Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 9 marzo 2013

Uomini Ombra


Cari Uomini Ombra,

sono un padre di famiglia che si avvicina alla cinquantina, sono artista e uomo di scienza, come lo sono molti nella mia famiglia da ormai qualche generazione.

Da bambino mio nonno mi diceva: "Da giovane speravo di poter vivere così a lungo da poter vedere realizzate quelle che pensavo fossero grandi conquiste per l'umanità come  volare, e ancor di più andare sulla luna, anche se allora era impossibile. Nel corso della mia vita ho visto realizzarsi queste cose per cui ritengo che l'umanità si sia in qualche modo evoluta".

Io personalmente spero di poter vivere così a lungo da vedere l'abolizione dell'ergastolo (e poi anche del carcere) da parte di una grande nazione organizzata (credo infatti che forse gli unici popoli che non concepiscono l'orrore del carcere appartengono a civiltà tribali). Questo ritengo che sarebbe un grande passo evolutivo per l'umanità, che non è paragonabile ad alcuna delle tecnologie finora raggiunte dall'uomo.

 Ho sempre amato la vita e la libertà anche se da quando ho conosciuto da voi via e-mail la vera storia degli ergastolani un po' più da vicino, è come se una parte di me avesse perso la libertà e sia stata murata insieme a voi.

Sento che non potrò mai essere completamente libero finchè esisteranno certi tipi di "punizioni".

E' come se provassi una sorta di vergogna interiore per il fatto di appartenere ad una società in grado di concepire questa grande assurdità, quella degli uomini ombra e del carcere in quanto istituzione.

Vi ringrazio per avermi fatto vergognare e riflettere su certe ingiustizie e di avermi dato la possibilità di ostacolarle firmando contro l'ergastolo.

 Vi prego assolutamente di non gettare la spugna e continuare sempre (nei limiti del possibile) a portare avanti la vostra lotta affinchè l'umanità possa evolvere e finalmente definirsi tale.

 Poichè credo che la maggior parte delle notizie siano "pilotate" non leggo giornali e non guardo la tv. Da questo ne deduco che se siete arrivati fino a me vuol dire che siete riusciti (nonostante tutto) a fare le cose giuste per far breccia nella dilagante ipocrisia ed acquistare così potere ed importanza anche agli occhi della gente. Forza, lottate e ne uscirete! Non sprecate un briciolo del tempo che avete (anche se può sembrarvi tanto): forza e coraggio! ... siete a buon punto ... e se avete deciso di lottare vuol dire che neanche con la condanna a vita sono riusciti a togliervi fino in fondo la speranza... dunque non lasciatela mai! 

 Vi penso sempre, e come padre di famiglia (che spera di lasciare ai propri figli un mondo migliore), non posso non pensare anche ai vostri cari che sono costretti a sopportare con voi questo grande peso. Vi mando a tutti un po' di energia e di conforto per aiutarvi a sopportarlo...

 

Un abbraccio forte a tutti voi

Luca

 

 Per maggiori informazioni sull'ergastolo ostativo e chi sono gli "uomini ombra":

Chávez è morto, per ora. L'omaggio del mondo

Fonte: il manifesto | Autore: Geraldina Colotti
       
Una folla oceanica e 33 capi di stato ai funerali del presidente venezuelano

Maduro si impegna a «consolidare l'indipendenza e la rivoluzione bolivariana» Per il suo ultimo viaggio la camicia bianca, la cravatta nera, l'uniforme con il berretto rosso


Si passa in fretta davanti alla bara, ci si tocca il petto e si accenna a una carezza. Non più di cinque secondi. Non c'è tempo per trattenersi, le diverse file di persone che aspettano davanti a Forte Tiuna formano una coda di 12 km. Anziani, donne, bambini, arrivati da tutto il paese e da fuori per dare l'ultimo saluto al presidente Hugo Chávez, morto martedì. Il giorno dopo, la bara è stata trasferita nell'Accademia militare, accompagnata da una marea di camicie rosse che hanno pianto e cantato. Per la veglia, hanno sfilato quotidianamente davanti al feretro circa 70 mila persone.

Per il suo ultimo viaggio, Chávez è vestito con una camicia bianca, una cravatta nera, l'uniforme verde dell'esercito con il berretto rosso, quella «di gala n. 2». Appare come nell'unica foto diffusa dal governo durante l'ultima convalescenza a Cuba: non era un falso, come invece aveva suggerito l'opposizione.
La salma del presidente, 58 anni, rimarrà esposta nella cappella militare per altri sette giorni: e imbalsamata come quella di Lenin, Ho Chi Min e Mao Tse Tung. Forse saranno degli specialisti russi ad assistere i venezuelani nell'imbalsamazione. Poi il corpo del presidente bolivariano verrà sepolto al Cuartel de la Montana, nel quartiere 23 de Enero: un luogo storico, determinante per la cacciata del dittatore Pérez Jimenez, nel '58, e fulcro della rivolta civico-militare guidata da Chávez il 4 febbraio '92. Quando quella rivolta fallì e gli ufficiali progressisti che l'avevano ideata si arresero e andarono in galera, Chávez pronunciò la famosa frase, rimasta impressa nella memoria dei venezuelani: «Compagni, purtroppo la rivoluzione è fallita. Por ahora». E quel cocciuto «per ora» significherà per tutti un nuovo appuntamento con la storia: questa volta vincente, per i vari filoni di lotta popolare impegnati nella lotta al neoliberismo, ma ancora privi di un leader capace di essere all'altezza delle proprie responsabilità. Chávez lo è stato, giocando fra azzardo e empatia, fra inventiva e democrazia partecipata: facendo la muta dal vecchio mondo a embrioni di socialismo. Per questo, non solo la maggioranza del suo paese, ma anche buona parte del mondo è venuta a rendergli omaggio.

Al funerale hanno assistito 33 capi di stato e delegazioni di 55 paesi. In 16 paesi sono state istituite giornate di lutto nazionale, e 10 organismi multilaterali hanno espresso il loro cordoglio. All'acme delle celebrazioni, tutti i presidenti sono stati chiamati alla veglia d'onore intorno alla bara. Quando veniva pronunciato il loro nome, partivano gli applausi. Quelli più lunghi sono andati all'iraniano Ahmadinejad, che in piedi davanti al feretro ha avuto un gesto d'affetto, ha scosso la testa e si è lasciato andare alle lacrime. L'orazione funebre di monsignor Mario Moronta, «in rappresentanza della chiesa cattolica» ha salutato «l'amico, il fratello e il compagno» che si è messo dalla parte dei poveri e lascia a chi resta l'impegno di continuare a volgersi dalla parte degli ultimi. Per la Conferenza delle chiese pentecostali, il Consiglio evangelico e le chiese indipendenti si è lungamente espresso anche Alexis Romero, pastore della guardia d'onore presidenziale. I governi di molti altri paesi che non sono venuti al funerale, hanno inviato le proprie condoglianze: sentite o formali secondo il grado di condivisione con le politiche del Venezuela bolivariano: chiaramente orientate a una decisa lotta anticapitalista d'impronta socialista.

Anche per questo, si poteva pensare ai funerali dei grandi rivoluzionari del secolo scorso, che hanno vissuto e agito nell'unico periodo storico in cui le classi dominanti hanno davvero tremato. «Cambiano i tempi, ma la paura del comunismo fatica a morire, anche quando i suoi colori sono quelli rojo-rojito del socialismo bolivariano - dice un giovane militante del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv) - per questo il nostro comandante ha fatto arrabbiare i grandi padroni del mondo». E una ragazza aggiunge con la voce rotta dal pianto: «Chi vive dando l'esempio, spendendosi senza riserve anche per gli altri indica una strada... una libertà. Così ha fatto il Che, così Chávez».

