Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 14 aprile 2012

Paradossi d’Europa ai tempi di Monti

Antonio Lettieri - il manifesto - controlacrisi -
L’intervento sulla Grecia, quello della Bce e il Patto fiscale. Tutte e tre queste misure si sono rivelate, come era prevedibile, o sbagliate o inefficienti

La precoce primavera dell’eurozona è durata poco. In realtà si trattava di una sensazione illusoria che Mario Monti aveva alimentato esaltando effimeri successi dei tecnici al governo e facendo la lezione ai politici non solo del passato ma anche del futuro. Negli ultimi giorni si è scoperto quello che già si sapeva, che l’austerità, con al suo seguito la recessione, peggiora il quadro della finanza pubblica. E, soprattutto, che la liberalizzazione dei licenziamenti è un tributo pagato alla destra politica, senza per questo impressionare i mercati finanziari dediti alla speculazione del giorno per giorno.
Un raro umore di compiacimento aveva caratterizzato la leadership dell’eurozona dopo l’ultimo Vertice europeo di marzo. All’origine del malposto ottimismo della leadership europea vi erano stati la decisione del secondo salvataggio della Grecia con il varo del pacchetto di 130 miliardi di euro e il taglio di altri 100 miliardi di euro di debiti verso le banche private; la decisone di Mario Draghi di far intervenire la Bce sui mercati finanziari con oltre mille miliardi di euro; e il cosiddetto Patto fiscale. Tutte e tre queste misure si sono rivelate, come era prevedibile, o sbagliate o inefficienti.
Per rendersene conto, basta dare uno sguardo ravvicinato a queste misure e ai loro effetti.
Partiamo dalla Grecia.Dopo il secondo piano di salvataggio, se tutto funzionerà secondo le previsioni dell’Ue e del Fmi, la Grecia raggiungerà nel 2020 il 120,5 per cento del rapporto debito-Pil. Vale a dire, un tasso superiore al livello che registrava la Grecia quando il nuovo eletto primo ministro Georges Papandreou denunciò la falsificazione del bilancio da parte del precedente governo conservatore di Kostas Karamanlis. Sarebbe questo il risultato paradossale della politica imposta dall’asse Berlino-Bruxelles dopo tre anni di recessione, con un debito salito al 165 per cento del Pil, e dopo aver portato la Grecia sull’orlo della guerra civile. E senza aver scongiurato il default che gli analisti continuano a considerare inevitabile, sia pure allontanato per consentire ad Angela Merkel di andare alle elezioni del 2013 senza aver prima sfasciato l’eurozona.

«I ribelli ci uccidono. L’esercito deve restare»

Viviamo in Siria da più di sette anni, amiamo questo Paese e il suo popolo. Ci sentiamo indignati e impotenti di fronte al tipo di informazioni che circolano in Europa e fanno opinione, sostenendo le sanzioni internazionali, una delle armi più inique che l’Occidente usa per tenersi le mani pulite e dirigere comunque la storia di altri popoli.
Pulite fino a un certo punto: si moltiplicano le segnalazioni della presenza di personale militare inglese, francese (e di altri Paesi) a fianco degli insorti per organizzare le azioni di guerriglia, grave violazione internazionale che passa sotto silenzio.
Sono state raccolte firme e fondi per aiutare la “primavera” del popolo siriano.

Ma chi ha dato – in perfetta buona fede – offerte e sostegno della “liberazione” della Siria deve sapere che ha finanziato assassini inumani, procurando loro armi, contribuito alla manipolazione dell’informazione, fomentato una instabilità civile che richiederà anni per essere risolta. Sconvolgendo l’equilibrio in un Paese dove la convivenza era pane quotidiano. Perché intervenendo senza conoscere la realtà non siamo più liberi, ma funzionali ad altri interessi che ci manipolano.

Non è nostro compito fornire una lettura socio-politica globale della vicenda siriana, altri lo stanno facendo meglio di noi. E chi lo vuole davvero può trovare informazioni alternative. Noi ci limitiamo a raccontare solo ciò che i nostri occhi vedono, qui nel piccolo villaggio di campagna dove viviamo. E dove, quasi ogni notte, i soldati presenti nella piccola guarnigione che lo presidia sono attaccati. Sia dagli insorti presenti nella zona, sia da bande mercenarie che passano il confine siriano nel tentativo di sopraffare l’esercito e aprire un varco per il flusso di armi e combattenti. I militari rispondono? Certo, e la gente ne è contenta perché di armi e mercenari il Paese è già pieno.

Sta per scadere l’ultimatum per il ritiro dell’esercito, che qui nessuno – nel senso letterale del termine – vuole. La gente si sente sicura solo quando i militari sono presenti. Ormai le violenze compiute dai cosiddetti liberatori nelle città, nei villaggi, sulle strade, sono tante e così brutali che la gente desidera solo vederli sconfitti. Gli abusi sono continui: uccisioni, case e beni requisiti o incendiati, persone, bambini usati come scudi umani. Sono i ribelli bloccare le strade, a sparare sulle auto dei civili, a stuprare, a massacrare e rapire per estorcere denaro alle vittime? Invenzioni? La notte del Venerdì Santo, non lontano da dove abitiamo, hanno ucciso un ragazzo e ne hanno feriti altri due: tornavano alle loro case per celebrare la Pasqua. Il ragazzo morto aveva 30 anni ed era del nostro villaggio. Non sono i primi tra la nostra gente a pagare di persona. Ormai prima di spostarsi a fare la spesa o anche solo per andare a lavorare ci si assicura che l’esercito controlli la zona. Anche a noi è capitato di trovarci bloccati dalle sparatorie per tre ore in un tratto di autostrada e siamo riusciti a ripartire solo quando si è formato un corridoio di carri armati che proteggevano gli automobilisti in transito dai tiri dei rivoltosi.

Cinque mesi di sciopero e di resistenza contro un Marchionne greco

marco zerbino - controlacrisi -
Una storia di Grecia che spiega come si possa resistere insieme all'arroganza dei padroni, di come i padroni siano uguali in ogni parte del mondo, di come si possa tornare a essere classe

Quando l'autobus mi lascia sul ciglio della superstrada che collega Atene al Peloponneso non posso fare a meno di pensare che, visto da qui, il crollo dell'apparato produttivo greco di cui tanto parlano i giornali appare poco credibile. Sono nel mezzo dell'Attica occidentale, e la zona industriale di Aspropyrgos mi si presenta di fronte agli occhi disseminata di fabbriche: i tanti capannoni, incuranti dei dati macroeconomici, continuano a scintillare sotto il sole e sembrano non volerne proprio sapere di farsi da parte. Se tutte le mattine vi entrino dei lavoratori, e se tutti i giorni ne escano delle merci, non saprei dire. Di lavoratori, questo è certo, ne trovo parecchi di fronte all'ingresso di Halyvourgia Ellados, la fabbrica siderurgica che raggiungo in compagnia del photoreporter greco Kostas Kallergis dopo pochi minuti di cammino. Kostas ha gentilmente accettato di farmi da interprete, e il suo aiuto si rivelerà prezioso per comprendere le dinamiche di una vicenda, quella di un'azienda i cui operai sono in sciopero da più di cinque mesi, che ha assunto un valore paradigmatico tanto dal punto di vista dell'atteggiamento tenuto dalla classe imprenditoriale greca durante la crisi, quanto da quello della resistenza messa in campo dai lavoratori.

