Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 17 novembre 2012

14N Un Sud Europa autonomo e non rappresentabile

Fonte: globalproject.info | Autore: Antonio Musella
       
Fino a pochi mesi fa il premier Mario Monti dichiarava con grande vanto, in occasione dei vertici internazionali, che l'Italia non era come la Grecia o la Spagna, in Italia si applicavano le politiche di austerità e non c'era conflitto sociale. Chissà cosa dirà adesso al prossimo incontro tra i primi ministri europei.
Il 14 novembre ci dice tante cose, forse troppe per metterle a fuoco subito e per renderle in una sola breve analisi come vuole essere questa. Tra i diversi spunti però, vorrei provare ad approfondire due temi. Il primo è quello del senso politico della giornata, un'esperimento di sciopero europeo inizialmente convocato dalla Ces, la confederazione sindacale europea a cui aderiscono in Italia anche Cgil, Cisl e Uil, ed ha visto da subito il sostegno di alcune forze politiche della sinistra in Grecia (Syriza), Spagna (Izquierda Unida) e Portogallo (Bloco de Esquerda), gli altri Pigs in cui era convocata la giornata di sciopero.
In Italia il #14N arriva grazie alla Fiom che anticipa tutti convocando lo sciopero generale di categoria e costringendo la Cgil - ma non Cisl e Uil che formalmente aderiscono alla Ces - a convocare lo sciopero per il 14 novembre ma di sole 4 ore, a fronte degli scioperi nel resto del Sud Europa proclamati su tutta la giornata lavorativa.
Alla luce della settimana di mobilitazioni, che si è aperta a Napoli con gli scontri tra studenti, precari e disoccupati con la polizia in occasione del vertice italo-tedesco, possiamo dire che i promotori delle manifestazioni sindacali sono stati assolutamente messi in secondo piano dalla forza dei movimenti che hanno attraversato le mobilitazioni del #14N e da una composizione sociale senza dubbio non riducibile e non rappresentata dalle centrali sindacali né tantomeno dai partiti politici.
Ieri nelle piazze italiane c'erano più generazioni che vivono quotidianamanete la precarietà ed il peso delle politiche di austerità e rigore. Probabilmente sono quella parte di paese a cui poco interessano i dibattiti alla X-Factor delle primarie del centro sinistra, a cui poco interessa anche la purezza demagogica del grillismo e la sua assenza di un modello di società alternativa. Sono quelli che probabilmente non andranno a votare e sono senza dubbio i più incazzati del paese. Il collante tra questi giovani e giovanissimi è senza dubbio quello delle condizioni materiali di vita.
Mentre le piazze, piene, radicali e che reclamano una via d'uscita dalla crisi opposta alla linea della troika europea, venivano egemonizzate dai movimenti, partiti e sindacati scoprivano le loro nudità. Succede alla Cgil che mobilita poco in Italia rispetto alle piazze dei movimenti ed i cui dirigenti vengono contestati praticamente ovunque, succede ai leaders politici come Vendola e Fassina contestati a Pomigliano. Ma succede anche in Europa dove, ad esempio, a Lisbona il segretario della Cgtp viene interrotto dai petardi e dagli slogal dei movimenti.
Pertanto se da un lato possiamo dire che nel Sud Europa non esiste un dato di spontaneismo e non esiste dunque nessuna "rabbia sociale" che si autodetermina ma c'è appunto bisogno della costruzione di una agenda politica dei movimenti per esprimere un livello di conflittualità contro le politiche della Bce, dall'altro possiamo sostenere l'assoluta inadeguatezza delle centrali sindacali e dei partiti politici compatibili a vario titolo con le politiche di rigore europeo in questa fase, rispetto ad un pezzo d'Europa che viene schiacciato dalla crisi e dall'austerità.

Povere famiglie

Povere famiglie
121116mensapoveriPiù di una famiglia su tre, il 38%, ha dichiarato di non essere in grado di poter affrontare una spesa imprevista di 800 euro. Quasi la metà, il 46%, di non avere i soldi per una settimana di ferie all'anno. Una sua cinque (il 18%) di non essere in grado di riscaldare adeguatamente la propria abitazione. E più di una su dieci (il 12,7%) addirittura di non poter consumare un pasto a base di carne o di pesce ogni due giorni. Solo un anno fa le famiglie che si trovavano in questa condizione erano il 6,3%, meno della metà. La fotografia scattata dall'Istat, l'Istituto nazionale di Statistica, sulla soddisfazione dei cittadini sulla qualità della loro vita è a tinte fosche. Colpa soprattutto della crisi. Solo il 40,5% delle famiglie giudica la propria situazione economica sostanzialmente invariata rispetto all’anno precedente, mentre cresce dal 43,7% al 55,8% la quota di quelle che dichiarano un peggioramento della proprie condizioni.
Il calo della soddisfazione per la situazione economica registrato nel marzo 2012 si lega al peggioramento avvenuto nel 2011 degli indicatori europei di deprivazione. Si tratta di nove voci individuate dall'Ue: non poter sostenere spese impreviste, non potersi perrmettere una settimana di ferie all’anno lontano da casa, avere arretrati per il mutuo, l’affitto, le bollette o per altri debiti come per esempio gli acquisti a rate; non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni, cioè con proteine della carne o del pesce; non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione; non potersi permettere: una lavatrice, un televisore a colori, un telefono un’automobile. Nel 2010, non si erano registrate variazioni significative della percentuale di individui in famiglie deprivate, cioè quelle con tre o più sintomi di disagio economico. Nel 2011, invece, l’indicatore di deprivazione è cresciuto di 6,2 punti percentuali, raggiungendo il 22,2%, e la deprivazione grave è salita dal 6,9% all’11,1%.
121116istat
E' aumentata la quota di individui in famiglie che dichiarano di non poter sostenere spese impreviste (dal 33,3% al 38,4%). Di quelle che non possono permettersi una settimana di ferie all’anno lontano da casa (dal 39,8% al 46,5%), quella di coloro che affermano di non poter permettersi, se lo volessero, un pasto adeguato ogni due giorni (dal 6,7% al 12,3%) e di quelle che dichiarano di non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione (dal 11,2% al 17,9%). Più stabili risultano, invece, gli indicatori relativi sugli arretrati per il mutuo, l’affitto, le bollette o per altri debiti (dal 12,8% al 14,2%) e quelli relativi all’accesso ai beni durevoli. La dinamica appare particolarmente marcata nelle regioni del Mezzogiorno, dove l’indicatore di deprivazione materiale, stabile al 25% tra il 2009 e il 2010, è salito al 36,5% nel 2011.
Alla domanda centrale, ossia da zero a dieci quanto ci si può dire soddisfatti della propria vita, la risposta media è stata 6,8. Rispetto al passato aumentano i divari territoriali e sociali nella diffusione del benessere soggettivo. La flessione è più intensa tra gli strati sociali e nei territori che già facevano rilevare livelli più bassi della soddisfazione per la vita nel complesso.Il Nord presenta un valore medio di soddisfazione pari a 7,0, il Centro pari a 6,8 ed il Mezzogiorno un valore di 6,6. Le regioni con i più elevati livelli di soddisfazione sono il Trentino-Alto Adige (7,4) e la Valle d’Aosta (7,2), mentre la regione con i livelli più bassi è la Campania (6,3).
Se la soddisfazione per la vita nel complesso ha registrato una riduzione rispetto al passato, per ambiti rilevanti della vita quotidiana come le relazioni familiari e amicali i livelli di soddisfazione sono in aumento. Anche la soddisfazione per il tempo libero cresce, mentre quella per salute rimane invariata. . La soddisfazione dei cittadini per le proprie relazioni familiari è sempre stata molto elevata nel nostro Paese. Le persone molto o abbastanza soddisfatte per le relazioni familiari sono il 91,0%, come nel 2011, ma ben il 36,8% si dichiara molto soddisfatto (34,7% nel 2011). Una quota residuale (1,5%) giudica questo tipo di relazioni per niente soddisfacenti. In generale, si tratta di livelli di soddisfazione che non si raggiungono in nessuna altra dimensione della vita dei cittadini.

Il confronto. Col quale senza il quale tutto rimane tale e quale

Il confronto. Col quale senza il quale tutto rimane tale e quale
121113primariedi Maria R. Calderoni
Commosso no, divertito no, fatto sognare no, portato davanti allo sbadiglio sì. E fatto rimpiangere il vero "X Factor", accidenti.
Sarà stato anche quel look nero-funerale, e quell'impareggiabile tono da bravi ragazzi che non hanno mai bigiato a scuola nemmeno una volta; sarà stata quella lezioncina a modo imparata diligentemente a memoria. Ma insomma, quando un barbudo Giuliano Ferrara, al termine del "Confronto", ha esclamato: , ci siamo sentiti risarciti.
Cinque Piccoli Indiani che si tagliano come il burro. Perbene, "carini", con un sacco di buone intenzioni: il lavoro, il progresso, il futuro, la parità di genere, la produzione qualificata a pro di imprese e di giovani, il Pil ma anche il Bil (brand Puppato), l'immigrazione, i bambini, gli omosessuali, i matrimoni gay.
Senza dimenticare un''Europa con l'anima", la Patria e la Chiesa. Quest'ultima anzi rigrazia: per Bersani la prima figura del suo Pantheon personale è Papa Giovanni, per Vendola il card. Martini (e Tabacci ci mette De Gasperi e Laura Puppato Tina Anselmi, estremisticamente spingendosi però fino a Nilde Iotti).
Talché suona come uno scoop fantastico la boutade del solito barbudo Ferrara: (Ferrara, ma che stai a di'?).
Comunque, tre dei (Non Magnifici) Cinque - Puppato, Vendola, Renzi - ci fanno sapere, grazie, che sono contro alla presenza di Pierfurbo Casini nella coalizione; Tabacci invece dice che vuol fare tale e quale Milano e Bersani il comunista prende tempo, si sa, , elementare Watson.
Beh, alla fine del Confrontone, uno si trova a domandarsi perché diavolo l'hanno fatto; e anche i giornalisti chiamati a dare il voto sono giù di corda. Per Telese hanno fatto quattro chiacchiere, per Sechi sono da bocciare in toto; e persino un imbarazzato Sarno, direttore dell'Unità, . Insomma, il famoso , non è riuscito a nessuno dei Cinque Piccoli Premier-In-Pectore.
Ha vinto Sky, che si è fatta un gran spottone "a gratis" (a noi invece conviene correre a comprare un Devoto-Oli nuovo di zecca: Vendola ha detto che l'Italia ha soprattutto bisogno di un e Bersani che c'è soprattutto urgenza di un , e chi lo sapeva?...)