venerdì 8 marzo 2013

Tanto denaro per nulla

La vertigine della finanza creativa

Luigi Pandolfi - economiaepolitica -

Rovistando nei materiali analitici e tra le notizie relative a questa speciale crisi economica che sta sconvolgendo le nostre società, mi è tornata alla mente una frase di Karl Marx contenuta nel secondo libro de Il Capitale: “Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per far denaro. Tutte le Nazioni a produzione capitalistica vengono colte perciò periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono fare denaro senza la mediazione del processo di produzione”.
Un’asserzione tanto straordinariamente attuale da sembrare un commento a ciò che ci sta passando sotto gli occhi oggigiorno. Di certo essa costituisce una dimostrazione lampante dell’utilità del pensiero marxiano nella sua parte critico-interpretativa, a fronte della fallacità delle sue componenti profetico-deterministiche.
Fare denaro senza la mediazione del processo di produzione”. Ecco: non è forse quello che è accaduto, e che sta accadendo, nella parte più “attempata” del capitalismo mondiale? Certo che sì. Basta un solo esempio per suffragare questo assioma. Quante volte abbiamo sentito parlare, a proposito dell’economia finanziaria, di “economia di carta”, di quella sfera separata dall’economia reale in cui il denaro si tira fuori dal denaro stesso? Immagino tante volte. E di “cartolarizzazioni”? Un po’ meno, credo. Eppure tra le due espressioni c’è una stretta correlazione, ancorché la prima sia nata con valore dispregiativo, mentre la seconda rimandi al linguaggio tecnico-ufficiale del mondo finanziario e degli analisti economici. La correlazione consiste nel fatto che entrambe sottendono concetti affini (“Carta” nel senso di moneta, titoli, ecc.), e che la seconda ha in un certo senso riscattato la prima.
Certo, il sistema delle cartolarizzazioni è solo un pezzo di quella che chiamiamo “economia di carta”, ma il richiamo ad esso è molto utile per comprendere il livello di sofisticazione raggiunto dal mercato finanziario su scala globale, e lo sdoganamento, anche sul piano lessicale, di attività speculative che, nella loro dimensione ormai ipertrofica, stanno avendo un riverbero funesto sulla vita materiale di milioni di persone. Scendiamo un po’ nel dettaglio. C’è stato un momento nella nostra storia recente in cui la “vertigine” della finanza creativa “ha colto” con particolare impeto le classi dirigenti: l’idea di fare soldi con i soldi, di trasformare i debiti in crediti, i rischi in opportunità, di imbellettare i bilanci con cespiti aleatori, sembrava essere la scoperta dell’Eldorado, la soluzione più comoda ai problemi economici del nostro tempo.
Si pensi al recente caso del Monte dei Paschi di Siena. La banca ha accumulato troppi debiti? E che problema c’è, basta un derivato e tutto si risolve. Se, come diceva Keynes, “nel lungo periodo siamo tutti morti”, Mps ha pensato bene di guardare all’oggi, ripulendo momentaneamente il bilancio e spostando in avanti le perdite, ulteriormente indebitandosi. D’altronde il tempo è denaro, o no?
Tanto forte è stata questa “vertigine” che ad un certo punto è intervenuto anche il legislatore, “regolarizzando” perfino le operazioni più ardite, al limite della truffa. Ecco allora che il sistema delle “cartolarizzazioni”, o di cessione di crediti, insieme a quello dei “derivati”, degli swap, diventa una roba gigantesca. In Italia, prima che intervenisse il D.lgs. n.130/1999, non era consentito, ad esempio, emettere titoli obbligazionari senza garanzia, generando credito da altro credito, tranne che “per particolari ragioni che interessano l’economia nazionale” (Art. 2410 Cod. Civ.). Poi, con le nuove norme, tutto è cambiato e, caduti gli argini, il fiume è straripato.
La girandola, semplificando, è diventata insomma questa: c’è Tizio (Supponiamo che sia una banca) che vanta un credito di 100 nei confronti di Caio (Ad esempio un mutuatario). Tizio cede il credito a Sempronio (Una società – veicolo SPV), che gli corrisponde l’importo equivalente più l’aggio. Sempronio emette titoli per un valore equivalente al credito avuto in cessione. I titoli sono sottoscritti da Mevio (Investitore, pubblico o privato). In pratica sulla promessa di Caio di pagare le rate del suo mutuo si mette in piedi un meccanismo di moltiplicazione di ricchezza. Un meccanismo poggiato sul nulla, insomma.
Ma chi garantisce Mevio per i titoli sottoscritti? Forse Tizio? No. Allora Sempronio? Nemmeno. La garanzia è data soltanto dal flusso finanziario derivante dai pagamenti di Caio. E se Caio non paga? Beh, in questo caso il titolo diventa un “titolo-spazzatura” (Junk bond), che non potrà più essere rimborsato. Su grande scala una situazione di questo tipo si chiama crack, o default se piace di più. È quello che ha riguardato, ad esempio, centinaia di banche americane dal 2008 ad oggi, con gli effetti a catena sull’economia globale che ben conosciamo; è quello che hanno all’opposto evitato centinaia di banche europee grazie all’iniezione di liquidità effettuata quasi a gratis dalla Bce tra il 2011 ed il 2012.
Prima che il castello di sabbia si sgretoli qualcuno (banche, società–veicolo), però, ci guadagna, ci guadagna molto, a scapito della stabilità dell’edificio finanziario di un paese, o di un continente, di più continenti.
È stato calcolato che solo le banche dell’area Ue, nel periodo che va dal 2000 al 2008, hanno effettuato un volume di cartolarizzazioni pari a circa 4mila miliardi di Euro. Una bolla gigantesca il cui scoppio, per i rischi connessi alla solvibilità dei debitori ceduti, potrebbe mandare in frantumi l’economia del vecchio continente. Ma tant’è: l’imperativo è sempre quello di fare soldi con i soldi, ad ogni costo, con ogni mezzo, anche a costo di scommettere, come nel caso dei derivati, sulla morte civile di un paese.
Tutto ciò mentre l’economia reale, quella relativa alla produzione di beni e servizi, annaspa, va in crisi, ed i cittadini europei sono costretti a fare i conti con disagi e privazioni, precarietà e disoccupazione. Evidentemente c’è qualcosa che non va. C’è una correlazione tra la crescita esponenziale del volume delle transazioni finanziarie e la sofferenza dell’economia reale nei principali paesi d’Europa? Evidentemente sì. Essa consiste nel fatto che una parte rilevante del quantitativo di moneta circolante, già ridottosi per effetto della recessione, anziché dirigersi verso gli investimenti nei settori produttivi dell’economia segue ormai la via della speculazione fine a se stessa. E, come tutti sanno, la speculazione non si fregia di nessuna utilità sociale, essendo la sua missione quella di tirare profitti dalla compravendita di titoli finanziari, per il solo, e rapido, arricchimento di chi ne è artefice, degli scommettitori professionali, per intenderci.
Si torna, ordunque, alla constatazione marxiana che ho riportato in apertura dell’articolo. Se dal denaro, anche da quello virtuale, si può tirare fuori altro denaro, direttamente, velocemente, senza “la mediazione del processo di produzione”, perché attardarsi nell’impresa faticosa del produrre per guadagnare? Sarà stata, questa, anche la valutazione di tanti capitani d’impresa, che, negli ultimi anni, hanno pensato bene di investire i loro capitali in attività finanziarie anziché reimmetterli nel ciclo produttivo.
Si può mettere un limite alla speculazione finanziaria? Si deve. Come? Tassando innanzitutto le transazioni, separando nettamente le banche d’investimento da quelle commerciali, vietando l’emissione di titoli senza copertura finanziaria certa e garantita, introducendo regole ed elementi di trasparenza nel sottobosco dei mercati paralleli e secondari, in quell’universo chiamato “finanza-ombra” che in Europa fa il 28% dell’intero volume delle intermediazioni finanziarie.
La finanziarizzazione dell’economia assomiglia sempre più ad una malattia autoimmune: il capitale, anziché servire l’economia reale, si dirige contro di essa, distruggendola. Non intervenire significherebbe condannare le nostre società alla catastrofe.

Tempesta perfetta

di Dante Barontini - contropiano - 

Viviamo in tempi rivoluzionari, ma non vogliamo prenderne atto. Usiamo questa espressione in senso “tecnico”, non politico-ideologico. Non ci sono masse intorno al Palazzo d'Inverno, ma la fine di un mondo. Il difficile è prenderne atto.

Si sta rompendo tutto, intorno a noi e dentro di noi, ma quando ci dobbiamo chiedere – fatalmente - “che fare?” ci rifugiamo tutti nel principio-speranza, confidando che le cose, prime o poi, tornino a girare come prima. Per continuare a fare le cose che sappiamo fare, senza scossoni.

Non possono tornare come prima.

Inutile prendersela più di tanto con le singole persone o le strutture – leader, partiti, sindacati, media, confindustria, ecc – che hanno responsabilità pazzesche, naturalmente, ma sono anche totalmente impotenti di fronte a un mondo che si spacca. “Le cose si dissociano, il centro non può reggere”. Non saranno i Bersani, i Berlusconi o i Napolitano a tenere insieme le zolle tettoniche in movimento.

Come interpretare altrimenti il fatto che le “elezioni più inutili della storia” - definizione nostra – abbiano prodotto la più seria rottura di continuità nel panorama politico italiano?

Era tutto fatto. Un programma di governo “responsabile” scritto in sede europea e noto come “agenda Monti”; una coalizione costruita per “coprirsi a sinistra” senza spaventare i moderati; un polo moderato-centrista in realtà “estremista europeo”; un governo “ineluttabile” Bersani-Monti (con Vendola addetto ai “diritti civili”, che in fondo non costano niente). Gli antagonisti? Impresentabili in Europa, come il jokerman di Arcore e il comico di Genova; oppure riedizione minore di un arcobaleno fallimentare, fisicamente rappresentato da magistrati progressisti. Ma magistrati.

Un paese diviso ha prodotto una rappresentanza divisa. E non è colpa della “gente”, dell'”individualismo”, del menefreghismo. Perché queste tabe italiche sono il corrispettivo esatto di una struttura produttiva che magari presenta ancora isole di eccellenza, ma “non fa sistema”; di una società frammentata nel modo di produrre ricchezza, di estrarre reddito, di sopravvivere. Ma un paese dove la produzione di ricchezza “non fa sistema” è un paese senza spina dorsale, senza baricentro, senza disegno. E che ha aggravato queste sue caratteristiche negative – addirittura esaltate come “potenzialità” ai tempi in cui gli imbecilli dicevano che “piccolo è bello” - in seguito allo smantellamento delle poche colonne portanti della produzione nazionale, nonché dalla privatizzazione delle banche di “interesse nazionale”. Metafora precisa, quest'ultima, di un paese senza un “interesse nazionale” identificabile; e quindi frantumato in tanti e diversi interessi privati, corporativi, locali, di nessuno spessore progettuale. Di nessuna incidenza sulla scala dimensionale – almeno continentale – su cui si prendono le decisioni vere.