«Tutto è cominciato a fine ottobre, quando Nikos Manesis, il proprietario di Halyvourgia, ci ha sottoposto un accordo», mi spiega Thanasis, un operaio fra i più attivi nel sindacato di fabbrica. «In sostanza, si trattava di un vero e proprio ricatto: avremmo dovuto accettare di lavorare per cinque giorni la settimana e per cinque ore al giorno, con un taglio allo stipendio del 40%. Quindi, da 800 euro, di punto in bianco avremmo cominciato a guadagnarne 500. In caso di rifiuto, Manesis minacciava di licenziare 180 dipendenti su un totale di 380». Una volta messi al corrente della proposta della proprietà, i lavoratori di Halyvourgia si sono riuniti in assemblea, decidendo di rifiutare l'accordo e di rispondere con lo sciopero ad eventuali licenziamenti. «La scelta di respingere il ricatto è stata il frutto di una decisione unanime di tutti i lavoratori», prosegue Thanasis. «Il padrone ha poi cominciato a licenziare, ed è per questo che siamo entrati in sciopero. Una decisione confermata da ben dodici assemblee generali che abbiamo tenuto finora». Da quando è iniziata l'astensione dal lavoro, Manesis ha infatti dato il ben servito a diversi operai, meticolosamente scelti fra i più combattivi e sindacalizzati. «La legge greca consente al datore di lavoro di mandare a casa ogni mese non più del 5% del numero totale dei dipendenti dell'azienda. La soglia era del 2% fino al 2010, ma è stata alzata per effetto del primo accordo stipulato dal governo greco con Ue, Bce e Fmi nel maggio di quell'anno. Manesis, fin dall'inizio del nostro sciopero, si è sempre avvalso di questa facoltà». È anche per questo, forse, che i lavoratori di Halyvourgia non si stancano di ripetere che il loro caso rappresenta una traduzione pratica dei memorandum di intesa fra lo stato ellenico e la Troika.
BLOODSUCKER
MONTI-BILDERBERG

venerdì 13 aprile 2012

Europa: il peggio è dietro l'angolo

di Vincenzo Comito - sbilanciamoci -
A dispetto delle parole rassicuranti dei politici, l'Europa – soprattutto Spagna, Italia e Grecia – continua a rischiare grosso, se non si cambia presto rotta

Dopo le turbolenze del 2011, che hanno fatto per qualche tempo pensare anche ad un crollo imminente del sistema dell’euro, è sembrata poi essere tornata la calma. In effetti, è stato varato un secondo piano di salvataggio per la Grecia; l’Italia ha ora un governo più credibile, almeno sul fronte internazionale; la Spagna è andata alle elezioni e ora il suo governo, come quello Monti da noi, usa il pugno di ferro con i più deboli; per convinzione interna oltre che per compiacere i cosiddetti mercati, i governi dell’Unione hanno approvato il piano di stabilità e varato il nuovo fondo salva stati; infine la Bce ha inondato un sistema bancario boccheggiante di una valanga di denaro. Molti, tra cui anche Draghi e poi Monti, hanno così cominciato a dichiarare che il peggio era ormai passato e che la crisi dell’euro era nella sostanza finita. Ma, di fatto, nessuno dei problemi cui si trovava di fronte il continente europeo e la sua moneta sono stati risolti. Con gli interventi citati si è guadagnato del tempo, ma non sembra che lo si stia usando per fini in qualche modo produttivi. I mercati, del resto, hanno ricominciato a mostrare segni di nervosismo, temendo un ritorno ad una fase di crisi acuta, cosa che sembra molto plausibile.

La Spagna

Le luci della ribalta si sono riaccese soprattutto sulla Spagna. Il paese è fortemente indebitato, ma per la gran parte l’esposizione era concentrata, almeno sino a non molto tempo fa, nel settore privato. Alla fine del 2010 il livello del debito di tale comparto era pari al 227,3% del pil e la cifra corrispondente per il 2011 dovrebbe essere solo leggermente diminuita (Munchau, 2012). Ma, per venire in soccorso del mondo privato, lo Stato si è a sua volta indebitato e così il totale dell’esposizione del paese è passata dal 337% del pil nel 2008 al 363% della metà del 2011 (autori vari, 2012): una cifra enorme. D’altro canto, il settore immobiliare si trova in una situazione disperata. I prezzi delle case alla fine del 2011 erano caduti del 21,7% rispetto alla punta massima del 2007, ma per tornare alla normalità dovrebbero ridursi ancora di almeno altrettanto (Munchau, 2012). La crisi dell’immobiliare si riflette sulle banche, che hanno appena cominciato a svalutare i crediti relativi nei loro bilanci e che dovranno svalutarli ancora per cifre molto grandi. Sono in gioco peraltro anche i crediti di molti istituti europei, in particolare francesi e tedeschi, che in passato hanno generosamente contribuito a sostenere il “miracolo” spagnolo. La tendenza alla riduzione del debito pubblico e, insieme, di quello privato, rappresenta certamente una miscela esplosiva che produrrà una recessione di lunghissima durata. Così sul fronte finanziario si sta presumibilmente andando verso un default. Intanto, l’obiettivo della discesa del deficit pubblico dall’8,5% del pil nel 2011 al 3% del 2013 è giudicato impossibile da raggiungere da tutti gli osservatori neutrali. Il paese si trova di nuovo in recessione – le previsioni più ottimistiche parlano di una riduzione del pil dell’1,7% per il 2012 – e il livello di disoccupazione ha raggiunto a gennaio 2012 la cifra del 23,6% della forza lavoro. I piani di austerità del governo vanno avanti con risultati che non dovrebbero mancare di rivelarsi catastrofici, come a suo tempo nel caso greco. Nella sola Andalusia, nei primi due mesi di applicazione della nuova legge sui licenziamenti, questi sono aumentati di otto volte rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La Grecia

Se la Spagna non è ancora arrivata al default, l’avvenimento si è già consumato in Grecia, che ha da poco completato al riguardo una procedura “ben ordinata”. Ma questo non ha certo tranquillizzato gli animi della popolazione, che si trova ora davanti a molti anni di sofferenze. In tre anni di austerità, del resto, il debito è salito dal 113% del pil al 163%, mentre la disoccupazione è arrivata al 22%. Con le operazioni da poco concluse il governo cancellerà 107 miliardi di euro da un debito complessivo di circa 350 miliardi e riceverà un prestito intorno ai 130 miliardi, dopo i 110 ottenuti con il precedente intervento. Secondo gli enti internazionali che hanno gestito l’operazione, si dovrebbe arrivare ad un rapporto tra debito e pil pari al 120,5% nel 2020.

I risultati della manovra Monti

Perché gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico

Chris Hedges - controlacrisi -
Chris Hedges, giornalista e attivista del movimento "Occupy Wall Street", ha scritto un appassionante manifesto di denuncia della distruzione del sistema di istruzione statunitense che sembra parlare anche al mondo scolastico italiano: lo ripubblichiamo, con qualche modifica nella traduzione, dal blog "Z Net Italy" (qui il testo originale).

Una nazione che distrugge il proprio sistema educativo, degrada la sua informazione pubblica, smantella le proprie librerie pubbliche e destina le proprie onde radio a un intrattenimento stupido e dozzinale, diventa cieca, sorda e muta [1]. Stima i punteggi nei test più del pensiero critico e dell’istruzione, celebra l’addestramento meccanico al lavoro e la singola, amorale abilità nel far soldi. Sforna prodotti umani rachitici, privi della capacità e del vocabolario per contrastare gli assiomi e le strutture dello stato-azienda, e li incanala in una casta di gestori di droni e di sistemi. Trasforma uno Stato democratico in un sistema feudale di padroni e servi delle imprese.

Gli insegnanti, con i loro sindacati sotto attacco, stanno diventando sostituibili tanto quanto i dipendenti a paga minima di Burger King. Disprezziamo gli insegnanti veri – quelli con la capacità di suscitare nei bambini la capacità di pensare, quelli che aiutano i giovani a scoprire i propri doni e potenziali – e li sostituiamo con istruttori che insegnano in funzione di test stupidi e standardizzati. Il punto è che questi istruttori obbediscono, e insegnano ai bambini a obbedire. Il programma "No Child Left Behind", sul modello del “Miracolo Texano”, è una truffa: non ha funzionato meglio del nostro sistema finanziario deregolamentato. Ma quando si esclude il dibattito, queste idee morte si autoperpetuano.

Il superamento di test a scelta multipla celebra e premia una forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati.

Monete sociali ed ecologiche per la sovranità monetaria

- senzasoste -
Alcuni giorni fa sul nostro sito abbiamo pubblicato un articolo che metteva in evidenza l'origine di destra o di estrema destra delle teorie economiche che si accentrano sul signoraggio bancario, e -con un sillogismo piuttosto discutibile- criticava anche le teorie sulla moneta locale, considerandole una diretta conseguenza delle prime.

In realtà non c’è un’unica teoria sulla moneta locale, tanto è vero che essa viene definita in vari modi (moneta locale, sociale, complementare, alternativa...) che dimostrano come siano diversi i ruoli che tale strumento nelle idee dei suoi promotori dovrebbe svolgere in un a comunità; infatti nella storia la moneta sociale è stata adottata in contesti storici, politici e culturali molto diversi tra loro: dalla Repubblica Sovietica della Baviera del primo dopoguerra al tranquillo paesino di Chiemsee della Baviera di oggi; dalle zone sotto controllo repubblicano durante la guerra civile spagnola -qui accanto vediamo una "banconota" dell'epoca- all’Argentina della grande crisi del 2001...