Di’ qualcuno di sinistra

Di’ qualcuno di sinistra
121114democrazia cristianadi Massimo Gramellini
Alla domanda del conduttore di Sky su quale fosse la loro figura storica di riferimento, i candidati alle primarie del centrosinistra hanno risposto: De Gasperi, Papa Giovanni, Tina Anselmi, Carlo Maria Martini e Nelson Mandela. Tutti democristiani tranne forse Mandela, indicato da Renzi che, essendo già democristiano di suo, non ha sentito il bisogno di associarne uno in spirito.
Scelte nobili e ineccepibili, intendiamoci, come lo sarebbero state quelle di altri cattolici democratici, da Aldo Moro a don Milani, evidentemente passati di moda. Maciò che davvero stupisce è che a nessuno dei pretendenti al trono rosé sia venuto in mente di inserire nel campionario un poster di sinistra. Berlinguer, Kennedy, Bobbio, Foa.
Mica dei pericolosi estremisti,mai depositari riconosciuti di quella che dovrebbe essere la formula originaria del Pd: diritti civili, questione morale, uguaglianza nella libertà. Almeno Puppato, pencolando verso l’estremismo più duro, ha annunciato come seconda «nomination» Nilde Iotti.
Dalle altre bocche non è uscito neppure uno straccio di socialdemocratico scandinavo alla Olof Palme.
Forse i candidati di sinistra hanno ignorato le icone della sinistra perché temevano di spaventare gli elettori potenziali. Così però hanno spaventato gli elettori reali. Quelli che non possono sentirsi rappresentati da chi volta le spalle alla parte della propria storia di cui dovrebbe andare più orgoglioso.
da La Stampa

venerdì 16 novembre 2012

Quelle liberalizzazioni incostituzionali

Lorenzo Dorato* - sinistrainrete -

Gli obiettivi di liberalizzazione dei mercati (e in subordine logico quelli di privatizzazione) - definiti a partire dalle direttive dell’Unione europea della fine degli anni ‘80, principio anni ‘90 - si sono imposti come preminenti rispetto ad altri obiettivi di politica industriale ad essi divenuti subordinati, a scapito così di quella flessibilità discrezionale e di quegli ampi margini di manovra che avevano caratterizzato l’approccio delle politiche pubbliche di intervento nei sistemi produttivi nel trentennio immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale (e in parte già dagli anni ’30 del novecento).
Il paradigma liberista, posto come unica opzione possibile, ha eroso in maniera sistematica e progressiva i margini di flessibilità delle politiche industriali degli Stati nell’orientamento dei sistemi produttivi nazionali (erosione, va detto, avvenuta di fatto in forme asimmetriche tra paese e paese, segno di una chiara gerarchia nei rapporti di forza). Si è trattato di un vero e proprio sconvolgimento paradigmatico che ha radicalmente mutato il ruolo dello Stato nella sua capacità di intervento nelle dinamiche del sistema produttivo. Da uno Stato interventista, pensato come governatore dei processi economici a garanzia di obiettivi politici e sociali, si è giunti ad uno Stato regolatore del mercato e del libero gioco della concorrenza. La regolazione ha sostituito la programmazione. E così si è consumato un radicale contrasto tra la concezione di governo del sistema economico che emerge dal dettato costituzionale italiano e la concezione che invece prescrive la normativa comunitaria.

La Costituzione economica italiana e il rapporto tra Stato e sistema economico

Il testo costituzionale italiano, nella parte inerente ai rapporti economici, contiene tre preziosi articoli che definiscono i tratti essenziali del rapporto tra Stato e sistema economico-produttivo: gli articoli 41, 42 e 43.
L’articolo 41 è il più noto e forse il più significativo, specie per il suo terzo comma, che non a caso è da alcuni anni oggetto di attacco politico da parte dei governi (seppur a fini probabilmente più simbolici che pratici). Tale terzo comma recita: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Questa breve proposizione fu il risultato di un compromesso assai sofferto all’interno dell’assemblea costituente e rispecchia in maniera chiara l’insieme delle componenti culturali e ideologiche maggioritarie nell’immediato dopoguerra italiano: le componenti socialiste e comuniste e il cattolicesimo sociale rappresentato da una parte della democrazia cristiana. La traduzione sostanziale di questo terzo comma è stata la politica economica e industriale adottata dall’Italia dagli anni cinquanta alla fine degli anni settanta del secolo scorso, imperniata sul concetto cardine di programmazione economica.
A ben vedere nella Costituzione italiana non appare mai il termine “concorrenza”. La concorrenza e il libero mercato non vengono cioè trattati come valori in sé da difendere, essendo considerate implicitamente null’altro che modalità specifiche (e non univoche) di funzionamento di un sistema economico. Al contrario si fa esplicito richiamo al termine “programmazione” che, unito al riferimento al “coordinamento a fini sociali” descrive in maniera chiara l’ispirazione sostanziale della politica economica nazionale nel primo trentennio post-bellico. Tale programmazione, stando al dettato costituzionale poteva avvenire anche attraverso la limitazione o l’eliminazione della libera concorrenza affidando ad esempio (Art. 42 e 43 Cost.) l’esclusiva della produzione, in determinati ambiti del sistema economico, allo Stato (monopolio pubblico legale).
Nella sostanza, la struttura consolidata nel periodo ‘50-‘80 del capitalismo italiano era tale che la libera concorrenza riceveva quattro forme di limitazione forte:

... a pochi metri dal Bilderberg.

Senza mediazioni, partiti e sindacati non sono qui
121115corteoromadi Francesco Piccioni
La precarietà come futuro permanente. Ironia della sorte, a pochi metri dagli scontri c'è il Bilderberg. Bambini, poco più. Quindicenni. Una nuova generazione si affaccia alla vita politica del paese, in piena crisi e senza una via di uscita visibile. E come sempre, da un secolo a questa parte, qualcuno lassù pensa che è utile dar loro una lezione, così, per «far capire subito che aria tira» se vai a contestare chi comanda. Ragazzi che il potere lo immaginano come una categoria del pensiero e forse nemmeno sapevano che 2-300 metri più avanti di Ponte Sisto, all'Hotel de Russie, era in corso la tre giorni romana del Bilderberg Group, la creme de la creme del potere globale, di cui Mario Monti è da decenni l'italiano più importante.
Quindicenni ovviamente inesperti e, per la prima volta nel dopoguerra, privi anche di un'interlocuzione istituzionale, di mediatori riconosciuti; sindacati e partiti, insomma, in grado di tradurre le loro preoccupazioni in obiettivi «plausibili» o anche solo «compatibili»; e quindi di trovare ascolto anche nelle stanze dei governi, là dove vanno (o andavano?) compensati i diversi interessi sociali. I sindacati importanti, in realtà quasi solo la Cgil, hanno fatto il loro bravo corteo senza quasi entrare in contatto con questa generazione. Una breve passeggiata da Bocca della Verità a piazza Farnese, bei monumenti,un veloce comizio e tutti a casa prima di pranzo. Non era una scadenza benvenuta da queste parti, e buttar lì solo quattro ore di sciopero - senza "collaborazione" da parte di Cisl e Uil - era già un segno di insofferenza.
Dei partiti che siedono in Parlamento, non un solo deputato s'è preoccupato di seguire almeno da lontano gli eventi, offrendosi infine come «garante istituzionale» in piazza, come migliaia di volte era avvenuto. I partiti fuori dai giochi in quella piazza avevano gente, ma se non hai un tesserino da «onorevole» nessuno ti dà retta. Anzi.
Ieri a Roma questa valanga di ragazzi si è incolonnata insieme a un po' di docenti dei sindacati di base (Cobas, Usb, ecc). Tutti nuovi, tutti «vergini» di fronte al bruto meccanismo che regola la gestione della crisi, in base a scelte fatte a Bruxelles o in altra sedi temporanee della Troika (Bce, Fmi, Ue). Tutti inesperti, disorganizzati e fin qui inorganizzabili.
Soli? No, finché non son piovute le manganellate, quando chi sa come comportarsi si muove secondo le leggi antiche della piazza, portandosi dietro più «pischelli» possibile; e chi non sa, a volte, a piccoli gruppi o individualmente, si perde. Non è tra Ponte Sisto e Ponte Garibaldi che vanno cercati i colpevoli della loro solitudine. Anzi, lì c'erano probabilmente gli unici soggetti collettivi che hanno a cuore questa generazione. Ma non hanno «entrature» ai piani alti. Anzi.
Sono soli perché chi governa, chi guadagna, chi dispone della materia sociale e «progetta» il futuro - con atti legislativi o scelte di investimento private - non ha per loro una soluzione che li comprenda come generazione. La precarietà cui si sentono consegnati è qualcosa di più di una condizione transitoria da «choosy», non ha confini temporali calcolabili. E chi «sta su» lo sa meglio di loro.
Per questo, anche nella piazza di ieri, mancava la mediazione. Ogni generazione del dopoguerra ha avuto davanti una scelta possibile, tra rottura e mediazione. Perfino nel pieno del «terribile '77», tra scontri più feroci di quelli di ieri e una guerriglia vera, c'era chi - nelle stanze che contano. Pensava di offrire una chance diversa; con i «lavori socialmente utili», le «liste dell'acqua», i finanziamenti alle cooperative improvvisate. Mediazione sociale pura, per ricostruire un equilibrio con un briciolo di spesa pubblica. Che non c'è più.
Quelle facce di quindicenni sono ora l'immagine più fedele della «distanza tra la politica e la società». Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.
Il Manifesto - 15.11.12

