevole per più motivi. Ha dimostrato di sapere condurre in patria una lotta capace di aggregare un vasto schieramento e di volere affrontare il problema di un cambiamento radicale nelle politiche economiche della Ue, a partire da un’alleanza con i paesi del sud dell’Europa, che sia anche in grado di rivitalizzare un processo di democratizzazione nella costruzione politica della Unione europea.
La scelta è dunque chiara a sinistra. Chi, nelle prossime elezioni europee, si collocherà sulla scia di Shulz non potrà, nel migliore ma improbabile dei casi, che temperare un poco le politiche smaccatamente neoliberiste della Merkel. Chi sceglierà lo schieramento “guidato” da Tsipras si porrà nel campo della ricostruzione di un’altra Europa, senza tacere le difficoltà che una simile impresa comporta. Ma è l’unica strada per salvare l’idea stessa di Europa come soggetto autonomo agente sullo scenario mondiale.
In Italia il movimento politico della sinistra è estremamente frammentato. I tentativi di rimetterlo insieme in precedenti elezioni nazionali ha sortito effetti pessimi. E’ invece necessario e possibile costruire una lista di cittadinanza europea che aspiri legittimamente a portare eletti a Strasburgo partendo e rendendo protagonista, dalla definizione del programma alla scelta dei candidati, la sinistra diffusa: quella dei referendum vincenti e delle lotte sociali dentro e fuori i luoghi di lavoro; quella delle lotte per i diritti civili e per la difesa della Costituzione, quella dei conflitti per la casa, la difesa del territorio, contro il precariato; quella delle intellettualità critiche e dei lavoratori dell’informazione. Quella sinistra cioè che continua a esistere ad onta dei ripetuti flop delle piccole organizzazioni partitiche che non riescono a rappresentarla e che non vuole perdere l’occasione della scadenza elettorale europea per affermare che per costruire un’altra Europa c’è bisogno di un non breve processo di riunificazione degli interessi popolari in tutto il continente.

Non c’è pace per i pensionati

Fonte: Liberazione | Autore: Sante Moretti
                   
La legge di stabilità votata dal Senato non modifica la legge Fornero e introduce alcune misure che peggiorano la condizione dei pensionati e di chi andrà in pensione. Non è credibile l’ipotesi di modifiche alla Camera che si limiterà a discutere il pasticcio dell’Imu.
In soldoni. Le pensioni superiori a 1.486 €uro lordi saranno parzialmente rivalutate fino a 2.973 €uro: fino a 1.487 €uro lordi la rivalutazione è piena, tra i 1.487 ed i 1.982 €uro è del 90%, da 1.982 a 2.478 €uro del 75%, da 2.478 a 2.973 €uro del 50%.
Per quelle superiori è abolita la rivalutazione al costo della vita. È eccessivo considerare d’oro una pensione di 3.000 €uro lorde (2.000 €uro nette).
Nel biennio 2012/2013 con il blocco della rivalutazione sono stati sottratti dagli assegni pensionistici di 6 milioni di anziani mediamente 700/800 €uro che non verranno più recuperati: una diminuzione permanente della pensione. La rivalutazione per il 2014 sarà di circa 5 €uro al mese per le pensioni minime, 10 per quelle di 1.000 €uro e di 15 per quelle fino a 3.000 €uro lorde mensili.
Da tempo contestiamo questo sistema di rivalutazione in quanto è maggiore se la pensione è più elevata ed il paniere non è tarato sui consumi degli anziani.
Viene introdotto il contributo chiamato di solidarietà per aggirare il parere negativo della Corte Costituzionale che ha annullato quello deciso dal governo Berlusconi e confermato dal decreto “Salva – Italia” con la conseguente restituzione di quanto trattenuto a 35.000 anziani che percepivano pensioni superiori a 100.000 €uro.
Il prelievo è pari al 5% per gli importi di pensione tra i 90.000 €uro annui ed i 150.000 e sale al 10 per gli importi da 150.000 ai 200.000 e del 15% per le eccedenti.
Si sostiene che questo prelievo, poco più di 40 milioni, dovrebbe servire nel prossimo triennio a sperimentare il salario minimo ed a sostenere i poveri. Si dovrebbero vergognare, come si può, per finalità condivisibili che interessano milioni di persone, rendere disponibili 40 milioni in tre anni?
Rimane in vigore il prelievo dello 0,3% e dell’1% sulle pensioni in base agli anni di contribuzione versati prima del 1996 degli iscritti ai fondi speciali elettrici, trasporti, dirigenti di azienda ed altri…
Dal 2014 l’età per la pensione di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti salirà a 63 anni e 9 mesi ed a 64 anni e 9 mesi per le autonome (commercianti, artigiane o coltivatrici): per la pensione di anzianità saranno necessari 42 anni e 6 mesi di contributi.
È rimasto intanto tragicamente irrisolta la drammatica condizione degli esodati.
È dal 1992 che tutti i governi (cominciò Amato) sono intervenuti sulle pensioni con l’argomento che sul terreno economico il sistema non regge, che è cresciuta la speranza di vita, che le pensioni pesano troppo sullo stato sociale, che il rapporto con il PIL degli altri paesi europei è negativo.
Negli ultimi due anni hanno prelevato 6 miliardi di €uro per tamponare la crisi: una rapina a viso scoperto!
L’Inps ha diffuso alcuni dati su cui torneremo. su 16.650.000 pensionati ben 7.200.000 percepiscono meno di 1.000 €uro al mese e di questi 2.600.000 meno di 500 €uro.
Il bilancio dell’Inps 2012 è in passivo di circa 10 miliardi a causa della confluenza dell’Inpdap che vi ha scaricato un analogo disavanzo. Il lavoratori dipendenti, malgrado l’aumento dei disoccupati, è attivo di 1 miliardo e 350 milioni, quello dei precari di 8 miliardi e 716 milioni. Contemporaneamente vengono confermati i pesanti deficit delle gestioni dei lavoratori autonomi, dei dirigenti d’azienda, del clero, dei fondi speciali (trasporti, ferrovieri, elettrici…). E’ confermato da tutti gli osservatori economici un aumento esponenziale delle famiglie a rischio di povertà.
Ma i continui interventi sulle pensioni puntano ad un sistema che si basi sulla previdenza integrativa, a rompere la continuità tra salari e pensione (salario differito), a diminuire i contributi (parte del salario), a superare la previdenza pubblica con forme di assistenza.
Sappiamo bene che un confronto vero non si riesce ad aprire in quanto le confederazioni sindacali ed i sindacati dei pensionati non possono mettersi di traverso né al PD né al PDL né tantomeno a Napolitano.
Né le nostre argomentazioni trovano spazio nei mass-media.
Abbiamo rivendicato un tetto alle pensioni, ma riteniamo debba essere esteso ai vitalizi, agli organi costituzionali, alle casse dei giornalisti, dei notai, degli avvocati…come pure ai salari, compensi, emolumenti del settore pubblico e privato. Sappiamo bene che una simile “bolscevica” misura confligge con il sistema di produzione capitalistico ma riteniamo sia l’unico strumento efficace per superare la crisi e praticare un minimo di giustizia sociale.