Qui sotto troverete una versione “eco-socialista” della moneta locale, in un articolo scritto da un sociologo catalano che fa parte del movimento 15-M. L’articolo forse in alcuni passaggi pecca un po’ di ingenuità ed eccessivo entusiasmo, ma dimostra che la moneta locale trova sostenitori anche in aree politiche molto significative della sinistra e può stimolare l'interesse dei lettori ad approfondire i temi dell’economia solidale -magari partecipando al prossimo corso organizzato dalla Libera Università Popolare Alfredo Bicchierini, che inizierà a maggio (N.d.T.)

Monete sociali ed ecologiche per la sovranità monetaria

Storicamente i movimenti progressisti ed ecologisti hanno trascurato molto lo studio e la ridefinizione di ciò che è il denaro. Si intendeva che questo faceva parte di un ambito lontano dalle inquietudini sociali ed umaniste; un terreno superfluo per costruire utopie e mondi migliori, nei quali probabilmente il denaro non esisterebbe. Questo ha lasciato praticamente intatta e in mano alle forze conservatrici la comprensione di questa particella fondamentale con la quale organizziamo le nostre società. Ha impedito, al di là di pochi esperimenti puntuali, lo sviluppo di proposte solide che possano costituire alternative praticabili alla moneta eco-illogica e antisociale. A partire dalla controcultura ecologista e dall’economia alternativa sono stati affrontati molti temi come le finanze etiche, il commercio equo, l’agroecologia o le cooperative di consumo, ma la maggioranza funziona integralmente con moneta ufficiale, dato che non si percepisce una differenza reale tra questa e altri sistemi monetari alternativi.
Tuttavia di recente sono nate in tutto il mondo nuove monete emesse su scala locale dalle comunità, con un forte carattere solidale e cooperativo, che hanno mostrato come in questo modo si riesce a generare molti effetti positivi, alcuni dei quali sono direttamente legati alla sovranità alimentare. Anche le monete sociali, chiamate anche locali, complementari o alternative hanno guadagnato forza e interesse negli ultimi anni, specialmente dopo l’inizio della crisi, e stanno costruendo proposte replicabili di distribuzione alimentare bioregionale di carattere solidale ed ecologico.

La sinistra di classe tra legge elettorale e Articolo 18

Domenico Moro - sinistrainrete -
Dieci anni fa al Circo Massimo, contro l’abolizione dell’articolo 18, si tenne la più grande manifestazione sindacale, tre milioni di partecipanti secondo la CGIL, superata forse solamente dalla manifestazione del 2003 contro la guerra in Iraq. L’articolo 18 fu salvo, con grande entusiasmo a sinistra. Eppure, si trattò di una vittoria tattica, inserita in una sconfitta strategica per il movimento operaio, cioè in un peggioramento dei rapporti dei forza complessivi. Infatti, un anno dopo passò la Legge 30/2003 (Legge Biagi), che, bypassando l’articolo 18, abbassava drasticamente il livello di tutela dei lavoratori. Il grado di protezione del lavoro, già ridottosi con il Pacchetto Treu (varato dal Primo governo Prodi, sostenuto e partecipato anche dai comunisti) crollò al di sotto di quello di Francia e Germania.

Gli esiti delle grandi mobilitazioni contro l’articolo 18 e contro la guerra hanno denotato la medesima difficoltà della sinistra a capitalizzare organizzativamente e politicamente la forte spontaneità di massa. Il decennio che seguì vide la partecipazione dell’Italia a guerre seriali, la riduzione di salari reali e welfare, le privatizzazioni, e la crescita dei profitti dei grandi gruppi in un contesto di decadenza industriale del Paese. Dulcis in fundo, l’estromissione dal Parlamento dei comunisti, per la prima volta dal 1948.

2. Attacco forte del capitale, risposta debole

Ma veniamo all’attualità. Siamo davanti all’attacco più forte condotto dal capitale contro il lavoro salariato dalla fine della Seconda guerra mondiale. Non si tratta “solo” dell’attacco all’art. 18, la controriforma è estremamente articolata e colpisce tutti gli aspetti del mercato del lavoro. [1] Al confronto il “pacchetto Treu” e la Legge Biagi sembrano bacchettate sulle dita.

Eppure, la reazione della sinistra è non è stata proporzionata all’entità dell’attacco. Una debolezza che risalta nel confronto con quanto avviene in altri Paesi. In Spagna, ad esempio, lo sciopero generale del 29 marzo contro la riforma del lavoro ha coinvolto oltre 11 milioni di scioperanti e 3 milioni di manifestanti.[2] La debolezza italiana è dovuta, in gran parte, al condizionamento esercitato dal Pd sulla CGIL e su quanto è alla sua sinistra. Il governo Monti è un “governo del presidente”, nominato da Napolitano in contrasto con la Costituzione. Per quanto la democrazia sia stata sospesa, se ne mantiene una parvenza. Questa richiede una sorta di “maggioranza parlamentare”, in effetti un patto a tre, Pd-Pdl-Udc. Il Pd fu convinto da Napolitano a rinunciare a elezioni vittoriose, ed ora si trova in difficoltà perché la controriforma del lavoro va oltre quello che si aspettava. Se la CGIL avesse accettato l’accordo con il governo e Confindustria, il Pd sarebbe stato coperto a sinistra. A questo scopo la Camusso ha cercato di resistere al tavolo delle trattative, ingoiando anche la controriforma delle pensioni, e Napolitano è intervenuto reiteratamente a sollecitare un accordo. La posizione collaborativa della Camusso, però, è venuta meno sia perché la Fiom e altre componenti della CGIL hanno determinato la possibilità di una spaccatura interna, sia perché Monti ha forzato la mano, non accontentandosi di sconfiggere i lavoratori e pretendendone lo scalpo. L’articolo 18 è, però, un argomento ultra sensibile, contro il quale la mobilitazione è più agevole che contro misure pure devastanti, ma meno chiaramente percepite a livello di massa.
NOBEL FOR PEACE

giovedì 12 aprile 2012

Salari: la Cina è vicina

Posted by keynesblog
Un solipsimo senza fine, quello dell’Europa. Una gara infinita tra chi la sa più lunga sulle virtù dell’ “austerity” e sulle sue improbabili proprietà espansive sulla crescita. Tanto da non accorgersi più nemmeno che “la Cina è vicina” e, soprattutto, che il destino dei paesi emergenti è (guarda un po’) quello di crescere. E anche in fretta.

Ma i dati che ci provengono dall’Estremo Oriente sono più forti di qualunque mitologia voglia ancora rappresentare quei territori come un estremo della civiltà, dove stuoli di schiavi rassegnati lavorano senza tregua per soddisfare gli insaziabili bisogni degli occidentali.
Ed è quello stesso Economist che pochi mesi fa aveva rilevato l’ascesa di un nuovo “State Capitalism”, ad aggiornarci su una realtà cinese che sta facendo passi da gigante, gettando un bel po’ di scompiglio nell’economia mondiale.
Il grande protagonista di tutta questa storia è il manifatturiero, ben lungi dall’essere morto e seppellito, ma piuttosto interprete di nuove “catene del valore” in cui il ruolo dell’innovazione è assolutamente centrale. E dove il valore dell’innovazione conta, perché significa maggiore “valore aggiunto” e di conseguenza maggiore produttività (dato che questa, correttamente, deve essere misurata in relazione al valore di ciò che si produce). E tanto conta il valore delle nuove merci cinesi, da aver innescato una forte spinta al rialzo dei salari: cifre variabili, ma tutte considerevoli: 10%, 16%, addirittura 25% in qualche area produttiva. E il malcontento degli occidentali così dilaga.

«Meglio da voi che in Asia»

Ikea delocalizza in Italia - lunita -
Produrre in Italia può essere più conveniente di produrre in Asia. Lo sostiene Ikea, il colosso del mobile low cost, che ha deciso di trasferire alcune sue produzioni dall’ Asia al Piemonte. È qui che si trovano due aziende, una di giocattoli l’altra di rubinetteria, che portano a quota 26 le imprese italiane di cui si serve la multinazionale svedese, che nel 2011 ha acquistato prodotti made in Italy per circa un miliardo di euro (pari all’otto per cento degli acquisti mondiali del gruppo). A rendere più convenienti i fornitori italiani è un mix di fattori: tempo, logistica, qualità del lavoro e salari. Due terzi della rete vendita di Ikea si trova in Europa: producendo nel Vecchio Continente, l’azienda risparmia in termini di costi di trasporto e di impatto ambientale, oltre che sui tempi di consegna. I prodotti italiani, poi, raramente sono oggetto di reclami da parte dei clienti, per via degli alti standard di qualitativi.