Un paese composto in buona parte di figure sociali con “redditi spurii”, che presentano perciò “identità multiple”. Parliamo di redditi spurii in senso marxiano, non legal-giudiziario. Un mafioso che si arricchisce con il traffico di droga ha un reddito illegale, ma non spurio; la sua identità sociale è chiara anche per lui, non presenta ambiguità e tantomeno tentennamenti. Un pensionato o un lavoratore dipendente (o un piccolo negoziante o una partita Iva) che ha un salario (una pensione o dei ricavi d'attività), e magari “integra” affittando la seconda casa a dei migranti, cui può aggiungere qualche cedola dai Bot o dai fondi comuni di investimento... questo insieme è un reddito spurio, che fa vivere un'identità sociale mutevole e mutante. Che vota in un modo se pensa più all'Imu e in un altro se gli pesano maggiormente addosso le “riforme” Fornero delle pensioni o del mercato del lavoro. Berlusconi o Bersani, dipende da cosa offrono... E il primo sa vendere meglio.

giovedì 7 marzo 2013

Che si fotta la Troika anche in Italia

Autore: Giorgio Cremaschi
     
"Chi l'ha detto che si deve continuare a morire per il debito? Dove è scritto che bisogna cancellare l'Europa civile e sociale per far quadrare i conti della finanza, così come vogliono le banche tedesche e i vari Marchionne sparsi per il continente?" Tutto il mondo politico italiano rappresentato nel nuovo parlamento, compreso il Movimento 5 stelle, vive in una nuvola lontana anni luce dalle drammatiche scadenze della crisi economica e dai vincoli europei.
Pare che tutte le principali forze abbiano dimenticato le politiche di austerità che ci hanno portato ai confini della catastrofe sociale in cui già è sprofondata la Grecia e in cui stanno scivolando Portogallo e Spagna, in un terribile contagio destinato ad estendersi.
Così si ignora che il prossimo governo, ammesso che se ne faccia uno, ha già i compiti e le decisioni assegnate dagli impegni assunti dal governo Monti e approvati quasi alla unanimità dal precedente parlamento. Questi impegni sono stati furbescamente ignorati in una campagna elettorale concentrata sul ruolo dei partiti. La crisi economica è diventata così quasi una derivata della crisi di questi ultimi. Troppo facile, purtroppo.
Già alla fine di aprile i vincoli del pareggio di bilancio in Costituzione, che nessuna delle attuali forze parlamentari ha messo in discussione, faranno sentire il loro carico devastante. Quei vincoli fanno parte dell'insieme di servitù economiche contenute nel fiscal compact europeo, da noi sottoscritto nel totale vuoto di informazione della opinione pubblica.
Quel patto ci impegna a venti anni di politiche di austerità, tagli sociali, controriforme, per dimezzare il debito pubblico e pagarne i lauti interessi al sistema finanziario. E le autorità europee da questa primavera avranno il potere di controllo sulle nostre decisioni, mentre dall'autunno potranno addirittura correggere il nostro bilancio, se non sufficientemente austero e rigoroso, esautorando il parlamento.
Questo è scritto nella sequela di patti che hanno commissariato il nostro paese e sottoposto tutto il continente al governo autoritario della Troika formata da Fondo Monetario Internazionale, Banca Europea, Commissione Europea.
La Troika si è macchiata dei più infami crimini economici in Grecia e ora sta preparando la stessa ricetta per Cipro, mentre somministra una diversa dose della stessa medicina a Portogallo e a Spagna e mette noi sotto osservazione, preparando l'intervento.
Questo mentre tutte le forze parlamentari parlano di altro e soprattutto mentre i cittadini italiani continuano a non sapere che la loro democrazia è commissariata, che le decisioni più importanti sono già prese chiunque governi.
In tutta Europa il confronto politico principale avviene attorno alle politiche di austerità, e per fortuna cresce nelle opinioni pubbliche il rifiuto verso di esse. Quello che qui viene presentato da tutto il palazzo come un dato naturale non contestabile, altrove è il principale oggetto del confronto e dello scontro.
Chi l'ha detto che si deve continuare a morire per il debito? Dove è scritto che bisogna cancellare l'Europa civile e sociale per far quadrare i conti della finanza, così come vogliono le banche tedesche e i vari Marchionne sparsi per il continente?
Le politiche di austerità sono il nemico principale della democrazia in Italia ed in Europa. La lotta alla corruzione politica e ai privilegi di casta, per quanto essi siano intollerabili, è solo una piccola parte della lotta alle ingiustizie sociali. Le grandi banche e la grande finanza in un solo minuto possono depredarci ben più di quanto possa fare la più corrotta delle caste politiche in una intera legislatura.
Sabato scorso un milione e mezzo di persone è sceso in piazza in Portogallo con un semplice ed inequivocabile appello: "Que se lixe a Troika", che si fotta la Troika.
Nella Svizzera delle banche i cittadini hanno deciso con un referendum di mettere un tetto ai super bonus dei manager. In tutta Europa si diffonde uno spirito antiliberista e anticapitalista.
Noi non siamo ancora a questo, tutto il nostro conflitto politico sembra ridotto alla questione del potere dei partiti, non al potere della Troika o delle multinazionali.
Ma anche se mascherato e depistato, il rifiuto delle politiche di austerità è alla base dello sconquasso delle elezioni. E siccome la crisi economica continuerà ad aggravarsi e i vincoli europei saranno sempre più insopportabili, ben presto lo spirito della rivolta sociale che percorre il nostro continente si manifesterà senza mediazioni anche da noi.
La democrazia italiana che oggi ci pare bloccata si rimetterà in moto quando sarà sottoposta al conflitto tra le scelte vere da compiere. Il confuso e ambiguo quadro attuale si chiarirà nei suoi contorni e nelle sue alternative quando l'urlo "si fotta la Troika " si alzerà anche dalle nostre piazze.

Attenti ai lupi!

- beppegrilloblog -
Nel libro di Jack London "Zanna bianca" una lupa attrae ogni notte un cane da slitta nella foresta. Chi cede al richiamo viene condotto lontano dal fuoco e divorato da un branco di lupi appostati in attesa nella neve. Nel dopo elezioni la tecnica dei conduttori televisivi, dipendenti a tempo pieno di pdl e pdmenoelle, è simile. Il loro obiettivo è, con voce suadente, sbranare pubblicamente ogni simpatizzante o eletto del M5S e dimostrare al pubblico a casa che l'intervistato è, nell'ordine, ignorante, impreparato, fuori dalla realtà, sbracato, ingenuo, incapace di intendere e di volere, inaffidabile, incompetente. Oppure va dimostrato il teorema che l'intervistato è vicino al pdmenoelle, governativo, ribelle alla linea sconclusionata di Grillo, assennato, bersaniano. In entrambi i casi, il conduttore si succhia come un ghiacciolo il movimentista a cinque stelle, vero o presunto (più spesso presunto), lo mastica come una gomma americana e poi lo sputa, soddisfatto del suo lavoro di sputtanamento. E' pagato per quello dai partiti.
L'accanimento delle televisioni nei confronti del M5S ha raggiunto limiti mai visti nella storia repubblicana, è qualcosa di sconvolgente, di morboso, di malato, di mostruoso, che sta sfuggendo forse al controllo dei mandanti, come si è visto nel folle assalto all'albergo Universo a Roma dove si sono incontrati lunedì scorso i neo parlamentari del M5S. Scene da delirio. Questa non è più informazione, ma una forma di vilipendio continuato, di diffamazione, di attacco, anche fisico, a una nuova forza politica incorrotta e pacifica. Le televisioni sono in mano ai partiti, questa è un'anomalia da rimuovere al più presto. Le Sette Sorellastre televisive non fanno informazione, ma propaganda. E' indispensabile creare una sola televisione pubblica, senza alcun legame con i partiti e con la politica e senza pubblicità. Le due rimanenti possono essere vendute al mercato. E' necessario rivedere anche i contratti di concessione per le televisioni private e definire un codice deontologico al quale devono attenersi. Lunedi sono stati eletti dai gruppi parlamentari del M5S per i prossimi tre mesi due capigruppo/portavoce, Roberta Lombardi per la Camera, e Vito Crimi per il Senato. Loro sono stati titolati a parlare dopo aver discusso e condiviso i contenuti con i componenti del gruppo. Attenti ai lupi!

Non esistono governi tecnici ...

