Pubblicato il 4 mar 2013
di Domenico Moro -
A questo punto c’è da domandarsi perché gli italiani che hanno bocciato il governo Monti e l’Europa hanno concentrato il loro voto su Grillo e non hanno votato noi. Anzi, per la sinistra è stata una debacle generale, che coinvolge tutti e prosegue la tendenza emersa già tra 2008 e 2006, quando si persero più di 3 milioni di voti, come effetto della partecipazione al governo Prodi. Nel 2008 Idv, Prc (che comprendeva Sel), PdCI e verdi presero il 7,5%, oggi il 5,4%, passando dai 2,7 milioni del 2008 a poco più 1,8 milioni. Eppure, questa volta eravamo fuori dal Parlamento e ci siamo schierati contro Monti. Quindi, perché? La risposta è complessa e semplice insieme: abbiamo perso credibilità già da tempo e negli ultimi tempi non siamo riusciti a recuperarla, diminuendola ancora.
Vanno evitati due errori di semplificazione, dare la colpa ad un elettorato ottuso (o che non ci capisce o che segue le mode) e al voto utile. È evidente che noi facciamo i conti con la realtà e che questa in questa fase storica non ci è favorevole, per molte ragioni. Tuttavia, dobbiamo capire in primo luogo quali sono i nostri limiti, visto che è su questi che abbiamo maggiore potere di agire. E questo non per fare recriminazioni inutili o autoflagellarsi, ma per andare avanti costruttivamente. Dal mio punto di vista, se i lavoratori non ti votano (e a questi livelli), vuol dire che qualcosa hai sbagliato anche tu.
Il primo grosso limite è stato quello di non essere riusciti ad esprimere una linea coerente con quello che dicevamo e per giunta altalenante. È vero che ci siamo schierati contro Monti, però abbiamo cercato con insistenza un accordo con il partito che ha rappresentato il maggior sostegno al governo Monti e che di fatto esprimeva un evidente allineamento alle politiche europeiste, più di Berlusconi. Anche quando il Pd aveva rifiutato più volte le nostre offerte e si era formata la lista Rivoluzione Civile, Ingroia, almeno fino ad un certo punto, ha continuato a lanciare offerte di collaborazione con il Pd. Praticamente il correre da soli non è apparso come il risultato coerente di una scelta politica, ma come una specie di ripiego, dovuto al rifiuto del Pd. Un rifiuto che fra l’altro era molto prevedibile, data la manifesta volontà di quel partito di allinearsi alle politiche europee e di prepararsi all’alleanza post-elezioni con Monti. Tutto questo e, non ultime, le divisioni interne alla Fds – di fatto spaccata e ricomposta in extremis in RC – non hanno prodotto, anche prima della campagna elettorale, un attivismo e una visibilità adeguati. E, soprattutto non potevano non disorientare il nostro elettorato potenziale, che, infatti, in gran parte o si è astenuto o è andato con Grillo. Semmai hanno rafforzato in taluni l’idea di una disponibilità post-elettorale a ritornare ai vecchi compromessi.
Il secondo limite sta nel carattere della campagna elettorale di Rivoluzione civile, che, nonostante gli sforzi di alcuni, è rimasta incentrata sulla legalità (non che non sia importante ma non siamo stati capaci – nè lo poteva essere Ingroia, catapultato dalle aule di tribunale all’arena politica – a legare la questione della legalità all’economia e alla questione sociale), mentre siamo nella peggiore crisi economica dalla fine della guerra e la gente non ce la fa ad arrivare alla fine del mese.
Il terzo limite, in una campagna elettorale e in una politica in cui conta sempre di più la comunicazione (ed in presenza di veri maestri del settore come Grillo e Berlusconi), è il fatto che abbiamo presentato un leader non in grado di trasmettere entusiasmo. Inoltre, abbiamo eliminato i simboli dei partiti che permettevano agli elettori di avere un punto di riferimento chiaro, con un cedimento suicida al trito refrain della “società civile” migliore di quella politica (in questo caso noi stessi). Ingroia è un personaggio prezioso per la sinistra che potrà dare un contributo importante nel futuro, ma come leader della coalizione non ha funzionato.