Ma c’è anche una componente legata ai salari, che mentre nel nostro Paese sono da tempo fermi al palo in Asia tendono a crescere. Tutto questo, dice il gruppo svedese, sta rendendo più competitivo investire in Italia, ormai diventata il primo fornitore della multinazionale scandinava per quanto riguarda la filiera dell’arredolegno. «Abbiamo individuato nuovi partner italiani che hanno preso il posto di fornitori asiatici - conferma l’ad di Ikea Italia, Lars Petersson - grazie alla loro competenza, al loro impegno e alla capacità di produrre articoli caratterizzati da una qualità migliore e a prezzi più bassi dei loro concorrenti asiatici». Le commesse dell’azienda svedese in Italia danno lavoro a 2.500 persone, alle quali si aggiungono gli oltre seimila dipendenti della rete commerciale e logistica.

Le fabbriche fornitrici si trovano prevalentemente al Nord: Veneto in testa, poi Friuli e Lombardia. E adesso si è aggiunto anche il Piemonte. Mentre a marzo è stato aperto il primo punto vendita siciliano, a Catania. La quota dell’otto per cento degli acquisti effettuati in Italia dal gruppo scandinavo sale al 34 per cento se si considerano solo le cucine: in pratica una su tre è prodotta nel nostro Paese. Le cucine fanno la parte del leone, ma la catena scandinava da noi acquista anche elettrodomestici, camere da letto, scaffalature, librerie e bagni. la vertenza Eppure non è ovunque tutto rose e fiori. In Friuli per esempio c’è una vertenza aperta alla Friul Intagli di Villanova, Udine, che con i suoi circa mille dipendenti è una delle più grosse imprese di cui fornitrici di Ikea. L’azienda ha previsto di stabilizzare nei prossimi tre anni 246 precari, ma dall’estate scorsa Friul Intagli ha registrato un calo delle commesse da parte del colosso svedese, che avrebbe comportato il mancato rinnovo dei lavoratori interinali e la richiesta accedere alla cassa integrazione. Il sospetto dei sindacati è che dietro l’alleggerimento della produzione ci sia la decisione di Ikea di rivolgersi a partner stranieri, lituani e soprattutto polacchi. La Polonia, in effetti, dopo la Cina è il secondo fornitore del gruppo svedese. Fillea-Cgil, Filca-Cisl e Fenae-Uil, temono adesso di non riuscire a mantenere stabili i livelli occupazionali della Friul Intagli. L’ultimo tavolo sindacati e azienda si è tenuto prima di Pasqua e la vertenza sembra ancora lunga. L’obiettivo dei rappresentanti dei lavoratori è il ritiro della cig e l’allontanamento dello spettro dei licenziamenti.v

Avremo le palle a mandorla

da - Byoblu -
Mario Monti è tornato da Shanghai, dove al Boao Forum for Asia aveva detto “Sono qui per chiedervi di rilassarvi un po' circa la crisi dell'Eurozona che è alle spalle anche grazie al più solido sentiero imboccato dall'Italia”. Per tutta risposta, lo spread è schizzato alle stelle, giusto in tempo per l’asta dei Bot e dei Btp che hanno riconosciuto tassi di interesse elevatissimi. Che pagheremo noi, ovviamente, mica Monti, il quale ha talmente convinto i cinesi che sentite cosa dice Andy Xie, economista del Fondo Monetario Internazionale e di Morgan Stanley: «I vostri privilegi? Eccessivi! La Cina non investa in Italia».

Il quale Xie viene a vendere la sua ricetta di cinesizzazione nientemeno che sul Corriere della Sera, il più fedele supporter di Mario Monti. In sintesi: o la piantate di difendere il vostro tempo libero e imparate dalla Cina a lavorare a qualsiasi ora del giorno e della notte, abbandonando diritti e fisime da civiltà progredite, oppure da noi non vedrete il becco di un quattrino.

Ecco il suo pezzo.
I vostri privilegi? Eccessivi! La Cina non investa in Italia
La crisi del debito in Europa si protrarrà probabilmente per diversi anni a venire. Le possibili soluzioni richiedono un significativo ridimensionamento del tenore di vita per molti Paesi dell'Europa meridionale e radicali riforme del suo mercato del lavoro. Entrambi questi obiettivi hanno come presupposto il consenso e la collaborazione di cittadini, al momento assenti. L'aiuto esterno, attraverso salvataggi o investimenti, non farà che prolungare la crisi, dal momento che fornisce ai politici gli strumenti per mantenere lo status quo.

La Cina non deve cadere in questa trappola, specialmente nel caso dell'Italia. La crisi del debito nella zona euro riguarda fondamentalmente l'Italia, non la Grecia. L'attuale premier, che pure sta facendo un buon lavoro, difficilmente riuscirà a cambiare la società italiana, poiché non è stato eletto. Gli investimenti esteri in Italia rischiano di essere una forma di beneficenza. I lavoratori locali metterebbero probabilmente sul lastrico gli ignari investitori stranieri. L'economia italiana è organizzata in modo tale da massimizzare i salari e minimizzare l'attività lavorativa. Gli investimenti funzionano solo nel caso degli enti locali con agganci politici. Il diritto di proprietà, una volta passato in mani straniere, rischia di perdere sostanza.

La «riforma» dell'Articolo 11

di Manlio Dinucci - rifondazione -
Una «riforma strutturale profonda»: così il ministro Di Paola definisce la revisione dello strumento militare, presentata dal governo Monti su sua proposta. Che sia profonda non c'è dubbio. Da oltre vent'anni talpe bipartisan stanno scavando sotto l'art. 11 della Costituzione, che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

I lavori in galleria iniziano nel 1991, dopo che la Repubblica italiana ha combattuto la sua prima guerra, quella lanciata dagli Usa in Iraq. Sotto dettatura del Pentagono, il governo Andreotti redige il «nuovo modello di difesa» che stabilisce, quale compito delle forze armate, non solo la difesa della patria (art. 52), ma la «tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario». Nel 1993 - mentre l'Italia partecipa all'operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi - si dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» al fine di «garantire il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici». Nel 1995, durante il governo Dini, si afferma che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere a misura dello status del paese nel contesto internazionale». Nel 1996, durante il governo Prodi, si sostiene che quello militare deve essere «uno strumento della politica estera». Nel 1999 - dopo che il governo D'Alema ha fatto partecipare l'Italia, sotto comando Usa, alla guerra contro la Jugoslavia - si enuncia «la necessità di trasformare lo strumento militare dalla sua configurazione statica ad una più dinamica di proiezione esterna», compito per cui è adatto «il modello interamente volontario», ossia l'esercito di professionisti della guerra. Che si rivela prezioso per gli interventi militari in Afghanistan e Iraq, sotto il governo Berlusconi. Qui si innesta il concetto strategico pentagoniano enunciato nel 2005 da Di Paola, in veste di capo di stato maggiore. Di fronte alla «minaccia globale del terrorismo», occorre «sviluppare capacità di intervento efficace e tempestivo anche a grande distanza dalla madrepatria». Le forze armate italiane devono operare nelle zone di «interesse strategico» che comprendono i Balcani, l'Europa orientale, il Caucaso, l'Africa settentrionale, il Corno d'Africa, il vicino e medio Oriente e il Golfo persico. La guerra contro la Libia, di cui Di Paola è nel 2011 uno degli artefici quale presidente del comitato militare Nato, conferma la necessità che l'Italia costruisca uno «strumento proiettabile», con spiccata capacità «expeditionary», attraverso una organica pianificazione. Quella che Di Paola vuole ora istituzionalizzare con il decreto legge, per creare forze armate più piccole ma più efficienti, con mezzi tecnologicamente più avanzati (tra cui l'F-35) e più risorse per l'operatività. Ciò è dovuto non alla «necessità di contenere i costi» a causa della crisi finanziaria, ma, come per l'art. 18, alla necessità delle oligarchie economiche e finanziarie, artefici della crisi, di rafforzare i loro strumenti di dominio. Con l'aggravante che si vuole smantellare, insieme a uno dei cardini dello Statuto dei lavoratori, uno dei principi fondamentali della Costituzione.

da Il Manifesto, Martedì 10 Aprile 2012

Come siete buoni, come siamo coglioni!

