Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 11 maggio 2013

La tragedia in Bangladesh deve essere l'ultima. Abiti Puliti ha pubblicato i nomi delle multinazionali coinvolte

Fonte: rassegna                
"I morti stanno aumentando. Ci vorrà del tempo per avere una stima completa. Forse non la otterremo mai”. Con poche, secche battute Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sintetizza la drammaticità di quanto avvenuto in seguito al crollo del Rana Plaza, l’edificio situato alla periferia di Dacca, in Bangladesh, dove avevano sede cinque fabbriche tessili. Gli operai sapevano che la struttura era pericolante, lo avevano fatto presente. Del resto, le crepe sui muri erano ben visibili. Lo scorso 23 aprile, il giorno prima della tragedia, si era svolta un’ispezione. Il Rana Plaza era stato dichiarato inagibile. Agli operai si era detto di tornare alle proprie postazioni, e loro non si erano potuti sottrarre. Quando il lavoro è un ricatto, anche pochi spiccioli possono essere importanti.

Poi il crollo, il palazzo che si sbriciola, centinaia di persone sotto le macerie . Sono giovani, per lo più donne. All’esterno, la gente comincia a radunarsi. Ne nasce una protesta. Le vittime accertate sono oggi più di 1000, ma il bilancio è destinato a salire. Si contano oltre 2.400 feriti. E chi sa se, in quel senso di smarrimento e di sorpresa che deve seguire una simile tragedia, nell’attimo prima che il dolore si manifesti, la mente si domanda il perché. Qual è il senso di quanto è avvenuto? Il motivo è il profitto. Ma, a ben guardare, le basi che lo sostengono non sono poi così tanto solide. Le multinazionali della moda, i cui capi d’abbigliamento sono in larga misura prodotti in Bangladesh, non hanno molto da guadagnare da storie così catastrofiche.

“Il rispetto dei diritti conviene a tutti – osserva Lucchetti –. Produrre povertà impoverisce anche noi. Gli effetti sulle nostre società sono immediati. Il cattivo lavoro è una logica che ha ovunque ripercussioni negative. La precarietà occupazionale che viviamo in Occidente si collega alle condizioni di sfruttamento selvaggio nei paesi emergenti. È una logica che non fa distinzioni. Pensiamo, poi, alla qualità dei prodotti che importiamo, al tipo di tintura che viene utilizzata per colorare ciò che indossiamo. In molti casi contiene agenti chimici pericolosi. L’Europa li ha messi al bando, ma altrove non esiste una simile attenzione. Non vale la pena di acquistare per pochi euro una maglietta di dubbia qualità. Meglio pagare un prezzo più alto oggi, per conquistare un domani fatto di salute, dignità e integrità ambientale”.

Il Bangladesh sta attraversando una fase di incredibile crescita economica . È la seconda potenza mondiale per esportazioni, l’80 per cento delle quali riguarda i prodotti tessili. Le fabbriche di filati sono 5mila, quasi tutte ospitate in strutture fatiscenti. Dal punto di vista contrattuale convivono situazioni diverse. Ci sono operai con contratti a termine, altri impiegati in nero, schiavizzati. Molto diffuso è il lavoro a cottimo. Sono i giovani a sostenere lo sviluppo. Lo fanno subendo ogni tipo di violenza, ma la loro capacità di reazione è alta. Lo si è visto all’indomani del crollo del Rana Plaza, quando una folla compatta si è recata presso altri stabilimenti per rivendicare giustizia e sicurezza. Tra di loro molte donne. Che chiedono futuro.

I sindacati agiscono in un clima avverso e corrotto . Non di rado, le aziende sono sostenute dal governo, e questo accresce la discrezionalità dei loro comportamenti. Tra le battaglie della Campagna Abiti Puliti, nata nel 1989 in difesa dei lavoratori del settore tessile nel mondo, c’è quella riguardante la richiesta di una completa ridefinizione dei contratti a livello internazionale. Occorrerà rivedere i metodi di produzione attuali, ottenere la messa in sicurezza degli impianti. Nel frattempo, le famiglie delle vittime del crollo dovranno essere adeguatamente risarcite, i feriti indennizzati, sostenuti. Tra i marchi coinvolti, alcuni hanno già dichiarato la loro disponibilità.

Abiti Puliti ha pubblicato i nomi delle multinazionali coinvolte , in quanto committenti delle lavorazioni che si svolgevano all’interno del Rana Plaza. Ci sono Mango, Primark, El Corte Inglés, Bon Marche. Tra le italiane, la Benetton. L’azienda ha dichiarato di aver depennato dalla lista dei suoi fornitori quella che operava nell’edificio coinvolto. I rapporti con quel polo produttivo, poi, erano stati episodici, fanno sapere. Una risposta sufficiente? Emilio Miceli, segretario generale della Filctem Cgil, ha annunciato che chiederà un incontro con il gruppo. “Davvero – si interroga – le imprese, i grandi marchi globali, non sapevano che in Bangladesh si lavora ancora in un regime di schiavitù? Come pensano che forniture a costo davvero inconsistente possano remunerare condizioni di lavoro decenti? Benetton e tutti coloro che, in Italia e fuori dall’Italia, hanno rapporti con aziende di quel tipo devono cominciare a prendere provvedimenti e a parlare. E devono farlo anche con il sindacato italiano: siamo interessati a sapere come si comportano con i loro fornitori. Non possiamo tollerare comportamenti di questa natura”.

Occorre un’assunzione di responsabilità vera . Scegliere in maniera oculata i soggetti cui affidare le lavorazioni, essere vigili sul loro operato. Molti marchi di abbigliamento italiani hanno già accolto questa logica. Si sono spostati su segmenti alti di mercato, sanno che la cattiva pubblicità potrebbe danneggiarli. L’opinione pubblica italiana è sensibile a queste problematiche. E i sindacati hanno sempre esercitato pressioni sulle aziende colpevoli di trarre i propri profitti dallo sfruttamento della manodopera all’estero. Sebbene certe distorsioni siano lontane dall’essere state risolte, il nostro paese può vantare buoni esempi.

Alcune aziende hanno capito che facendo leva su condizioni di disparità economica e lavorativa “il vantaggio iniziale – dice Miceli – ti crolla tra le mani. Molte hanno trovato una reale convenienza nel sottrarsi alla responsabilità di certe situazioni. Un’eco mediatica negativa può rovinarti”. L’economista Clemente Tartaglione, ricercatore del network Ares 2.0, parla con estrema chiarezza. “L’approccio opportunistico delle aziende, basato sullo sfruttamento, ha dato solo risultati svantaggiosi. Oggi bisognerebbe lavorare a un accordo su larga scala con l’impegno a verificare e impedire l’accesso a certi tipi di forniture. Una soluzione potrebbe essere la responsabilità in solido delle aziende. Ciò comporterebbe un obbligo di controllo non solo sul fornitore, ma su tutta la catena dei sub fornitori. Si tratterebbe di un importante passo avanti, in una direzione etica e di responsabilità sociale”.

"Incriminare Benetton per corresponsabilità nella strage di Dacca". Intervento di Giorgio Cremaschi

Autore: giorgio cremaschi - controlacrisi
                 
Lo sappiamo oramai cosa è la globalizzazione per il lavoro. È un sistema di sfruttamento brutale delle persone a cui vengono negati o sottratti diritti sanciti dalle leggi dagli accordi internazionali dai principi della civiltà e della democrazia. Dopo la tratta degli schiavi che finanziò la prima grande rivoluzione industriale della fine del 700, questa globalizzazione è ciò che le somiglia di più. Come allora produce ricchezza anche se la distribuisce in maniera vergognosa. Come allora le briciole di questa accumulazione si distribuiscono a vasto raggio, ne ricevono anche tanti che ricchi non sono, anche coloro che sono vittime di questo moderno schiavismo. (...)
Ma questo non vuol dire che tutti siamo colpevoli allo stesso modo. No, non ci sto. Rifiuto la moderna versione della propaganda degli schiavisti del sud degli Stati Uniti, che nell'800 spiegavano che anche gli operai di New York usavano il cotone fatto dagli schiavi.
Odio gli indifferenti e i complici, ma distinguo. Viviamo tutti nello e dello stesso sistema criminale dalla globalizzazione capitalista, ma tra chi di questo sistema tira i fili delle decisioni e trae i massimi profitti, e chi con tutte le sue contraddizioni cerca di abolirlo c'è una bella differenza.
Perché se c'è il sistema schiavista, ci sono anche i proprietari di schiavi e i caporali che ne eseguono gli ordini.
Io dico che i Benetton sono dei criminali, perché se si appalta il lavoro in Bangladesh a certi prezzi, a certe imprese, a certe autorità, se si pretende un certo guadagno per maglietta, non si può non sapere che la gente muore per farle.
Non sono certo i soli, ma devono pagare, da qualche parte bisogna pur cominciare.
Quindi chiedo che i Benetton siano incriminati dalla magistratura per corresponsabilità nella strage di Dacca.
Credo giusto che si lanci una campagna di boicottaggio di tutti i prodotti Benetton. Domando che il parlamento faccia una inchiesta sulle proprietà di questa famiglia: perché sono concessionari delle autostrade e fanno le magliette in Bangladesh, è compatibile? Per me no.
Insomma basta con questa logica assolutoria , tutti responsabili nessuno responsabile e avanti così... qui il colpevole c è e diamoci da fare.

Polverini insultata al ristorante: "Vergogna!"



Roma, 10 maggio 2013 - Dura contestazione ieri sera in un ristorante a Roma per Renata Polverini, ex governatore del Lazio e ora deputato del Pdl. Un gruppo di persone, la maggior parte giovani, è entrato nel locale con uno striscione che diceva tra l’altro ‘Loro mangiano e Roma sanguina, senza risorse, senza sanità pubblica’, come si vede nel video postato su Youtube dagli stessi contestatori. Polverini era a tavola con una decina di persone, tra cui il candidato del Pdl alle comunali Enrico Folgori.

venerdì 10 maggio 2013

La casa comune non vuole il cappello

Guido Viale

Anche se le modalità hanno lasciato tutti basiti, i passaggi che hanno portato alla formazione del nuovo governo, quale che ne sia poi l’esito (finiranno comunque tutti in bocca a Berlusconi, Napolitano compreso), erano in qualche modo scontati. Il Pd non avrebbe mai potuto imboccare una strada diversa dopo più di un anno di sostegno senza se e senza ma a Monti, cioè al definitivo trasferimento del governo del paese dal Parlamento (già sostanzialmente esautorato dal porcellum) alla Bce e, per suo tramite, alla finanza, ben rappresentata da Monti e Draghi. Sono due uomini di Goldman Sachs, che ragionano alla maniera di Goldman Sachs: non è necessariamente un legame diretto, ma un dato di cultura e di modus operandi che in Europa sono chiari a tutti, ma che in Italia attirano invece l’accusa di schematismo o complottismo.