...ma solo politici - beppegrillo blog -

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"Il M5S non darà la fiducia a un governo tecnico, né lo ha mai detto. Non esistono governi tecnici in natura, ma solo governi politici sostenuti da maggioranze parlamentari. Il governo Monti è stato il governo più politico del dopoguerra, nessuno prima aveva mai messo in discussione l'articolo 18 a difesa dei lavoratori. Il presidente del consiglio tecnico è un'enorme foglia di fico per non fare apparire le vere responsabilità di governo da parte di pdl e pdmenoelle."
Beppe Grillo

"Non ho mai parlato di appoggio a governo tecnico, l'unica soluzione che proponiamo è un governo del movimento 5 stelle che attui subito e senza indugio i primi 20 punti del programma e a seguire tutto il resto. Il nostro programma è chiaro ed è stato annunciato in tutte le piazze e in streaming. Le nostre parole di ieri in conferenza stampa sono state chiare e non lasciano dubbi. Abituatevi a chi dice sì per dire sì, no per dire no, senza interpretazioni. Ci aspettano alcuni giorni di lavoro e preparazione per questo tutti noi parlamentari abbiamo bisogno che ci lasciate lavorare. Garantiamo la coerenza, terremo la barra dritta: la nostra è una rivoluzione culturale pacifica e democratica e non la fermeremo, il nostro unico senso di responsabilità è verso gli elettori che ci hanno dato mandato di attuare questa rivoluzione culturale che è già in atto malgrado le resistenze di coloro che sono attaccati a poltrone e privilegi. ." Vito Crimi, portavoce capogruppo M5S al Senato

La demonizzazione di Chávez

 - giannimina - 

di Eduardo Galeano
Hugo Chávez è un demonio. Perché? Perché ha alfabetizzato due milioni di venezuelani che non sapevano né leggere né scrivere pur vivendo in un paese che possiede la ricchezza naturale più importante del mondo che è il petrolio.
Io ho vissuto in quel paese per qualche anno e so molto bene come era. Lo chiamano “Venezuela Saudita” a causa del petrolio. C’erano due milioni di bambini che non potevano andare a scuola perchè non avevano i documenti. Poi è arrivato un governo, questo governo diabolico, demoniaco, che fa cose elementari come dire: “I bambini devono essere ammessi a scuola con o senza documenti”.
Era la fine del mondo: ecco una prova del fatto che Chávez è un cattivo, un cattivissimo. Visto che possiede questa ricchezza, e che grazie al fatto che a causa della guerra in Irak il petrolio è carissimo, lui vuole approfittarne a fini di solidarietà. Vuole aiutare i paesi sudamericani, specialmente Cuba: Cuba gli manda i medici, lui paga con il petrolio. Ma anche quei medici sono stati una fonte di scandalo. Dicono che i medici venezuelani erano furiosi per la presenza di quegli intrusi che lavoravano nei quartieri poveri. Al tempo in cui io vivevo là come corrispondente di Prensa Latina, non ho mai visto un medico. Adesso invece i medici ci sono.
La presenza dei medici cubani è un’altra prova del fatto che Chávez sta sulla Terra di passaggio, perché appartiene all’inferno. Per questo, quando leggiamo le notizie dobbiamo tradurre tutto. Il demonismo ha quest’origine, per giustificare la macchina diabolica della morte.

mercoledì 6 marzo 2013

Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo

di , mercoledì 6 marzo 2013, 05:01
in: America latina, Primo piano, Storia

Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra. È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grande latinoamericana. Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia. È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.

Stiglitz: “Euro, o cambia oppure è meglio lasciarlo morire”

 
t100_stiglitz5di Joseph Stiglitz,
da Project Syndicate
Il risultato delle elezioni italiane dovrebbe dare un messaggio chiaro ai leader europei: gli elettori non tollerano le loro politiche di austerità.
Il progetto europeo, per quanto idealista, è sempre stato un impegno dall’alto verso il basso. Ma incoraggiare i tecnocrati a guidare i vari paesi è tutta un’altra questione, che sembra eludere il processo democratico, imponendo politiche che portano ad un contesto di povertà sempre più diffuso.
Mentre i leader europei si nascondono al mondo, la realtà è che gran parte dell’Unione europea è in depressione. La perdita di produzione in Italia dall’inizio della crisi è pari a quella registrata negli anni ’30. Il tasso di disoccupazione giovanile in Grecia ha invece superato ora il 60%, mentre quello della Spagna è oltre il 50%. Con la devastazione del capitale umano, il tessuto sociale europeo si sta lacerando ed il suo futuro è sempre più a rischio.

I dottori dell’economia dicono che il paziente deve lasciare che la malattia faccia il suo corso, mentre i leader politici che suggeriscono il contrario vengono accusati di populismo. La realtà tuttavia è che la cura non sta funzionando e non c’è alcuna speranza che funzioni; o meglio che funzioni senza comportare danni peggiori di quelli causati dalla malattia. E ci vorrà un decennio o più per recuperare le perdite generate da questo processo di austerità.
In breve, non è stato né il populismo né la miopia che ha portato i cittadini a rifiutare le politiche che gli sono state imposte, ma è la modalità errata con cui sono state portate avanti.
Le risorse e i talenti dell’Europa (il suo capitale umano, fisico e naturale) sono gli stessi del periodo precedente alla crisi. Il problema è che le cure imposte stanno portando ad un significativo sottoutilizzo di tali risorse. Qualsiasi sia la natura dei problemi dell’Europa, una risposta che comporti uno spreco di quest’entità non può rappresentare la soluzione.
La diagnosi semplicistica dei mali dell’Europa che sostiene che i paesi ora interessati dalla crisi stessero vivendo al di sopra delle loro possibilità, è evidentemente sbagliata almeno in parte. Prima della crisi, infatti, sia la Spagna che l’Irlanda registravano un surplus fiscale ed un rapporto debito/PIL basso, e se la Grecia fosse stata l’unico problema a livello europeo, l’Europa avrebbe potuto gestirlo facilmente.
Ci sono una serie di politiche alternative in discussione che potrebbero funzionare. L’Europa ha bisogno di un maggiore federalismo fiscale e non solo di un sistema di supervisione centralizzato dei budget nazionali. Ovviamente, l’Europa potrebbe non avere bisogno del sistema usato negli Stati Uniti che prevede un rapporto di due a uno della spesa federale rispetto alla spesa statale, ma necessita in ogni caso di una spesa maggiore a livello europeo invece dell’esiguo budget attuale dell’UE (ridotto ulteriormente dai sostenitori dell’austerità).
E’ poi necessaria un’unione bancaria, ma deve essere una vera unione con un unico sistema di assicurazione dei depositi, delle procedure risolutive ed un sistema di supervisione comune. Inoltre, sarebbero necessari gli Eurobond o uno strumento simile.
I leader europei riconoscono che senza la crescita il peso del debito continuerà a crescere e che le sole politiche di austerità sono una strategia anti-crescita. Ciò nonostante, sono passati diversi anni e non è stata ancora presentata alcuna proposta di una strategia per la crescita sebbene le sue componenti siano già ben note, ovvero delle politiche in grado di gestire gli squilibri interni dell’Europa e l’enorme surplus esterno tedesco che è ormai pari a quello della Cina (e più alto del doppio rispetto al PIL). In termini concreti, ciò implica un aumento degli stipendi in Germania e politiche industriali in grado di promuovere le esportazioni e la produttività nelle economie periferiche dell’Europa.
Quello che non può funzionare, almeno per gran parte dei paesi dell’eurozona, è una politica di svalutazione interna (ovvero una riduzione degli stipendi e dei prezzi) in quanto una simile politica aumenterebbe il peso del debito sui nuclei familiari, le aziende ed il governo (che detiene un debito prevalentemente denominato in euro). E con l’implementazione di una serie di modifiche nei diversi settori a velocità diverse, la deflazione a livello mondiale innescherebbe degli stravolgimenti enormi nell’economia.
Se la svalutazione interna fosse la soluzione, lo standard dell’oro non sarebbe stato un problema durante la Grande Depressione. La svalutazione interna unita alle politiche di austerità e al principio del mercato unico (che favorisce la fuga di capitali e l’emorragia dei sistemi bancari) è una combinazione altamente dannosa.
Il progetto europeo è stato ed è ancora una grande idea politica con un elevato potenziale di promozione della prosperità e della pace. Ma invece di migliorare la solidarietà all’interno dell’Europa, sta seminando i semi della discordia all’interno e tra i vari paesi.
I leader europei continuano a promettere di fare tutto il necessario per salvare l’euro. La promessa del Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, di fare “tutto il necessario” ha garantito un periodo di tregua temporaneo. Ma la Germania si è opposta a qualsiasi politica in grado di fornire una soluzione a lungo termine tanto da far pensare che sia sì disposta a fare tutto tranne quello che è necessario.
Ovviamente i tedeschi hanno dovuto accettare con riluttanza la necessità di un’unione bancaria che comprenda un sistema di assicurazione dei depositi comune. Ma il passo con cui sostengono queste riforme è in discordanza con i mercati, mentre in diversi paesi i sistemi bancari sono già attaccati al respiratore. Quante altre banche dovranno entrare in terapia intensiva prima che l’unione bancaria diventi una realtà?
E’ vero, l’Europa ha bisogno di riforme strutturali come insiste chi sostiene le politiche di austerità. Ma sono le riforme strutturali delle disposizioni istituzionali dell’eurozona e non le riforme all’interno dei singoli paesi che avranno l’impatto maggiore. Se l’Europa non si decide a voler fare queste riforme, dovrà probabilmente lasciar morire l’euro per salvarsi.
L’Unione monetaria ed economica dell’UE è stata concepita come uno strumento per arrivare ad un fine non un fine in sé stesso. L’elettorato europeo sembra aver capito che, con le attuali disposizioni, l’euro sta mettendo a rischio gli stessi scopi per cui è stato in teoria creato. Questa è l’unica e semplice verità che i leader europei non sono ancora riusciti a cogliere.
Fonte: Project Syndicate

Brancaccio: “La decrescita felice? Senza pianificazione statale è una sciocchezza”

    
Brancaccio: “La decrescita felice? Senza pianificazione statale è una sciocchezza”