di Beppe Grillo
Nel "Giorno della Civetta" di Leonardo Sciascia, don Mariano Arena così si rivolge al capitano Bellodi: "... quella che diciamo l’umanità... bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…".
Il Parlamento che ha istituito la "Commissione per la trasparenza ed il controllo dei bilanci dei partiti politici" sull'onda degli scandali che stanno travolgendo i partiti è composto da ominicchi che credono che i cittadini italiani siano in larghissima maggioranza dei pigliainculo. Ci sono i macachi, come Bersani, i lemuri, come Alfano con i suoi occhioni spalancati nel buio e Casini, il bonobo per signore (*). Il Parlamento ha stabilito che la Commissione vigilerà sui bilanci a partire dal 2011, come dire: "Chi ha avuto, avuto, avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdàmmoce 'o ppassato". I bilanci precedenti rimarranno di mamma ignota e di padri plurimi come Belsito e Lusi che in realtà fottevano per conto terzi?
I finanziamenti elettorali, spacciati per rimborsi, sono semplicemente una truffa ai danni dei cittadini che li hanno aboliti con un referendum. I soldi vanno restituiti. Chi li ha incassati non poteva non sapere che eccedevano di centinaia di milioni i costi sostenuti in campagna elettorale, come certificato dalla Corte dei Conti. E allora perché tutti i partiti si sono tenuti il miliardo di euro? Qualcuno vorrebbe persino una nuova legge per restituirli... Ci prendono per pigliainculo o per quaquaraquà? Non è necessario fare nulla in più che ridare indietro i soldi con un assegno al Tesoro, come ha fatto il M5S che ha rifiutato un milione e seicentomila euro.
I partiti sono come dei ladri che, dopo aver derubato una banca e colti sul fatto, istituissero in tutta fretta una commissione ad uso dei rapinati per permettergli di controllare come verranno spesi i soldi della rapina. Di fronte alle rimostranze dei derubati, i rapinatori si appellerebbero alla trasparenza pubblicando su Internet l'utilizzo del maltolto. In più rinuncerebbero alla riscossione dell'ultima rata di 100 milioni per qualche mese, lasciandola in una cassetta di sicurezza. Come siete buoni, come siamo coglioni!
(*) senza offesa per le scimmie

Parlando si Scuola


Scuola, una felice ambiguità - institut finlandais -
Non tutte le parole che indicano un’attività o un insieme di persone dedite a quell’attività indicano anche il luogo, l’ediicio in cui l’attività si svolge e le persone operano.
Invece una parola come “scuola” porta con sé questa ambivalenza e la cosa si ripete in altre lingue ed è tanto ovvia che non sempre i dizionari più concisi la segnalano.
Nell’ambivalenza si sedimenta la percezione antica e collettiva di un nesso profondo con cui si legano l’articolazione dei luoghi e degli spazi e l’attività educativa istituzionale e collettiva.
Un ediicio-scuola cui si accede attraverso scale e scaloni proietta un’idea di scuola-educazione diversa da un ediicio accessibile in piano e aperto sull’ambiente: proietta e in parte condiziona, se non determina.

Non è stato breve il cammino che ha portato architetti e committenti pubblici o privati a capire la portata delle scelte edilizie e urbanistiche in materia scolastica.
In Finlandia per le loro scuole hanno saputo capire anche questo. E così per tutto aprile (fino al 28) a Parigi nell’istituto finlandese di cultura si tiene una mostra di ediici scolastici realizzati in Finlandia in questi anni duemila: scuole di base per ragazze e ragazzi dai sette ai sedici anni e licei e istituti professionali per i più grandi. L’esposizione s’intitola, con una punta d’ironia, La meilleure école du monde.

La mostra vale davvero un détour per capire, oltre le cifre statistiche, quanto impegno civile e creativo sorregge la scuola finlandese.
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La Meilleure École du monde Du 22 mars au 28 avril
Pourquoi l'école finlandaise fonctionne-t-elle si bien et comment a-t-elle obtenue une telle renommée internationale ? Quel a été le rôle de l'architecture dans cet accomplissement ?
La Meilleure Ecole du monde réunit sept projets d’écoles et lycées exemplaires dessinées par des architectes finlandais durant les années 2000. Ces écoles répondent chacune à leur manière aux exigences imposées par les méthodes et les contenus de l’enseignement moderne finlandais, tout en tenant compte des besoins des divers utilisateurs. Elles reflètent également l’air du temps avec ses aspirations esthétiques, économiques et écologiques.
La Meilleure Ecole du monde a été réalisée en collaboration avec le Musée de l’architecture finlandaise.
Parallèlement à l’exposition, une présentation audiovisuelle sur l’histoire de l’architecture des écoles en Finlande sera proposée.
NO TAV (HIGH SPEED TRAINS)
...and if you MUST go to Lyons...fly over

mercoledì 11 aprile 2012

Esorcismi

di Marino Badiale - sinistrainrete -
È molto istruttiva la lettura dell'editoriale di Marco D'Eramo su “Il Manifesto” del 30 marzo. Ci sembra che esso rappresenti un compendio di tutte le incongruenze della sinistra sui temi dei quali ci occupiamo in questo blog (sovranità nazionale, euro, UE). Per mostrare queste incongruenze, proviamo a sintetizzare alcuni punti del ragionamento di D'Eramo:

1. Le lotte contro le misure antipopolari, che in questo periodo stanno prendendo i vari governi europei, hanno sempre una dimensione nazionale, mai una dimensione europea.
2. Al contrario, l'azione dei rappresentanti politici dell'attuale capitalismo regressivo (volta a “riportare la lancetta della storia a prima del 1929, a cancellare lo stato sociale e abrogare il compromesso fra capitale e lavoro”) ha una dimensione sovranazionale.
3. D'altronde, è un fatto che “l'unica leva di potere cui la sinistra può (…) puntare è il controllo dell'apparato dello stato nazionale”.
4. Inoltre, “l'euro è una moneta unica che paradossalmente ha diviso invece di unire: ha esaltato le differenze e le irriducibilità fra i vari paesi rendendo più difficile concordare le iniziative fra le diverse sinistre”.

Fin qui D'Eramo. Queste analisi sono ampiamente condivisibili. Quali conclusioni trarne? Chi legge questo blog conosce le nostre posizioni: occorre riconquistare la sovranità nazionale, e quindi anche economica, e usare il potere dello Stato per ricostruire la giustizia e la coesione sociale che trent'anni di neoliberismo hanno cancellato.

Come si può intuire (dopotutto, stiamo parlando di un editoriale del “Manifesto”), non è questa la conclusione che trae D'Eramo. La sua conclusione è che “quella nazionalistica è una tentazione illusoria e vana”.

Occorre invece, sembra dire D'Eramo, che le sinistre portino la battaglia sul terreno dell'intera Unione Europea, per esempio organizzando uno sciopero generale europeo e invadendo le piazze dell'intera Unione.

Ora, noi riteniamo che la proposta di D'Eramo sia, essa sì, una “tentazione illusoria e vana”. Ma poiché essa rappresenta una idea di fondo condivisa, in una forma o nell'altra, da tutta o quasi la sinistra, ci sembra valga la pena di discuterla seriamente. E l'unico modo di discutere seriamente una tesi è prenderla sul serio. Prendiamo allora sul serio la tesi di D'Eramo. Egli chiede una lotta sociale e popolare a livello europeo contro le politiche economiche neoliberiste e antipopolari. Se questa proposta è una proposta seria, essa deve far riferimento ad un soggetto sociale che sia l'attore di questa lotta europea. Come già avevamo indicato in un saggio scritto assieme a Fabrizio Tringali, questa proposta richiede in sostanza che esista qualcosa come un “popolo europeo” che sia l'attore di una lotta popolare europea. A seconda delle preferenze ideologiche, al posto di “popolo europeo” si può naturalmente parlare di “proletariato europeo”, di “classe operaia europea”, di “ceti subalterni europei”: dal punto di vista del nostro ragionamento, non cambia molto.

Ma cosa significa “popolo europeo”? Quali sono le condizioni almeno necessarie (e forse nemmeno sufficienti) perché si possa parlare di “popolo europeo”? Proviamo ad elencarne qualcuna:

Benecomunisti, che passione

di Rossana Rossanda - ilmanifesto - sinistrainrete -
Ecco il primo soggetto politico che toglie senz'altro di mezzo il conflitto sociale: è quello proposto dal documento di Firenze e Napoli, pubblicato sul manifesto del 29 marzo e argomentato il giorno dopo da Marco Revelli. Come Revelli, altri amici e compagni vi hanno rapidamente aderito.

È un "soggetto senza progetto". La sua idea di società, alquanto mal ridotta dai traffici di Berlusconi e dalla contabilità di Monti, non va oltre la vasta quanto vaga esigenza di far esprimere in forme dirette la società civile, la quale è fatta di tutto fuorché dallo stato, dalle istituzioni e dagli attori della politica. Da tutti e da ciascuno di noi - padroni e dipendenti, banche e depositari e speculatori, uomini e donne, ricchi e poveri, nord e sud - in quanto messi in grado di esprimersi con la scheda sui loro bisogni e le soluzioni per risolverli. Quindi una democrazia più diffusa, una rete di relazioni svincolata dal ceto politico, non più solo "rappresentativa" di qualcuno ma "partecipata" da cittadini che non rilasciano deleghe.