Analisi del voto più approfondite ci diranno se e quanto ha inciso il voto utile. Ma già nel 2008 incise in misura parziale e meno dell’astensionismo. Oggi, ha funzionato ancora meno. La controprova è il risultato mediocre di Sel con il 3,2% (solo un paio di mesi fa accreditata del 6%), solo un punto percentuale e circa 300mila voti in più rispetto a RC. Inoltre, bisognerà pur chiedersi perché non abbiamo intercettato i nuovi e vecchi astenuti e soprattutto perché con Grillo il voto utile non funziona, tanto più che, secondo le prime analisi sui flussi di voto, ha intercettato molta parte degli ex votanti del Pd nel 2008. Non è questa la sede per una analisi approfondita del Movimento 5 stelle. Ci limiteremo a considerare che il punto di forza di Grillo è stata la capacità di presentarsi come non compromesso con il passato, agitare credibilmente la questione dell’Europa e dell’euro e dichiararsi indisponibile ad accordi al ribasso. Ma soprattutto Grillo, a differenza nostra, ha capito dove tirava il vento e i sentimenti profondi che animano gli italiani.
L’errore maggiore sta nel fatto che in politica si deve scegliere. Noi abbiamo scelto di non scegliere e di far scegliere gli altri per noi. In un clima socialmente arroventato e in un quadro di grande fluidità questi errori si pagano pesantemente. A costo di ripetermi, bisogna tenere conto che la fase storica ed il contesto sociale ed economico in Italia ed in Europa sono mutati: ritorno della povertà e della disoccupazione di massa (e connessa crescita dell’astensionismo), trasformazione dello stato-nazione a fronte di politiche generali decise a livello europeo, delocalizzazioni e finanziarizzazione massicce ed altro ancora. Tutto ciò richiede un riadeguamento complessivo della proposta e del posizionamento politico. Non si possono ripetere le stesse formule del passato, basate sulla riedizione del centro-sinistra. Bisogna avere la capacità di dare alla nostra gente una prospettiva nuova ed ampia, che sia in grado di riattivare le energie e la voglia di lottare.
Per questo sono necessari una riflessione e un riposizionamento strategici, in cui però sia ben chiaro che l’unità e l’autonomia ideologica e politica dei comunisti, attraverso la ricostruzione di un vero partito comunista, sono il primo punto all’ordine del giorno. L’esito di queste elezioni, per noi, prova soprattutto questo. Solo dimostrando a noi stessi e agli altri che siamo capaci di unificarci e di trovare un punto di vista in comune, possiamo fare il primo passo per recuperare quella credibilità e quel terreno che abbiamo perduto.
Questa è la seconda volta che andiamo al tappeto e per la seconda volta bisognerà provare a rialzarsi. Come nel pugilato, solo chi è veramente determinato riesce a farlo. Tuttavia, rialzarsi per continuare a incassare pugni come un pugile suonato sarebbe assurdo. Quando si va al tappeto non ci si rialza subito, si aspetta il conteggio dell’arbitro, sfruttando ogni secondo per riprendere fiato e lucidità. Ecco, riprendere fiato, per noi, vuol dire ragionare a mente fredda e cercare di capire il perché e il percome è successo un’altra volta.
Nessuno ha la verità in tasca. Tuttavia, cerchiamo di vedere se è possibile individuare dei fatti precisi da cui partire. In primo luogo cosa dimostrano queste elezioni? A mio modo di vedere, dimostrano tre cose. Primo, il bipolarismo è fallito. Secondo, il governo Monti e la maggioranza che lo sosteneva sono stati bocciati. Terzo l’Europa stessa – o meglio l’europeismo dei mercati finanziari – è stata bocciata.
