Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 12 aprile 2014

Tutti i rischi del Trattato transatlantico

di Dario Guarascio
Diritto del lavoro, ogm, sanità, ambiente, proprietà intellettuale e energia: tutte le conseguenze del trattato di libero scambio che Usa e Ue vogliono approvare
L’obiettivo dichiarato del Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) è quello di costruire la più grande area di libero scambio al mondo attraverso l’eliminazione delle barriere, tariffarie e non, che ancora limitano i flussi commerciali tra Europa e Usa. Le previsioni ufficiali in merito ai presunti benefici associati al Ttip non sembrano però esaltare, a fronte della brusca deregolamentazione di cui il Trattato è foriero. È già riscontrabile una divaricazione tra quanto affermano i report ufficiali e gli studi commissionati dalle lobby interessate (la Commissione ha recentemente ridimensionato i dati già forniti ad uno 0.1% di crescita del Pil per entrambe le parti coinvolte nell’accordo, che equivarrebbe ad una crescita risibile dello 0.01% annuo su di un orizzonte di dieci anni. Dettagli su: www.opendemocracy.net/ourkingdom/clive-george/whats-really-driving-eu-us-trade-deal).
Ciò che preoccupa maggiormente però è l’assenza, a parte alcune meritorie eccezioni come Attac!, S2B Network e la rete Sbilanciamoci, di una intensa campagna che informi in merito alle conseguenze sociali ed ambientali che un trattato come questo potrebbe produrre. L’obiettivo dei negoziatori è quello di armonizzare le rispettive regolamentazioni in materia di commercio internazionale. Il riferimento nient’affatto implicito è alle differenze che tuttora intercorrono tra Ue ed Usa nelle regole in materia di protezione sanitaria, alimentare, di diritto d’autore e del lavoro. Parlare semplicisticamente di “armonizzazione”, tuttavia, può apparire perlomeno riduttivo se si adotta una prospettiva che identifica in quei “..costi e ritardi non necessari e dannosi per le imprese..” delle conquiste di civiltà irrinunciabili per chi ambisce ad un mondo più giusto e sostenibile dal punto di vista ambientale. È noto infatti come in molti ambiti gli standard Ue, basati sul principio di precauzione, siano più stringenti di quelli Usa ed uno scivolamento verso i livelli di deregolamentazione americani diverrebbe la conseguenza più naturale del Ttip. Si starebbero in questo modo realizzando le ambizioni che le organizzazioni di impresa hanno ripetutamente manifestato negli anni recenti (http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2012/july/tradoc_149720.pdf )
Il primo blocco di diritti ad essere minacciato sono quelli a protezione del lavoro. Potrebbe non essere remota la possibilità che una normativa analoga al “Rights to Works” americano, ribattezzata dai sindacati statunitensi l’Anti-Unions-Act (Greenhouse, S. “States seek laws to curb power of unions”. NYT 3 January, 2011), si affacci con sembianze analoghe anche in Europa. La sostanza liberista di una normativa di questo tipo verrebbe ad alimentare una rinnovata concorrenza al ribasso fra i lavoratori sui loro diritti e le loro retribuzioni. Si tratta esattamente della logica in virtù della quale i recenti governi di emergenza italiani hanno messo mano, flessibilizzandola, alla legislazione in materia di lavoro augurandosi di avere in cambio un salvifico ed ingente afflusso di capitali internazionali.
La conseguenza immediata di un superamento de facto del principio di precauzione sarebbe l’ineffettività di gran parte delle normative europee sulla sostenibilità ambientale. Una delle maggiori fonti di rischio in questo senso è il cosiddetto shale-gas, o “fracking-gas” dalla particolare tecnica estrattiva che contraddistingue questi idrocarburi. Questa tecnica richiede l’uso di una procedura ritenuta letale per le falde acquifere ed il suolo sottostante i giacimenti e le zone ad essi limitrofe. L’approvazione del Ttip potrebbe, anche in questo caso, spalancare le porte dell’Europa (Polonia, Francia e Danimarca sembrano essere le regioni con le più ricche di shale-gas) alle imprese americane del settore le quali potrebbero efficacemente sfruttare i vantaggi competitivi dati da una tecnologia che perfezionano in patria da più di dieci anni.