Questo modello non è quello della Costituzione del 1948, che punta sui partiti come corpi intermedi, mediatori fra cittadini e stato, luoghi di elaborazione degli interessi diversi di una società complessa. I partiti - è la premessa del documento - non godono più di alcuna fiducia degli italiani, chiusi come sono in se stessi e nelle loro diatribe, mancando di ogni trasparenza anche quando, raramente, non sono sospettabili di frodi. Essi costituiscono l'impermeabile e impenetrabile "Palazzo" di pasoliniana memoria, e l'ombra o penombra che vi domina sono il miglior brodo di coltura per germi di ogni tipo. Metterli sotto pressione e controllo dal basso è l'operazione di igiene che si impone, nonché cortocircuitarli quando si può chiamare a un referendum.

Per il "nuovo soggetto" questo - trasparenza e apertura ai cittadini - è il vero problema del paese. Occorre sfondare le mura di quelli che non sono più corpi "intermedi" ma corpi "separati", e come tali non sono in grado né di capire né di comunicare con l'Italia, per cui si prevede un massiccio voltare loro le spalle con l'astensione. Il nuovo soggetto promette di essere l'opposto, tutto un'iniziativa di apertura delle barriere e di messa a confronto degli uni con gli altri, insomma un partito - non partito ma sostitutivo dei partiti.

Il pareggio di bilancio in Costituzione, il silenzio dei progressisti

Posted by keynesblog on 11 aprile 2012
Il Parlamento italiano introdurrà nella Costituzione il “pareggio di bilancio”: si tratterà dell’ultimo omaggio offerto alle “idee fallite” che stanno alla base dell’attuale crisi e che tuttora ispirano le politiche recessive e di austerity in tutta Europa. Perchè la stampa e le sinistre tacciono?

di Lanfranco Turci – da MicroMega on line

Nei prossimi giorni il Senato sarà chiamato ad approvare in seconda lettura le modifiche all’art. 81,97,117 e119 della Costituzione in materia di pareggio di bilancio.

Si tratterà dell’ultimo passaggio previsto dall’art. 138 C. dal momento che la Camera del Deputati ha già effettuato le due votazioni previste e il Senato ha già votato in prima lettura il 15 dicembre scorso.

In tutte e tre le occasioni il Parlamento si è espresso con un voto quasi unanime. Le modifiche, secondo cui «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico» si ispirano alle dottrine dominanti in questa fase della politica europea guidata dalle destre conservatrici e neoliberiste.

Nel novembre del 2010 una analoga proposta costituzionale avanzata dai Repubblicani negli USA, per bloccare la politica di stimoli economici del presidente Obama, fu duramente contrastata da un alto numero di economisti, fra cui i Premi Nobel Kenneth Arrow, Peter Diamond, Eric Maskin e Robert Solow. Il capo del governo britannico, David Cameron, ha osservato recentemente che norme del genere equivalgono all’abolizione per legge del pensiero di Keynes.
IF THIS IS A MAN
President Monti visiting Palestine

martedì 10 aprile 2012

La nuova lotta di classe dei ricchi contro i poveri

colloquio con Luciano Gallino di Matteo Pucciarelli
- sinistrainrete -
La flessibilità aumenta l'occupazione? Tagliare le spese dello Stato aiuta l'economia? La competitività valore assoluto? Tutte bugie. Un saggio di Luciano Gallino illustra le disastrose conseguenze economiche e sociali del neoliberismo, che ha elevato la disuguaglianza a ideale di sviluppo

Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e all'improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto.

Ecco, la lettura dell'ultimo lavoro di Luciano Gallino "La lotta di classe dopo la lotta di classe" (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto. Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell'idea, anzi dell'ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all'infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri.

Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – diventare una sorta di bibbia laica.

Era un'ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese.

Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che l'attacco all'articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?

«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».

Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco... Ci fu la riforma Treu nel '96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l'impianto ad essere sbagliato...

«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».

Il lavoratore scomparso.

di Beppe Grillo
Il precariato introdotto dalla legge Maroni, allora ministro del Lavoro, che la intestò a Biagi, doveva facilitare l'occupazione delle nuove generazioni. Ha invece prodotto la più alta disoccupazione giovanile dal dopoguerra, siamo arrivati a un terzo dei giovani e viaggiamo verso la metà se includiamo gli italiani emigrati all'estero negli ultimi anni. Il flusso migratorio dei nostri ragazzi, un milione e duecentomila, quasi tutti laureati o diplomati, è stato secondo solo a quello della Romania.
In Italia ingegneri, fisici e matematici si sono ritrovati a tempo determinato in call center a vendere al telefono i servizi di questa o quella azienda. Con paghe da fame. Impossibilitati a pensare a un futuro o a mettere su famiglia. Sono vissuti spesso grazie alla pensione dei genitori. Nel frattempo molte, moltissime aziende hanno spostato la produzione all'estero con perdite ulteriori di posti di lavoro. L'immigrazione in Italia di milioni di persone dall'Est e dall'Africa impiegate nell'edilizia e nell'agricoltura a basso costo ha agito da calmiere per i salari di braccianti, operai e maestranze varie. Meno lavoro e meno soldi per agricoltori e operai, ma più profitti per pochi, in particolare per i grandi costruttori legati a doppio filo ai partiti e alle Grandi Opere Inutili. Di sviluppo nessuna traccia, di innovazione non gliene può fregar di meno a nessuno. Si recita la solita litania da cerebrolesi di "Lavoro, Crescita, Lavoro, Crescita" che non vuol dir nulla di nulla. Con chi competiamo a livello internazionale oggi? Con le aziende di calcestruzzo?
Per ovviare al problema si pensa ora di facilitare i licenziamenti con la messa in discussione dell'articolo 18. Così le aziende di tutto il mondo (a partire da quelle cinesi) potranno investire in Italia. Così dice Rigor Montis. Sappiamo già come andrà a finire. Il precariato e la disoccupazione, l'instabilità sociale, che hanno colpito 4/5 milioni di ventenni e trentenni, domani saranno estese ai quarantenni e ai cinquantenni. Le pensioni dei vecchi che hanno tenuto in piedi la baracca in compenso diminuiscono con la loro dipartita e valgono sempre meno per via dell'inflazione. E a questa situazione drammatica si sono aggiunti 350.000 quasi sessantenni esodati che non percepiranno la pensione per 7/8 anni e non hanno più un'occupazione. Si salvano ultra sessantenni, settantenni e ultraottantenni, l'età media dei politici. Morti loro, il Paese non avrà più pensioni,lavoro e neppure lavoratori.

GREEK DEBT AUDIT CAMPAIGN The PSI agreement shuts colleges, hospitals and museums!

Posted by Niel - takethesquarenet -
Cancellation of the loan agreement – Debt audit – Cessation of payments and debt cancellation now! All information coming to light regarding the Private Sector Involvement (PSI) and the recent bond exchange of the Greek public debt underlines its detrimental impact. It is an odious agreement, made on the back of the Greek people. It seals the Greek economy into recession, and renders the Greek debt even more illegitimate and odious, since it brings no benefits whatsoever to the Greek people. It is supervised and controlled by our creditors, the IMF and the EU, who imposed this pernicious policy.