giovedì 15 novembre 2012

Una bella giornata di lotta. Questa è la crisi signori, non la potete nascondere

Autore: fabio sebastiani
        
E’ stata una splendida giornata di lotta quella di oggi. Una di quelle in cui rivedi in piazza le facce dei lavoratori e senti parole che parlano della condizione reale della gente. E’ stato così nel Sulcis, a Genova, a Trieste, a Pomigliano, perfino a Firenze, dove la protesta è stata anche di chi è senza casa. Cento piazze che non hanno soltanto detto di no all’austerità, ma hanno preteso una soluzione alla crisi. La situazione è allo stremo. Più di quanto non dicano i numeri del Censis, dell’Istat e dell’Ufficio studi di Confindustria. Ci sono previsioni di alcuni istituti bancari che parlano di una recessione doppia di quella dichiarata.
Mentre la politica si balocca con primarie, improbabili riforme elettorali, e la ricostruzione del disciolto partito del predellino (meno male che ci risparmiano il processo Ruby!) la situazione del paese sta precipitando ad una velocità che è doppia di quella di un anno fa. E la vicenda della Grecia sta lì a dimostrare (l’ha detto perfino l’Fmi, se vi fosse sfuggito) che la strada dei tagli è impraticabile come pretende la Troika. Nonostante tutto i partiti che impugnano saldamente il manganello della maggioranza parlano d’altro. Un ridicolo Pd, che continua ad avere l'ossessione centrista, sventola il vessillo degli esodati come fosse una straordinaria vittoria. E' paradossale, hanno solo limitato i danni di una pattuglia di guastatori che stava cercando di mettere in discussione diritti acquisiti. Vorrei timidamente ricordare a lor signori che se proprio gradiscono trastullarsi in badierine e medagliette ci sarebbe da tamponare la questione dei malati Sla che è di nuovo tornata alla ribalta (per la povera gente s’intende) dopo le false promesse di Elsa Piagnisteo Fornero. Questi che sono figliastri della Repubblica, o cosa?
L’Italia con la giornata di oggi ha finalmente rotto quella minorità che l’ha segnata dall’inizio del movimento degli indignados e di piazza Syntagma. Anche il Bel Paese ha scoperto di avere una opposizione. Un dato su tutti: lo sciopero ha avuto una adesione del 50%, dati Cgil. Di solito in queste occasioni le cifre sono più alte. Cosa sta accadendo? Perché le piazze erano stracolme e i luoghi di lavoro non proprio deserti? E’ semplice, a scendere in piazza sono stati gli arrabbiati, quelli che stanno vivendo la crisi sulla pelle, perché sono i "senza" e non trovano nessun punto di riferimento. Si può disquisire sulla compattezza o sulla direzione che sta prendendo il movimento, per carità. Una cosa è certa, la politica e il sindacato hanno un problema in più. La politica, perché è messa di fronte alla rabbia. Si pensa di rispondere con la solita repressione rischiando il bagno di sangue? Il sindacato perché deve costruire una piattaforma degna di questo nome e non quattro parole messe in croce che alludono a una rivendicazione. Problemi non da poco. Come disinnescano la “bomba Fiat”? Ancora con il silenzio? Come farà la Camusso, che tra poco firmerà un pessimo patto sulla produttività in cui c'è l'abolizione di fatto del contratto nazionale, a dire a Confindustria che è venuto il momento di investire e non di “macinare parole con le parole”? Non ci sarà nessuna risposta a queste domande. E’ bene saperlo. E non ci sarà per il semplice motivo che fino ad oggi la Cgil ha adottato una politia di limitazione dei danni di fronte all’impetuosità di una crisi che non lasciava spazi per la mediazione. Ed oggi questa impetuosità ha mosso i primi passi, che ci piaccia o no. E’ facile cavarsela con i facili proclami sulla violenza (la Cgil ha prodotto un testo da manuale che sembra copiato dagli anni ’70), ma la realtà è che la protesta della gente mette a nudo l’incapacità della politica e del sindacato di dare una direzione e un senso all'uscita dalla crisi. Lo strano connubio tra sindacato e politica, poi, sta producendo solo danni. Fa specie che nessuno se ne accorga. L’argomento della sponda nel palazzo non ha senso in una situazione in cui c’è più che altro collateralità. Con la Cisl dentro il Pd, non ne parliamo. Non quando in ballo c’è il fiscal compact. Oh, pardon: i trattati internazionali. Non si può chiamare con il suo nome perché i “Fantastici 5” si arrabbiano.
Siete liberi di dire quello che vi pare sulla violenza, ma non di nascondere i problemi reali del paese. Se non sapete fare i conti con la durezza della crisi nemmeno quando questa si esprime con la rabbia e l’indignazione, cambiate mestiere. Riconoscete almeno di essere inadeguati rispetto ai compiti che la fase vi impone. In piazza ci sono gli affamati e non gli esagitati. Ci sono gli studenti che vengono dalle università di classe inventate da Gelmini e Profumo. Ci sono i disoccupati che non sanno più a che santo votarsi. Ci sono, va detto chiaramente, quelli che non ne possono più di trangugiare amianto e falsità in nome di una non meglio identificata grande opera. Ci sono le "sagome" di Taranto, che muoiono come le mosche. Ci sono i reclusi del "Kampo Fpi" di Pomigliano, che tengono la dignità con i denti e sperano giorno dopo giorno che non sia arrivato il loro turno per la "gasificazione".
La Cgil ha prodotto un comunicato contro la violenza che è tutto da ridere. Nel tentativo di prendere la distanza sia dalla polizia che dagli studenti (incolpati di cosa, di voler arrivare a palazzo Chigi?) finisce con l’impastare la rabbia con la difesa dell’ordine democratico e via dicendo. Una litania che abbiamo già sentito da decenni.
E’ un comunicato che esprime una impotenza fuori dal comune. Nel giorno di una grande giornata di lotta il protagonista assoluto, quello che dovrebbe raccogliere i frutti della sua azione che fa? L’equilibrismo. Nessuno sta dicendo di difendere chi è andato sopra i toni. Il punto non è questo. Il punto è che la crisi non concede margini e sconti. E chi si assume la responsabilità di svolgere una funzione politica e sindacale non può nascondersi. Le mazzate forti a Roma sono arrivate perché gli studenti volevano raggiungere a mani nude palazzo Chigi? E’ una aspirazione da cui prendere le distanze? Non credo. E comunque è questo il tema su cui esprimersi. Ecco, non dire una parola su questo rappresenta una dimostrazione di impotenza davvero senza precedenti.

"No austerity", il 'Rise up' dell'Europa comincia dal Sud. Più di un milione in piazza