Quegli italiani con gli "occhi a mandorla" dietro ai cinesi dei laboratori-lager

Autore: fabio sebastiani               - controlacrisi -      
Un laboratorio clandestino cinese in cui si preparavano scarpe con dormitorio attiguo e asilo nido tra i macchinari. L'ennesima fabbrica fantasma svolgeva la sua attivita' in due villette-opificio ad Albonese e Parona, in provincia di Pavia. Negli ultimi giorni le forze dell’ordine si sono scatenate nei controlli. Dopo il tragico rogo di Prato, e la figuraccia del governo che è corso a dire per bocca del ministro del Lavoro Giovannini che i controlli si facevano eccome, stanno venendo fuori situazioni di sfruttamento e precarietà oltre ogni immaginazione. E non riguardano solo i cinesi. Anzi, come a Prato, dove si è scoperto un giro di certificati falsi gestiti da italiani, in tutti i casi i cittadini del Bel Paese fanno affari d'oro.

Al Sud proprio queta mattina nelle campagne di Villa Liternoè stata scoperta una tratta di migranti che per dodici ore di lavoro venivano pagati 25 euro. Una sorta di Vietnam-Italia che non sembra più così tanto enclave. Il legame stretto tra criminalità e traffici dei cinesi sta venendo fuori in Campania con sempre maggior forza. Del resto basta dare un’occhiata ai numeri. La presenza di imprese cinesi in Campania ha subito un boom senza precedenti negli ultimi dieci anni: oggi se ne contano oltre 3mila, facendo della Campania la regione con la maggiore presenza di 'lanterne rosse' nel Sud Italia: dal polo tessile di San Giuseppe Vesuviano ai negozi nella periferia est di Napoli e sulla ex Circumvallazione esterna, che collega il capoluogo campano al litorale domizio. Fino ad arrivare ai recenti primi tentativi di espansione nelle zone dello shopping napoletano.
Boom di presenze in poco tempo anche a Matera, dove la comunità cinese è di quasi mille persone. Ed è pari all'1 per cento della popolazione complessiva e a quasi il 30 per cento di quella straniera. Il primo insediamento risale a circa quindici anni fa in coincidenza con il boom del settore del mobile imbottito di cui Matera e' stato uno dei centri principali di sviluppo insieme alle vicine citta' della Puglia, Altamura e Santeramo in Colle. Da quel momento e' stata una crescita costante.
A Pavia, poi, i cinesi lavoravano, per ammissione degli stessi inquirenti, ''anche per griffe di alta moda nazionali e internazionali''. Gli operai, molti con bambini di pochi mesi al seguito, facevano turni lunghissimi e vivevano all'interno delle 'fabbriche' in condizioni igienico-sanitarie precarie e in presenza di centinaia di litri di solventi infiammabili dove i carabinieri hanno fatto irruzione dopo una serie di segnalazioni per rumori notturni molesti.

