Pubblicato il 7 mag 2013
di Antonio Di Luca -Quando Enrico Letta giurava di fronte al capo dello Stato, ho avuto ancora una volta la chiara sensazione che ci stavamo trovando di fronte ad una sconfitta storica per tutte le forze di sinistra che in questi anni hanno creduto possibile un cambiamento democratico nel nostro paese. E ciò avveniva in un clima torbido, perché mentre si teneva il giuramento del nuovo governo, un uomo, esasperato dall’impossibilità di uscire dal tunnel della disoccupazione, ha sparato alla polizia ferendo gravemente alcuni uomini delle forze dell’ordine. Su questo gesto esecrabile, che ha colpito così duramente uomini dello Stato, sono subito iniziate vecchie strumentalizzazioni, paragonando la violenza di un uomo solo e disperato alle azioni terroristiche della fine degli anni Settanta. Naturalmente questo grave e intollerabile episodio di violenza non solo non ha spinto la politica e i media ad interrogarsi su cosa sta diventando il nostro paese, ma ha anche impedito di cogliere il fondo dell’operazione politica autoritaria che si stava concludendo dentro il Palazzo con il placet di Napolitano in chiave presidenzialista. Perché non si può negare che il senso della grande coalizione all’italiana nasca nel mondo chiuso della politica che ha eluso qualsiasi forma di riflessione sia sulla crisi drammatica che vive il paese, che sull’indignazione di gran parte dei cittadini per le modalità con cui si è giunti alla rielezione del capo dello Stato.
Ho l’impressione, che se questa è la politica, se la politica cioè è gioco di prestigio, malafede, imbroglio, inciucio, difficilmente potrà colmarsi quella distanza tra le istituzioni e il paese reale; distanza che è in questi anni cresciuta a dismisura, mentre tra la gente sempre di più è aumentato il disgusto per i partiti e per gli uomini di potere; un disgusto che può manifestarsi in modi e forme molto diverse tra loro: con l’astensione come nelle regionali in Friuli; con un voto a favore di Grillo come nelle politiche di febbraio; oppure con l’appoggio alle forze conservatrici più retrive e compromesse con l’illegalità e il sopruso. Basta, del resto vedere come si è svolta l’elezione del capo dello Stato per capire in quale direzione stiamo andando, e perché il Pd, con la bocciatura della candidatura di Stefano Rodotà, ha perso un’occasione storica per rispondere al malessere profondo del nostro paese. Francamente sono rimasto sconcertato che una personalità come Rodotà, un uomo della sinistra, sia stato così irriso e attaccato da chi in questi anni ha chiuso tutte e due gli occhi di fronte alla sistematica violazione dei diritti sociali, civili e politici. Il Pd è apparso ancora una volta un partito senz’anima e senza identità, un partito subalterno alle politiche neoliberiste, come alle scelte autoritarie di un padrone delle ferriere come Marchionne; un padrone, e qui voglio ancora una volta ricordarlo ai tanti smemorati di questo paese, che è stato più volte condannato dalla magistratura per aver discriminato gli iscritti alla Fiom Cgil e per aver violato sistematicamente i diritti e lo statuto dei lavoratori nelle fabbriche del gruppo.
Questo, a mio avviso, spiega anche perché si è voluto, come in una tragedia classica, tradire, cancellare, uccidere il padre. Rodotà non doveva esistere, perché con lui si sarebbe invertito l’ordine del giorno. La Costituzione, i diritti, la legalità, prima di tutto, e non c’è Marchionne che tenga, questo avrebbe detto la sua elezione.
Figurarsi se poi le forze della grande coalizione all’italiana potrebbero mai condividere le parole che Stefano Rodotà pronunziò alla manifestazione della Fiom del 21 ottobre a piazza del Popolo a Roma, stigmatizzando tra l’altro il decreto di Alemanno sul divieto di fare corteo.
Le ho impresse nella mente quelle parole, che riuscirono a farci sentire meno soli e spinsero molti di noi a riflettere sull’importanza degli intellettuali e sul vuoto che si crea quando in un paese mancano personalità moralmente integre come Rodotà.
Bene, egli quel giorno, di fronte ad una piazza stracolma, affermò: “Stiamo vivendo un attacco diretto, violento, e quasi senza precedenti ai diritti fondamentali. La stessa Costituzione è in questo momento in discussione e credo che debba esserci o dovrebbe esserci un grande sentimento di gratitudine per voi, per le donne e per gli uomini della Fiom che sono qui a manifestare per i loro diritti, ma in questo momento stanno difendendo i diritti di tutti”.
Poi continuò parlando del devastante art. 8, dell’art.18, della democrazia e del diritto al lavoro, del diritto di manifestare a Roma come in qualsiasi altra città. Insomma le sue parole ci aprirono la mente e il cuore, e mi sembrò, finalmente, di respirare un’aria nuova; avemmo tutti chiara la sensazione che una speranza per i più deboli e i tanti i lavoratori umiliati dalla crisi poteva ancora esserci.
Avrebbe mai potuto comprendere Scalfari, uomo dei poteri forti, il senso così alto di quelle parole di Rodotà e l’urgenza di difendere, a partire dalla nostra quotidianità e dalla nostra concreta esperienza di lavoro, la nostra Costituzione? Io credo onestamente di no, e il suo duro attacco a Rodotà, si spiega solo con questo diverso orizzonte culturale, che prima di essere politico è innanzitutto morale.
La verità è che Rodotà, insieme a pochi altri intellettuali, ha visto nella realtà italiana il manifestarsi di una crisi profonda che intreccia questione democratica, questione politica e questione sociale.
E di fronte all’inarrestabile degenerazione della politica, e della classe dirigente di questo paese ha pensato che era giusto far sentire tutta la sua voce, tutta la sua pasoliniana indignazione, manifestando insieme alla Fiom, l’emblema in questi anni della lotta per la difesa dei diritti di tutti i cittadini e lavoratori italiani.
Rodotà, vorrei sottolinearlo, ha indicato una strada a chi intende la politica come un valore alto della democrazia. E io credo che la sua insistenza sul tema dei diritti parli in questi giorni non solo all’Italia ma al mondo intero dominato da una globalizzazione buia e selvaggia che continua, come in Bangladesh a far vittime innocenti. Qui sono morti, per un crollo di un fabbricato e per le loro terribili condizioni di lavoro oltre 340 operai, per la maggior parte donne. Una strage. Quante volte vorrei dire è accaduta la stessa tragedia in Italia e nel mondo?
Ora io penso che la sinistra se voglia davvero rinascere, debba partire da qui, dalle condizioni materiali dei lavoratori, dai diritti negati, abbandonando tatticismi, opportunismi, settarismi di segno diverso. E’ giunta l’ora di abbandonare ogni vuoto personalismo. Partendo dal valore alto della politica, abbiamo il compito di dar vita ad una sinistra vera, alternativa, plurale, antiliberista; una sinistra che sappia ridare una speranza alla nostra gente stanca di pagare sulla propria pelle il prezzo delle devastanti politiche conservatrici di questi anni.
da Huffingtonpost.it
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