Antonio Lettieri - il manifesto - controlacrisi -
L’intervento sulla Grecia, quello della Bce e il Patto fiscale. Tutte e tre queste misure si sono rivelate, come era prevedibile, o sbagliate o inefficienti
La precoce primavera dell’eurozona è durata poco. In realtà si trattava di una sensazione illusoria che Mario Monti aveva alimentato esaltando effimeri successi dei tecnici al governo e facendo la lezione ai politici non solo del passato ma anche del futuro. Negli ultimi giorni si è scoperto quello che già si sapeva, che l’austerità, con al suo seguito la recessione, peggiora il quadro della finanza pubblica. E, soprattutto, che la liberalizzazione dei licenziamenti è un tributo pagato alla destra politica, senza per questo impressionare i mercati finanziari dediti alla speculazione del giorno per giorno.
Un raro umore di compiacimento aveva caratterizzato la leadership dell’eurozona dopo l’ultimo Vertice europeo di marzo. All’origine del malposto ottimismo della leadership europea vi erano stati la decisione del secondo salvataggio della Grecia con il varo del pacchetto di 130 miliardi di euro e il taglio di altri 100 miliardi di euro di debiti verso le banche private; la decisone di Mario Draghi di far intervenire la Bce sui mercati finanziari con oltre mille miliardi di euro; e il cosiddetto Patto fiscale. Tutte e tre queste misure si sono rivelate, come era prevedibile, o sbagliate o inefficienti.
Per rendersene conto, basta dare uno sguardo ravvicinato a queste misure e ai loro effetti.
Partiamo dalla Grecia.Dopo il secondo piano di salvataggio, se tutto funzionerà secondo le previsioni dell’Ue e del Fmi, la Grecia raggiungerà nel 2020 il 120,5 per cento del rapporto debito-Pil. Vale a dire, un tasso superiore al livello che registrava la Grecia quando il nuovo eletto primo ministro Georges Papandreou denunciò la falsificazione del bilancio da parte del precedente governo conservatore di Kostas Karamanlis. Sarebbe questo il risultato paradossale della politica imposta dall’asse Berlino-Bruxelles dopo tre anni di recessione, con un debito salito al 165 per cento del Pil, e dopo aver portato la Grecia sull’orlo della guerra civile. E senza aver scongiurato il default che gli analisti continuano a considerare inevitabile, sia pure allontanato per consentire ad Angela Merkel di andare alle elezioni del 2013 senza aver prima sfasciato l’eurozona.
Diverso è il discorso per la manovra della Banca centrale europea. Essa, ha affermato Mario Draghi, «ha evitato una grave crisi del credito», offrendo alle banche finanziamenti a lungo termine per oltre 1000 miliardi all’uno per cento, in termini reali un tasso negativo. La misura ha dato un sollievo temporaneo a oltre 1000 banche per rivelarsi poi sbagliata e inefficiente, come dimostra il balzo in avanti dello spread e la caduta dei valori azionari delle stesse banche.
Se la Bce fosse intervenuta direttamente nell’acquisto dei bond sovrani degli stati in difficoltà, sarebbe probabilmente bastata una cifra molto più bassa per tagliare le unghie alla speculazione e per rafforzare le banche che detengono i titoli del debito pubblico dei paesi a rischio. Ma Draghi aveva contro l’ostinata e insensata posizione della Bundesbank, e gli è mancato il coraggio di porre i governi dell’eurozona di fronte all’alternativa fra un effettivo salvataggio dell’euro e la sua lenta auto-distruzione.
Quanto al «fiscal compact», l’accordo per il pareggio dei bilanci e la riduzione del debito entro i parametri di Maastricht, nel pieno di una recessione che sta mettendo in ginocchio tutta l’Europa e preoccupando il resto del mondo per le sue conseguenze sull’economia globale, l’unico precedente che si può ricordare è quello di Herbert Hoover, il presidente degli Stati Uniti, che ancora nell’autunno del 1932, mentre infuriava la recessione, proclamava l’obiettivo del pareggio del bilancio. La differenza, sfortunatamente, è che allora gli subentrò Franklin D. Roosevelt e il suo New Deal, mentre oggi lo scettro è nelle mani di governi, più o meno tecnici, che in un clima post-politico o semplicemente di destra si adeguano alle prescrizioni monetariste dell’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles.