Autore: fabio sebastiani
        Oltre 300 mila studenti, in tutta Europa scesi in piazza a fianco dei lavoratori e dei sindacati, (secondo le stime dell'associazione Rete della conoscenza) più di venti manifestazioni organizzate in 27 paesi, con quattro scioperi generali (Italia, dove a dichiararlo sono stati anche i Cobas, Spagna, Portogallo e Grecia), diverse centinaia di migliaia di persone, solo in Spagna, che hanno fatto sentire la loro voce. E’ un primo bilancio della giornata dello sciopero europeo contro la crisi e le politiche di austerità. I lavoratori, sottolinea la Ces, stanno pagando "a caro prezzo" crisi e rigore: "25 milioni di europei non hanno lavoro. In alcuni paesi il tasso di disoccupazione giovanile oltrepassa il 50%. Il senso di ingiustizia è diffuso e lo scontento sociale sta crescendo", avverte nel suo manifesto.
In Italia la partecipazione è stata molto ampia. Cortei e sit in si sono tenuti in oltre 100 città. La partecipazione allo sciopero, indetto anche dai Cobas, è stata del 50% (dati Cgil). Nonostante scontri e tafferugli con la polizia a Milano, Torino, Genova Padova e Roma è stata una bella giornata di lotta. Lanci di uova contro le banche in quasi tutte le città coinvolte. Particolarmente cruente le cariche a Roma dove un enorme corteo degli studenti ha tentato di raggiungere il Parlamento: oltre 140 le persone identificate e piu' di 50 i fermati. Oggi, giorno dei processi per direttissima, è prevista una assemblea all’Università La Sapienza. A Pomigliano alcune migliaia di persone hanno partecipato al corteo della Fiom. Il segretario del Prc, che vi ha partecipato insieme a Vendola, Di Pietro e De Magistris, ha denunciato le pressioni dell'azienda per non far partecipare i lavoratori allo sciopero.
A Bruxelles le proteste sono iniziate davanti alle ambasciate di Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda e Cipro, dove la gente si è riunita prima di spostarsi davanti a quella della Germania, contro cui sono state lanciate uova. 'Armati' di fischietti, bandiere e striscioni 'anti-austerity' in diverse lingue, si sono poi ritrovati davanti alle sedi della Commissione e del Consiglio Ue. Proprio alla Commissione Ue, una delegazione dei sindacati belgi guidata dal segretario generale della Ces, Bernadette Segol, ha consegnato un simbolico 'premio Nobel per l'austerity'. Insieme un boomerang con la scritta 'L'austerità vi ritornerà in faccia!'.
La Spagna è stata invasa nella serata di ieri da una vera e propria marea umana (Madrid). Al mattino era invece scattato lo sciopero generale con una partecipazione pressoché totale. Purtroppo la repressione del Governo e della polizia si è fatta sentire. La polizia spagnola ha sparato proiettili di gomma e usato manganelli per disperdere centinaia di manifestanti nel centro di Madrid, dove ci sono stati scontri e cariche. Almeno 118 fermi e 74 feriti, dei quali 43 agenti. Tra i feriti c'e' anche un ragazzino di 13 anni colpito da un agente con un manganello alla testa e ripreso sanguinante dalla tv catalana. La sua foto ha fatto il giro del web. Anche una giovane, sui vent'anni, intervenuta a soccorso del ragazzo, e' stata a sua volta colpita col manganello dalla
polizia. In serata ci sono stati scontri fra polizia e manifestanti nelle zone adiacenti la sede del Parlamento, fra la Carrera de San Jeronimo e Plaza Neptuno.
Nella piazza, dopo il corteo di protesta che ha visto la partecipazione di diverse centinaia di migliaia di persone, i manifestanti erano convocate dal coordinamento del 25-S 'Rodea el Congreso' e dal Movimento degli indignados del 15-M, per una veglia notturna davanti la sede istituzionale, e per chiedere le dimissioni del premier e del governo. Gli agenti in assetto antisommossa hanno caricato per disperdere un gruppo di manifestanti che aveva abbattuto una delle transenne Scontri e incidenti anche in Plaza Catalunya, a Barcellona, dopo il corteo di protesta convocato dai sindacati.
A Lisbona ampia adesione allo sciopero generale contro le misure di austerity ed i tagli alla spesa sociale in Portogallo dove la mobilitazione, iniziata la sera del giorno prima, ha paralizzato soprattutto i trasporti. Negli scontri seguiti alla manifestazione 48 persone sono rimaste leggermente ferite (di cui 27 manifestanti e 21 poliziotti).
Ad Atene hanno sfilato quasi in diecimila. Il corteo è stato pacifico. Tanti gli slogan e le immagini, una in particolare sta facendo il giro del mondo: una donna di mezza età dimessa e a testa bassa, che cammina innalzando un cartoncino bianco con la scritta 'Ho paura della fame, mio Dio', che sta diventando il simbolo della disperazione dei greci.
In migliaia sono scesi in piazza anche a Londra, Parigi e Berlino.Le proteste contro il rigore non sono state molto sentite in Germania. Tuttavia, senza raggiungere i grandi numeri registrati altrove, la gente è scesa in strada in diverse città tedesche. Davanti alla Porta di Brandeburgo si sono radunate diverse centinaia di persone, con slogan di solidarietà per i Paesi del Sud Europa.

O con il pd o con la rivolta.

di FRANCESCO PIOBBICHI         
L' Europa è oramai uno continente autoritario a ideologia liberista nel quale ogni forma di contestazione al comando finanziario viene schiacciata con la repressione feroce della polizia. Nulla è più come prima, lo si capisce anche guardando alla Spagna dove al crescere della protesta e della sua organizzazione aumenta la repressione. Del resto se si pensa a come le classi dominanti gestiranno l'attuazione del rigore di bilancio per i prossimi venti anni, l'immaginazione non troiva spazio.
Ieri ero in piazza con gli studenti, sono stato con loro fino alla fine, cioè fino a quando siamo riusciti a scappare dalla morsa di Viale Trastevere dove la polizia ci aveva di fatto rinchiusi. Non è la prima volta che la polizia manganella i “book block”, ma questa volta la carica è stata lunghissima, profonda e continua. Quella carica della polizia è la metafora di questo paese, chi vuol protestare sotto i palazzi del potere deve essere spinto all'esterno, la sua voce non si deve sentire, la sua rabbia non può essere accolta. Non c'è mediazione, la democrazia viene separata dagli interessi del capitalismo. Ironia della sorte, ieri vicino a quella piazza del Popolo irraggiungibile per gli studenti, si svolgeva l'incontro semi segreto del gruppo Bildeberg con la presenza di molti politici italiani. Le classi dominanti, responsabili della crisi vengono insomma ben accolte e ascoltate, mentre chi la crisi la subisce è spinto ai margini. Mentre scrivo questo articolo sento in TV l'ultimo discorso di Mario Draghi, annuncia che i governi dovranno dimostrare ai mercati di essere credibili e dovranno farlo per un lungo periodo con l'attuazione del patto fiscale ( Fiscal Compact). Un messaggio chiaro, su cui quanti pensano che con Bersani premier si apriranno spazi per le classi popolari, dovrebbero riflettere. Gli studenti questo discorso lo hanno capito molto di più di quanto si pensi, perchè sanno cosa li aspetta. A differenza delle altre volte infatti la composizione sociale di questa manifestazione segnala delle novità: studenti medi più numerosi degli universitari, ed una presenza consistente dei figli della periferia romana che hanno manifestato una maggiore radicalità. “One solution, revolution!”, gridavano, uno slogan questo che non mi capitava di sentire da parecchio nei cortei. Mi ha colpito molto la determinazione e la radicalità di questi ragazzi. Se a Ostia la mobilitazione in queste settimane è stata più consistente del centro metropolitano qualcosa vorrà pur dire. Forse vuol dire che siamo dentro ad un nuovo movimento di contestazione all'Austerity. I giovani delle periferie dei Pigs, ci hanno detto che dentro la gerarchizzazione del lavoro in Europa, loro non vogliono essere il bacino di forza lavoro disciplinato a bassi salari, ci dicono che non vogliono fare la fine delle loro madri e padri, disoccupati e precari a vita. Questo movimento va nella direzione opposta a quello che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, e non vede ( giustamente ) nessun Governo amico, tanto più se questo è fatto con gli amici di quelli che oggi sostengono Monti e firmano una carta d'intenti che prevede il rispetto e l'obbedienza ai diktat della Merkel, mi riferisco ad esempio ai Fantastici 5. Ieri a Pomigliano un cartellone dei centri sociali lanciava un chiarissimo messaggio a chi pensa di dire parole di sinistra per andare a destra, “O con il PD o con la rivolta”. Ognuno scelga da che parte stare.

LA MENZOGNA DEGLI 'AIUTI'