Pubblicato il 5 mar 2013

Intervista a Emiliano Brancaccio di Gianni Colucci -
«Il Sud Italia è diventato un caso emblematico: rappresenta i rischi che corre l’intero Sud Europa senza investimenti pubblici e politiche industriali». Emiliano Brancaccio insegna economia politica all’Università del Sannio e legge i dati dell’Istat.
Al Sud più «agghiaccianti»?
«Da diversi anni accadeva che quando c’era ripresa economica il Nord ne beneficiava mentre il Sud rimaneva al palo. In caso di stagnazione economica il Nord reggeva e il Sud cadeva in depressione. Ora sta accadendo su scala allargata, a livello europeo: l’Italia e gli altri paesi del Sud Europa pagano carissima la crisi mentre la Germania regge il colpo. Dal 2007 al 2012 Italia e Sud Europa hanno perso 5 milioni di posti di lavoro e la Germania ne ha guadagnati 1,5. In tempi non sospetti, l’economista Krugman ha parlato non a caso di “mezzogiornificazione” europea».
Servono investimenti? Vanno rotti i vincoli di bilancio?
«Le politiche di austerità stanno contribuendo all’aggravamento della crisi nella zona euro e in Italia. Evidenza riconosciuta da molti premi Nobel e persino dal Fondo monetario internazionale: la restrizione della spesa pubblica e l’aumento della tassazione aggravano la caduta dei redditi e rendono difficile il rimborso dei debiti, pubblici e privati».
I dati istat confermano?
«Chiariscono la fallacia dell’opinione secondo cui l’austerità risana i bilanci».
Quindi andiamo a discutere a Bruxelles?
«Non so se ci saranno i margini. Di sicuro il pareggio in recessione lega le mani alle autorità di politica economica. Si ridiscutano i vincoli europei oppure si fa concreta la deflagrazione della moneta unica».
Il cittadino cosa rischia?
«Se si rimane nei vincoli europei aumentano le tasse e diminuisce la spesa pubblica e quindi i redditi e le possibilità di spesa si ridurranno ancora, l’occupazione diminuirà, e per lo stato sarà sempre più difficile reperire risorse fiscali».
Altrimenti?
«Uscendo dalla zona euro i singoli stati potrebbero tornare a stampare moneta. A date condizioni ciò potrebbe favorire acquisti, produzione e occupazione; ma così si svaluterebbe pure la moneta, con effetti negativi o meno sui salari a seconda che siano o meno protetti dall’inflazione. È tutto da vedere».
La crisi politica impedisce di scegliere una strada?
«Senza un governo che decida siamo indubbiamente più esposti alla speculazione. Però un dato dalle urne è già uscito: chi ha votato per Grillo e Berlusconi è più scettico degli altri rispetto all’eurozona e all’austerity».
Si riequilibra il tutto con la “decrescita” evocata da Grillo?
«Se si tratta del concetto di “decrescita felice”, la definizione è mutuata dai libri di Serge Latouche. Per essere credibile richiederebbe la pianificazione statale. In altre condizioni la decrescita è una sciocchezza ed è solo infelice».
Anche il reddito di cittadinanza appare un ’utopia?
«Di sicuro i tagli di cui tanto si parla, alla politica, alle indennità, alle auto blu, alle residenze della “casta”, non coprirebbero la spesa necessaria. Senza una messa in discussione dei vincoli europei sarà difficile per tutti far quadrare i conti della politica economica».

L’economista di Grillo: “Tutelare il lavoratore e non il posto di lavoro”

    
L’economista di Grillo: “Tutelare il lavoratore e non il posto di lavoro”

Pubblicato il 5 mar 2013

di Michael Pontrelli -
Mauro Gallegati, docente di Macroeconomia all’Università politecnica di Ancona è, ormai da molti anni, uno degli economisti di riferimento di Beppe Grillo. In questi giorni è impegnato nella redazione di una parte importantissima del programma economico del M5S: la riforma del mercato del lavoro. Lo abbiamo sentito per farci spiegare i contenuti della proposta e dissipare molte delle incertezze e incomprensioni che ancora ruotano attorno al fenomeno che sta rivoluzionando lo scenario politico italiano.
Professore, le cronache raccontano che lei starebbe scrivendo il programma del Movimento in collaborazione con uno degli economisti più prestigiosi del mondo, il premio Nobel Stiglitz. E’ vero?
“No non è vero. Stiglitz non è direttamente coinvolto. E’ vero però che avendo rapporti di lavoro con lui da circa 20 anni lo sento spesso per chiedergli qualche consiglio”.
Possiamo quindi dire che è una sorta di consulente?
“Esatto, diciamo pure così”.
Stiglitz è notoriamente un economista vicino ai democratici americani. Questo significa che anche il programma sul lavoro del M5S è di sinistra?
“Non saprei dire se è di sinistra oppure no. Quello che posso dire è che la cosa che a noi interessa maggiormente è tutelare il lavoratore e non più il posto di lavoro”.
Cosa significa concretamente?
“Che dobbiamo accettare l’idea che il lavoratore possa cambiare più volte occupazione nel corso della sua vita ma senza che questo pregiudichi la sua dignità. Per questo motivo pensiamo sia fondamentale assicuragli un supporto nei periodi di transizione in cui è disoccupato”.
Sbaglio o è la stessa cosa che dice il giuslavorista Pietro Ichino quando parla di flexsecurity?
“Le posizioni non sono troppo differenti. La differenza è che noi abbiamo espresso questa visione già nel 2007 in Schiavi Moderni mentre Ichino e parte del Pd ci sono arrivati solo successivamente”.
Il pilastro sul quale dovrebbe poggiare la tutela del lavoratore è il reddito di cittadinanza. In tanti si chiedono: dove saranno prese le risorse?
“Prima di tutto ribadisco che la proposta prevede l’erogazione di un sussidio compreso tra gli 800 e i 1000 euro per un massimo di tre anni. Il costo dell’intervento è più o meno di 20 miliardi di euro. Di questi 15 sono già spesi per la cassa integrazione e per gli altri ammortizzatori sociali esistenti. Bisogna quindi trovarne altri 5. Attraverso tagli ai costi della politica, alle missioni militari estere e all’acquisto dei cacciabombardieri queste risorse mancanti possono essere reperite senza problemi”.
Se vogliamo proprio essere precisi il reddito di cittadinanza è in realtà un sussidio che viene concesso alla persona in quanto tale e non in quanto inoccupata. Mi sembra di capire invece che la vostra proposta è più un nuovo sussidio di disoccupazione.
“Garantire a tutti un reddito di cittadinanza vero e proprio costerebbe circa 200 miliardi. E’ un obiettivo cui ci piacerebbe arrivare nel lungo periodo ma per fare questo sarebbero necessarie diverse riforme importanti tra cui la riduzione della corruzione che attanaglia il Paese”.
Grillo ha duramente criticato i sindacati e poi ha parlato di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Cosa significa concretamente?

Molto da imparare poco da insegnare

    
Molto da imparare poco da insegnare

Pubblicato il 5 mar 2013

di Marco Revelli -
I tedeschi, che di filosofia della storia se ne intendono (quantomeno per averla inventata), le chiamano «epoche assiali». Achsenzeit: un tempo in cui il mondo ruota sul suo asse, e ogni cosa si rovescia. E noi ci siamo dentro fino al collo. Basta dare un’occhiata a Roma, mai come oggi caput mundi nel simbolismo del vuoto che ostenta. Vuoto tutto. Vuoto il Sacro Soglio, con un papa arreso al disordine spirituale del mondo e al disordine morale della curia romana. Vuoto il Parlamento, capace forse di rappresentare il mosaico infranto della nostra società ma impossibilitato comunque a produrre uno straccio di sintesi.
Vuoto, tra poco, il Colle dove è vissuto l’ultimo Sovrano tentato di governare lo stato d’eccezione permanente in cui siamo caduti. Vuota persino la poltrona del capo della polizia.
Certo, il combinato disposto di burocrazie e sistema dell’informazione si è messo al lavoro per metabolizzare il tragico nel banale: le prime assorbendo nella continuità procedurale anche le più dirompenti discontinuità reali (non comunica forse un senso di teatro dell’assurdo tutto questo accanimento sui tempi del Conclave, il motu proprio, le modalità dell’arrivo dei Cardinali mentre si è appena schiantato il dogma dell’infallibilità del Capo? o, si parva licet, l’immagine del povero Bersani, a disquisire in un’estemporanea conferenza stampa sul diritto del perdente arrivato primo a dare inizio alle danze nel salone d’onore mentre fuori, come dopo un’esplosione nucleare, è persino difficile identificare i muri entro i quali raccogliersi…).
Il secondo – il famigerato sistema dei media – pronto, nella sua ingordigia di spettacolarità, a divorare ogni evento consumandolo per lasciarlo alla fine spolpato come se, una volta spenti i riflettori, esso non producesse più effetti. E tuttavia nulla potrà occultare o attenuare la potenza tellurica del mutamento. Il cambio di scenario. La rottura di paradigma – chiamiamolo come vogliamo – che quest’inizio di 2013 ha rivelato in tutta la sua portata.
«È finita», urlava Grillo dal palco. E può apparire un paradosso che sia toccato a un ex comico annunciarlo, nel linguaggio della commedia dell’arte. Le elezioni politiche italiane non hanno certo un valore programmatico, lo vedrebbe anche un cieco che non indicano nessuna via d’uscita. Ma uno diagnostico sì. Ci dicono che è finita una forma della politica. Ridiciamolo nel modo più sgradevole: che è finita la politica del Novecento. Quella in cui una società sostanzialmente aggregata in gruppi e classi si strutturava e riconosceva stabilmente nella forma del partito politico e attraverso questo provava a esprimersi e a contare dentro le istituzioni. Ci dicono anche che il suo tentativo di prolungarsi, e sopravvivere a se stessa nell’ultimo periodo, era diventato insopportabile: un misto di finzione e supponenza. Di filisteismo e rapacità. Tanto più odiosi, quanto più accompagnati al fallimento sostanziale, e trasversale, di un’intera classe politica nella gestione di quella cosa pubblica della cui proprietà pretendeva di mantenere il monopolio.