Furthermore, the creation of an escrow account to prioritise serving our creditors’ needs highlights the dramatic impact of the bond exchange on the needs of Greek society. As such, it is rejected outright from social organisations. The PSI is unacceptable because:
■It is imposed by a government which has no democratic legitimacy and was appointed in a disgraceful manner by Angela Merkel and Nicolas Sarkozy.
■It entails catastrophic conditionalities and a decimation of social rights (reductions in wages, pensions and social spending; public sector layoffs; privatisations; explosion of unemployment, etc).
■Despite the PSI being responsible for the 5th default in the history of the Greek state, public debt is increasing, and it is only a matter of time until a new debt restructuring takes place and Greece experiences a new default. The PSI will not reduce but actually increase the public debt. Despite 105 billion being written off, we will be further indebted (final confirmation pending) by 174 billion euro (109 billion new debt to the eurozone institutions, 28 billion to the IMF, and 37 billion left over from the first bailout package).
■The new bonds issued under UK and Luxembourg law, the waivers of national immunity and the arrival of an international task force that will control Greek ministries reinforce a loss of sovereignty and the virtual colonization of Greece.
■The PSI changes the ownership structure of the public debt, which was mainly privately held, but now is transferred to the official sector, since as much as two thirds of it will be held by the eurozone, the IMF and the ECB. This might lead to a direct confrontation amongst the peoples of Europe.
■The PSI imposes immediate economic hardship on society, not least because of the arbitrary decision of the Bank of Greece to exchange, a few days before the ‘haircut’, the deposits of public companies and institutions into bonds, so as to increase the “voluntary participation” in the bond exchange. Pension funds have thus lost 12 billion euro (out of 24 billion), universities lost 87 million (they are left with 33 out of 120 million), technical colleges 50 out of 100 million, etc. In some cases, even salaries are now at risk.
■Finally, the PSI shuns the possibility of internal borrowing in the future, since it provides no compensation whatsoever for the 11000 individual bondholders, most of them from low income groups, who suffered serious losses. Indirectly this also benefits the banks.
■Meanwhile, the illegal Goldman Sachs deal, valued at least 5 billion euros, has not been included in the exchange, rewarding in this way a manoeuvre in financial derivatives which hid the state’s obligations. Greek banks will also benefit from the PSI in a provocative way, as they will give up 50 billion worth of bonds, but will be compensated through a bank recapitalisation by 50 billion.

For all these reasons, it is an absolute priority to open up the books of public debt. All the recent increases in public debt, as well as the recent restructuring, are products of punitive actions spearheaded by the Ministry of Finance and the Bank of Greece. The political responsibility lies with the unelected government of Prime Minister Lucas Papademos, which in tandem with the same political parties that led us to the default invoke a state of necessity to destroy labor and people’s rights. On the contrary, the pauperization of the Greek people and the dismantling of the welfare state through the PSI create a real state of necessity, which makes it imperative to deny and cancel the debt, as well as perform a debt audit.

Following the recent dramatic developments, the Greek Debt Audit Campaign highlights:
■The need to create an international audit committee consisting of independent experts and activists, in order to reveal the odious and illegal character of the debt.
■The need to cancel, through our struggles, the new loan agreement that accompanies the second loan, and turns Greece into a pariah state.
■The priority of the people’s actions and the social struggles against the debt, encapsulated in the popular demand “We do not owe – We will not sell – We will not pay.”
■The importance of unrelenting and persevering independent social struggles, for reversing the policies of pauperization and impoverishment, of privatizations and cuts.

Athens, 30th March 2012

www.elegr.gr

Original: http://elegr.gr/details.php?id=340

AGORA ATHENS 05 - 15 MAY 2012

What is it ?
" A meeting of people and projects
based on the principles of inclusion, cooperation, respect, and non violence.
" An open space without political parties, structured horizontally and shaped by
everyone's active participation.
Who can participate ?
Everybody. All participants are at the same level (horizontal
structure) with no notions of superiority or inferiority.
What for?
" To establish relationships at a local and global level for both individuals and collectives, through the discussions, actions and meetings of the Agora.
" Make existing alternative projects known to more people and at the same time... new ones will arise.
" Make it possible to exchange experience.
" Have an opportunity to practice collective intelligence in order to allow common objectives to emerge.
When ?
5 to 15th of May ! The Agora will culminate on 12th to 15th May, a period of global mobilizations and non violent and creative actions.
Where ?
In a public space, in the center of Athens... stay tuned for the exact location.
The story of the march
After the Agora of Brussels (initiated by the "March to Bruxelles") and the
International manifestation of the 15th of October, we continue our efforts to
network and link people in Europe and around the world. As part of this effort,
a group of people started walking from Nice to Athens on the 9th of November,
holding popular assemblies along the way, re-appropriating the place of
politics in everyday life and expanding the assembly form.
On the occasion of the arrival of the march, Agora of Athens will be held
from 5 to 15th of may.

Our response to the inhuman system of financial dictatorship is
solidarity and self-organization. There is no point in expecting others to
solve our problems. Let's take matters into our own hands and become part of
the solution!

Let's build together!
CITOYENS!
STARVE THE CRIMINAL BANKS!
YOUR SAVINGS TO THE MATTRESS BANK
"The nearest to your home"

lunedì 9 aprile 2012

Austerity. Il premier tra Churchill e Keynes.

di Giorgio Lunghini - sinistrainrete -
In Europa e in Italia domina ancora la Treasury View, quel punto di vista del Tesoro britannico che nell'infausto '29 Winston Churchill, allora Cancelliere dello Scacchiere, aveva sostenuto con determinazione: «Quali che ne possano essere i vantaggi politici e sociali, soltanto una assai piccola occupazione addizionale, ma nessuna occupazione addizionale permanente, possono essere create con l'indebitamento pubblico e con la spesa pubblica». L'argomento addotto è che qualsiasi aumento della spesa pubblica sottrae un pari ammontare di risorse agli investimenti privati: se il governo si indebita, allora entra in concorrenza con il settore privato, assorbe risorse che altrimenti avrebbero potuto essere investite dall'industria privata e dunque non si avrà nessun effetto netto sul livello di attività. Oggi non ci si ricorda invece che nel 1936 era uscita la General Theory of Employment, Interest and Money di J. M. Keynes, che della Treasury View e del suo fondamento neoclassico costituisce una critica radicale, con particolare riguardo alle determinanti dell'occupazione.

La Treasury view è corretta soltanto in un caso: quando l'economia è già in una situazione di piena occupazione, così che la spesa pubblica spiazzerebbe gli investimenti privati; si noti però che se ci fosse già la piena occupazione non ci sarebbe bisogno di nessun intervento dello Stato. In una situazione di disoccupazione, soprattutto se la disoccupazione è elevata come è oggi in Italia, lo Stato dovrà invece intervenire e ciò potrà fare indirettamente o direttamente. «Lo Stato dovrà cercare di influenzare la propensione al consumo, in parte mediante l'imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Tuttavia sembra improbabile che l'influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento si dimostrerà l'unico mezzo per consentire di avvicinarci all'occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l'iniziativa privata».

La teoria neoclassica nega invece che possa esserci bisogno di un intervento diretto dello Stato, perché postula che il sistema economico è in grado di autoregolarsi; e in particolare assume che la flessibilità del mercato del lavoro sia condizione sufficiente per fare aumentare l'occupazione fino al livello della piena occupazione. Questa è l'unica ragione seria, ma analiticamente infondata, per mettere al primo posto dell'agenda del governo la riforma del mercato del lavoro. Così come i provedimenti di liberalizzazione di tutti gli altri mercati e i tagli della spesa pubblica hanno come unica giustificazione razionale, anche questa infondata, la tesi che in tal modo tutti i mercati diventeranno finalmente efficienti e che la spesa pubblica non spiazzerà gli investimenti privati.

Corsa all’Eliseo: Jean-Luc Mélenchon guarda all’America latina e a Cuba

di Gennaro Carotenuto
Sono tutti convinti che stia facendo una gran campagna elettorale Jean-Luc Mélenchon, il candidato del Fronte delle Sinistre alla presidenza della Repubblica francese. Con oltre il 15% delle aspettative di voto ha superato al terzo posto l’estremista di destra Marine Le Pen, morde forte il fianco sinistro del candidato del Partito Socialista François Hollande nella corsa contro Nicolas Sarkozy (virulentemente a destra) e ridotto gli spazi del candidato alla sua sinistra, Philippe Poutou, del Nuovo Partito Anticapitalista.

Ma al di là di come stia andando la campagna, Mélenchon, sessantenne mitterandiano e già ministro di Lionel Jospin durante la coabitazione, poi uscito da sinistra dal PS, sta rompendo la congiura del silenzio della sinistra europea rispetto alla sinistra latinoamericana, citandola spesso e volentieri e con buona competenza.

Negli ultimi anni ha ripetutamente causato polemica in Francia per la sua difesa di Cuba rivoluzionaria ma, in particolare in un’intervista importante a Página12, che vale la pena di sunteggiare, ha dimostrato un’insolita apertura nel monolitismo anti-latinoamericano che accomuna gran parte della sinistra europea.

Secondo Mélenchon il modello con il quale si sta costruendo il suo partito è apertamente ripreso dal Frente Amplio uruguayano che, fin dal 5 febbraio 1971, mette insieme molteplici anime della sinistra compresi gli ex-guerriglieri Tupamaros e che oggi governa il paese proprio con l’ex-guerrigliero Pepe Mujíca.