di Monia Benini, - byoblu -

- nella foto la Troika ad Atene -
Recentemente in Grecia è stato imposto un nuovo pacchetto di misure, drammaticamente pesanti, per poter ottenere in cambio una tranche di 31,5 miliardi di aiuti dalla troika, ovvero Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea. Si tratta di tagli, di licenziamenti, di provvedimenti retroattivi su salari, stipendi e pensioni, oltre all’innalzamento a 67 anni dell’età pensionabile.
Nel marzo di quest’anno, la Grecia aveva già ricevuto aiuti della troika per un importo di 130 miliardi di euro. Ma c’è qualcosa che non va, anzi direi che è proprio tutto sbagliato, tutto folle. A partire dal termine. Si ostinano a chiamarli aiuti, ma sono tutt’altra cosa. Si tratta di prestiti, da dover restituire con relativi interessi. Ad esempio, rispetto ai 130 miliardi ottenuti in aiuto, la Grecia dovrà restituire nell’arco di 20 anni ben 274 miliardi di euro, ovvero oltre il doppio! Ma non solo, di questi 130 miliardi, il 52% è andato alle banche internazionali, il 23% è tornato alla BCE, il 20% è andato alle banche private greche e solamente il 5% è andato nelle casse dello Stato greco che dovrà rifondere tutti i 274 miliardi. E questo sarebbe l’aiuto? E’ un atto di killeraggio verso i cittadini greci! Ma attenzione, si tratta degli stessi aiuti ai quali dovrebbe far ricorso la Spagna; degli stessi aiuti, nascosti sotto la sigla del MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità), o di qualche altra diavoleria che ci spacceranno come salva-Stati, ma che in realtà altro non è se non un salva banche.
La storia dei cosiddetti aiuti alle nazioni europee è di lunga data, ma dal punto di vista storico, il salvataggio più noto risale al 1948 con il Piano Marshall. Vediamo dunque di capire se ci sono meccanismi simili alla base degli aiuti di allora e di adesso. Il piano Marshall deve il nome all’allora segretario di Stato degli Stati Uniti, George Marshall, ed era un piano di aiuti concepito ufficialmente non solo per contrastare il blocco sovietico, ma anche per ricostruire un’area – l’Europa – devastata dalla guerra, rendere nuovamente prospero il Vecchio Continente, ammodernare l’industria e rimuovere le barriere al commercio.
“I bisogni dell’Europa per i prossimi 3 o 4 anni (cibo, materie prime, carburanti) sono molto più grandi rispetto alla capacità di acquisto e importazione da parte di questa zona, specie dagli Stati Uniti, e serve quindi un grande sforzo affinché non ci sia un totale deterioramento economico, sociale e politico. Il rimedio sta nel rompere il circolo vizioso e nel ripristinare la fiducia degli europei nella ripresa economica futura” .
Non è un discorso di oggi, bensì un estratto dal discorso tenuto da Marshall ad Harvard nel 1947. Da lì a poche settimane, gli Stati Uniti crearono le agenzie nazionali e le strutture internazionali necessarie per i negoziati per la concessione degli aiuti all’Europa. Il piano Marshall ha fornito una piccola percentuale di aiuti a fondo perduto, ma principalmente un cospicuo ammontare di prestiti (con relativi interessi) a lungo termine che consentirono agli stati europei di finanziare gli acquisti negli USA. La portata di questi prestiti è tracciabile, come nel caso dell’Irlanda, che ottenne circa 146 milioni di dollari in prestito attraverso il piano Marshall, ma solamente 18 milioni a fondo perduto. Nel 1969, a oltre 20 anni dall’inizio del salvataggio, l’Irlanda aveva un debito dovuto al piano Marshall di ben 31 milioni di sterline, su 50 milioni totali del debito estero irlandese. Dopo la seconda guerra mondiale, le nazioni europee avevano quasi completamente esaurito le proprie riserve di valuta estera, necessarie per importare le merci di cui vi era bisogno. Fra l’altro l’Italia era già stata invasa con lo sbarco alleato dalle Amlire, una moneta fatta negli Stati Uniti, che ci aveva già resi dipendenti dall’America. Ma per tornare al piano Marshall (attivo dal 1948 al 1951), questo rappresentò l’unico modo per poter ottenere in prestito quanto bastava per acquistare i beni di cui c’era bisogno dagli Stati Uniti, che poterono affermare una posizione di predominio in larga parte dell’Europa.
Il piano Marshall divenne quindi un utilissimo cavallo di Troia degli Stati Uniti per soggiogare l’economia e gli apparati produttivi europei. Fu lo stesso sottosegretario statunitense per gli affari economici Will Clayton a dichiarare i motivi profondi che si nascondevano dietro al piano Marshall: “Ammettiamolo apertamente,” disse in difesa dell'idea degli aiuti esteri “che abbiamo bisogno di mercati – grandi mercati – nei quali comprare e vendere.” In sostanza dunque l'intenzione non è di aiutare i paesi stranieri; è di ricompensare le multinazionali di casa che effettivamente ottengono i contanti mentre il governo acquista influenza politica all'estero.
Will Clayton pubblicizzò il Piano Marshall come il trionfo della "libera impresa" e un'altra sua dichiarazione, nell’ipotesi che il comunismo fosse arrivato in Europa, fu: “la situazione che affronteremmo in questo paese sarebbe molto grave, dovremmo riordinare e riadattare la nostra intera economia in questo paese se perdessimo il mercato europeo”. Successivamente il presidente Truman organizzò un nuovo ufficio – l'Amministrazione per la Cooperazione Economica (ECA) – per distribuire gli aiuti, composto dai vertici dei maggiori interessi industrial-corporativi che beneficiarono ampiamente del Piano.
Il piano Marshall giocò un ruolo fondamentale per la fondazione della Comunità Economica Europea, la CEE. Ben 13 miliardi di dollari furono concessi, in larghissima parte sotto forma di prestiti con interessi da restituire, ai paesi europei che si riunirono nell’organizzazione per la cooperazione economica europea, la OCEE, che divenne immediatamente il terreno per la creazione delle strutture che nel giro di pochi anni sarebbero state utilizzate dalla Comunità Economica Europea. La OCEE aveva il ruolo di allocare i prestiti statunitensi, mentre l’ECA – l’agenzia USA, composta dai rappresentanti dei maggiori interessi industriali corporativi a stelle e strisce – si occupò della vendita delle merci, che vennero quindi pagate in dollari. Più chiaramente, nel 1950 la OCEE fornì la cornice per le negoziazioni delle condizioni per l’area di libero commercio europeo e per istituire la CEE.
Ora, seguendo I vari passaggi di questi presunti aiuti - in realtà prestiti – del piano Marshall, risulta ancora più evidente il peccato originale di questa Europa, nata non solo sul pilastro essenziale degli scambi economici, ma anche per soddisfare le esigenze del mercato e degli interessi delle corporation statunitensi. A partire dal piano Marshall dunque, appare evidente come gli aiuti siano stati concessi non certo con intento di salvataggio dei paesi in difficoltà, bensì per soddisfare gli appetiti delle lobby a stelle e strisce.
E ancora oggi il meccanismo è lo stesso. La Grecia ce lo dimostra apertamente, con ciò che la Troika spaccia per aiuti: sono debiti pesantissimi da ripagare per finanziamenti concessi prevalentemente ai grandi gruppi bancari. E per ottenere questi aiuti ha dovuto cedere di tutto, e proprio alle grandi lobby internazionali: dalla gestione del sistema idrico, all’industria mineraria, a quella petrolifera, per non parlare di porti, aereoporti, infrastrutture, persino il sistema di difesa ellenico.
Sarebbe dunque il momento di imparare la lezione dalla storia, creando nuove relazioni con gli altri paesi europei e con i paesi al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti che possono creare una nuova rete di rapporti commerciali e geopolitici. E soprattutto, quando sentiamo parlare di aiuti dalla Banca Centrale Europea o dal Fondo Monetario Internazionale, non rincorriamo le sirene che ci spingono ad impiccarci con nuovi debiti. Si abbia il coraggio di guardare cosa c’è nella pancia del cavallo di Troia e di gridare: “No grazie! Non vogliamo essere aiutati!”.

ROME.
REUNION OF THE FORMER PUPILS OF THE "DIAZ SCHOOL"
 

mercoledì 14 novembre 2012

Bombardare le Nazioni Unite? Ricondannato l’embargo USA contro Cuba

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Cropped_CommunismPer la ventunesima volta consecutiva l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha condannato l’embargo che da più di mezzo secolo colpisce la Rivoluzione cubana da parte degli Stati Uniti. Hanno votato contro gli Stati Uniti stessi, Israele e… Palau. Si sono astenute… le isole Marshall e la Micronesia. Hanno votato a favore della mozione cubana, affermando così che Cuba ha ragione e gli Stati Uniti torto, tutti gli altri, ovvero 188 paesi che rappresentano il 96% della popolazione mondiale. Tra questi, tutti i 27 della UE (compresa la dittatura comunista britannica), tutti gli stati del Continente americano, tutti i paesi dell’OCSE (salvo gli USA), tutti i paesi della NATO (salvo il paese di Obama). Insomma ancora una volta alle Nazioni Unite è andato in scena uno scandalo di proporzioni planetaria rendendo plasticamente il pericolo di un enorme blob comunista che travolge il pianeta e dove i valori della democrazia sono difesi ormai solo dai capisaldi statunitensi e israeliani e da un paio di isolette perdute nell’Oceano Pacifico. Se fosse un film alla fine i buoni trionferebbero, no?

Tale notizia, rilevante, anche se è la ventunesima volta che succede, è di fatto introvabile sui nostri giornali. Anzi, sorprende che l’editorialista del Corriere della Sera Pigì Battista, così spesso a favore di interventi militari e così struggente nei suoi veementi editoriali contro le dittature comuniste latinoamericane, non scriva un bell’editoriale per chiedere di bombardare le trinariciute Nazioni Unite.
In effetti è strana l’informazione sull’America latina e su Cuba nei nostri media. Basta uno starnuto di Yoani Sánchez all’Avana per provocare un uragano in Via Solferino a Milano (con annessi editoriali dei Riotta o Pigì Battista di turno). Al contrario i 50.000 morti della narcoguerra di Felipe Calderón in Messico, o i 2.000 falsi positivi in Colombia (persone inermi assassinate dall’esercito per farle passare da guerriglieri e incassare gli incentivi produzione pagati dal Pentagono) non meritano che un millesimo dei fiumi di lacrime e d’inchiostro versati per Ingrid Betancourt. Un grande amore, quello per Yoani e per Ingrid, che Mimmo Candito giurava (mepossinocecamme disse) sarebbe stata portata in processione come una Madonna pellegrina fino alla presidenza della Repubblica a Bogotà (poi non s’è manco candidata).
Cuba in particolare è presente quasi quotidianamente nella nostra informazione. Non per spiegare, non per capire, sempre per condannare. Raramente con argomenti, che pure non mancherebbero, quasi sempre inventando e mistificando. Torme di castrologhi analizzano presunti esami clinici del patriarca della Rivoluzione cubana Fidel Castro, o del feroce saladino venezuelano Hugo Chávez, per leggere il futuro dagli esami istologici (inventati da Miami) delle loro frattaglie. In questi giorni le nostre redazioni sono state piene di dettagli sugli imminenti funerali (ovviamente segreti) di Fidel o sulla caduta inevitabile della dittatrice argentina Cristina, rea di avere i ricchi contro. Invece il più raffinato commento sul trionfo del dittatore venezuelano Hugo Chávez nelle elezioni presidenziali è stato “vabbé, ma tanto crepa presto”.
Sull’uragano Sandy, che prima di fare danni a New York ha spazzato via i Caraibi in maniera inversamente proporzionale al concetto di democrazia di Gianni Riotta (danni severi a Cuba, gravi nella Repubblica dominicana, disastrosi ad Haiti) c’è stato un iniziale silenzio assoluto. Quindi, una volta passata la tempesta, invece di udire augelli far festa, i media hanno fatto all’unisono un’ipocrita autocritica: ma come mai non c’eravamo accorti prima dei morti di Sandy fuori dagli Stati Uniti? Mistero… Qualcuno, molto tendenzioso, ha ipotizzato che non avessero parlato di Sandy a Cuba per evitare di dir bene della protezione civile cubana. Chissà.