martedì 5 marzo 2013

Il Portogallo scende in piazza contro la Troika

    
Il Portogallo scende in piazza contro la Troika

In Italia i media non hanno ritenuto la notizia degna di interesse

di Ludovica Schiaroli -
Centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza ieri (sabato 2 marzo) per protestare contro le misure imposte da BCE, Fondo Monetario e Unione Europea che dopo la riduzioni di salari e pensioni imposti nel 2012 stanno concordando con il governo di Pedro Passos Coehlo un aumento delle tasse e ulteriori tagli per 4 bilioni di euro per i prossimi due anni.
Mentre nelle stanze del governo era in corso la missione della Troika, le piazze del Portogallo si riempivano di insegnanti, lavoratori, studenti, dipendenti pubblici… che stanno subendo la peggiore recessione dal 1970.
La manifestazione e stata organizzata da un gruppo di attivisti indipendenti dal nome suggestivo “Si fotta la troika” che dal 2012 utilizza la rete come piattaforma politica. Molti i messaggi e gli slogan scanditi dai manifestanti e diretti al primo ministro del governo di centrodestra Coehlo: “l’austerità uccide”, “potere alla gente”, “oggi ci sono io per strada, domani ci sarai tu” oltre alla richiesta di nuove elezioni. Qualcuno ha raccontato che lungo i cortei risuonavano le parole di “Grandola Vila Morena”, la canzone che diede il segnale di inizio, alla mezzanotte della 25 aprile del 1974, alla Rivoluzione dei Garofani. Intervistato dalla televisione Armenio Carlos, il leader della più grande confederazione dei lavoratori portoghesi, ha ribadito la sua assoluta contrarietà alle misure di austerità imposte dall’Europa e ha sottolineato la necessità per il Paese di potere rinegoziare il suo debito.
Ad oggi non ci sono numeri precisi sul numero di manifestanti, anche se gli organizzatori parlano di oltre un milione di persone scese in piazza in tutto il Portogallo, quello che lascia stupiti è che in Italia i media non hanno ritenuto la notizia degna di interesse. È stata battuta un’ansa di quattro righe ieri alle 14,00 poi è calato il silenzio.
da popoff.globalist.it

Cosa insegnano le elezioni e i perché della sconfitta

    
Cosa insegnano le elezioni e i perché della sconfitta

Pubblicato il 4 mar 2013

di Domenico Moro -
Questa è la seconda volta che andiamo al tappeto e per la seconda volta bisognerà provare a rialzarsi. Come nel pugilato, solo chi è veramente determinato riesce a farlo. Tuttavia, rialzarsi per continuare a incassare pugni come un pugile suonato sarebbe assurdo. Quando si va al tappeto non ci si rialza subito, si aspetta il conteggio dell’arbitro, sfruttando ogni secondo per riprendere fiato e lucidità. Ecco, riprendere fiato, per noi, vuol dire ragionare a mente fredda e cercare di capire il perché e il percome è successo un’altra volta.
Nessuno ha la verità in tasca. Tuttavia, cerchiamo di vedere se è possibile individuare dei fatti precisi da cui partire. In primo luogo cosa dimostrano queste elezioni? A mio modo di vedere, dimostrano tre cose. Primo, il bipolarismo è fallito. Secondo, il governo Monti e la maggioranza che lo sosteneva sono stati bocciati. Terzo l’Europa stessa – o meglio l’europeismo dei mercati finanziari – è stata bocciata.
I dati e i numeri non si prestano a interpretazioni diverse. Le forze che hanno sostenuto il governo Monti hanno subito salassi qualche volta mortali. Lo stesso recupero di Berlusconi, che pure c’è stato, è in realtà molto relativo. Come partito il Pdl passa dai 13,6 milioni di voti del 2008 ai 7,3 del 2013, perdendo quasi la metà dei suffragi. Come coalizione Berlusconi perde la bellezza di 7,1 milioni, passando dal 46,8% al 29,1%. Il Pd perde meno ma subisce sempre un salasso incredibile passando dai 12 milioni agli 8,6 milioni e come coalizione perde 3,6 milioni di voti, passando dal 37,6% al 29,5%. Il risultato, ben al di sotto delle aspettative, del centro di Monti, fino all’altro ieri ritenuto il salvatore della patria, e la cancellazione dal panorama politico di Casini e Fini completa il quadro di bocciatura della grande coalizione che ha sostenuto il governo Monti ed implementato le politiche europee. Il pareggio tra i due vecchi poli, soprattutto l’emergere del polo di Grillo e, sebbene in misura minore, il consolidarsi di un centro al 10%, suona la campana a morto per il bipolarismo in sé stesso. Ma c’è un altro elemento fondamentale che si lega alla fine del bipolarismo, al crollo dei partiti tradizionali e di cui bisogna tenere conto, e che invece sembra passare inosservato. Si tratta dell’aumento dell’astensionismo, una tendenza storica ormai consolidata che neanche la straordinaria affermazione di Grillo è riuscita ad invertire. La partecipazione al voto – senza contare le schede bianche o annullate – è passata dall’83,6% del 2006, all’80,5% del 2008 e al 75,2% del 2013. In valore assoluto gli astenuti sono passati da 7,7 a 9,2 e a 11,7 milioni. 2,5 milioni in più solo tra le ultime due elezioni.
Per quanto possa sembrare paradossale il vero grande sconfitto da questa competizione è il capitale finanziario transnazionale. Il suo candidato era il ticket Bersani-Monti, come detto chiaramente nell’editoriale del 16-22 febbraio di The Economist, la più autorevole espressione di questo settore. Ora, il problema, per questi signori, è che è saltato il feticcio della “governabilità”, in altre parole la possibilità di implementare le politiche europee, dal fiscal compact alle varie controriforme. Di fatto, gli italiani col loro voto per Grillo, fregandosene di spread e governabilità, hanno fatto saltare i piani europei, in una sorta di referendum implicito sull’euro, e hanno lasciato il capitale senza un sistema politico funzionale.
A questo punto c’è da domandarsi perché gli italiani che hanno bocciato il governo Monti e l’Europa hanno concentrato il loro voto su Grillo e non hanno votato noi. Anzi, per la sinistra è stata una debacle generale, che coinvolge tutti e prosegue la tendenza emersa già tra 2008 e 2006, quando si persero più di 3 milioni di voti, come effetto della partecipazione al governo Prodi. Nel 2008 Idv, Prc (che comprendeva Sel), PdCI e verdi presero il 7,5%, oggi il 5,4%, passando dai 2,7 milioni del 2008 a poco più 1,8 milioni. Eppure, questa volta eravamo fuori dal Parlamento e ci siamo schierati contro Monti. Quindi, perché? La risposta è complessa e semplice insieme: abbiamo perso credibilità già da tempo e negli ultimi tempi non siamo riusciti a recuperarla, diminuendola ancora.

Non una resa, una ripartenza

di Claudio Grassi

Non una resa, una ripartenza

Pubblicato il 4 mar 2013
Sono state dette tante cose su queste elezioni. Ancora tanto si scriverà, visto il vero e proprio terremoto che hanno provocato e visto il quadro politico completamente instabile che hanno determinato. Mi limito ad elencare alcune brevi considerazioni.