Sarebbe incredibile, se non accadesse sotto i nostri occhi, il consenso che anima governi nazionali e autorità europee nel perseguire con arrogante compiacimento, politiche insieme antipopolari e controproducenti. C’è da chiedersi se può durare. In Spagna, il successo elettorale di Mariano Rajoy, succeduto a Zapatero, declina sotto l’urto della mobilitazione sindacale unitaria e della ripresa della sinistra come hanno dimostrato le elezioni in Andalusia. In Italia, l’incantesimo del governo dei professori sembra spezzato dopo il tentativo di un nuovo decreto-legge mirato a ripetere sul mercato del lavoro l’esperienza fatta con la controriforma pensionistica. Una svolta potrebbe venire dalla Francia dove François Hollande sembra destinato a guadagnare le elezioni di maggio. La sua, pur cauta, contestazione del nuovo patto fiscale e la richiesta di un cambiamento politico in direzione della crescita ha allarmato Angela Merkel, consapevole dell’importanza del partenariato francese.
In effetti, l’Unione Europea è stata sin dalla sua origine il frutto della determinazione francese e tedesca. Dopo più di mezzo secolo, in un contesto profondamente cambiato, il futuro europeo continua a dipendere dalla partnership franco-tedesca. All’inizio, la Francia era il centro politico della costruzione europea. Oggi, la Germania ne ha accaparrato la leadership e ha esercitato la sua egemonia politica chiudendo la zona euro in un labirinto di paradossi.
Il tempo per uscirne, prima che la costruzione europea collassi, non è molto. La sinistra dovrebbe discuterne senza timori reverenziali e senza reticenze.
L’intervento sulla Grecia, quello della Bce e il Patto fiscale. Tutte e tre queste misure si sono rivelate, come era prevedibile, o sbagliate o inefficienti
La precoce primavera dell’eurozona è durata poco. In realtà si trattava di una sensazione illusoria che Mario Monti aveva alimentato esaltando effimeri successi dei tecnici al governo e facendo la lezione ai politici non solo del passato ma anche del futuro. Negli ultimi giorni si è scoperto quello che già si sapeva, che l’austerità, con al suo seguito la recessione, peggiora il quadro della finanza pubblica. E, soprattutto, che la liberalizzazione dei licenziamenti è un tributo pagato alla destra politica, senza per questo impressionare i mercati finanziari dediti alla speculazione del giorno per giorno.
Un raro umore di compiacimento aveva caratterizzato la leadership dell’eurozona dopo l’ultimo Vertice europeo di marzo. All’origine del malposto ottimismo della leadership europea vi erano stati la decisione del secondo salvataggio della Grecia con il varo del pacchetto di 130 miliardi di euro e il taglio di altri 100 miliardi di euro di debiti verso le banche private; la decisone di Mario Draghi di far intervenire la Bce sui mercati finanziari con oltre mille miliardi di euro; e il cosiddetto Patto fiscale. Tutte e tre queste misure si sono rivelate, come era prevedibile, o sbagliate o inefficienti.
Per rendersene conto, basta dare uno sguardo ravvicinato a queste misure e ai loro effetti.