Europa «Patto sociale per l'Ue»

Fonte: il manifesto | Autore: Jacopo Rosatelli        
In solidarietà ai paesi mediterranei azioni e cortei da Lisbona a Bucarest. Si fermano però solo i Pigs. Oltre alla moneta, di comune c'è ancora poco CES Lo spagnolo Toxo, presidente della confederazione sindacale europea «Oggi è uno spartiacque per il movimento dei lavoratori, un punto di partenza per superare le diversità tra i vari paesi» «La giornata di azione europea può rappresentare uno spartiacque nel modo di affrontare la crisi da parte delle organizzazioni dei lavoratori». Lo afferma senza timore lo spagnolo Ignacio Fernández Toxo, segretario generale del principale sindacato iberico, Comisiones obreras, e presidente della Confederazione europea dei sindacati (Ces) che indice la mobilitazione di oggi. «Fino ad ora hanno pesato le differenze negli effetti della crisi nelle diverse zone del continente, ma ora siamo davvero a un passaggio storico per il movimento sindacale europeo».
Qual è l'elemento fondamentale che rende così importante questa giornata?
Per la prima volta interpretiamo in maniera comune la situazione europea, andando oltre le specificità nazionali. A unirci non è solo il rifiuto dell'austerità, ma anche la proposta. Alle politiche neoliberiste noi opponiamo la rivendicazione di un nuovo «patto sociale per l'Europa», che deve contenere misure per fare fronte alla crisi finanziaria come l'emissione di Eurobond, ma anche provvedimenti per l'occupazione e lo sviluppo sostenibile.
La Ces finalmente acquista protagonismo, eppure è innegabile la diversa intensità della protesta: sciopero generale in Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, semplici manifestazioni altrove...
È vero, ma nella maturazione della proposta comune bisogna registrare il ruolo positivo che ha avuto la Confederazione sindacale tedesca (Dgb - Deutsche Gewerkschaftsbund). E il fatto che organizzi una manifestazione a Berlino proprio alla Porta di Brandeburgo ha un grande valore simbolico. Certo, nella loro mobilitazione di domani (oggi, ndr) prevale la componente della solidarietà verso l'Europa meridionale, ma si fa largo l'idea che ciò che ora sta capitando a noi nel sud succederà anche a loro, se non si sconfigge l'austerità. L'attacco ai diritti dei lavoratori non risparmierà nessuno: ne è consapevole il sindacato in Germania, ma anche in Olanda o Svezia.
Ma esiste realmente oggi la possibilità di incidere per il movimento sindacale? Spazi di negoziazione con le istituzioni europee francamente non se ne vedono.
In effetti sono molto limitati. Perché l'Unione europea (Ue) attuale praticamente non li prevede: di un ruolo attivo delle organizzazioni sociali non c'è traccia. In realtà, c'è una questione preliminare: sono innanzitutto le istituzioni europee di Bruxelles a dover riaffermare il senso della loro esistenza autonoma. Perché in questa fase la Commissione e il Consiglio sono condizionati dalle decisioni che si prendono a Berlino e Francoforte. Dovrebbero invece dare impulso ad una sorta di rifondazione del progetto europeo che, secondo noi, deve avere al centro la nostra proposta di patto sociale. È imprescindibile che le istituzioni europee capiscano che non possiamo andare avanti con una moneta comune, ma senza strumenti di governo economico e di coesione sociale.
Come valuta i segnali di riforma dell'Ue, che potrebbero portare anche ad un nuovo trattato?
Non sono ottimista. Il fatto che i lavori preparatori per «l'autentica Unione economica e monetaria» siano affidati alla cosiddetta «commissione dei quattro presidenti», e cioè i vertici di Consiglio, Commissione, Eurogruppo e Banca centrale, è già eloquente: l'unico presidente a non essere coinvolto è quello del Parlamento. Basta questo a far capire in che condizione versi la democrazia in Europa. Siamo a una specie di riedizione del dispotismo illuminato: si fa il bene del popolo contro il popolo. Per questo è importante dare voce ai cittadini, senza deleghe ai nuovi «despoti illuminati».
Con la giornata di mobilitazione europea il sindacato batte un colpo: e la sinistra ? A suo giudizio è all'altezza dello scontro in atto?
Io sono molto critico nei confronti dei partiti socialdemocratici. Non sono stati mai un contrappeso reale al discorso neoliberista egemone, anzi: la «terza via» di Blair e Schröder ha pesanti responsabilità nello svilupparsi delle condizioni che ci hanno portato a questa crisi. E anche dopo lo scoppio della crisi è rimasta l'incapacità di contrastare realmente le ricette che portano il segno della Cancelliera Angela Merkel.
Doveva farlo François Hollande, che ora sembra già in seria difficoltà...
È prematuro dire che il presidente francese abbia già deluso. Tuttavia, credo che nel Consiglio europeo di giugno abbia ceduto troppo in fretta alle pressioni tedesche: il risultato di quel vertice fu scarso. Di concreto per la ripresa economica e il lavoro non c'è stato praticamente nulla, mentre l'austerità è rimasta. E poi Hollande ha dato il suo consenso al «fiscal compact» rinunciando a rinegoziarlo: un errore che rischia di compromettere il resto del suo mandato e di indebolire le prospettive di un'Europa diversa.
E la sinistra alternativa? In Spagna Izquierda Unida sta crescendo, per non parlare di Syriza in Grecia.
È sicuramente coerente nella difesa degli interessi della popolazione ed è presente nei movimenti sociali: ma troppo spesso, salvo eccezioni come Syriza, non riesce a superare una vocazione minoritaria che le impedisce di essere efficace. In ogni caso, a prescindere dalle valutazioni politiche, voglio sottolineare che noi non siamo cinghie di trasmissione di nessuno. Il movimento sindacale ha un ruolo generale, e non limita il suo raggio d'azione ai luoghi di lavoro, da cui ovviamente parte: siamo e dobbiamo restare nella società.

Pacchetto di Austerità: i greci devono lavorare per € 2 netti all’ora

Keep Talking Greece spiega le misure di austerità approvate dal Parlamento Greco sotto assedio: si torna indietro alla rivoluzione industriale.

schiavigrecidi Carmen Gallus - Investire Oggi.
Il Parlamento Greco ha approvato la notte di mercoledì il pacchetto di austerità con 153 voti a favore, qualcosa meno di quelli previsti. Il Primo Ministro Greco Samaras ha dichiarato che questo sarà l’ultimo pacchetto di austerità, le ultime sofferenze inflitte ai lavoratori e ai pensionati, necessarie per salvare la Grecia ed evitare di tornare alla dracma.
Ma quali sono le misure prese? Dal Blog KeepTalkingGreece: Lavorare o non lavorare? Lavorare in Grecia o emigrare all’estero? Questo è il dilemma a cui migliaia di giovani Greci al di sotto dei 25 anni dovranno rispondere prima di iniziare la loro vita professionale nel paese oberato dai debiti. Ma anche per quelli sopra i 25 anni che trovano un lavoro in tempi di austerità e disoccupazione la vita non è molto rosea. Il nuovo pacchetto di austerità stabilisce un salario minimo di 510,95 euro lordi al mese per i dipendenti sotto i 25 anni.
In un paese dove la disoccupazione giovanile è sopra il 55%, i più fortunati che trovano un posto di lavoro si troveranno nella invidiabile posizione di guadagnare 660 € lordi al mese dopo aver lavorato per lo stesso datore di lavoro per quasi 10 anni.
Il salario minimo per quelli sotto i 25 anni prevede il 10% di aumento ogni tre anni per 3 volte. Dopo 9 anni di lavoro si guadagneranno 660 € lordi al mese.
In una posizione molto migliore e con una reale prospettiva di prosperità si trovano quelli sopra i 25 anni:
Il salario minimo è fissato a 586,08 euro lordi al mese. Essi riceveranno un 10% di aumento di stipendio ogni tre anni e fino a 3 volte. Dopo 9 anni di lavoro di quelli che oggi iniziano con il salario minimo, riceveranno761 € lordi
Il minimo di retribuzione giornaliera per i lavoratori non qualificati sarà:
Per i lavoratori sotto i 25 anni: 22,83 euro e aumenti del 5% ogni tre anni per 2 volte.Un totale di un 10% di aumento per 6 anni di lavoro per il fortunato lavoratore, con 24,83 € al giorno
Per gli addetti sopra i 25 anni:26,18 e aumenti del 5% ogni tre anni per 6 volte. Un totale del 30% in 18 anni di lavoro.Ciò significa che il lavoratore riceverà lo straordinario compenso giornaliero di 33,80 euro al giorno dopo 18 anni di lavoro.
I dipendenti a tempo parziale saranno beneficiati con la somma eccezionale di 255 euro al mese, che è di 2 × 100 banconote in euro o 4 × 50-euro banconote.
Per un lavoro di almeno 40 ore alla settimana:
510 €: 4 settimane = 127 euro a settimana: 40 ore = € 3,18 all’ora lordi
Non importa se uno ha un diploma universitario o di un istituto tecnico, non importa se ha un primo lavoro senza precedenti esperienze o ha lavorato per dieci anni in un campo ben conosciuto – sarà pagato con il salario minimo.
In tempi in cui i posti di lavoro sono rari come il denaro, molte persone lavorano senza assicurazione e senza sicurezza sociale, il lavoro part-time è in aumento, al fine di evitare il pagamento dei contributi. I lavoratori part-time hanno zero possibilità di ricevere un’indennità di disoccupazione.
Un numero crescente di persone lavorano e aspettano di essere pagati per più di 6 mesi. Impossibile? In Grecia è possibile.
Come si può vivere e anche creare una famiglia con 510/580 euro al mese? Probabilmente nello stesso modo in cui lui/lei potrà avere una pensione di 200 euro dopo 40 anni di lavoro. Se ancora siamo vivi …
Nello stesso tempo, il disegno di legge prevede che il salario minimo è determinato dal Ministro del Lavoro e non tra i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro, come in passato.
Il presente regolamento resterà valido fino a che il tasso di disoccupazione non scenderà al 10%. Attualmente, la disoccupazione è al 25% con una tendenza all’aumento.
E qui siamo orgogliosi di annunciare che i dipendenti e i lavoratori di un paese dell’UE ritornano alle tristi condizioni di lavoro del periodo pre-industriale. Abbiamo bisogno di un Charles Dickens che scriva il dramma greco moderno.
Prendendo in considerazione che i prezzi al consumo (cibo, servizi, biglietti tariffe ecc.) rimangono elevati, credo che sarà una questione di tempo perchè costruiscano case per i poveri ad Atene e in altre città in tutto il paese. A condizione che la troika lo permetta.
PS. Quando scrivevo nel mese di febbraio 2012, che i Greci avrebbero lavorato per 2 euro l’ora, qualcuno dubitava dei miei calcoli…
lo avete nero su bianco.