Chi ha vinto?
Beppe Grillo e il M5S. 25 per cento. Ben al di sopra delle più rosee aspettative. Raccoglie voti a 360 gradi, dagli elettori delusi del centrodestra, del centrosinistra e della sinistra (in numero maggiore) e tra gli astenuti. È mia opinione che il grosso di questi consensi non siano dovuti ad una condivisione del programma che il M5S ha presentato. È stato invece un voto contro. Contro la politica, contro i partiti, contro la casta, tutti egualmente responsabili dell’attuale disastro. Mandiamoli tutti a casa. L’intreccio tra la crisi economica (che peggiora le condizioni non solo dei ceti sociali più deboli, ma anche di commercianti, artigiani, agricoltori, piccoli imprenditori) e il disgusto provocato da una classe politica che ha continuato a rubare a man bassa è stato il lievito potente di questo consenso. Valutazioni interessanti sono state fatte da Wu Ming sul successo di Grillo
Chi non ha perso?
Berlusconi (e il Pdl). Rispetto alle precedenti elezioni ha perso milioni di voti, ma il confronto va fatto con la situazione disastrosa in cui si trovava un anno fa. Dato per spacciato, è stato capace – e non è la prima volta – di una rimonta eccezionale che lo ha portato a sfiorare come coalizione la vittoria alla Camera. Lo ha fatto come sa fare lui, estremizzando il messaggio, sapendo di poter solleticare da un lato le pulsioni di una parte importante del Paese che evade il fisco (il condono tombale), dall’altro facendo leva sui bisogni materiali di tanta povera gente, promettendole soldi (restituzioni dell’Imu). Il tutto attaccando Monti e prendendo le distanze dalle sue politiche (che pure aveva votato), che hanno prodotto grande disagio nel Paese. Deridere la sua spregiudicatezza e rispondere a questi temi – come ha fatto il Pd – in modo aristocratico è stato uno dei principali errori di Bersani in questa campagna elettorale.
Chi ha perso?
Indubbiamente il Pd e, nel Pd, Bersani. Sicuro di vincere, si è trovato con un risultato che non gli consente di governare il Paese. Il Pd non ha i numeri per governare non solo – come aveva ipotizzato Sel – come coalizione di centrosinistra, ma nemmeno – come aveva sempre sostenuto Bersani – con Monti. Oggi il segretario del Pd si deve umiliare ad inseguire un accordo con Beppe Grillo che – per tutta risposta – lo definisce un “uomo morto” e “faccia da culo”. L’accordo difficilmente si farà e ciò segnerà il tramonto di Bersani, non adatto a guidare il Governo e non più in grado di tenere le redini del Pd dopo una sconfitta così cocente.
Ha perso anche Monti e chi aveva puntato – come l’Economist e i poteri forti europei- ad un Governo Bersani-Monti per dare continuità alle politiche di austerità e rigore. Il professore della Bocconi non solo ha fallito nel suo obiettivo di fare da calamita tra un pezzo del Pd e un pezzo del Pdl, ma, non essendo i suoi voti determinanti, non può nemmeno giocare da ago della bilancia.
Ma chi ha perso più di tutti siamo stati noi, la lista Rivoluzione Civile. Non solo perché abbiamo raccolto un consenso che nemmeno i più pessimisti potevano lontanamente immaginare, ma perché oltre al risultato negativo vi è (per quanto riguarda Rifondazione Comunista per la seconda volta) l’esclusione dal Parlamento.
Potevamo fare diversamente? Vi era in campo un’altra ipotesi che poteva darci un risultato migliore? Non mi pare. Errori sicuramente sono stati commessi sia nella composizione delle liste, sia nella scelta dei temi su cui ci siamo caratterizzati nella campagna elettorale, ma questi elementi non sono stati determinanti nell’esito del voto. Il dato vero è che non siamo riusciti ad aprirci uno spazio tra la spinta al voto utile del centrosinistra e la forza attrattiva di Grillo nel fare il pieno del voto di protesta.
In sostanza siamo apparsi né carne né pesce. Né pungolo ad un eventuale Governo di centrosinistra, né polo credibile alternativo al centrodestra e al centrosinistra. Può non piacere, ma siamo stati percepiti così.
Il risultato politico di queste elezioni è stato molto negativo per Rivoluzione Civile, ma non si può dire che sia stato positivo per chi ha investito nell’internità al centrosinistra. Nonostante il forte calo del Pd e il nostro insuccesso, Sel non raccoglie minimamente questi consensi, ottenendo un dato di poco superiore al 3 per cento. Penso che i compagni e le compagne di Sel commetterebbero un grave errore se – avendo eletto un buon numero di parlamentari anche grazie ad un mostruoso premio di maggioranza – non aprissero anche loro una riflessione sulle difficoltà che ha incontrato il loro progetto politico e per riaprire un dialogo a sinistra. A maggior ragione in una situazione dove la leadership del Pd, molto probabilmente, passerà da Bersani a Renzi e considerata la buona probabilità che la legislatura appena iniziata si interrompa molto prima della sua scadenza naturale.
Che fare?
Per quanto riguarda Rifondazione Comunista non si può non inquadrare questo dato come la chiusura fallimentare di un ciclo, quello apertosi nel 2008. Forse non aveva tutti i torti chi nel congresso di Chianciano tentò fino all’ultimo che si evitasse quello sbocco. Sta di fatto che il tentativo di rilanciare Rifondazione Comunista non è riuscito, così come non è riuscito il tentativo di costruire – attorno ad essa – la sinistra di alternativa. Basta scorrere i passaggi essenziali: alle elezioni europee del 2009 la lista Prc – Pdci raccolse il 3,4% e considerammo quel dato non positivo. Alle regionali del 2010 – come Federazione della Sinistra – arretrammo al 2.7%, dato che si confermò alle amministrative seguenti. La Federazione della Sinistra di fronte al passaggio delle elezioni politiche si è divisa nei fatti, nonostante non vi sia mai stato un atto formale di scioglimento. Infine – nonostante le opportunità che ci ha aperto la disponibilità di Ingroia ad accettare di guidare la lista di Rivoluzione Civile (e la presenza aggiuntiva rispetto la Fds di Idv e Verdi) - il consenso è ulteriormente calato al 2,2%.
A fronte di un bilancio così negativo occorre prendere delle decisioni che non possono essere di semplice manutenzione. Lo deve fare prima di tutto il gruppo dirigente che deve assumersi la responsabilità di non essere riuscito a raggiungere gli obiettivi che si era prefisso. Non si tratta di una fuga dalla realtà nel momento di massima difficoltà. È l’esatto contrario. Proprio per cercare di salvare un importante patrimonio politico e umano com’è ancora quello rappresentato da Rifondazione Comunista, mostratosi così generoso anche in questa campagna elettorale, dobbiamo fare qualcosa che non può essere riconducibile alla normale amministrazione.
Dobbiamo essere noi per primi a dare un segnale di svolta e di cambiamento. Questo segnale deve andare in due direzioni. Da una parte occorre un ricambio dei gruppi dirigenti. Non esiste nessun partito politico che dopo un numero così significativo di insuccessi non abbia dato vita ad un ricambio. Dall’altra dobbiamo avere l’onestà di riconoscere che noi da soli non ce la facciamo e che dobbiamo metterci a disposizione – aprendo un dialogo con tutti i soggetti politici, sindacali, di movimento che stanno a sinistra del Pd – per iniziare il percorso che porti alla costruzione di una nuova forza di sinistra alternativa, all’interno della quale far vivere e crescere il patrimonio politico, ideale, umano di Rifondazione Comunista e dei comunisti. Se non affrontiamo di petto questo problema, anche le compagne e i compagni che con grande passione e generosità sono rimasti, rischiano di ridursi sempre di più come sta avvenendo, purtroppo, da anni.
Se siamo d’accordo su questo, le modalità con cui raggiungere questi obiettivi si possono discutere. In ogni caso le decisioni su come procedere debbono essere largamente condivise altrimenti il processo non sarà evolutivo, ma drammaticamente involutivo. E, al punto in cui siamo, non potremmo certo permettercelo.

lunedì 4 marzo 2013

Non rese dei conti, ma svolta per il bene dellasinistra.

 

imagesLa nostra è una sconfitta netta e senza appello. Proponiamo alcuni spunti, un contributo per capire e ripartire.
  1. Le dimensioni del terremoto a cui assistiamo sono tali da impedirci di leggere la nostra sconfitta in termini vittimistici od autoassolutori. Non è sempre colpa degli altri. Non è colpa del popolo che non ci ha capito o della legge elettorale.
  2. Abbiamo dimostrato di non riuscire a capire la società italiana: non prevedere neppure lontanamente il risultato di Berlusconi né la portata della vittoria di Grillo significa non avere il polso del Paese. Per chi fa politica non si tratta di un dettaglio.
  3. Il voto del nostro elettorato si è polarizzato tra una sinistra con ambizioni di governo (con un profilo e contenuti moderati) e una critica radicale al sistema politico (con venature populistiche). Lo spazio politico tra centro-sinistra e Grillo si è ridotto con queste elezioni al punto che ogni opzione intermedia è risultata – agli occhi della nostra stessa gente – inutile e velleitaria. Anche nella mancata comprensione di questa tendenza vive una nostra specifica responsabilità.
  4. Tuttavia, nelle condizioni a cui eravamo giunti, lo sbocco di Rivoluzione Civile con Ingroia candidato presidente del Consiglio era non soltanto lo sbocco obbligato ma anche quello realisticamente più avanzato. Sono stati fatti certamente errori nella campagna elettorale e nella compilazione delle liste, ma non è certo questo il punto di fondo. Non c’erano, nelle condizioni date, alternative realistiche alla scelta compiuta.
  5. La forza di Sel è uscita dalle urne altrettanto ridimensionata. Il risultato complessivo è molto deludente. Soltanto la sua scelta di coalizzarsi con il Pd e questa legge elettorale le hanno consentito di eleggere parlamentari.
  6. La nostra sconfitta non è la prima. È quella più clamorosa, ma è soltanto l’ultima di una serie non interrotta di sconfitte e arretramenti, a partire dal risultato dell’Arcobaleno del 2008.
  7. La responsabilità di questi errori e di queste sconfitte è nostra, di tutti noi. Ma i gruppi dirigenti dei partiti della Sinistra italiana, a partire da quelli più ristretti, portano sulle spalle le responsabilità maggiori. Per questo è segno di maturità e di intelligenza politica che lo riconoscano facendo un passo indietro. Non servono rese dei conti, ma il coraggio di cambiare e avviare un processo di radicale rinnovamento. Dei gruppi dirigenti e delle forme e delle modalità dell’iniziativa politica.
  8. Questo è un punto determinante: il Movimento 5 Stelle vince anche perché è percepito come un luogo diretto di protagonismo e democrazia delle persone in carne ed ossa. I partiti sono (e sono percepiti) come luoghi inaccessibili e incartapecoriti, vittime di burocrazie e liturgie stantie. La piramide, come si diceva un tempo, va rovesciata e i soggetti reali devono essere finalmente coinvolti e resi protagonisti dei processi decisionali.
  9. La linea politica va decisa e riorientata nei passaggi clamorosamente complessi che abbiamo di fronte. Non servono svolte a destra né svolte a sinistra. È invece necessario rilanciare il ruolo dei comunisti dentro un processo di aggregazione nuovo di tutta la sinistra italiana: Stati generali o Costituente. Ma certo non è possibile stare fermi.
  10. Per farlo serve la massima unità e compattezza tra noi, a partire da quel popolo che in questi mesi di campagna elettorale ha dimostrato nei territori, in ogni città e in ogni piazza, di sapere fare politica e di saperla fare con il cuore e con la testa. Un patrimonio che non va disperso. Non lo disperderemo soltanto se saremo capaci di individuare, indicare e costruire un progetto politico. Radicalmente nuovo, unitario, di sinistra, non minoritario, in connessione finalmente con la società, le sue tensioni, le sue contraddizioni.
Simone Oggionni, Francesco D’Agresta