Non meno importanti sono le limitazioni che la Ue impone all’uso ed all’importazione degli Ogm e delle carni trattate con ormoni o sterilizzate tramite l’uso di cloro. Le barriere che secondo Max Baucus, attuale presidente della Commissione Finanze del Senato Americano, “..non sono in linea con le attuali posizioni della comunità scientifica internazionale..” sono quelle che sino ad oggi hanno parzialmente impedito che prodotti di questo tipo fossero diffusi sui campi o nei supermercati europei. Inoltre, una brusca eliminazione delle tradizionali barriere commerciali esporrebbe le imprese agricole europee alla concorrenza dell’agri-businness statunitense forte di una concentrazione di mercato imparagonabile a quella europea (2 milioni di imprese agricole negli Usa contro 13 milioni nella Ue).
Il Ttip potrebbe concretamente rappresentare il tentativo di reintrodurre ciò che è stato respinto dal Parlamento europeo nel 2012. Si tratta del Anti Counterfeiting Trade Agreement (Acta), un accordo in materia di proprietà intellettuale tentato senza successo tra Ue ed Usa. A spingere i parlamentari europei ad esprimersi contro l’Acta è stata la duplice implicazione che lo stesso avrebbe avuto, ovvero quella di limitare in modo rilevante il libero accesso alla conoscenza sul web e di dare un potere enorme nella gestione dei dati personali alle imprese del settore.
Una particolare attenzione andrebbe poi riposta sui rischi che gravano sul settore sanitario europeo che rischia di trasformarsi in terreno di conquista per le grandi imprese americane. Così come le norme ambientali europee ci hanno sin qui tutelato dagli Ogm e dalle carni trattate, il Reach (Regulation on Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals, entrato in vigore il 1° giugno 2007 con lo scopo di regolamentare il mercato dei prodotti chimici nella Ue) ha consentito ai cittadini di tutelarsi dall’invasione di prodotti farmaceutici che per le autorità europee sono potenzialmente nocivi per la salute umana e animale. Grazie al Ttip, nondimeno, nascerebbe la possibilità per le imprese, qualora volessero contestare una regolamentazione statale o comunitaria troppo stringente, di rivolgersi ad un organismo arbitrale terzo dotandosi così di un potente mezzo per il contrasto di politiche e leggi democraticamente adottate ma divergenti dalle loro strategie aziendali.
I rappresentanti della grande finanza stanno chiedendo agli estensori del Ttip di prevedere esplicitamente una “disciplina” per la regolamentazione della finanza da parte degli Stati (vedi qui). Ciò significherebbe in termini concreti una limitazione alla dimensione ed alla pervasività della regolamentazione finanziaria nei due blocchi. L’ambiguità di questo metodo di redazione del Trattato potrebbe essere foriera di una nuova diffusione di massa degli eredi di quegli strumenti finanziari protagonisti del crack della Lehman Brothers.
La breve sintesi fornita rispetto a quanto hanno in mente gli estensori del Ttip allarmerebbe chiunque non fosse un lobbista o un percettore di dividendi da parte di un impresa multinazionale. Per i cittadini europei la sfida è però duplice. Le urne francesi hanno segnalato il raggiungimento di un livello critico di sopportazione da parte dei cittadini per i metodi antidemocratici che guidano le decisioni delle istituzioni europee. Appare chiaro come un futuro diverso da quello che ha caratterizzato gli ultimi anni non possa che passare per una riforma radicale delle istituzioni e delle prospettive della Ue. Da questo punto di vista il Ttip appare un emblema ed una sintesi di quei “valori” che hanno condotto l’occidente, e l’Europa in particolare, nella situazione di crisi in cui ancora versa. Una discussione profonda, pubblica e democratica rispetto ai contenuti del Ttip non potrà non essere un punto fermo della campagna per le imminenti elezioni europee che si profilano come un crocevia fondamentale per il nostro futuro.