Quanto al Movimento Cinque Stelle, gli esiti disastrosi della linea di condotta adottata, che gli è già costato parecchio in Friuli, non possono essere imputati solo a inesperienza o a eccessiva rigidità: si è visto peraltro Grillo e i suoi adepti ammorbidirsi assai nel corso dei giorni. Il fatto è che il Movimento Cinque Stelle non ha un progetto. Il suo programma è solo un insieme di obiettivi, in larga parte condivisibili, anche perché riprendono temi su cui comitati, movimenti, iniziative civiche e associazioni lavorano da anni. Ma un programma che nulla o quasi dice su come arrivarci, su come imporli.

Democrazia diretta o referendaria – di cui la consultazione via web è una sottospecie – e democrazia partecipata non sono la stessa cosa. La prima, nonostante i proclami in contrario, si fonda su una delega pressoché totale ai rappresentanti – in questo caso ai parlamentari – cui viene affidato il compito di tradurre in leggi e provvedimenti quello che la constituency – nei cinque stelle la consultazione via web – decide. Senza molte mediazioni, perché queste non possono essere sottoposte ogni volta alle valutazioni di un gruppo di riferimento; neanche se, come si è visto, è assai ristretto. La democrazia partecipata esige invece un contributo costruttivo da parte di tutti i soggetti coinvolti; confronti e riposizionamenti continui; la valorizzazione dell’esperienza e dei saperi di ciascuno; e anche degli affetti, perché l’incontro fisico, la conoscenza reciproca, l’incrocio degli sguardi, a tutti i livelli, ne sono una componente essenziale. Anche in questo caso la delega, sempre a termine e revocabile, è inevitabile, perché i gruppi di riferimento, per essere tali, non possono superare una certa dimensione. Ma è una delega solida, perché la democrazia partecipata non è, o non è principalmente, assembleare.

Certo, nel passaggio tra partecipazione attiva e rappresentanza elettorale – due forme di democrazia che non possono che convivere; nessuna può escludere l’altra in via di principio – il mandato vincolante della prima si stempera nel «senza vincoli di mandato» della seconda. Ma il rappresentante che ha alle spalle un processo di democrazia partecipata avrà sempre a disposizione, se vuole, uno o più gruppi di riferimento con cui consultarsi, e a cui chiedere anche un supporto tecnico di cui nessun “eletto dal popolo” può fare a meno. E se è stato scelto con cognizione di causa – cosa che, come si è visto, il web non consente – ne farà buon uso.

Dunque, il passaggio dal vecchio al nuovo governo (e dal vecchio al “nuovo” Presidente della Repubblica), anche se non ha fatto che portare alla luce un vuoto di pensiero e azione, di capacità e responsabilità evidente da tempo, ha lasciato dietro di sé un campo di macerie: soprattutto, ma non solo, nel Pd e nel centro-sinistra. Di fronte al quale una serie variegata di organizzazioni si stanno affrettando a gettare le reti per raccoglierne i relitti, proclamando il loro impegno alla costituzione di un “nuovo soggetto politico”; magari senza nemmeno chiedersi – è il caso dei gruppi dirigenti di Sel e del Prc, per non parlare di Verdi, Pdci e altri – che cosa li abbia indotti a trasformare un progetto appena abbozzato, ma unitario, innovativo e democratico come Cambiaresipuò, nell’aborto di Rivoluzione civile; o l’ecologia e la libertà in un progetto di fusione con il Pd.

Un altro passo verso il precipizio

di Jacques Sapir

L'area Euro, sotto l'effetto combinato delle politiche di austerità, sta sprofondando nella crisi. Eppure il dibattito sulla politica economica non è mai stato così intenso. Rimane il fatto che si scontra con la capacità di immaginazione dei leader politici, sia in Germania che in Francia o in altri paesi, che rimane profondamente strutturata attorno al discorso dell’austerità.

Le radici dell'austerità erano finora ritenute inconfutabili. Ma un recente lavoro consente di mostrare che, dietro l'apparenza di seria accademia, c'era un sacco di ideologia.

La disoccupazione ha recentemente raggiunto il 12% della popolazione attiva, ma con picchi di oltre il 25% in Spagna e Grecia. L’attività economica continua a regredire in Spagna, Italia e Portogallo e, ora, è il consumo che inizia a sgretolarsi in Francia, annunciando, come previsto in questo blog, un ulteriore deterioramento della situazione economica a breve termine.


Infatti, secondo paese della zona Euro, la Francia, grazie alla forza dei suoi consumi, aveva fino a questi ultimi mesi scongiurato il peggio per l'area dell'Euro. Ma se i consumi francesi continuano a contrarsi al ritmo seguito fin da gennaio, le conseguenze saranno significative, in Francia e nei paesi limitrofi, prima di tutto in Italia e in Spagna.


Una politica che ha condotto l'Europa in una situazione di stallo

Questo deterioramento generale della situazione economica pone apertamente il problema dell'austerità adottata da tutti i paesi, dal 2011, a partire dalla Grecia che c'era stata costretta dall'Unione europea, seguita da Portogallo e Spagna. Ma la volontà tedesca di continuare lungo il percorso di questa politica è innegabile, ed è stata recentemente ribadita. Perché, allora, tale caparbietà? Ci sono anzitutto evidenti interessi che spingono la Germania a difendere questa politica «austeritaria».

L'area dell'euro porta alla Germania circa 3 punti di PIL all'anno, sia attraverso il surplus commerciale, che viene realizzato per il 60% a scapito dei suoi partner nell'area dell'euro, sia attraverso gli effetti indotti delle esportazioni. Possiamo quindi capire perfettamente che, stante queste condizioni, la Germania tiene all'esistenza dell'area Euro. Tuttavia, se Berlino volesse che la zona euro funzionasse come dovrebbe, accetterebbe la transizione verso un esteso federalismo di bilancio e un sistema di trasferimenti nell'Unione. Questa è un’evidenza nota agli economisti, e non solo. Nel mese di ottobre 2012, durante il Valdai Club, il presidente Vladimir Putin ha sottolineato che un'Unione monetaria non poteva operare come un paese eterogeneo senza un potente federalismo di bilancio.

La guerra in Siria, alcune considerazioni

    
La guerra in Siria, alcune considerazioni

di Claudio Grassi -
Negli ultimi tempi si stanno moltiplicando le riflessioni “a commento” di ciò che accade in Siria: certamente un segno della drammaticità della situazione sul campo e, prima ancora, della difficoltà degli osservatori di decifrare ciò che accade nel nostro Vicino Oriente.

Una realtà che peraltro, proprio nel corso delle ultime settimane, si è venuta incancrenendo, al punto da indurre perfino qualcuno a dubitare della reale volontà di perseguire una soluzione politica del conflitto e preferire piuttosto, per ragioni di geopolitica e di interesse, alternativamente la conservazione dello status quo con un Assad ridimensionato ovvero una prosecuzione della guerra, dall’interno e dall’esterno, con l’obiettivo di disgregare l’unità nazionale del Paese e modellare una “nuova Siria” sulla base di aree di interesse o di egemonia, lungo i confini delle divisioni etniche e confessionali (http://t.co/b6DhU42xF8).
Un disegno che potrebbe preludere a una vera e propria “libanizzazione” o, peggio ancora, “balcanizzazione” della Siria, con ripercussioni potenzialmente catastrofiche sull’interno scenario medio-orientale ed al quale non sarebbero estranei i principali protagonisti esterni di questa contesa, gli Stati Uniti, che mirano a ri-disegnare la cartina del Medio e del Vicino Oriente in funzione delle rotte degli approvvigionamenti e della garanzia dello Stato di Israele, e della Federazione Russa, che conserva proprio in Assad uno dei propri alleati – chiave nella regione e mantiene nel Paese, in particolare a Tartus, una base militare e navale di primaria, per i suoi interessi, importanza strategica (www.livejournal.it/rischio-balcanizzazione-siria-2qid).
Il deterioramento più recente di questo “big game” è segnato da alcuni fatti, passati, come quasi sempre ciò che è legato alla vicenda siriana nelle sue più significative implicazioni, sotto silenzio dalla stampa italiana, eppure di primaria importanza, perché segnano dei veri e propri momenti-chiave e potrebbero rappresentare altrettanti “punti di svolta” nella precipitazione dello scenario siriano: da un lato, Carla Del Ponte, membro della Commissione d’Inchiesta delle Nazioni Unite sulla Siria, dichiara, in maniera del tutto sorprendente, che le famigerate armi chimiche – nella fattispecie il gas sarin – sono state usate dai gruppi armati anti-governativi e, in particolare dalle frange, violente e terroriste, dell’opposizione militare ad Assad; dall’altro, Israele, prendendo a pretesto il rischio di un possibile traffico trans-frontaliero di armi tra Siria e Libano, diretto ad Hezbollah, addirittura scatena raid aerei contro la Siria, ufficialmente diretti contro depositi di armi, in pratica un atto di guerra, dalle conseguenze imprevedibili (http://t.co/nN5Om9SSQB).
Potrebbero bastare questi pochi elementi a caratterizzare il profilo del corso politico-militare attuale ed il connotato prevalente di quella complessa vicenda che è la guerra in Siria: una guerra, pertanto, a tutti gli effetti, “civile” e “per procura”, in cui, sulle manifestazioni e le rivendicazioni, originariamente legittime, contro la burocrazia e per la libertà della popolazione siriana della primavera del 2011, si sono venute poi innestando ragioni ed interessi del tutto esterni alla Siria, ragioni di potere e di strategia, nuovi terreni di sperimentazione del terrorismo internazionale e nuovi presidi locali del traffico internazionale di armi, in cui, sulla pelle dei siriani e delle siriane, si vengono a incrociare il lascito delle “primavere arabe” e gli interessi di nuove potenze locali, con ambizioni regionali, in primo luogo la Turchia e il Qatar, che non a caso inter-vengono al di là dei confini, militarizzano le frontiere e consentono il traffico di armi, impedendo ogni possibile soluzione diplomatica improntata al dialogo e alla riconciliazione (http://t.co/koGG0V88).
Mai come in questo frangente, riconciliazione è davvero il contrario di militarizzazione: alla militarizzazione e alla recrudescenza del conflitto, portate dallo scontro tra il governo e le milizie e dall’interferenza neo-imperialista degli alleati euro-atlantici e petro-monarchici, si contrappone lo sforzo per il dialogo e la riconciliazione portato avanti, questa volta, non solo da chi da anni, ormai, lavora, villaggio per villaggio, lontano dalle luci della ribalta mediatica, per risolvere dispute e consentire riconciliazioni locali tra cittadini e tra famiglie in Siria, ma anche da chi, nel corso degli ultimi mesi, ha concorso a mettere in piedi una vera e propria delegazione di pace, nel corso di questa seconda settimana di maggio, impegnata tra Siria e Libano in visite ai campi profughi siriani e palestinesi e, in particolare, in incontri con autorità civili e religiose e con attivisti locali impegnati nei percorsi di pace e di nonviolenza, per testimoniare la solidarietà internazionale agli sforzi per la riconciliazione in Siria e l’urgenza di percorrere le strade della soluzione politica della crisi in corso, improntata peraltro a principi di legittimità e di giustizia (http://t.co/EEP8afM3xH).
L’iniziativa di Mussalaha (in arabo “Riconciliazione”) rappresenta dunque questo cimento e la rete degli attivisti e dei movimenti internazionali a proprio sostegno testimonia della vasta risonanza che tale percorso potrebbe avere, se fosse unito ad una più intensa mobilitazione sociale e ad una meno subalterna diplomazia internazionale. Purtroppo, però, l’una e l’altra sono “in stallo”: la seconda egemonizzata dalla attiva lobby filo-imperialista del club dei cosiddetti “Amici della Siria”, la prima inibita dall’incapacità del variegato mondo dell’associazionismo democratico e pacifista ad individuare il prevalente ed esprimere una sintesi tra le diverse posizioni, da quelle anti-imperialiste classiche o geo-politiciste, spesso incapaci di leggere le ragioni di fondo della mobilitazione popolare del 2011, a quelle anarco-libertarie o moltitudinarie, talvolta, più o meno inconsapevolmente, in sintonia perfino con l’insurrezione armata e le frange protestatarie più radicali e violente. L’esigenza di un confronto aperto e di un’analisi rigorosa del conflitto in Siria diventa così, è proprio il caso di dire, bisogno e compito, allo stesso tempo, per la ripresa di un movimento dinamico ed efficace contro la guerra (http://t.co/J7QpiphK).