STRIKE

martedì 13 novembre 2012

Come ti smonto il Neoliberismo in 23 mosse

di C. Wolff

Ha-Joon Chang è un economista coreano trapiantato in Gran Bretagna dove insegna a Cambridge. Mr Chang non è un anticapitalista ovviamente, è solo un economista eterodosso che si rifà alla tradizione istituzionale di scuola americana, quella per intenderci dei Veblen, Commons e Galbraith. La teoria economica sta attraversando un tale periodo di monismo ideologico che gli economisti si dividono in ortodossi (il mainstream più o meno neo-lib) ed eterodossi dove sono ammucchiati tutti gli altri, gli “eretici”. Questi eretici sono poi una categoria assai diversificata, includente tanto quelli della complessità-bioeconomisti-evoluzionisti-ecologisti, che i marxisti, i neo-keynesiani, le femministe, gli sraffiani, gli istituzionalisti ed a tratti, financo gli austriaci che porre fuori dalla tradizione liberale è assai arduo. Ma tant’è.
Chang scrive un libricino di facile lettura (ormai i libri non sono più scritti dagli autori ma dagli editor): 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, (Il Saggiatore, Milano, 2012) in cui introducendo per ognuno dei 23 capitoli tipiche tesi mainstream, le smonta una ad una.
1) Si comincia col libero mercato, il cui perimetro di libertà è sempre presente, non è mai libertà assoluta e che viene definito dal politico e non certo dall’economico. Sono stati governi a decretare prima libero e poi non più libero lo schiavismo, il commercio dell’oppio, il lavoro minorile. Poiché il concetto di libertà è quindi dato dal politico, i liberisti sono ideologi di un certo tipo di libertà relativa, quella che fa quadrare i conti degli interessi che sostengono.
2) Le aziende condotte dal principio del “valore per gli azionisti” non creano valore produttivo ma finanziario e spesso lo fanno tagliando dipendenti ed investimenti e strozzando fornitori. Jack Welch, ex CEO di GE che nel 1981 coniò il concetto di “shareholder value” pare che recentemente abbia mutato giudizio definendola “l’idea più stupida del mondo”.
3) I lavoratori non vengono pagati per il loro valore assoluto, ma relativamente alle cornici di contesto delle singole economie-paese. Pensare di mettere tutti i lavoratori in uno stesso mercato planetario è una truffa. Un guidatore di autobus svedese ha un salario 50 volte superiore a quello di un collega indiano quando semmai l’indiano ha ben più capacità visto che deve muoversi tra carretti, pedoni indisciplinati, animali e biciclette. In realtà agisce un potente sbarramento, di nuovo politico, un protezionismo del lavoro agito tramite barriere all’immigrazione che nessun liberale si sogna di rimuovere. Così, “produttività” è un concetto sistemico, quindi economico-nazionale, non certo dipendente dal singolo individuo e dalla sua “flessibilità”.

Rassegna.it intervista Bernadette Ségol (Ces): "L'austerità è un fallimento totale"

Fonte: rassegna
 
“Sarà una giornata d’azione e di solidarietà, perché secondo le diverse condizioni i sindacati d’Europa decideranno caso per caso la forma di mobilitazione più adeguata”. Bernadette Ségol, segretaria generale della Ces (la confederazione europea dei sindacati), descrive con queste parole la Giornata europea di protesta che si svolgerà in quasi tutti i paesi dell’Unione il prossimo 14 novembre.

“Manifestazioni e scioperi in alcuni paesi – prosegue Ségol –, azioni di solidarietà in altri dove non vi è stato il tempo d’organizzare azioni più visibili. Non va dimenticato, del resto, che questa mobilitazione generale è stata decisa in tempi molto rapidi, soltanto nella seconda metà di ottobre. Solidarietà è poi anche la strada per uscire dalla crisi. Parlo in questo caso di solidarietà economica. Dobbiamo insistere su questo aspetto: c’è un interesse generale a uscire dalla crisi, anche da parte di quei paesi che sono per il momento meno in difficoltà”.

Rassegna Questo significa che la crisi ha cambiato, o sta cambiando, anche il modus operandi dei sindacati?

Ségol Penso che i sindacati stiano diventando sempre più consapevoli dell’importanza del modello sociale europeo. Quando dico modello sociale europeo intendo servizi pubblici, protezione sociale, negoziazione collettiva, relazioni sociali e industriali. Ora mi sembra evidente che le politiche messe in atto in questo momento con il pretesto di combattere la crisi attaccano e indeboliscono questo modello. I sindacati in Europa, e la Confederazione europea in quanto tale, sono consapevoli che questa è al momento la vera posta in gioco.

Rassegna L’Europa ha davvero toccato il fondo? O il peggio deve ancora arrivare?

Ségol Sinceramente non lo so. Se penso a come gli economisti si sono sbagliati, prima e durante la crisi, dubito che le previsioni più ottimistiche si realizzeranno davvero. Su una cosa comunque dobbiamo essere chiari: per noi uscire dalla crisi è uscire dalla disoccupazione. Questo per noi è e sarà il primo vero segnale di una fuoriuscita dalle sabbie mobili della recessione, non gli indicatori economici e finanziari privi di un impatto concreto sulla realtà e sulla vita dei lavoratori. Da questo punto di vista, purtroppo, le cifre non sono affatto rassicuranti, visto che la disoccupazione è in aumento. L’altro indicatore importante è il rispetto delle diverse esperienze di contrattazione collettiva, e anche su questo versante i dati non possono non preoccuparci.

Rassegna Il Consiglio europeo ha adottato nel mese di giugno il Patto per la crescita e l’occupazione. Che giudizio ne dà la Ces?

Ségol Il patto è fatto di bric et de broc, ossia di elementi diversi messi lì un po’ alla rinfusa. In concreto: un aumento dei capitali e degli investimenti della Banca europea, per permettere maggiori prestiti a sostegno della crescita, e un migliore utilizzo dei fondi strutturali. Per ora nessuna delle due misure è stata davvero messa in opera. Era d’altra parte chiaro fin dall’inizio che sarebbero stati necessari sei mesi di preparazione e che quindi questo patto non sarebbe stato operativo prima del gennaio 2013. Aspettiamo allora di vedere i primi risultati. Anche se siamo molto scettici circa le sue effettive capacità di operare in favore della crescita, aspettiamo di vedere se i fondi strutturali e la Banca europea per gli investimenti saranno davvero capaci di orientare risorse economiche laddove necessario.

Rassegna E il contratto sociale proposto dalla Ces? Quali sono i suoi fondamenti?

Ségol Il contratto sociale, che all’unanimità è stato approvato dalla Confederazione europea dei sindacati, vuole in primo luogo mettere in rilievo che le soluzioni adottate fin qui non hanno funzionato e che bisogna battere altre strade: il dialogo sociale e le negoziazioni collettive, un altro tipo di governance economica, la giustizia sociale, a partire da una fiscalità più giusta. Per noi è anche un modo per rimettere la questione sociale al centro del dibattito europeo, questione che allo stato attuale è totalmente ignorata. Dobbiamo essere chiari: non ci sarà Europa senza Europa sociale, ossia senza benefici per le persone e per i lavoratori.

Rassegna Nell’Unione, invece, sembrano prevalere le politiche di austerità...

Ségol L’austerità ha fallito, questo è chiaro. Basta guardare a cosa sta succedendo in Portogallo, in Spagna e in Grecia: in tutti questi paesi nessuna previsione di uscita dalla crisi basata su misure d’austerità si è davvero realizzata. Un fallimento totale. Noi diciamo che bisogna cambiare le carte. Smetterla di tagliare i salari, smetterla di tagliare la protezione sociale e di attaccare la contrattazione collettiva. Bisogna trovare soluzioni attraverso la fiscalità e attraverso gli investimenti per rilanciare l’economia. Questo è il nostro messaggio.

Rassegna Chi ci guadagna con l’austerità?

Ségol C’è a livello europeo un’ideologia dominante neoliberista, secondo la quale per stare meglio dobbiamo rendere più flessibile il lavoro, liberalizzare i servizi pubblici e indebolire la protezione sociale. Le misure adottate per uscire dalla crisi s’ispirano chiaramente a quest’ideologia, e questo è certamente molto grave.

Rassegna Possiamo affermare che solidarietà è ancora in Europa una parola di senso comune?

Ségol Certo. Per noi sindacati, almeno, è così. Noi pensiamo che anche nei paesi in questo momento più forti debba prevalere nei confronti degli altri maggiormente in difficoltà questo spirito. Il discorso si fa più complesso al livello politico. Alcuni capi di governo si rendono conto che siamo tutti sulla stessa barca e che occorrono misure di solidarietà, ma la maggioranza tende a far prevalere i propri interessi particolari. Per fortuna, a livello sindacale, anche nei paesi più forti, la parola solidarietà ha un significato molto importante.

Rassegna Disoccupazione, precarietà, smantellamento dello Stato sociale: la situazione dei giovani del vecchio continente è divenuta insopportabile.