Partiamo dalla Grecia.Dopo il secondo piano di salvataggio, se tutto funzionerà secondo le previsioni dell’Ue e del Fmi, la Grecia raggiungerà nel 2020 il 120,5 per cento del rapporto debito-Pil. Vale a dire, un tasso superiore al livello che registrava la Grecia quando il nuovo eletto primo ministro Georges Papandreou denunciò la falsificazione del bilancio da parte del precedente governo conservatore di Kostas Karamanlis. Sarebbe questo il risultato paradossale della politica imposta dall’asse Berlino-Bruxelles dopo tre anni di recessione, con un debito salito al 165 per cento del Pil, e dopo aver portato la Grecia sull’orlo della guerra civile. E senza aver scongiurato il default che gli analisti continuano a considerare inevitabile, sia pure allontanato per consentire ad Angela Merkel di andare alle elezioni del 2013 senza aver prima sfasciato l’eurozona.
Diverso è il discorso per la manovra della Banca centrale europea. Essa, ha affermato Mario Draghi, «ha evitato una grave crisi del credito», offrendo alle banche finanziamenti a lungo termine per oltre 1000 miliardi all’uno per cento, in termini reali un tasso negativo. La misura ha dato un sollievo temporaneo a oltre 1000 banche per rivelarsi poi sbagliata e inefficiente, come dimostra il balzo in avanti dello spread e la caduta dei valori azionari delle stesse banche.
Se la Bce fosse intervenuta direttamente nell’acquisto dei bond sovrani degli stati in difficoltà, sarebbe probabilmente bastata una cifra molto più bassa per tagliare le unghie alla speculazione e per rafforzare le banche che detengono i titoli del debito pubblico dei paesi a rischio. Ma Draghi aveva contro l’ostinata e insensata posizione della Bundesbank, e gli è mancato il coraggio di porre i governi dell’eurozona di fronte all’alternativa fra un effettivo salvataggio dell’euro e la sua lenta auto-distruzione.
Quanto al «fiscal compact», l’accordo per il pareggio dei bilanci e la riduzione del debito entro i parametri di Maastricht, nel pieno di una recessione che sta mettendo in ginocchio tutta l’Europa e preoccupando il resto del mondo per le sue conseguenze sull’economia globale, l’unico precedente che si può ricordare è quello di Herbert Hoover, il presidente degli Stati Uniti, che ancora nell’autunno del 1932, mentre infuriava la recessione, proclamava l’obiettivo del pareggio del bilancio. La differenza, sfortunatamente, è che allora gli subentrò Franklin D. Roosevelt e il suo New Deal, mentre oggi lo scettro è nelle mani di governi, più o meno tecnici, che in un clima post-politico o semplicemente di destra si adeguano alle prescrizioni monetariste dell’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles.
Sarebbe incredibile, se non accadesse sotto i nostri occhi, il consenso che anima governi nazionali e autorità europee nel perseguire con arrogante compiacimento, politiche insieme antipopolari e controproducenti. C’è da chiedersi se può durare. In Spagna, il successo elettorale di Mariano Rajoy, succeduto a Zapatero, declina sotto l’urto della mobilitazione sindacale unitaria e della ripresa della sinistra come hanno dimostrato le elezioni in Andalusia. In Italia, l’incantesimo del governo dei professori sembra spezzato dopo il tentativo di un nuovo decreto-legge mirato a ripetere sul mercato del lavoro l’esperienza fatta con la controriforma pensionistica. Una svolta potrebbe venire dalla Francia dove François Hollande sembra destinato a guadagnare le elezioni di maggio. La sua, pur cauta, contestazione del nuovo patto fiscale e la richiesta di un cambiamento politico in direzione della crescita ha allarmato Angela Merkel, consapevole dell’importanza del partenariato francese.
In effetti, l’Unione Europea è stata sin dalla sua origine il frutto della determinazione francese e tedesca. Dopo più di mezzo secolo, in un contesto profondamente cambiato, il futuro europeo continua a dipendere dalla partnership franco-tedesca. All’inizio, la Francia era il centro politico della costruzione europea. Oggi, la Germania ne ha accaparrato la leadership e ha esercitato la sua egemonia politica chiudendo la zona euro in un labirinto di paradossi.
Il tempo per uscirne, prima che la costruzione europea collassi, non è molto. La sinistra dovrebbe discuterne senza timori reverenziali e senza reticenze.
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