giovedì 9 maggio 2013

Il debito pubblico non esiste, è solo un errore linguistico

Picture

di Daniel Mayoraz
Considerazioni sulla crisi del debito all'interno del sistema monetario contemporaneo:

1- Il problema del debito pubblico è una delle più grandi ipnosi di massa della storia. Perché in realtà il problema del debito pubblico, per uno stato a moneta sovrana, non esiste. Siccome il denaro è creato dallo stato attraverso la banca centrale, la banca centrale è in grado di versare direttamente a beneficio del Tesoro tutto il denaro necessario alle spese dello stato, alle infrastrutture e agli investimenti... (in maniera adeguata e proporzionale alla crescita economica e alla massa monetaria in circolazione - per non creare eccessiva inflazione).
Solo che non vuole farlo. Purtroppo ciò che avviene oggi è che la banca centrale crea nuovo denaro mettendolo in circolazione quasi esclusivamente a beneficio del sistema bancario. Queste iniezioni di liquidità (489 miliardi recentemente) vanno sì a beneficiare i mercati finanziari, ma entrano solo limitatamente nell'economia reale.

2- L'unica causa della crisi economica e della sfiducia dei mercati in molte nazioni dell'area euro come l'Italia, è l'adozione dell'euro come moneta.
Il malgoverno e gli sprechi, e tutto quello che ci vogliono far credere, non c'entrano un bel niente, nisba, zero. L'entità del debito pubblico nemmeno. (Per esempio il Giappone ha un debito pubblico molto più grande di quello dell'Italia, eppure i rendimenti dei suoi titoli di stato sono vicini allo zero. Questo perché il Giappone ha una banca centrale che stampa yen, e quindi nessuno dubita della sua capacità di ripagare i debiti).

Il problema dell'euro invece, è che l'euro è una moneta tecnicamente straniera, e quindi gli stati come l'Italia che l'hanno adottata, non possono garantire la restituzione dei debiti nella loro moneta, perché non hanno più la facoltà di crearla..., possono solo prenderla in prestito. Questo diritto di creare moneta nell'area euro è oggi esclusivo della BCE, che però sembra avere dei piani non molto in sintonia con quello che è l'interesse delle nazioni dell'area euro...

(Ora la stangata di Mario Monti è di 40 miliardi. PER EVITARE LA STANGATA BASTAVA CHE LA BCE INVECE DICESSE AD UN FUNZIONARIO DI DIGITARE "40.000.000.000 euro" NEL CONTO DEL TESORO ITALIANO sotto le "passività" e la stessa cifra nel suo conto nelle "attività" (cioè nel foglio elettronico che vedete sotto). Impiegava un minuto. Dopo di chè lo stato italiano poteva accreditare stipendi, pensioni, pagare forniture, bollette perchè il suo conto corrente era aumentato di 40 miliardi.... - dal forum di cobraf.com)

3- Lo stato potrebbe creare moneta senza emettere titoli di stato, direttamente accreditando il Tesoro, a tasso zero.
Ad ogni modo, per rimanere ad oggi, anche il debito accumulato tramite titoli di stato e i conseguenti interessi, sono un problema irrilevante per uno stato a moneta sovrana. Solitamente lo stato emette semplicemente nuovi titoli di stato per rimborsare i titoli di stato giunti a maturazione. Inoltre i rendimenti sui titoli di stato arricchiscono i cittadini che acquistano i titoli di stato, a rischio zero perché il debito di uno stato a moneta sovrana è sempre solvibile.
Alla base rimane sempre la facoltà dello stato di creare moneta dal nulla, e la conseguente certezza della sua abilità di ripagare i debiti e gli interessi.

I beni comuni tra vecchi cliché e nuove sfide

di Riccardo Cavallo - sinistrainrete -

1. I beni comuni: tragedia o farsa?
Da ‘acquabenecomune’ campagna portata avanti con successo dal Forum dei movimenti per l’Acqua contro la privatizzazione delle risorse idriche e conclusasi con la vittoria referendaria nel 2011 è stato un crescente proliferare di proclami ‘ariabenecomune’, ‘naturabenecomune’, ‘marebenecomune’, etc. fino a costituire uno dei punti cardine del ‘soggetto politico nuovo’ ALBA (acronimo per Alleanza, Lavoro, Beni comuni, Ambiente) o culminare nel motto di una coalizione politica (“Italia. Bene comune”). Il ‘benecomunismo’ come è stato ben presto etichettato sembra dunque essere diventata una sorta di virus che ha permeato tutti gli aspetti della nostra società, diventando il vessillo di nuovi movimenti più o meno politicizzati. Come sempre accade in questi casi, però, quando un termine viene utilizzato nei contesti più disparati può rimanere facilmente preda di malintesi, fino alla desemanticizzazione del termine stesso ‘beni comuni’: se ogni cosa che ci circonda è bene comune nulla lo è. Per evitare di cadere in pericolose semplificazioni è forse necessario fare un po’ di chiarezza, cercando innanzitutto di comprendere se il fenomeno dei beni comuni sia figlio dell’attuale società globalizzata o se, al contrario, sia qualcosa che affonda le sue radici in un passato ben più lontano.
Non è un caso infatti che ci sia stato un fiorire di pubblicazioni e dibattiti, sia in ambito accademico che all’interno delle meno paludate assemblee di partiti e movimenti, sull’origine dei beni comuni. Mai come in questo caso il crescente interesse per questa tematica ha dato luogo a una serie eterogenea di significati e funzioni a volte anche in netta antitesi. Da un punto di vista filosofico-giuridico, ad esempio, le prime teorizzazione dei beni comuni vengono fatte risalire sia al diritto romano di epoca precristiana, sia alla filosofia di tradizione tomistica della ‘Seconda Scolastica’, o ancora, a quella che viene definita la prima Costituzione scritta della civiltà occidentale, la Magna Charta del 1215 e la sua meno conosciuta ‘sorella minore’ Charter of the Forest, che garantiva al popolo il libero accesso alle foreste e ai beni comuni, fino ad arrivare, con un salto di parecchi secoli, al codice civile napoleonico del 1804, in cui accanto all’art. 544 che definisce la proprietà privata, vengono disciplinati con l’art. 542 i beni comuni intesi come «quei beni la cui proprietà o sui cui frutti gli abitanti hanno un diritto acquisito». Com’è facile capire dunque, cercando di ripercorrere la genealogia dei beni comuni ci si può imbattere nei personaggi più disparati, da Guglielmo da Ockham a Thomas More, passando per Rousseau ed Hegel, per giungere fino a Toni Negri e Michael Hardt che elaborano una nuova proposta filosofico-politica tesa alla riappropriazione del ‘comune’ da parte della moltitudine, depredata dal sistema economico di stampo capitalistico. Tralasciando per il momento la questione, non certo dirimente, della derivazione, più o meno risalente, dei beni comuni, l’idea di sottrarre dei beni alla proprietà privata per rimetterli a disposizione della collettività, senza tuttavia che essi ricadano nei beni pubblici o demaniali (da qui lo slogan di successo ‘al di là del pubblico e del privato’) e di come tali beni possano materialmente essere fruiti ha dato luogo soprattutto ad un dibattito sviluppatosi in ambito economico a partire dal noto articolo del biologo Garrett Hardin The Tragedy of the Commons pubblicato su Science nel 1968. Tale articolo, il cui titolo è diventato negli anni una sorta di anatema nei confronti di chi volesse portare avanti politiche di incentivo dei beni comuni, occupandosi del problema della sovrappopolazione mondiale mette in evidenza il rapporto direttamente proporzionale tra la messa a disposizione in maniera illimitata di risorse in comune (ad esempio, la possibilità di far pascolare un gregge su un terreno) e la tendenza all’accaparramento di risorse da parte dei singoli fino all’impoverimento delle stesse. Quello che appariva un dilemma insanabile è stato risolto con efficacia da Elinor Ostrom, la quale dimostrando empiricamente come fosse possibile governare i commons grazie ad una accresciuta capacità di comunicazione tra i consociati, ha del tutto sovvertito la tesi pessimisticamente sostenuta da Hardin, con risultati così sorprendenti da farle conquistare il premio Nobel per l’economia (mai attribuito prima ad una donna) e riportare in auge la tematica dei beni comuni.