Ségol Credo che dobbiamo continuare a essere ottimisti, perché il pessimismo ci porterebbe a non più agire, a non fare e a non dire. Fare e dire sono forme di ottimismo, mentre il pessimismo è abbassare la guardia. Abbiamo fatto molta strada lungo il cammino dell’integrazione europea. Spero per questo che un progetto così ambizioso non venga abbandonato a causa di una crisi, che – vale la pena ricordarlo – non è stata provocata dai lavoratori, ma dal settore finanziario. Il nostro è quindi un ottimismo dell’azione, della volontà. Anche se i segnali che riceviamo in questo momento sono decisamente negativi, è nostra ferma intenzione continuare lungo questo percorso.

Rassegna Cosa chiede la Ces alle istituzioni europee?

Ségol Al governo europeo direi che è ora che dimostri la volontà di occuparsi dei cittadini e dei lavoratori. Che metta in atto garanzie per i giovani, o che permetta perlomeno che siano i governi nazionali a farlo, senza che queste siano contabilizzate come debito pubblico. Questo è il messaggio che inviamo, in vista della giornata del 14 novembre, alle istituzioni europee. Altrimenti anche coloro che ancora sostengono l’Europa smetteranno di farlo, di fronte a un’Unione che non si occupa di loro, che non li difende, che non li protegge.

Rassegna E alle parti sociali?

Ségol Alle parti sociali dico che è nell’interesse di tutti trovare delle soluzioni per uscire da questa situazione, ma devono essere delle soluzioni che rilancino l’economia reale. Bisogna quindi puntare sul dialogo sociale e sulla contrattazione collettiva, combattere il precariato e l’ingiustizia sociale e fiscale e smetterla di tagliare i salari, i servizi pubblici e la protezione sociale.

Assedio al Congreso e sciopero generale. Madrid in stato d'assedio.

- contropiano -

Assedio al Congreso e sciopero generale. Madrid in stato d'assedio
Da stasera si balla: parte l'assedio al Parlamento e tra poche ore i picchetti dei sindacati. Uno sciopero generale 'destituente' contro un governo, una classe politica e un sistema marci e squalificati. Il governo risponde mobilitando migliaia di poliziotti.

 Solo a Madrid il Ministero degli Interni di Madrid ha dispiegato ben 1300 effettivi delle Unità di Intervento della Polizia, cioè le unità antisommossa. Simili le cifre per quanto riguarda le altre grandi città, senza contare il dispiegamento degli altri corpi di sicurezza statali e di quelli che dipendono da alcuni governi regionali autonomi. Un modo esplicito per minacciare lavoratori e cittadini che domani vorranno incrociare le braccia e manifestare nel giorno dello sciopero generale convocato dalla stragrande maggioranza delle sigle sindacali, concertative ma anche di base e indipendenti (con l’esclusione dei sindacati indipendentista baschi e catalani che hanno una propria agenda di lotta contro il governo e la troika).

Nel mirino del vero e proprio stato d’assedio decretato dal governo di Mariano Rajoy ci sono soprattutto i picchetti organizzati dai sindacati all’ingresso dei poligoni industriali, dei grandi uffici pubblici, dei depositi degli autobus e delle metropolitane, dei grandi centri commerciali, degli aeroporti.

Anche se secondo le stime degli stessi sindacati l’adesione allo sciopero generale di domani dovrebbe essere inferiore a quello dello scorso 25 settembre, quando si registrò un’enorme partecipazione, il numero di picchetti dovrebbe essere invece maggiore. Ritardare o meglio ancora bloccare il trasporto pubblico è considerato fondamentale per permettere ai lavoratori - in particolare delle piccole imprese ricattati dai datori di lavoro - di poter aderire indirettamente allo sciopero con la giustificazione dell’impossibilità di raggiungere fisicamente il posto di lavoro.

E quindi i responsabili dell’ordine pubblico hanno già ricevuto chiare indicazioni di sciogliere gli assembramenti dei lavoratori all’ingresso dei posti di lavoro anche con l’uso della forza, per “garantire il diritto al lavoro” di chi non vorrà scioperare. Suona davvero paradossale che il governo voglia giustificare la repressione e il boicottaggio dello sciopero in un paese dove la disoccupazione è al 25%, la precarietà e la sottoccupazione a livelli stellari e miliardi di euro continuano ad essere regalati dall’esecutivo alle banche e alle imprese. Che hanno potuto contare – queste ultime – su numerose leggi di favore in materia di licenziamenti facili e assunzioni con ‘contratti spazzatura’.

Pressati dalla propria base, i principali sindacati del paese – il socialista Ugt e le Comisiones Obreras, governate dagli ex comunisti di Izquierda Unida – hanno deciso di convocare lo sciopero mesi fa, in corrispondenza della discussione al parlamento di Madrid di un nuovo pacchetto di pesantissimi tagli al lavoro e allo stato sociale. Una decisione che di fatto ha trainato altre sigle sindacali europee, aderenti per la quasi totalità alla concertativa ‘Confederazione Europea dei Sindacati’, a mobilitarsi domani in quello che è uno dei primi scioperi a dimensione continentale. Anche se negli ultimi giorni gli scioperi annunciati in alcuni paesi si sono largamente ridimensionati, a causa della scelta in Italia da parte della Cgil di indire solo 4 ore di astensione e dei sindacati ellenici - sfiancati dalla sfilza di scioperi degli ultimi mesi – di sfilarsi parzialmente dalla giornata internazionale.

Sei punti per una possibile alternativa europea

Nuova tassazione, riforma Bce, Tobin tax, transizione ecologica, cancellazione del fiscal compact. Sono i punti individuati dalla Rete europea degli economisti progressisti, lanciata nel meeting di Firenze

*** - 12.11.2012
Al Forum Firenze 10+10 è stata lanciata la Rete europea degli economisti progressisti (European Progessive Economists Network) in un meeting promosso da Euromemorandum, Economistes Atterrés francesi, Sbilanciamoci! dall'Italia, Another Road for Europe, cui hanno partecipato gruppi di economisti, associazioni e think tank tra i quali Econosphères dal Belgio, Econonuestra dalla Spagna, il Transnational Institute, Critical Political Economy Network, Transform! e molti altri. Ecco il documento elaborato dalla Rete:

L'European Progessive Economists Network ha raccolto gruppi di economisti, ricercatori, istituti e coalizioni della società civile che criticano le politiche economiche e sociali dominanti che hanno portato l'Europa alla crisi attuale. Vogliamo promuovere un ampio dibattito su sei punti:
1) Le politiche di austerità dovrebbero essere rovesciate e va radicalmente rivista la drastica condizionalità imposta ai paesi che ricevono i fondi d'emergenza europei, a partire dalla Grecia. Le pericolose limitazioni imposte dal fiscal compact debbono essere rimosse, in modo che gli Stati possano difendere la spesa pubblica, il welfare, i redditi, permettendo all'Europa di assumere un ruolo più forte nello stimolare la domanda, promuovendo il pieno impiego e avviando un nuovo modello di sviluppo equo e sostenibile. Le politiche europee dovrebbero ridurre gli attuali squilibri nella bilancia dei pagamenti, obbligando al riequilibrio anche i Paesi in surplus.
2) Le politiche europee dovrebbero favorire una redistribuzione che riduca le diseguaglianze, e andare verso l'armonizzazione dei regimi di tassazione, mettendo fine alla competizione fiscale, con uno spostamento dell'imposizione dal lavoro verso i profitti e la ricchezza. Le politiche europee dovrebbero favorire i servizi pubblici e la protezione sociale. L'occupazione e la contrattazione collettiva devono essere difese; i diritti del lavoro sono un elemento chiave dei diritti democratici in Europa.
3) Di fronte alla crisi finanziaria in Europa - segnata dall'interazione tra crisi delle banche e del debito pubblico - la Banca Centrale Europea deve operare come prestatore di ultima istanza per i titoli di stato. Il problema del debito pubblico deve essere risolto con una responsabilità comune dell'eurozona; il debito deve essere valutato attraverso un audit pubblico.
4) E' necessario un ridimensionamento radicale della finanza, attraverso una tassa sulle transazioni finanziarie, l'eliminazione delle attività speculative e il controllo del movimento dei capitali. Il sistema finanziario dovrebbe essere ricondotto a forme di controllo sociale e trasformato in modo che promuova investimenti produttivi sostenibili dal punto di vista sociale ed ambientale e l'occupazione.
5) Una transizione ecologica profonda può offrire una via d'uscita dalla crisi in Europa. L'Europa deve ridurre la sua impronta ecologica e l'utilizzo d'energia e risorse naturali. Le sue politiche devono favorire nuovi modi di produrre e di consumare. Un grande programma di investimenti che promuovano la sostenibilità può offrire posti di lavoro di alta qualità, espandere competenze in ambiti innovativi e ampliare le possibilità d'azione a livello locale, specialmente sui beni comuni.
6) In Europa la democrazia deve essere estesa a tutti i livelli. L'Unione europea deve essere riformata e va invertita la tendenza alla concentrazione di potere nelle mani di pochi stati e istituzioni fuori dal controllo democratico, che è stata aggravata dalla crisi. L'obiettivo è di ottenere una maggiore partecipazione dei cittadini, un maggiore ruolo per il parlamento europeo, e un controllo democratico più significativo sulle decisioni chiave.
Le politiche europee devono cambiare strada e un'alleanza tra società civile, sindacati, movimenti e forze politiche progressiste è necessaria per portare l'Europa fuori dalla crisi prodotta da neoliberalismo e finanza, e verso una vera democrazia. (Per adesioni: anotherroadforeurope@gmail.com)
*** Rete europea degli economisti progressisti

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