I dati e i numeri non si prestano a interpretazioni diverse. Le forze che hanno sostenuto il governo Monti hanno subito salassi qualche volta mortali. Lo stesso recupero di Berlusconi, che pure c’è stato, è in realtà molto relativo. Come partito il Pdl passa dai 13,6 milioni di voti del 2008 ai 7,3 del 2013, perdendo quasi la metà dei suffragi. Come coalizione Berlusconi perde la bellezza di 7,1 milioni, passando dal 46,8% al 29,1%. Il Pd perde meno ma subisce sempre un salasso incredibile passando dai 12 milioni agli 8,6 milioni e come coalizione perde 3,6 milioni di voti, passando dal 37,6% al 29,5%. Il risultato, ben al di sotto delle aspettative, del centro di Monti, fino all’altro ieri ritenuto il salvatore della patria, e la cancellazione dal panorama politico di Casini e Fini completa il quadro di bocciatura della grande coalizione che ha sostenuto il governo Monti ed implementato le politiche europee. Il pareggio tra i due vecchi poli, soprattutto l’emergere del polo di Grillo e, sebbene in misura minore, il consolidarsi di un centro al 10%, suona la campana a morto per il bipolarismo in sé stesso. Ma c’è un altro elemento fondamentale che si lega alla fine del bipolarismo, al crollo dei partiti tradizionali e di cui bisogna tenere conto, e che invece sembra passare inosservato. Si tratta dell’aumento dell’astensionismo, una tendenza storica ormai consolidata che neanche la straordinaria affermazione di Grillo è riuscita ad invertire. La partecipazione al voto – senza contare le schede bianche o annullate – è passata dall’83,6% del 2006, all’80,5% del 2008 e al 75,2% del 2013. In valore assoluto gli astenuti sono passati da 7,7 a 9,2 e a 11,7 milioni. 2,5 milioni in più solo tra le ultime due elezioni.
Per quanto possa sembrare paradossale il vero grande sconfitto da questa competizione è il capitale finanziario transnazionale. Il suo candidato era il ticket Bersani-Monti, come detto chiaramente nell’editoriale del 16-22 febbraio di The Economist, la più autorevole espressione di questo settore. Ora, il problema, per questi signori, è che è saltato il feticcio della “governabilità”, in altre parole la possibilità di implementare le politiche europee, dal fiscal compact alle varie controriforme. Di fatto, gli italiani col loro voto per Grillo, fregandosene di spread e governabilità, hanno fatto saltare i piani europei, in una sorta di referendum implicito sull’euro, e hanno lasciato il capitale senza un sistema politico funzionale.A questo punto c’è da domandarsi perché gli italiani che hanno bocciato il governo Monti e l’Europa hanno concentrato il loro voto su Grillo e non hanno votato noi. Anzi, per la sinistra è stata una debacle generale, che coinvolge tutti e prosegue la tendenza emersa già tra 2008 e 2006, quando si persero più di 3 milioni di voti, come effetto della partecipazione al governo Prodi. Nel 2008 Idv, Prc (che comprendeva Sel), PdCI e verdi presero il 7,5%, oggi il 5,4%, passando dai 2,7 milioni del 2008 a poco più 1,8 milioni. Eppure, questa volta eravamo fuori dal Parlamento e ci siamo schierati contro Monti. Quindi, perché? La risposta è complessa e semplice insieme: abbiamo perso credibilità già da tempo e negli ultimi tempi non siamo riusciti a recuperarla, diminuendola ancora.
Vanno evitati due errori di semplificazione, dare la colpa ad un elettorato ottuso (o che non ci capisce o che segue le mode) e al voto utile. È evidente che noi facciamo i conti con la realtà e che questa in questa fase storica non ci è favorevole, per molte ragioni. Tuttavia, dobbiamo capire in primo luogo quali sono i nostri limiti, visto che è su questi che abbiamo maggiore potere di agire. E questo non per fare recriminazioni inutili o autoflagellarsi, ma per andare avanti costruttivamente. Dal mio punto di vista, se i lavoratori non ti votano (e a questi livelli), vuol dire che qualcosa hai sbagliato anche tu.
Il primo grosso limite è stato quello di non essere riusciti ad esprimere una linea coerente con quello che dicevamo e per giunta altalenante. È vero che ci siamo schierati contro Monti, però abbiamo cercato con insistenza un accordo con il partito che ha rappresentato il maggior sostegno al governo Monti e che di fatto esprimeva un evidente allineamento alle politiche europeiste, più di Berlusconi. Anche quando il Pd aveva rifiutato più volte le nostre offerte e si era formata la lista Rivoluzione Civile, Ingroia, almeno fino ad un certo punto, ha continuato a lanciare offerte di collaborazione con il Pd. Praticamente il correre da soli non è apparso come il risultato coerente di una scelta politica, ma come una specie di ripiego, dovuto al rifiuto del Pd. Un rifiuto che fra l’altro era molto prevedibile, data la manifesta volontà di quel partito di allinearsi alle politiche europee e di prepararsi all’alleanza post-elezioni con Monti. Tutto questo e, non ultime, le divisioni interne alla Fds – di fatto spaccata e ricomposta in extremis in RC – non hanno prodotto, anche prima della campagna elettorale, un attivismo e una visibilità adeguati. E, soprattutto non potevano non disorientare il nostro elettorato potenziale, che, infatti, in gran parte o si è astenuto o è andato con Grillo. Semmai hanno rafforzato in taluni l’idea di una disponibilità post-elettorale a ritornare ai vecchi compromessi.