Sovvertire il presente

Guido Viale (Il Manifesto)

 
Assistiamo da decenni, impotenti, a una continua espropriazione del Parlamento, peraltro consenziente, e per suo tramite del «popolo sovrano». Le principali tappe di questo processo sono state: 1. La separazione della Banca centrale dal controllo del governo (anni ’80) per contrastare le rivendicazioni salariali, che ha dato a un organo non elettivo il potere (poi trasferito alla Bce) di decidere le politiche economiche e sociali; ma soprattutto ha fatto schizzare il debito pubblico mettendolo in mano della finanza. 2. Le molte riforme del sistema elettorale, dall’abrogazione del sistema proporzionale («una testa un voto», principio basilare della democrazia rappresentativa) al cosiddetto porcellum, che trasferisce dagli elettori alle segreterie dei partiti la scelta dei propri rappresentanti; 3. La cancellazione della volontà di 27 milioni di elettori al referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici con ben quattro leggi controfirmate da Napolitano (l’ultima anche dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le prime tre), come anni prima, con il referendum per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti; 4. L’imposizione di un «governo tecnico» con un programma (l’«Agenda Monti») imposto dalla Bce, e attraverso questa, dall’alta finanza sotto «l’incalzare» dello spread: una sudditanza che non avrà più fine, perché da allora la finanza che controlla il debito pubblico potrà imporre a qualsiasi governo le misure che vuole; 5. il governo Letta, conclusione logica di questo processo, che azzera la volontà di tre quarti degli elettori italiani (un quarto astenuti; un quarto cinque stelle; un quarto «centro-sinistra») tutti determinati, con il voto o il non voto, a cancellare le politiche di Monti e Berlusconi); 6. Il progetto, non nuovo, di cambiare in senso presidenziale la Costituzione.
Questa progressiva espropriazione del Parlamento e degli elettori serve a creare un interlocutore unico che risponda direttamente ai cosiddetti «mercati» (cioè alla finanza, che è la forma attuale del dominio del capitale a livello globale), annullando sia i poteri dei governi nazionali e soprattutto dei comuni, dai quali dipende la gestione della vita quotidiana e della convivenza civile di ogni comunità, sia la prospettiva di cambiare la propria condizione con il conflitto.
Questa deriva, che riguarda tutta l’Europa, non porta a una ripresa (ormai prevista da ben cinque anni, per essere ogni volta rimandata all’anno prossimo); bensì al disastro della Grecia, che ormai incombe anche su Spagna, Portogallo, Cipro e Slovenia; ma già investe in pieno anche Italia, Francia e l’Olanda; e presto persino la Germania: il cui governo fa da scudo agli interessi dell’alta finanza solo per non scoprire la situazione disastrosa delle sue banche, che ne sono parte integrante.
Ma la resa dei conti si avvicina: un disastro planetario: nemmeno le economie di Cina, India e Giappone vanno più molto bene, mentre la catastrofe ambientale incombe su tutti. In Italia l’occupazione crolla; la disoccupazione dei giovani è al 40 per cento (e gli altri sono precari o hanno rinunciato a cercare un lavoro; ma questi giovani presto saranno adulti, e poi anziani, senza alcuna speranza di un lavoro, di un reddito stabile, di una casa, di una famiglia, della possibilità di mantenere dei figli, di una pensione); scuola, università e ricerca affondano; migliaia di aziende chiudono e non riapriranno più; e non ne nascono di nuove; e con esse spariscono mercati di sbocco, know-how, competenze, abitudine alla collaborazione, coesione sociale, solidarietà. Perciò anche il Governo Letta nasce già vacillante e quel processo di accentramento rischia produrre regimi ancora più duri, magari sotto la di facciata di un antieuropeismo demagogico e populista, solo per nascondere una subordinazione anche più stretta alla finanza.
Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell’alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario. Ripudiare quei vincoli richiede un programma di respiro generale che unisce a livello europeo; che può e deve contare su tutte le rivolte e le mobilitazioni contro i vincoli del debito che da tempo si moltiplicano in un numero crescente di paesi, o che prima o poi esploderanno.
Ma per opporsi all’azzeramento della sovranità popolare non basta restituire al Parlamento quei poteri che i partiti non vogliono né usare né difendere. All’accentramento dei poteri va contrapposto, in tutti i paesi d’Europa, il progetto di un loro radicale decentramento: un governo dei territori, dei servizi pubblici e delle imprese basato sulla democrazia partecipata promossa dalla componente attiva della cittadinanza in un regime di trasparenza e leggibilità dei bilanci assolute. Per recuperare e potenziare quelle funzioni delle Municipalità che i patti di stabilità stanno soffocando. Ma se è chiaro quali sono le forze che lavorano per l’esautoramento della sovranità popolare, dove sono mai «i soggetti» in grado di elaborare, perseguire e portare a compimento un programma alternativo?
Quei soggetti non ci sono. Vanno costruiti. Ma senza distogliersi dai loro obiettivi specifici, le potenzialità dei movimenti, dei comitati, delle associazioni, delle iniziative civiche – ma anche e soprattutto quelle dei milioni di cittadini che in Italia espresso con il voto la volontà di liberarsi di Monti e Berlusconi – possono trovare una convergenza nel progetto di imporre alle rispettive amministrazioni comunali – alle poche disponibili, ma soprattutto alle molte che non lo sono – quel ruolo peculiare che le politiche di accentramento stanno azzerando: far saltare il patto di stabilità interno; quello che impedisce ai Comuni di far fronte ai propri compiti istituzionali, ma soprattutto che inibisce loro la possibilità di farsi promotori di una radicale conversione ecologica imperniata su un potere diffuso nei territori. Un passo irrinunciabile per costruire un’alternativa concreta al potere della finanza a livello locale, nazionale ed europeo.
Non è vero che «non ci sono i soldi» per politiche di promozione dell’occupazione, di sostegno dei redditi, di riconversione delle imprese, di salvaguardia del welfare e dell’ambiente. Nel mondo, di denaro o titoli equivalenti ce ne è anche troppo: oltre dieci volte il valore del Pil mondiale; e anche in Italia non manca di certo. Ma è nelle mani sbagliate: di speculatori che lo usano per metter alle corde lavoratori, amministrazioni locali, piccole e medie imprese e governi. Con quella massa immane di denaro l’alta finanza – che è ormai mera speculazione: fare denaro con il denaro a spese di chi non ne ha – impone la sua volontà ovunque. Ma tutto quel denaro è «solo» virtuale: funziona finché gli stati gli riconoscono un valore; in fin dei conti non è che una gigantesca «bolla finanziaria» creata nel corso degli anni e tenuta in piedi – fin che dura – dalle scelte operate da banche centrali, governi e parlamenti asserviti alla sua potenza. Come si è creata può essere sgonfiata e ricondotta alle dimensioni necessarie ad alimentare il credito e i redditi che fanno circolare beni e servizi sui mercati.
Ma per perseguire un sovvertimento del genere occorre un programma che renda praticabile un diverso modo di organizzare il lavoro, le imprese, l’amministrazione pubblica e i consumi: il nostro «stile di vita». Questo programma è il recupero della sovranità all’interno di ogni territorio non solo in termini politici, ma anche in campo economico: sovranità alimentare (filiera corta per le produzioni agroalimentari); energetica (fonti rinnovabili ed efficienza energetica); nella gestione delle risorse (soprattutto di ciò che oggi bistrattiamo come rifiuti); sui suoli (sottratti a speculazione edilizia e infrastrutture devastanti); monetaria (controllo partecipato di banche e monete locali); e, ovunque possibile, anche sulla produzione industriale (filiere corte con accordi diretti tra produttori e consumatori associati). In tutti questi campi il ruolo promozionale di una municipalità democratica e partecipata è fondamentale.
Utopia? I prossimi anni non saranno la prosecuzione di quelli che abbiamo alle spalle. Siamo ormai in mezzo a sconvolgimenti radicali; e altri, anche maggiori, sono in arrivo. O li affrontiamo con uno sguardo capace di vedere oltre le miserie del presente, o ne rimarremo soffocati.

Allarme sanità, curarsi è un lusso


Il servizio sanitario fornisce supporti solo a pagamento. Il caso di Adrián, costretto a restituire la ginocchiera ortopedica troppo costosa. La famiglia deve pagare un mutuo da 1.200 euro al mese e lui è l'unico che lavora, come apprendista idraulico, per 530 euro al mese