Rivoluzione Civile

Un suicidio in 8 mosse - senzasoste -
Rivoluzione Civile ha fatto flop, in maniera forse inattesa visto che i sondaggi pre-elettorali davano pronostici diversi che parlavano di percentuali basse ma comunque sufficienti per entrare almeno in Parlamento. L'apparato politico che componeva il cartello elettorale a sostegno di Ingroia cercherà colpe ovunque al di fuori delle proprie stanze (proprio l'ex magistrato ha già dichiarato che "è colpa di Bersani che non si è voluto alleare con noi"...), ma la sostanza è che le responsabilità sono tutte da addebitare proprio alla proposta politica messa in campo da Rivoluzione Civile. Un'offerta elettorale pessima per tanti motivi, racchiudibili in 8 punti principali. Vediamoli.
1 - Progetto di emergenza elettorale calato dall'alto
Dopo il fallimento dell'Arcobaleno nel 2008, la sinistra aveva una sola cosa da fare: iniziare a lavorare alla creazione di un nuovo soggetto politico, con facce diverse, parole d'ordine diverse, progettualità e prospettive diverse. Doveva farlo subito, il giorno dopo le elezioni (visto che fra l'altro non aveva neanche impegni istituzionali). Invece non solo non l'ha fatto subito, ma si è ritrovata a ridosso delle elezioni di cinque anni dopo a mettere in piedi un progetto che è apparso a tutti solo come un cartello elettorale di raccattati messi insieme per entrare in Parlamento. Progetto che poteva anche essere sensato nella sua idea di fondo (offrire una alternativa a chi voleva dare un voto di rottura mantenendo un'identità di sinistra che Grillo non dava) ma appunto se costruito nel tempo e dal basso. Invece, anziché nel tempo e dal basso, è stato messo in piedi ad appena un mese dalle elezioni e calato dall'alto dalle segreterie di 4 partitini, risultando incomprensibile e quasi sconosciuto all'elettorato.
2 - Disponibilità alla sottomissione
Quando i giornalisti ponevano ad Ingroia la fatidica domanda "ma così non portate via i voti al Pd?", lui rispondeva che era il contrario, perché Rivoluzione Civile avrebbe portato in Parlamento i voti necessari affinché, quando Bersani avesse avuto bisogno dei numeri per governare, anziché guardare a Monti avrebbe guardato a sinistra. Un autogol strtegico e comunicativo pazzesco: perché io elettore di sinistra anti-Pd dovrei votare per una lista che si dichiara già in partenza disponibile alla sottomissione? Magari in cambio di qualche puzzolente poltrona fra l'altro. Se voto per una lista alternativa al Pd, è chiaro che NON voglio che governi il Pd. E Grillo in questo senso dava maggiori garanzie (se saranno certezze lo vedremo già dai prossimi giorni). In quella scienza impietosa che è la politica, la disponibilità alla sottomissione emana debolezza e allontana l'elettore.
3 - Impronta fortemente legalitaria
Magistrati e poliziotti. Questo l'impatto, secco, tranciante, che ha avuto Rivoluzione Civile sull'elettorato. Ci vuole poco a capire che sono categorie che a sinistra piacciono a pochi. Che poi effettivamente non c'erano solo loro, ma chi studia comunicazione politica sa bene che il gossip amplifica la portata di cose che da marginali diventano caratterizzanti: in Rivoluzione Civile c'è un poliziotto che è contrario ai numeri identificativi sui caschi e sulle divise, quindi per l'impatto complessivo sulla gente, Rivoluzione Civile E' il movimento che è per la repressione poliziesca. Non è così in verità, ma è così per i media e la rete che trasmettono il concetto in maniera virale. Quindi, anche se non è verità, lo diventa. L'impronta legalitaria era stata pensata per sfondare almeno nelle regioni del sud tipo Campania e Sicilia, ma alla prova dei numeri è stato un fallimento anche lì.
4 - Assenza di idee nuove e mancanza di parole contro la Casta
L'approssimazione dal punto di vista della comunicazione politica si è vista anche dall'assenza di proposte nuove, d'impatto, rivoluzionarie ma per davvero. Berlusconi si è inventato la restituzione dell'Imu, ben sapendo che in campagna elettorale vale tutto e che tanto gli italiani hanno la memoria corta. Ad Ingroia bastava anche una sola proposta rumorosa, ma non l'ha trovata. Paradossalmente sarebbe bastato copiarne alcune di Grillo sull'antipolitica, magari personalizzandole con un vestito di sinistra, invece niente. Bastava dire che anche Rivoluzione Civile è per la restituzione dei rimborsi elettorali e per il limite a due mandati in Parlamento, magari aggiungendoci idee sulla partecipazione diretta e non solo virtuale della gente alle decisioni da prendere nel corso della legislatura. Invece nulla, tabula rasa.
5 - Nome debole
Rivoluzione Civile è un ossimoro. Puntigliosità linguistica dei rivoluzionari duri e puri? No, verità assoluta che a livello di comunicazione politica ha un effetto latente, inconscio, penetrante nelle menti delle persone. La Rivoluzione non è un pranzo di gala, diceva Mao. Ingroia e compagni hanno dato invece l'idea che volevano andare al buffet di Montecitorio a farsi una bella mangiata. L'impatto del brand "Rivoluzione Civile" è praticamente lo stesso del "metteremo dei fiori nei vostri cannoni", il proseguimento del noioso filone arcobalenista. Perdente.
6 - Candidature di dinosauri impresentabili
Diliberto, Di Pietro, Ferrero, Bonelli. Pensavano forse che gli elettori non si sarebbero accorti che dietro ad Ingroia c'erano comunque loro? Diliberto è quello della scissione cossuttiana voluta perché i "comunisti-italiani" ci tenevano un sacco a fare le guerre in giro per il mondo insieme al governo D'Alema. Ma è anche quello del sostegno ufficiale a Bersani nella campagna per le primarie (!), che poi quando lui non li ha ringraziati dopo la vittoria si è anche offeso (incredibile, ma vero). Come può un elettore pensare che appena seduto sul seggiolone parlamentare Diliberto non avrebbe iniziato subito ad elemosinare un posto da alleato di Bersani? Di Pietro, dopo la famosa inchiesta di Report, è diventato il simbolo dei privilegi della Casta. E in quanto tale destinato ad essere polverizzato in un momento come questo in cui la congiuntura politica parla il linguaggio di Grillo.
7 - Assenza di carisma e di una rappresentazione della rabbia sociale
Ingroia è Crozza che fa Ingroia. Giusto? Sbagliato? Non importa, è così. In una campagna elettorale contano (molto più di quanto si pensi) anche le caricature, la satira, le prese in giro. Crozza ha fatto l'imitazione di tutti i leader tranne Grillo (perché lui è già la caricatura di sé stesso, o forse più semplicemente perché non lo sappiamo ma Crozza parteggia per Grillo). Berlusconi era lo strafottente, Monti era il robot, Bersani era l'uomo delle metafore di provincia. E Ingroia? Era lo svogliato. Sì, lo svogliato. Cioè, il leader della parte politica che doveva rappresentare la rabbia sociale, la rivoluzione, il grido di opposizione, non ne aveva voglia. Parodia ingenerosa quella di Crozza? Forse un po' sì, ma è innegabile che il carisma Ingroia o non ce l'ha o l'ha lasciato a casa durante tutta la campagna elettorale. Ci voleva un leader che parla alla pancia della gente, che fa sussultare il cuore e fa vibrare le emozioni. Una mente appassionata e che appassiona. Invece no, candidano l'addormentato.
8 - Mancanza di un rapporto diretto con i movimenti e col mondo del lavoro
E questo è il punto che viene per ultimo ma probabilmente è il più importante. Da una proposta politica di sinistra vorremmo aspettarci tutto ciò che il Pd non offre. In primis una riforma strutturale, organica, nuova, coraggiosa, del diritto del lavoro e del welfare. Una prospettiva per i giovani disoccupati, per i licenziati che non trovano più lavoro, per i precari, gli atipici, i sottopagati. Ma una proposta vera, credibile, concreta, con cui identificarsi per anni fino al suo ottenimento. Possibile che non siano riusciti a partorire niente in questo senso? A pensarci bene è incredibile. Non basta parlare in termini generici su quell'argomento, ti devi differenziare con proposte che non produce nessun altro. Deve essere quello il cambio di passo, altrimenti perché la gente ti dovrebbe votare? E andando al di là del lavoro, su tutti gli altri temi fondamentali come l'ambiente, le battaglie contro le grandi opere inutili tipo la Tav, contro le privatizzazioni dei beni comuni (acqua, scuola, sanità, trasporti), contro le guerre, contro l'emergenza abitativa, perché non è stata percepita la vicinanza da parte dei movimenti? Non era difficile fra l'altro, perché la piattaforma politica era già scritta da chi ogni giorno combatte nelle trincee dei luoghi di lavoro e dei territori.
Da domani avranno cinque anni di tempo per costruire tutto questo. Scommettiamo che non lo faranno?
redazione
26 febbraio 2013

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