Il secondo limite sta nel carattere della campagna elettorale di Rivoluzione civile, che, nonostante gli sforzi di alcuni, è rimasta incentrata sulla legalità (non che non sia importante ma non siamo stati capaci – nè lo poteva essere Ingroia, catapultato dalle aule di tribunale all’arena politica – a legare la questione della legalità all’economia e alla questione sociale), mentre siamo nella peggiore crisi economica dalla fine della guerra e la gente non ce la fa ad arrivare alla fine del mese.
Il terzo limite, in una campagna elettorale e in una politica in cui conta sempre di più la comunicazione (ed in presenza di veri maestri del settore come Grillo e Berlusconi), è il fatto che abbiamo presentato un leader non in grado di trasmettere entusiasmo. Inoltre, abbiamo eliminato i simboli dei partiti che permettevano agli elettori di avere un punto di riferimento chiaro, con un cedimento suicida al trito refrain della “società civile” migliore di quella politica (in questo caso noi stessi). Ingroia è un personaggio prezioso per la sinistra che potrà dare un contributo importante nel futuro, ma come leader della coalizione non ha funzionato.
Analisi del voto più approfondite ci diranno se e quanto ha inciso il voto utile. Ma già nel 2008 incise in misura parziale e meno dell’astensionismo. Oggi, ha funzionato ancora meno. La controprova è il risultato mediocre di Sel con il 3,2% (solo un paio di mesi fa accreditata del 6%), solo un punto percentuale e circa 300mila voti in più rispetto a RC. Inoltre, bisognerà pur chiedersi perché non abbiamo intercettato i nuovi e vecchi astenuti e soprattutto perché con Grillo il voto utile non funziona, tanto più che, secondo le prime analisi sui flussi di voto, ha intercettato molta parte degli ex votanti del Pd nel 2008. Non è questa la sede per una analisi approfondita del Movimento 5 stelle. Ci limiteremo a considerare che il punto di forza di Grillo è stata la capacità di presentarsi come non compromesso con il passato, agitare credibilmente la questione dell’Europa e dell’euro e dichiararsi indisponibile ad accordi al ribasso. Ma soprattutto Grillo, a differenza nostra, ha capito dove tirava il vento e i sentimenti profondi che animano gli italiani.
L’errore maggiore sta nel fatto che in politica si deve scegliere. Noi abbiamo scelto di non scegliere e di far scegliere gli altri per noi. In un clima socialmente arroventato e in un quadro di grande fluidità questi errori si pagano pesantemente. A costo di ripetermi, bisogna tenere conto che la fase storica ed il contesto sociale ed economico in Italia ed in Europa sono mutati: ritorno della povertà e della disoccupazione di massa (e connessa crescita dell’astensionismo), trasformazione dello stato-nazione a fronte di politiche generali decise a livello europeo, delocalizzazioni e finanziarizzazione massicce ed altro ancora. Tutto ciò richiede un riadeguamento complessivo della proposta e del posizionamento politico. Non si possono ripetere le stesse formule del passato, basate sulla riedizione del centro-sinistra. Bisogna avere la capacità di dare alla nostra gente una prospettiva nuova ed ampia, che sia in grado di riattivare le energie e la voglia di lottare.
Per questo sono necessari una riflessione e un riposizionamento strategici, in cui però sia ben chiaro che l’unità e l’autonomia ideologica e politica dei comunisti, attraverso la ricostruzione di un vero partito comunista, sono il primo punto all’ordine del giorno. L’esito di queste elezioni, per noi, prova soprattutto questo. Solo dimostrando a noi stessi e agli altri che siamo capaci di unificarci e di trovare un punto di vista in comune, possiamo fare il primo passo per recuperare quella credibilità e quel terreno che abbiamo perduto.
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