Giuseppe Grosso - ilmanifesto -
La locuzione Copago sanitario (l'obbligo a contribuire economicamente alle prestazioni sanitarie pubbliche vigente in alcune regioni spagnole) è uno dei tanti eufemismi generati dalla crisi. Qui in Spagna i politici lo usano per addolcire un concetto che non potrebbe essere più amaro: la sanità non è più né universale né gratuita. Gli immigrati irregolari, esclusi per legge dal sistema sanitario dallo scorso settembre, sono stati i primi ad accorgersene, ma anche gli spagnoli iniziano a patire le conseguenze delle «riforme» del governo. Nella Spagna di oggi, infatti, con la disoccupazione a quota 6.200.000, non tutti possono permettersi di pagare le spese mediche. È successo ad Adrián García, un ventitreenne della provincia di Valencia, che dopo un delicato intervento al ginocchio si è visto presentare una fattura di 152 euro per la ginocchiera ortopedica che il medico gli aveva già applicato. Una cifra (parzialmente rimborsabile, ma che ma che deve essere anticipata dal paziente) che la famiglia di Adrián - soffocata da un mutuo di 1.200 euro al mese e con i genitori senza lavoro - non ha potuto pagare. «È che i soldi non ci bastano nemmeno per mangiare», si è quasi giustificata la madre del ragazzo. Adrián, però, lavora: 530 euro al mese come apprendista idraulico. Avrebbe investito più che volentieri quasi un terzo del suo stipendio per poter tornare a camminare, purché la ditta che commercializza la ginocchiera avesse avuto la pazienza di aspettare la prossima busta paga. E invece nessuno ha avuto né pazienza né comprensione: il supporto ortopedico è stato sostituito con un gesso, questo sì, gratis. E poco importa che non sia efficace quanto la ginocchiera: la priorità assoluta sono i 152 euro, che peraltro sono stati richiesti senza che la famiglia fosse stata avvisata con anticipo, come invece vorrebbe la procedura. «Se no - spiega Adrián - ce li saremmo fatti prestare». E infatti proprio un prestito ha risolto la situazione, anche se non è stato un prestito di denaro. Un amico ha dato ad Adrián una vecchia ginocchiera che i medici hanno adattato e applicato al ragazzo. Una storia assurda (meno isolata di quanto si possa credere, secondo fonti del settore sanitario) che però, per le autorità, non avrebbe nulla di strano: «Tutto si è volto secondo la prassi - ha spiegato impassibile la conigliera per la Sanità. Dal 2010, nella Comunidad valenciana, solo le protesi interne sono esenti da pagamento, mentre tutte le altre sono a carico del paziente». E, purtroppo, non solo nella comunidad valenciana: il modello è applicato anche in altre regioni e presto sarà esportato in tutto il paese, con un crescendo di costi per i cittadini che andranno aumentando man mano che i piani del governo per la privatizzazione e mercificazione della sanità verranno attuati.
A questi piani si oppongono però i cittadini e egli operatori del settore sanitario, che anche e soprattutto nella regione di Madrid - governata dal Pp - rischia di essere svenduto ad aziende private che stanno per aggiudicarsi la gestione di 6 importanti ospedali della capitale e 27 centri di salute. Per queste ragioni il personale sanitario della capitale - appoggiato dai principali sindacati di settore - ha iniziato ieri uno sciopero di 5 giornate (una a settimana) che coinvolgerà 75.000 professionisti della sanità, in rivolta contro lo smantellamento della gestione pubblica e i tagli al personale medico imposti sotto forma di pensionamenti forzosi per 700 dottori in tutta la regione. Lo stop di ieri sancisce la ripresa della battaglia della cosiddetta marea blanca (così si viene chiamato il collettivo dei medici dissidenti), iniziata lo scorso novembre con uno sciopero a singhiozzo che paralizzò il settore e face cancellare 6.500 operazioni.
E i madrileni non sono rimasti a guardare: vari collettivi cittadini hanno collocato in vari punti della capitale circa 500 banchetti per raccogliere firme a favore della sanità pubblica. Una «parodia» secondo il consigliere per la Sanità della regione di Madrid Javier Fernández-Lasquetty, che ha vietato la presenza di banchetti in alcuni degli ospedali che saranno privatizzati. Un divieto che non ha impedito di raccogliere, perora, 216.000 firme.

Il sud d’Europa migra in Germania

 
Il sud d’Europa migra in Germania

Pubblicato in

di Anna Maria Merlo -
La Germania torna a essere terra di immigrazione dall’Europa del sud in crisi. I dati diffusi ieri dall’istituto di statistica tedesco dicono che gli immigrati provenienti da Spagna, Portogallo, Grecia e Italia nel 2012 sono aumentati del 40%.
In Germania, l’immigrazione è aumentata l’anno scorso complessivamente del 13%, con un saldo positivo di 369mila persone, tra l’1,08 milioni che sono entrati e i 712mila che se ne sono tornati a casa. Si tratta della più forte immigrazione dal ’95. In testa restano i paesi dell’est europeo, con la Polonia in prima fila (176mila nuovi immigrati), seguita dalla Romania (116mila). Ma la novità è l’impennata di arrivi dal sud: campione è la Spagna, con 29.910 immigrati, cioè una crescita in un anno del 45%, la cifra più alta dal ’73, ancora lontana però dagli anni dell’esodo dell’ultima fase della dittatura franchista (81.800 nel ’64, 82300 nel ’65). L’Italia è coinvolta, con un’impennata di 12mila emigrati in più nel 2012 rispetto all’anno precedente. I greci che si sono trasferiti in Germania per cercare lavoro sono aumentati di 10mila nel 2012, per una cifra complessiva di 34.109 persone, i portoghesi sono stati 11.762 (+4mila), gli sloveni in più sono stati 2mila.
Le regioni che attraggono di più sono quelle dove c’è maggiore occupazione, a cominciare dalla Baviera, seguita dalla Renania e dal Baden Württemberg. I nuovi immigrati, giovani e più qualificati, sono attratti dal basso tasso di disoccupazione tedesco, al 6,9%, contro cifre da capogiro nel sud dell’Europa, dove la disoccupazione colpisce in alcuni stati ormai più di un quarto della popolazione attiva e tocca punte del 60%, per esempio, tra i giovani spagnoli. Per la Germania è un vantaggio: la demografia del paese è declinante e il paese ha bisogno di forze nuove. Mentre per i paesi del sud l’operazione è in perdita, visto che sono stati spesi i soldi per la formazione dei giovani, e i nuovi immigrati sono per lo più giovani laureati, che poi sono costretti a cercare lavoro altrove per mancanza di proposte. I dati statistici confermano l’attrattività della Germania, già manifesta con l’aumento degli iscritti ai corsi del Goethe Institut nei paesi del sud Europa.
La Germania è anche il solo dei grandi paesi europei dove il pessimismo rispetto al futuro è meno diffuso. Secondo un’inchiesta realizzata dall’istituto Ipsos, i cui risultati sono stati pubblicati da Le Monde, i tedeschi percepiscono molto meno dei partner europei la crisi in corso. Per il 55% la crisi non ha cambiato la vita, anche se le notizie che vengono da fuori cominciano a preoccupare (il 73% pensa che le cose potrebbero aggravarsi). Il 44% continuano a potersi permettere di risparmiare, contro il 29% degli italiani e il 26% degli spagnoli. Secondo un’inchiesta qualitativa realizzata da FreeThinking, meno del 50% esprimono timori sulla perdita di controllo del proprio futuro, una cifra che invece sale al 67% per gli spagnoli. I tedeschi distanziano di molto gli altri europei nella fiducia che hanno nelle loro imprese: il 58% ritiene che la piccola e media impresa e il 50% che la grande impresa propongano soluzioni costruttive di fronte alla crisi, contro rispettivamente il 24% e il 34% per gli italiani. Ma i più pessimisti di tutti sono i francesi che, non ancora colpiti in pieno dalla crisi come spagnoli o italiani, hanno paura per il futuro e al 74% pensano che il loro paese uscirà meno forte dalla crisi, mentre il 72% teme che i figli staranno peggio di loro.
La crisi sta minando un po’ dappertutto la fiducia nell’Europa. A cominciare dalla Germania, dove il 58% risponde che l’appartenenza all’Unione europea sia un handicap. La Germania è superata solo dalla Gran Bretagna (64%) tradizionalmente euro-scettica, mentre – è una sorpresa – sono solo il 45% dei francesi a pensarlo. La crisi ha reso al contrario gli italiani euroscettici: sono il 53% a pensare che l’appartenenza all’Ue sia un handicap, mentre in Spagna, malgrado il crollo dagli anni d’oro, l’Europa resta un valore (soltanto il 41% pensa che sia un inconveniente). I più eurofili sono i polacchi (solo 30% di opinioni negative). I tedeschi danno l’impressione di avere la convinzione di potersela cavare da soli, anche senza Ue: credono nella qualità de prodotti made in Germany e ritengono di essere abbastanza forti per lottare da soli nell’ampio mare della mondializzazione.
1,08 milioni di persone hanno scelto di migrare nelle Repubblica federale nell’ultimo anno. Era dal 1995 che il flusso migratorio non raggiungeva queste vette 40% Dall’Italia si è registrato un aumento del flusso del 40%. Un incremento paragonabile a quello di paesi del Mediterraneo come Spagna 45%, Grecia e Portogallo 43%
Il Manifesto – 08.05.13

mercoledì 8 maggio 2013

Il nome della “nostra” crisi

- finansol -

In passato ho pubblicato diversi articoli, su questo stesso sito, sul tema della crisi. Poi ho sostanzialmente smesso, concentrandomi su altre questioni; ora vorrei tornare su questo argomento cercando di recuperare almeno in parte l’attenzione perduta. E comincio con queste note.
La crisi per molti aspetti ancora in atto nonostante un miglioramento, che appare peraltro precario, dei dati economici e finanziari in molti dei paesi occidentali, non ha sorprendentemente, almeno sino ad oggi, un nome “ufficiale” e riconosciuto, anche se ne ha ricevuti diversi nel corso del suo ormai abbastanza lungo percorso. Questo ha molto a che fare anche con i suoi continui cambiamenti di registro e di direzione sia a livello di settori colpiti che di aree geografiche, che infine di soggetti coinvolti, nel corso di questi tre anni e più. Così non si sa spesso quale aggettivo far seguire alla parola crisi se essa viene fuori in qualche discorso o in qualche articolo.
Ma siccome si può forse anche credere a quello che diceva qualcuno, non ricordo chi, nell’antichità, che cioè “nomen est essentia rerum”, che nel nome c’è l’essenza stessa, il senso profondo, delle cose, proviamo a partire alla ricerca di quello che può sembrare più adeguato per il fenomeno in atto.
Nel rintracciare i mutevoli percorsi della crisi e i suoi cambiamenti di denominazione facciamo in particolare riferimento ad un articolo di Marc-Olivier Padis, apparso nel numero di ottobre 2010 sulla bella rivista francese Esprit, rispetto alle cui classificazioni abbiamo peraltro apportato alcuni mutamenti.
Sulla stampa internazionale si è cominciato con il parlare di crisi del sub-prime, con riferimento ai primi momenti della stessa crisi, collegati al crollo subitaneo del mercato statunitense dei mutui ipotecari ad alto rischio. Qualcuno ha successivamente fatto riferimento alla crisi delle cartolarizzazioni, della vendita cioè sul mercato da parte delle istituzioni finanziarie di una parte dei loro crediti verso la clientela e parlato quindi di crisi delle cartolarizzazioni. Poi, quando sono risultate evidenti le profonde difficoltà generali delle banche di molti paesi occidentali, si è parlato in senso lato di crisi finanziaria; qualcuno, in maniera più ristretta, la ha chiamata crisi Lehman, dal nome della banca che è stata dichiarata fallita nel settembre del 2008. Si è così anche fatto riferimento alla crisi del 2008. Quando è risultato evidente che le difficoltà toccavano anche l’economia reale, qualcuno si è azzardato a parlare di crisi di sistema. Con gli sviluppi successivi e con le difficoltà del settore privato che sono state trasferite sui bilanci degli stati, in particolare, tra l’altro, di quelli europei, si è poi arrivati a discutere di crisi dei debiti sovrani o di crisi sovrana. E dimentico forse qualche altra definizione che può essere apparsa sui giornali nel corso di questi anni.
Ma tutte queste denominazioni da una parte non danno un’ idea onnicomprensiva e/o sufficientemente precisa del fenomeno e dall’altra hanno senso solo sino a quando guardiamo alle cose con gli occhi dei paesi e degli interessi occidentali, cosa che non appare più scontata come una volta. Appare interessante invece sottolineare come in Asia, con un profondo mutamento di prospettiva rispetto alla nostra, si parli correntemente e da tempo di crisi atlantica.
Nella denominazione, come sottolinea l’articolo di Esprit, c’è anche una specie di vendetta della storia rispetto a quando, negli anni novanta, in Occidente si parlava di crisi asiatica, in relazione alle difficoltà che per alcuni anni avevano toccato a suo tempo in particolare alcuni paesi del continente; tali difficoltà avevano spinto poi gli stessi paesi a corazzarsi in vari modi rispetto a possibili difficoltà future, cosa che hanno fatto con pieno successo, come hanno mostrato i fatti recenti. Ma a parte questo elemento, la definizione sembra molto azzeccata perché essa sottolinea anche la crisi di un modello di sviluppo e di una area geografica e culturale particolare e il fatto che con la crisi si sta accentuando chiaramente un passaggio cerniera del mondo: la creazione di ricchezza si sposta verso i paesi emergenti e, soprattutto, anche se non solo, verso l’Asia. Si apre un periodo nuovo, e speriamo migliore, cosa peraltro niente affatto scontata, dell’economia e della politica mondiale.
Ecco che allora, dopo un lungo vagare, abbiamo forse trovato il nome giusto per definire la crisi, chiamandola appunto crisi atlantica: l’essenza della cosa sembra risiedere proprio nella crisi di un vecchio modello di sviluppo e nell’affermarsi di uno nuovo, per altro verso in un segnale forte di svolta nei destini del mondo.
Qualcuno ha forse in mente una definizione migliore?