A questo si affianca una riflessione profonda sulla “Rivoluzione della Cittadinanza” ripresa dall’Ecuador di Correa, ma –ed è interessantissimo- Mélenchon dichiara di riprendere la visione del sistema mediatico da Néstor e Cristina Kirchner in Argentina (Cfr. G. CAROTENUTO [2009], Argentina: la legge sui media nel dibattito politico latinoamericano sull’informazione LATINOAMERICA E TUTTI I SUD DEL MONDO). La legge sui media argentina, probabilmente la più avanzata al mondo, prevede una suddivisione del sistema mediatico nel quale lo spazio per i media commerciali (che nel modello liberale occidentale è invece monopolista) non può superare un terzo del totale.

PASSIONE DI CRISTO

Il testamento di Dimitris Christoulias suicidatosi davanti al parlamento greco.
- sollevazione -
«Il governo di occupazione Tsolakoglu* ha annientato la mia capacità di sopravvivere, basata sulla mia pensione dignitosa che da solo, senza l'aiuto dello Stato, per 35 anni, mi sono pagato. Tenuto conto che la mia età non mi da la possibilità di reagire con forza (ma se un altro greco avesse preso il Kalashnikov io l'avrei seguito) non ho altra soluzione che porre fine in modo dignitoso alla mia vita, prima di essere obbligato a rovistare tra i rifiuti per nutrirmi. Credo che i giovani senza futuro, una giorno, prenderanno le armi e, in Piazza Syntagma, appenderanno i traditori della nazione, come fecero nel 1945 gli italiani con Mussolini».

Dimitris era un farmacista in pensione di 77 anni. Il 4 aprile si è suicidato in Piazza Syntagma, davanti al parlamento greco. Quello qui sopra è ciò che ha lasciato scritto prima di compiere l'estremo gesto. Un vero e proprio testamento politico.
Che Dimitris diventi il Moahmmed Bouazizi** del popolo greco!
Pagheranno caro, pagheranno tutto.

* [militare greco che fu primo ministro del governo di collaborazione dal 1941 al 1942 sotto l'occupazione nazista, Ndr]
** [Il giovane ambulante tunisino uccisosi il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, il cui gesto innescò la rivolta che portò, il 14 gennaio 2011, alla cacciata del tiranno Ben Alì].
MONTI: ITALY TO SELL 30 WAR AIRPLANES TO ISRAEL AIR FORCE
Wow! The italian know - how and the heroism of the cast-lead pilots

domenica 8 aprile 2012

Roma 12 Maggio: Manifestazione nazionale unitaria promossa dalla Fds

- rifondazione -
UNIAMO L'OPPOSIZIONE DI SINISTRA AL GOVERNO MONTI
COSTRUIAMO L'ALTERNATIVA ALLE SUE POLITICHE LIBERISTE

Il governo Monti aggrava la crisi, ne scarica gli effetti sui soggetti più deboli e corrompe la democrazia. Questo governo, nato senza mandato da parte degli elettori e appoggiato da una grande coalizione che va dalla destra berlusconiana al PD, è il frutto dei diktat e delle fallimentari ricette di poteri economici e finanziari, come la Bce, la Commissione Europea, l'Fmi, che scavalcano la volontà dei popoli e le istituzioni rappresentative.

La manovra economica di dicembre, contrassegnata su tutto da un aumento della pressione fiscale generalizzato e senza criteri di progressività, dall'innalzamento dell'età pensionabile, dal taglio alle prestazioni previdenziali, dai nuovi tagli agli enti locali e alla spesa per il sociale, ha evitato di introdurre una tassa sui grandi patrimoni, di tagliare gli sprechi miliardari come la Tav in Val di Susa o l'acquisto di 131 cacciabombardieri F35, di ridurre i costi della politica, al fine di investire in creazione di posti di lavoro e nella riconversione in senso ecosostenibile dell'economia italiana.

Ora il governo si appresta a una riforma del mercato del lavoro che non colpisce la precarietà sia sul piano legislativo che fiscale, che riduce la durata degli ammortizzatori sociali in caso di perdita del lavoro, e che manomette l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori allo scopo di agevolare il padronato nella facoltà di licenziare e di annichilire gli spazi di agibilità sindacale e politica nei luoghi di lavoro.

Tuttavia, pur registrando una palese crisi di consensi, l'esecutivo non ha ancora un'adeguata opposizione nel paese. Esistono brani di resistenza nel mondo della sinistra d'alternativa, del sindacato, dell'associazionismo, della scuola, e dei movimenti sociali e territoriali. Ma al contempo, anche nell'area vasta che si oppone al governo, si fatica a ridurre la frammentazione dei soggetti in campo e crescono i segnali di sfiducia nelle forme politiche democratiche, a partire da partiti.

Per queste ragioni la Federazione della Sinistra che in questi mesi, in coerenza con la propria vocazione unitaria, ha animato e sostenuto su tutto il territorio nazionale centinaia di iniziative di opposizione alle politiche del governo, promuove per il 12 Maggio 2012 a Roma un appuntamento nazionale di mobilitazione che proponiamo di condividere con tutte le soggettività politiche e sociali, collettive ed individuali, che condividono la necessità e l'urgenza di un'alternativa a tali sciagurate politiche.

Un'alternativa basata su:

giustizia sociale, difesa dei diritti sociali e del lavoro e redistribuzione delle ricchezze,

riconversione ecologica dell'economia con un grande piano di investimenti pubblici per il lavoro stabile e di qualità

rilancio della democrazia, basato sull'ampliamento della democrazia partecipata e sul superamento del bipolarismo attraverso un sistema elettorale proporzionale.

CONTRO IL GOVERNO MONTI:

Giustizia sociale, Lavoro, Democrazia!

12 Maggio 2012 – ore 14, ROMA, Piazza Santi Apostoli

Riformismo e anticapitalismo nel movimento no-debito

di Giulio Palermo (compagno, ricercatore di economia politica)
palermo@eco.unibs.it - eco.unibs.it/~palermo
- clashcityworkers -
La crisi del debito pubblico in Europa impone dure misure restrittive che si abbattono su una situazione economica già critica. Secondo le istituzioni internazionali e i governi nazionali non c’è altra via d’uscita: pagare il debito è l’unica cosa da fare.
La gente protesterà, ma non si può vivere perennemente al di sopra dei propri mezzi.

Lo stato deve ora onorare i suoi debiti, anche a costo di adottare misure impopolari.Niente mostra meglio la distanza che esiste tra stato e popolo della rabbia sociale espressa fuori del Parlamento greco, mentre all’interno gli onorevoli onoravano i loro impegni con la comunità internazionale, approvando i provvedimenti indicati dalla Banca centrale europea, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, in difesa del potere bancario. Senza più alcuna mistificazione, lo stato schiaccia il proprio popolo, come misura necessaria a salvare il capitale internazionale.

In Italia, qualche ministro piange al pensiero che milioni di pensionati non arriveranno più a fine mese, ma non si dimette di certo: perché qualcuno il lavoro sporco dovrà pur farlo. “Misure impopolari, ma necessarie”, questo è il ritornello. Perché, appunto, la necessità è salvare le banche, anche a costo di sacrificare il popolo.

Gli stessi partiti di sinistra con ambizioni di governo faticano a dire qualcosa di sinistra perché la prima preoccupazione, per loro come per ogni partito borghese, non è il popolo che dovrebbero rappresentare, ma la stabilità del sistema, la solvibilità delle banche e la tenuta delle istituzioni finanziarie internazionali. Da questo punto di vista, ben vengano i governi tecnici: così sembra che le misure impopolari le prendano loro, senza che destra e sinistra se ne assumano direttamente la responsabilità politica (anche se, ovviamente, sono comunque parlamentari di destra e di sinistra che approvano le manovre dei governi tecnici).
In questo quadro, la nascita di un movimento che si oppone al pagamento del debito pubblico costituisce una novità politica significativa. Riconsiderare il debito, ed eventualmente ripudiarlo, per molti militanti significa rimettere in discussione i meccanismi che strangolano i debitori per il bene dei creditori, attaccare i principi sacri della proprietà privata, capovolgere l’assioma che antepone i profitti di banche e imprese ai bisogni di uomini e donne. Ma può significare anche una cosa completamente diversa: “default controllato”, che in fondo è quanto chiede il capitale.
Nella proposta di rinegoziare il debito, insomma, si intrecciano potenzialità rivoluzionarie e rischi politici restauratori che devono essere attentamente valutati. In questo articolo, esamino criticamente la proposta del movimento contro il debito che si sta sviluppando in diversi paesi europei e faccio alcune considerazioni sul ruolo di una simile lotta all’interno di un percorso anticapitalista.

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