Crisi, anno settimo. Dove è finita la sinistra?

di Nicola Melloni

Davanti ad una crisi di portata storica, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi

 
L’inizio della crisi, nel 2007, era avvenuto in un contesto politico europeo dominato dalla destra. In Spagna e Regno Unito i governi progressisti furono velocemente rovesciati dall’elettorato, mentre in Germania e Francia i conservatori la facevano da padroni. In Grecia ed Italia, poi, l’emergenza economica portò all’emergenza politica con la creazione di governi tecnocratici. La risposta alla crisi, dunque, fu dominata da politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista e basate su rigore fiscale e centralità del mercato. Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile. Se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea, ed Unione Monetaria. Uno svuotamento cioè delle funzioni dei Parlamenti nazionali, o meglio, una prevalenza chiara di un certo tipo di scienza economica sulla democrazia – piegata ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte (dall’austerity).
Negli ultimi anni, però, il panorama politico è cambiato, con la vittoria di Hollande e poi con la formazione di un governo squisitamente politico come quello di Renzi. Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi. La sinistra, in effetti, aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterand già nel 1983, senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia. Eppure, quella sbornia neo-liberista denunciata da D’Alema qualche anno fa sembra lungi dall’essere passata. Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi. Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi.
In realtà nel mondo accademico un forte movimento di rigetto dell’austerity c’è stato, ma non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse.
Socialisti e conservatori non sono chiaramente totalmente assimilabili, ma le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica. Anzi, tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo.
In Francia, dove i socialisti sono andati in effetti al potere, questo trend è stato ancora più evidente: Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine. In un primo momento si è cercato di contrastare l’austerity alzando le tasse, salvo poi, negli ultimi mesi, rilanciare l’abbassamento delle stesse, e i tagli alla spesa pubblica. Giustificando il tutto con il (neo)classico “l’offerta crea la domanda”, l’articolo di fede dei neo-lib, che sancisce infine la perfetta comunanza tra conservatori e socialisti, con il pensiero unico economico che diventa pensiero unico politico – quello che in fondo era il leit motif del tutt’altro che morto Washington Consensus (i).
In Italia, ovviamente, la storia si è ripetuta. Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato fiscal compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso. D’altronde il responsabile economico del PD, Filippo Taddei, già in passato si era distinto per definire l’austerity un falso problema – le riforme e non la politica economica sono la risposta alla crisi. Questa vulgata è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi. La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria, e poi santificato a Berlino. Ed in visita nelle varie cancellerie dell’Europa, da Parigi a Londra, Renzi ha fatto il giro delle 7 chiese (e mercati) dichiarando di rifarsi ogni volta a modelli politici diversi ma che in comune hanno l’allergia a spesa pubblica e politiche anti-cicliche. Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore. A più riprese il Premier si è detto indignato per la disoccupazione galoppante, che dovrebbe essere risolta da una nuova contrattualistica, rimanendo dunque in un ottica che nega qualsiasi ruolo alla domanda – facilitiamo gli investimenti dando più libertà/meno costi agli imprenditori, e, come per magia, la disoccupazione calerà. Senza neanche entrare nel merito – o meglio, nei demeriti – del jobs act, la filosofia del supply side rimane assolutamente immutata.
In realtà una piccola concessione all’importanza della domanda c’è stata, con l’incremento promesso in busta paga per i redditi medio-bassi. Il Pd l’ha presentata come una rivoluzione copernicana, e Taddei è andato a tutti i talk show per spiegare che il Pd mette il lavoro al centro della politica e dell’economia. Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane guardiano dei conti in ordine, che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro. La piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato denunciata da Polanyi commentando la crisi del ‘29. A differenza di allora, però, il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi. Cancellando però, allo stesso tempo, qualsiasi ruolo politico significativo per la sinistra stessa.

i Basta qui ricordare le parole di Williamson – cui tuttora dobbiamo la definizione di Washington Consensus, secondo cui: “It would be ridiculous to argue that as a matter of principle every conceivable point of view should be represented by a mainstream political party. No one feels that political debate is constrained because no party insists that the Earth is flat…. The universal convergence [of economic policies] seems to me to be in some sense the economic equivalent of these (hopefully) no-longer-political issues.” (Williamson, J. (1993). "Democracy and the Washington Consensus." World Development 21(8), p. 1330)

martedì 8 aprile 2014

Merkel, Amato (lista Tsipras): onorati che ci consideri dei piantagrane!

    
Merkel, Amato (lista Tsipras): onorati che ci consideri dei piantagrane!

Pubblicato il 7 apr 2014 http://www2.rifondazione.it/primapagina/?p=11732

La Merkel annuncia che in visita ad Atene non incontrerà Alexis Tsipras e lo definisce un piantagrane. «Siamo onorati che la responsabile del disastroso corso delle politiche europee, del massacro sociale e della austerità che ha distrutto la Grecia e sta facendo pagare ai popoli la crisi, ci consideri piantagrane – ha dichiarato Fabio Amato -. A lei e agli amici di banche e speculazione vogliamo piantarne ancora molte, per cambiare un’Europa che fa solo gli interessi di Merkel &c. Proprio per questo abbiamo candidato alla presidenza della Commissione Europea Alexis Tsipras, contro quelli come la Merkel e i suoi alleati greci ed italiani, come Samaras, Schulz e Renzi, per cambiare davvero e costruire un’Europa sociale e del lavoro, invece di quella attuale della precarietà e della disoccupazione».

domenica 6 aprile 2014

"Modello Syriza per portare i movimenti in Europa".