Meno finanza per tutti

 

Se c’è una cosa che ha insegnato la crisi finanziaria è che staremmo tutti meglio con meno finanza. - finansol -
Dall’agosto del 1971 – quando ha inizio il regime di “cambi flessibili”, che scardinano il sistema creato a Bretton Woodssi sono susseguite decine di crisi finanziarie, alcune di eccezionale gravità, che hanno messo a repentaglio la sicurezza di interi paesi e i diritti acquisiti di milioni di persone. Nel frattempo la finanza ha assunto dimensioni difficili perfino da immaginare, arrivando a condizionare pesantemente le politiche degli stati. Ogni anno vengono scambiati titoli per 1.500.000 miliardi di dollari, pari a circa 4.100 miliardi di dollari al giorno, circa il doppio del Pil italiano prodotto in un anno.
E pensare che nel 1970 tali transazioni si aggiravano tra i 10 e i 20 miliardi di dollari. Oltre il 90% di esse sono di natura speculativa e questo ha accresciuto enormemente la volatilità dei mercati e la possibilità di nuove crisi, arrivando a intaccare l’economia reale. L’illusione che il denaro potesse creare magicamente altro denaro, senza produrre nulla, ha messo alla prova la creatività degli ingegneri finanziari, che ogni giorno mettono a punto nuovi complessi strumenti, talvolta incomprensibili perfino a chi li ha creati. Si possono benissimo comprare e vendere milioni di titoli senza nemmeno possederne uno, scommettendo sulle continue differenze di valore.
Se la finanza nasce come luogo dove chi ha bisogno di capitali può rifornirsi da chi ne ha in eccesso, oggi essa è per lo più una piazza di scommesse. Ma i beni sottostanti sono sempre quelli: azioni, ossia porzioni di aziende, obbligazioni, ossia prestiti ad imprese o a stati, per attività alle quali lavorano persone in carne ed ossa. E quando un titolo scende non ci perde solo l’investitore, ma anche i lavoratori e i consumatori, poiché gli azionisti/investitori faranno di tutto per far riguadagnare valore alle azioni in portafoglio, tagliando costi del personale, spese per la ricerca, servizi al consumatore, misure antinquinamento, oppure intensificando lo sfruttamento del suolo e dell’ambiente, tutte azioni finalizzate a far lievitare i profitti. Ma ciò avviene anche quando il titolo non scende, semplicemente per mostrare un bilancio in attivo alla comunità degli investitori, che per legge deve essere pubblicato ogni trimestre.
Il risultato è una continua erosione dei diritti dei lavoratori e un aumento dell’attività predatoria dell’azienda, a scapito di tutti. Trent’anni di finanza selvaggia hanno aumentato la disuguaglianza, creando nuove classi di privilegiati, capaci di maneggiare le leve delle speculazione finanziaria ma del tutto irresponsabili circa le ricadute sociali delle loro azioni. La crisi in corso ha già aumentato il debito dei paesi Ocse di 20 punti percentuali, che a loro volta produrranno oneri per interessi che ricadranno sulla collettività. Ma sarebbe interessante fare una stima dei costi economici e sociali dell’ascesa della finanza a partire dagli anni 70, nonché i costi politici in termini di crisi della rappresentanza a della sovranità. Vedremmo che forse non è valsa la pena e a guadagnarci sono stati davvero pochi. Vedremmo che mai come oggi urge una nuova regolamentazione, che restringa il raggio di azione della finanza.
E sulla quale, a quanto pare, nessuno ha voglia di lavorare. E allora dovremmo chiederci cosa potremmo fare come risparmiatori e come società civile, per non dare sostegno un sistema ormai degenerato. Sulle colonne del Corriere delle Sera il bravo Massimo Mucchetti si poneva degli interrogativi cruciali, parlando dei famigerati hedge funds (fondi di investimento speculativi). Era il 14 maggio scorso, dopo i primi violenti attacchi speculativi all’euro: “È troppo chiedere che i soggetti regolati (perché usano i soldi degli altri) (in primis le banche, ndr) possano finanziare questi soggetti speculativi solo a patto che impegnino quote di patrimonio proporzionali alla leva che questi stessi soggetti speculativi usano e ne diano conto a loro volta al mercato? E’ sbagliato pretendere che chi specula depositi prima la posta? O esigere che la libertà di manovra dei fondi sovrani sia subordinata all’osservanza di obblighi minimi di trasparenza? L’ opacità di certi operatori, avvertono i magistrati, può servire a riciclare il denaro caldo delle mafie e dell’ evasione fiscale, ma anche – e sarebbe una beffa già vista – a usare i soldi delle banche centrali contro le ‘loro’ monete. Un tal giro di vite comporterebbe, alla fine, meno finanza? Se fosse, sarebbe forse un dramma? E per chi?

Chi sostiene l’onorevole


Tutto quello che c'è da sapere su Vedrò, il think tank di Enrico Letta e Angelino Alfano, insieme dal 2005. È una delle fondazioni e associazioni guidate da politici, che non sono tenute alla trasparenza sulla provenienza dei contributi che ricevono. - altreconomia -
Qui
l'intervista a Duccio Facchini (da radio "Città del Capo").
Gianni Alemanno è presidente di una fondazione. Lo sapevate? Si chiama “Nuova Italia”, “aderente al Popolo della Libertà”, riconosciuta dal 2005: talmente animata dal pubblico interesse da tener gelosamente segreto il proprio bilancio.
Ma il sindaco di Roma non è un’eccezione: semmai, la conferma di una regola.
Benvenuti nel grande mondo delle “fondazioni politiche” italiane. Chiunque volesse addentrarsi (comprese associazioni o think tank riferibili a parlamentari, o comunque uomini pubblici attivi nella politica italiana) sappia che farà i conti con una spessa cortina di riservatezza. Se è noto infatti che la seconda rata dei rimborsi elettorali, dirottata quest’anno a beneficio dei terremotati dell’Emilia, abbia toccato quota 91 milioni di euro, è meno dibattuto il flusso di denaro che attraversa le “fondazioni politiche”. Altreconomia ne ha contate oltre quaranta, sorte perlopiù dal 2000, e di ciascuna di queste ha cercato di ricostruire -per la prima volta- identità e struttura, raccogliendo, leggendo e approfondendo statuti e bilanci.
Buona parte degli interpellati nicchia, rifiutandosi di inoltrare la documentazione richiesta. Il perché è immediato: lo strumento concepito e disciplinato dal codice civile del 1942 non è tenuto a rispettare i seppur blandi criteri di trasparenza cui sono sottoposti i partiti politici. Che fosse stato pensato per altri scopi (beneficenza, ricerca, archivistica) è fatto secondario. Un parlamentare di Futuro e Libertà, Aldo Di Biagio, ha ricevuto nel 2010 una proposta indecente: “Fatti una fondazione”, gli avrebbe suggerito un emissario dell’allora maggioranza parlamentare in cerca di voti di fiducia, “e ti faremo avere un milione e mezzo di euro attraverso Finmeccanica”.
Che le fondazioni siano diventate “mezzi di finanziamento occulto di importanti uomini politici”, come racconta ad Altreconomia il deputato Fli? Una “copertura”, come le ritiene Maurizio Paniz (Pdl)? Non è rilevante. O meglio: non è così rilevante quanto il quadro tracciato, per la prima volta, grazie ai dati raccolti. Che compongono un curioso intreccio, dove l’ente “fondazione” diviene strumento indefinito, a metà tra il megafono, il collettore di fondi e la cura dell’immagine.

Symbola, l’eccezione Una sola, ad oggi, pubblica il bilancio di esercizio sul proprio sito internet: “Symbola, fondazione per le qualità italiane”, nata nel 2005 e presieduta dal deputato Pd Ermete Realacci. Nel 2011 -quando le entrate totali hanno raggiunto soglia 815mila euro- la fondazione ha potuto contare su 477mila euro provenienti dall’ingresso o dal rinnovo delle quote dei “componenti”. Tra coloro che “sostengono la missione di Symbola” vi sono Autogrill Group, Cir (Carlo De Benedetti), Eni, San Pellegrino, Monte dei Paschi di Siena e Sorgenia, azienda attiva nel settore energetico, controllata per il 65% da Cir. Come detto, questo è l’unico caso in cui è possibile reperire on-line il bilancio d’esercizio. Negli altri casi tocca recuperarlo dai diretti interessati, quando questi non si trincerano dietro a più o meno credibili ragioni di privacy. Difetto di comunicazione che ha una ricaduta: alimentare il sospetto che l’istituto “fondazione” sia divenuto strumento di lobby.