I titolari, due coniugi cinesi entrambi di 30 anni, regolari in Italia (lei con partita iva) si appoggiavano a due proprietari di casa pregiudicati, probabilmente dei prestanome, un uomo di 32 anni e una donna di 46.

I primi sono stati denunciati con l'ipotesi di riduzione in schiavitu' (che pero' dovra' essere suffragata da eventuali denunce degli operai), i secondi per reati edilizi: avevano infatti modificato gli immobili per renderli funzionali al lavoro all'interno del laboratorio ricreando piccoli locali per far dormire i lavoratori e i loro famigliari vicino alle postazioni dove si svolgeva l'attivita' artigianale. All'interno, gli operai e le loro famiglie, compresi alcuni bambini, dormivano tra taniche di liquidi altamente infiammabili molti dei quali aperti, tra esalazioni dannose per la salute.
Anche i carabinieri della Stazione di Parabiago (Milano) dopo una serie di servizi di osservazione nei pressi di un magazzino sospetto a Canegrate, hanno trovato 10 cittadini cinesi, clandestini, al lavoro alle loro postazioni dotate di macchine da cucire per la produzione di tessuti. Nel laboratorio erano state ricavate camere da letto, dove i lavoratori riposavano una volta terminato il turno. Il magazzino era riscaldato con una stufa a pellet che non rispetta le norme di sicurezza, e presentava un'area adibita a camera da letto e una zona dove gli operai cucinavano su un boiler a fiamma viva. I tre titolari, cinesi 50enni, sono stati denunciati per sfruttamento e favoreggiamento di immigrazione clandestina e violazione della tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro.
Ancora decine di bombole di gas gpl tenute in condizioni di sicurezza molto precarie, standard di igiene e condizioni abitative del tutto fatiscenti al centro di un altro blitz della polizia, insieme a vigili del fuoco, Ausl e direzione provinciale del lavoro, che ha sequestrato un opificio-dormitorio cinese in via Sardegna, nella zona della stazione ferroviaria di Reggio Emilia. "Una situazione potenzialmente esplosiva", ha spiegato il vicequestore di Reggio Emilia Cesare Capocasa. In caso di emergenza, infatti, le uscite di sicurezza erano ostruite dalle bombole di gas, che erano dislocate in vari punti dell'edificio causando, potenzialmente, inneschi a catena, in grado di far saltare per aria l'intera struttura. All'interno sono stati trovati trenta cinesi, che lavoravano e abitavano nell'opificio insieme anche ai figli. Tre sono risultati non regolarmente assunti e uno clandestino.

L'edificio, di proprieta' di una societa' reggiana, era stato affittato a un datore di lavoro cinese che lavorava soprattutto per aziende emiliane e del Veneto. L'edificio e' stato sottoposto a sequestro e sono state comminate pesanti sanzioni.
Sequestri simili sono stati effettuati anche in centro-Italia (Fabro), dove una ottantina di operai cinesi lavoravano 12 ore al giorno per non più di 800 euro, quindi poco più di due euro e mezzo l’ora. Si tratta per lo piu' di giovani, tra cui molte donne, provenienti dalla stessa regione della Cina. Reclutati quasi tutti - e' emerso dall'indagine - direttamente nel Paese di origine dal loro connazionale denunciato per sfruttamento del lavoro.

L'attivita', secondo le fiamme gialle, veniva portata avanti a Fabro da almeno quattro anni. Praticamente segregati all'interno di quel luogo di lavoro, i lavoratori dormivano su materassi sporchi e malsani, poggiati anche sui pavimenti, consumando i pasti in un refettorio comune in condizioni igieniche disastrose, disseminato di alimenti avariati o in pessimo stato di conservazione, con a fianco, decine di macchine da cucire. Al termine dell'operazione, denominata ''Fabro Fibra'', i titolari delle due aziende sono stati denunciati per dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali mentre un terzo cinese, il cui scopo era quello di reclutare manodopera in nero per le due ditte in verifica approfittando dello stato di bisogno e di necessita' dei lavoratori, e' stato denunciato per sfruttamento del lavoro.

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