Autore: fabio sebastiani
                    Intervista ad Antonio Mazzeo
Tsipras ha messo ben al centro della campagna elettorale la battaglia dei paesi del Sud Europa?
Di fronte agli scenari drammatici sia economici che geostrategici e militari che si stanno giocando nel Sud Europa bisogna comunque spendersi e metterci la faccia. Il Mediterraneo è l’estrema frontiera di un‘Europa-fortezza che ha deciso di utilizzare la sponda Nord come teatro di guerra, negando l’identità di un mare che da secoli rappresenta luogo di confronto e di mobilità libera. L’Europa ha fatto una scelta, quella di impedire l’accesso ai migranti e alle migrazioni. Utilizzano Spagna, Grecia e Italia come avamposti per impedire il flusso migratorio. Risultato, migliaia di persone da una parte sono alla fame e, dall’altra si sperperano le risorse nel Frontex e si attaccano in chiave colonialista le terre del Nord-Africa. Da una parte creano la crisi e, dall’altra, agiscono con la guerra, in varie forme sia asimmetrica che guerreggiata.
Come si risponde?
In una logica internazionalista di ricostruzione non soltanto di una sinistra antagonista ma anche una sinistra che mette insieme le aree sociali più importanti, quelle colpite dalla crisi e apre un confronto con i movimenti e le soggettività che si pongono il rifiuto del modello neoliberista. Nel nostro paese il rapporto tra sinistra antagonista e movimenti è arretrato. Rischiamo di perdere il treno con l’Europa perché l’altra Europa dei movimenti e della sinistra radicale continua nonostante le crisi a crescere come ha dimostrato anche il voto francese. Esiste il problema in Italia delle sconfitte e delle divisioni che bisogna superare. Bisogna interrogarsi di fronte agli scenari drammatici e fare tutti un passo indietro. Fare quello che è stato fatto in Grecia con Syriza come lo strumento cardine per impedire le politiche della Troika. Ma imparare quello che è stato fatto in America Latina dove si sono creati fronti ampli che di fatto stanno impedendo la colonizzazione degli Usa. Il trattato di libero commercio è stato fermato dalle organizzazioni sociali.
Il modello Syriza segue il filone di una “lotta contaminante”.
Ecco appunto, partiamo da un’altra esperienza come la lotta contro il Ponte sullo stretto. Una città difficile e un’area drammatica da un punto di vista sociale con il controllo di mafia e massoneria. Quella lotta ha permesso di costruire un movimento che è andato al di là delle organizzazioni sociali. Un risultato inimmaginabile, la vittoria come sindaco di Accorinti. Sei si costruiscono processi dal basso e ci si mette in discussione quelle che sono lotte territoriali diventano lotte di trasformazione e di rimpossessamento dei territori. Elementi che le logiche del governo Renzi mettono in discussione perché cancellano le autonomie locali e le forme di rappresentanza dal basso. La mia candidatura in linea con l’esperienza di “Messina dal basso” e con Accorinti. Oggi le lotte territoriali non sono solo contro i processi liberisti ma anche per riappropriarsi della democrazia.
La giornata di Tsipras a Palermo è stata caratterizzata dal grande entusiasmo e da una forte caratterizzazione politica che ha creato un filo diretto tra i poteri criminali in Italia e lo strapotere di certe cordate politico-burocratiche a Bruxelles.
Certo, nel caso di Bruxelles non parliamo di organizzazioni militari come la mafia e la ‘ndrangheta ma certamente di gruppi bancari criminogeni. Quello che mi ha piacevolmente sorpreso è l’aver battuto tantissimo da parte di Tsipras, sia durante la visita che nel suo intervento, sulle mafie. La scelta di Palermo è un esempio per tutta l’Europa proprio per il modello di lotta sociale antimafia. Tsipras ha riconosciuto una identità storica a Palermo e alla Sicilia. E l’incontro con Di Matteo e la scelta di andare all’albero Falcone lo testimoniano. Tra le vittime di mafia, poi, ha scelto Rosario Di Salvo e Pio La torre ovvero figure di comuniste presenti e attivi nelle lotte scoiali e nella lotta per la pace.
Qual è il tuo slogan come candidato in questa competizione elettorale europea?
Non mi voglio più vergognare di essere l’europeo che guarda da questa parte della rete i fratelli dei Cie o, sempre diviso da una rete, i cacciabombardieri e i droni che spargono distruzione a livello continentale.

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