L’antesignanaLa più longeva “fondazione politica” è Italianieuropei, nata nel 1998 su iniziativa, tra gli altri, dell’ex premier Massimo D’Alema, che ne è presidente. Le principali attività, come si legge dal sito internet, sono “l’ideazione e l’organizzazione di convegni, tavole rotonde e cicli di formazione”. Tra tutte, spicca la pubblicazione dell’omonima rivista mensile, che tira poco più di 5.000 copie. Nella parte relativa al conto economico delle quattro pagine del bilancio 2011 della fondazione emergono 314mila euro su 391mila di ricavi totali posti sotto la generica voce “contributi alle attività”. Per la stampa della rivista e la raccolta delle inserzioni pubblicitarie, e più in generale per stringere accordi di natura commerciale, Italianieuropei, non isolata, si appoggia alla Solaris srl, che controlla al 100%. Quest’ultima, nell’anno 2010, ha registrato ricavi per oltre 1 milione di euro, 592mila euro dei quali da “ricavi pubblicitari” e oltre 375mila euro da “ricavi per organizzazione di seminari”. Sommando gli abbonamenti alla rivista, la diffusione dei libri ed i ricavi dai singoli distributori, si raggiunge quota 75mila euro.
È perciò il bilancio ad evidenziare il ruolo ricoperto dagli inserzionisti sulla vita della fondazione, che è decisivo: nel mensile di luglio le nove pagine pubblicitarie -sulle 163 totali- sono state acquistate da Manutencoop, British American Tobacco, Eni, Ferrovie dello Stato, Lottomatica, Coopsette, Telecom Italia e Piaggio. Finmeccanica ha contribuito “fin dalla nascita di Italianieuropei” con 40mila euro annui. Quattromila euro circa a numero, ottanta centesimi a copia.




Una pseudo-tassa per non impensierire la finanza


di Andrea Baranes - zerozerocinque -
da Il Manifesto del 25/04/2013
Nuovi attacchi contro la tassa sulle transazioni finanziarie (TTF). Il primo arriva dalla Gran Bretagna della City di Londra, centro nevralgico della finanza globale e da sempre strenua oppositrice di qualsiasi forma di regolamentazione o controllo. Nei giorni scorsi il governo inglese, sostenuto dal Lussemburgo, è arrivato addirittura a muovere un'azione legale presso la Corte di Giustizia Europea per bloccare la proposta avanzata dalla Commissione Europea.
Ricordiamo che la TTF è un'imposta dell'ordine dello 0,05% su ogni transazione finanziaria. Gli impatti sono trascurabili per chi opera con orizzonti di lungo periodo, mentre diventano tanto più rilevanti quanto più gli obiettivi sono di breve termine. Si tratta di una delle misure più efficaci per frenare la speculazione e per ridurre l'instabilità sui mercati finanziari. Dopo anni di campagne delle reti della società civile, finalmente a inizio 2013 la Commissione ha pubblicato una propria bozza di direttiva, che deve ora essere discussa e approvata dalle altre istituzioni europee.
Gli attacchi dei due Paesi dell'UE che più hanno fondato le loro economie sulla completa deregolamentazione finanziaria non sono quindi una sorpresa. Lo è invece la dichiarazione di pochi giorni fa del ministro dell'Economia Grilli, secondo il quale l'Italia è pronta a bloccare l'intero processo europeo se non verranno esclusi dalla TTF i titoli di Stato.
Nelle parole del ministro, il motivo è che si tratta di un mercato “delicatissimo, su cui non vogliamo perdere alcuna chance”. In pratica già oggi Bot e Btp sono poco appetibili, come testimonia l'incessante lotta contro lo spread. Nella visione del governo, anche un'imposta minima potrebbe avere impatti sulla liquidità del mercato e quindi sui nostri conti pubblici.
Il problema è che il mercato dei titoli di Stato è “delicatissimo” in primo luogo a causa della stessa instabilità e dei continui rischi di attacchi speculativi. La TTF nasce come strumento per “gettare un granello di sabbia negli ingranaggi della speculazione”, intervenendo a monte per bloccarne gli impatti devastanti. Secondo il governo, al contrario, l'unico obiettivo sembra quello di racimolare un gettito per dare sollievo ai conti pubblici, agendo unicamente a valle. Si raschia il fondo del barile con nuove imposte per rimediare ai disastri combinati dalla finanza, ma senza provare a contrastarne lo strapotere.
In attesa del percorso europeo, con l'ultima legge di stabilità il governo Monti ha introdotto una cosiddetta TTF in Italia. Una proposta talmente debole che non andrebbe nemmeno chiamata tassa sulle transazioni finanziarie. Non vengono tassati i derivati e non si colpisce il trading ad alta frequenza, tanto per fare due esempi. Come dire che si introducono dei limiti di velocità sulle strade, ma si scopre che riguardano le biciclette ma non le automobili, e che l'unico scopo è rimpinguare le casse pubbliche con le multe, non diminuire il numero di incidenti stradali.
La TTF non è certo la panacea dei problemi della finanza. In parallelo bisogna contrastare i paradisi fiscali, limitare l'uso dei derivati e della leva finanziaria e via discorrendo. Se correttamente disegnata e applicata, è però un tassello fondamentale per chiudere il casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi. Parliamo di una “vera” TTF , che necessità della volontà e della lungimiranza politica di volere controllare, e non compiacere, i mercati finanziari. Una volontà e una lungimiranza che sembrano decisamente mancare oggi in Italia.

Fusione Fredda: a che punto siamo?

 Prometeon precisa sui test indipendenti


La Fusione Fredda, la tecnologia che promette di essere rivoluzionaria nel mondo dell'energia, ha conquistato un risultato positivo riguardo la prova dell'E-Cat da parte di test indipendenti. Facendo un piccolo passo indietro, Andrea Rossi, l'inventore italiano, ha rilasciato qualche giorno fa un commento sul Journal of Nuclear Physics e riportato da E-Cat World riguarda proprio i test indipendenti sull'E-Cat.
 
Proprio in merito a questi test Rossi menziona per la prima volta il reattore hot cat a due stadi, anche se, come spesso accade, non è chiarissimo nello spiegare il funzionamento. Tra l'altro l'ingegnere italiano qualche settimana fa, in risposta ad alcune domande, aveva dichiarato sul suo blog che l'E-Cat da 1 MW, venduto alcuni mesi fa ad un ente militare segreto, funziona correttamente. Secondo l'ingegnere italiano, l'acquirente si sente spesso con la Leonardo Corporation, ed è molto soddisfatto del funzionamento del reattore. Sarebbe già avvenuta, senza alcun problema, la prima ricarica di nichel. Rossi ha anche dato cifre più accurate specificando che l'impianto funziona circa 8.000 ore su un totale possibile di 8.760 ore in un anno con un COP (Coefficient of Performance) medio di 6. Ora non resta che attendere il mese di aprile, durante il quale saranno pubblicati i risultati dei test indipendenti.
L'ufficio Stampa della Prometeon, proprio in merito ai test di terze parti sull'E-Cat, precisa quanto segue: "I numeri relativi al COP, i diagrammi e le fotografie si riferiscono a test precedenti, effettuati nel luglio del 2012 e non hanno nulla a che vedere con il test effettuato da terze parte indipendenti nel 2013. I risultati del test effettuato da queste ultime saranno pubblicati in Aprile." Il riferimento di Prometeon è in relazione al comunicato del 25/3 sulla fine dei test di terze parti.
Facciamo però un passo indietro e analizziamo quello che dichiarò Rossi in un'intervista rilasciata il 15 Gennaio del '2012 dove Rossi parla della possibilità di sfruttare L'E-Cat per il riscaldamento domestico. Se la tecnologia si dimostrerà affidabile dovremo essere in grado di aggiungere al riscaldamento centralizzato un dispositivo (prezzo indicativo 400 a 500 dollari / euro) con cui riscaldare la nostra casa con una sola cartuccia riciclabile a base di polvere di 
E-Cat domestico
E-Cat domestico
nichel
, per meno di 20 dollari / euro all'anno.
Il prezzo del dispositivo, che dovrebbe aggirarsi attorno a 400-500 euro/dollari, è il risultato di una partnership industriale con National Instruments negli Stati Uniti che ha permesso, grazie ad una produzione altamente automatizzata, il drastico abbattimento del prezzo. Obiettivo è quello di vendere 1 milione di unità domestiche all'anno dai primi mesi del 2013.
Il dispositivo, visibile in apertura dell'articolo, basato su una reazione nucleare a bassa energia, ha le dimensioni molto contenute, indicativamente come quelle di un computer portatile, ma soprattutto, stando alle parole di Rossi e del Professor Focardi - Università degli Studi di Bologna, ha una sicurezza totale, e non emette alcuna radiazione o emissione di alcun tipo.
Il problema della sicurezza del dispositivo E-Cat domestico è chiaramente derivante dal nichel, elemento abbondante sulla Terra, non costoso, ma tossico, soprattutto in polvere; la quantità di nickel consumato nel processo è estremamente ridotta, secondo Andrea Rossi, un solo grammo può produrre 23.000 megawatt/ora di energia.

Torture e 11 settembre 2001: stretta interconnesione

 

tortura-infograficadi Giulietto Chiesa - Il Fatto Quotidiano.
Sono lieto di annunciare, con largo anticipo che, a cominciare dal prossimo settembre, dodicesimo anniversario dell’attentato terroristico dell’11/9, partirà su scala mondiale una campagna di sensibilizzazione promossa da ben 12 organizzazioni, in maggioranza statunitensi.
E’ utile darne l’elenco per fare in modo che tutti coloro che vogliono possano verificare la solidità del loro lavoro.
L’iniziativa è partita da Architect & Engineers for 9/11 Truth è ha trovato l’appoggio di altri 11 raggruppamenti.
Eccoli:
1. 9/11 Truth and Justice Canada; 2. NYC CAN; 3. Occupy 9/11; 4. The Greater Boston Alliance for 9/11 Truth and Justice; 5. Citizens for an Informed Community; 6. The 9/11 Consensus Panel; 7. Citizens Aware and Asking; 8. 9/11 Blogger; 9. 9/11 Journey for Truth; 10. Over a hundred local 9/11 truth groups; 11. The Thrive Movement.
Chi scrive è parte di questa azione in qualità di membro – come sanno i lettori di questo blog – del 9/11 Consensus Panel.
L’azione, denominata Operation Tip the Planet (OTP) si concretizzerà nella produzione di un unico messaggio, che apparirà simultaneamente in centinaia di città, in tutte le lingue più diffuse, riprodotta in manifesti, volantini, insegne pubblicitarie, adesivi, t-shirt e, ovviamente, in decine di migliaia di siti internet, di blog, di conferenze pubbliche, di proiezioni cinematografiche.
Questa informazione è un primo invito a aderire e a cominciare a pensare come far diventare questo un evento tale da scuotere l’opinione pubblica internazionale su una questione che resta ancora sconosciuta alla grande massa dei pubblici di tutto il pianeta. Chi vuole saperne di più e seguire i lavori preparatori (in particolare è in corso una larga discussione che dovrà giungere alla definizione del testo finale del messaggio) potrà farlo attraverso il sito AE911Truth.org. Colgo l’occasione per informare che gli architetti e ingegneri di tutto il mondo, che sono giunti alla conclusione che la versione ufficiale sull’11/9 è un falso, sono ormai diventati 1908 al momento in cui scrivo.
Questa campagna ha trovato alimento in decine di nuove circostanze e scoperte, di cui parlerò dettagliatamente tra qualche giorno, esponendo i risultati delle ultime sessioni del 9/11 Consensus Panel.
Ma la prima di esse è stata la pubblicazione del cruciale rapporto di una commissione parlamentare americana di 11 membri, denominata “Constitution Project” che, attraverso 16 mesi di lavoro e 557 pagine, è giunta alla conclusione che, negli anni che sono trascorsi dall’11 settembre 2001, “è fuori discussione il fatto che gli Stati Uniti sono stati impegnati in pratiche di tortura” e che i più alti funzionari della nazione portano la responsabilità di questi fatti”. Le virgolette sono opera dell’autore di un articolo del New York Times, Scott Shane. L’articolo è stato pubblicato nella prima pagina del giorno 16 aprile, immediatamente precedente l’attentato terroristico di Boston. E, anche per questa ragione, è rimasto largamente soverchiato dalle drammatiche notizie che si sono succedute nelle settimane successive.
il-waterboardingChe c’entra questa notizia con l’11 settembre 2001? C’entra, e molto, perché – come ben scrive Shane – il Constitution Project fu istituito come risposta alla decisione del Presidente Obama, nel 2009, di non sostenere la richiesta del senatore Patrick Leahy, democratico del Vermont, di investigare sul contenuto dei programmi antiterrorismo delle varie agenzie americane. Rifiuto che faceva il paio con il mantenimento della segretezza più assoluta attorno a un altro rapporto senatoriale sui sistemi d’interrogatorio che furono usati per far parlare i prigionieri catturati come terroristi. E’ ormai largamente noto, e perfino ufficialmente riconosciuto, che alcune delle “confessioni” dei presunti organizzatori dell’attentato alle Twin Towers e al Pentagono, vennero estorte con la selvaggia applicazione del waterboarding, in specie nei confronti di Khaled Sheikh Mohammed. Quelle confessioni, il cui valore legale è nullo anche negli Stati Uniti, furono alla base delle conclusioni (dunque invalide ab ovo) del famigerato rapporto della “9/11 Commission Report.”
La motivazione del rifiuto di Barack Obama fu – continua Shane – che egli voleva “guardare avanti e non indietro”. Detto in altri termini, Obama coprì il suo predecessore in tutti i modi possibili. Un vero continuatore e seguace del “torturatore in capo”. Dunque nulla di ciò che è stato ufficialmente rivelato ha alcuna base legale e la tortura è servita solo a truccare le carte ancora più clamorosamente.

martedì 7 maggio 2013

Rodotà, i diritti e i valori di una nuova sinistra

    
Rodotà, i diritti e i valori di una nuova sinistra

Pubblicato il 7 mag 2013

di Antonio Di Luca -
Quando Enrico Letta giurava di fronte al capo dello Stato, ho avuto ancora una volta la chiara sensazione che ci stavamo trovando di fronte ad una sconfitta storica per tutte le forze di sinistra che in questi anni hanno creduto possibile un cambiamento democratico nel nostro paese. E ciò avveniva in un clima torbido, perché mentre si teneva il giuramento del nuovo governo, un uomo, esasperato dall’impossibilità di uscire dal tunnel della disoccupazione, ha sparato alla polizia ferendo gravemente alcuni uomini delle forze dell’ordine. Su questo gesto esecrabile, che ha colpito così duramente uomini dello Stato, sono subito iniziate vecchie strumentalizzazioni, paragonando la violenza di un uomo solo e disperato alle azioni terroristiche della fine degli anni Settanta. Naturalmente questo grave e intollerabile episodio di violenza non solo non ha spinto la politica e i media ad interrogarsi su cosa sta diventando il nostro paese, ma ha anche impedito di cogliere il fondo dell’operazione politica autoritaria che si stava concludendo dentro il Palazzo con il placet di Napolitano in chiave presidenzialista. Perché non si può negare che il senso della grande coalizione all’italiana nasca nel mondo chiuso della politica che ha eluso qualsiasi forma di riflessione sia sulla crisi drammatica che vive il paese, che sull’indignazione di gran parte dei cittadini per le modalità con cui si è giunti alla rielezione del capo dello Stato.
Ho l’impressione, che se questa è la politica, se la politica cioè è gioco di prestigio, malafede, imbroglio, inciucio, difficilmente potrà colmarsi quella distanza tra le istituzioni e il paese reale; distanza che è in questi anni cresciuta a dismisura, mentre tra la gente sempre di più è aumentato il disgusto per i partiti e per gli uomini di potere; un disgusto che può manifestarsi in modi e forme molto diverse tra loro: con l’astensione come nelle regionali in Friuli; con un voto a favore di Grillo come nelle politiche di febbraio; oppure con l’appoggio alle forze conservatrici più retrive e compromesse con l’illegalità e il sopruso. Basta, del resto vedere come si è svolta l’elezione del capo dello Stato per capire in quale direzione stiamo andando, e perché il Pd, con la bocciatura della candidatura di Stefano Rodotà, ha perso un’occasione storica per rispondere al malessere profondo del nostro paese. Francamente sono rimasto sconcertato che una personalità come Rodotà, un uomo della sinistra, sia stato così irriso e attaccato da chi in questi anni ha chiuso tutte e due gli occhi di fronte alla sistematica violazione dei diritti sociali, civili e politici. Il Pd è apparso ancora una volta un partito senz’anima e senza identità, un partito subalterno alle politiche neoliberiste, come alle scelte autoritarie di un padrone delle ferriere come Marchionne; un padrone, e qui voglio ancora una volta ricordarlo ai tanti smemorati di questo paese, che è stato più volte condannato dalla magistratura per aver discriminato gli iscritti alla Fiom Cgil e per aver violato sistematicamente i diritti e lo statuto dei lavoratori nelle fabbriche del gruppo.
Questo, a mio avviso, spiega anche perché si è voluto, come in una tragedia classica, tradire, cancellare, uccidere il padre. Rodotà non doveva esistere, perché con lui si sarebbe invertito l’ordine del giorno. La Costituzione, i diritti, la legalità, prima di tutto, e non c’è Marchionne che tenga, questo avrebbe detto la sua elezione.
Figurarsi se poi le forze della grande coalizione all’italiana potrebbero mai condividere le parole che Stefano Rodotà pronunziò alla manifestazione della Fiom del 21 ottobre a piazza del Popolo a Roma, stigmatizzando tra l’altro il decreto di Alemanno sul divieto di fare corteo.
Le ho impresse nella mente quelle parole, che riuscirono a farci sentire meno soli e spinsero molti di noi a riflettere sull’importanza degli intellettuali e sul vuoto che si crea quando in un paese mancano personalità moralmente integre come Rodotà.
Bene, egli quel giorno, di fronte ad una piazza stracolma, affermò: “Stiamo vivendo un attacco diretto, violento, e quasi senza precedenti ai diritti fondamentali. La stessa Costituzione è in questo momento in discussione e credo che debba esserci o dovrebbe esserci un grande sentimento di gratitudine per voi, per le donne e per gli uomini della Fiom che sono qui a manifestare per i loro diritti, ma in questo momento stanno difendendo i diritti di tutti”.
Poi continuò parlando del devastante art. 8, dell’art.18, della democrazia e del diritto al lavoro, del diritto di manifestare a Roma come in qualsiasi altra città. Insomma le sue parole ci aprirono la mente e il cuore, e mi sembrò, finalmente, di respirare un’aria nuova; avemmo tutti chiara la sensazione che una speranza per i più deboli e i tanti i lavoratori umiliati dalla crisi poteva ancora esserci.
Avrebbe mai potuto comprendere Scalfari, uomo dei poteri forti, il senso così alto di quelle parole di Rodotà e l’urgenza di difendere, a partire dalla nostra quotidianità e dalla nostra concreta esperienza di lavoro, la nostra Costituzione? Io credo onestamente di no, e il suo duro attacco a Rodotà, si spiega solo con questo diverso orizzonte culturale, che prima di essere politico è innanzitutto morale.
La verità è che Rodotà, insieme a pochi altri intellettuali, ha visto nella realtà italiana il manifestarsi di una crisi profonda che intreccia questione democratica, questione politica e questione sociale.
E di fronte all’inarrestabile degenerazione della politica, e della classe dirigente di questo paese ha pensato che era giusto far sentire tutta la sua voce, tutta la sua pasoliniana indignazione, manifestando insieme alla Fiom, l’emblema in questi anni della lotta per la difesa dei diritti di tutti i cittadini e lavoratori italiani.
Rodotà, vorrei sottolinearlo, ha indicato una strada a chi intende la politica come un valore alto della democrazia. E io credo che la sua insistenza sul tema dei diritti parli in questi giorni non solo all’Italia ma al mondo intero dominato da una globalizzazione buia e selvaggia che continua, come in Bangladesh a far vittime innocenti. Qui sono morti, per un crollo di un fabbricato e per le loro terribili condizioni di lavoro oltre 340 operai, per la maggior parte donne. Una strage. Quante volte vorrei dire è accaduta la stessa tragedia in Italia e nel mondo?
Ora io penso che la sinistra se voglia davvero rinascere, debba partire da qui, dalle condizioni materiali dei lavoratori, dai diritti negati, abbandonando tatticismi, opportunismi, settarismi di segno diverso. E’ giunta l’ora di abbandonare ogni vuoto personalismo. Partendo dal valore alto della politica, abbiamo il compito di dar vita ad una sinistra vera, alternativa, plurale, antiliberista; una sinistra che sappia ridare una speranza alla nostra gente stanca di pagare sulla propria pelle il prezzo delle devastanti politiche conservatrici di questi anni.
da Huffingtonpost.it

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