Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 2 novembre 2013

Della Luna: morte lenta, la nostra fine decisa all’estero

-libreidee -

«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.
Si è tutto tragicamente avverato: lo dicono Pil, occupazione, flussi di capitale, investimenti, quote di mercato internazionale, qualità della scuola, prospettive per i giovani e per i pensionati. Una manovra che viene da lontano: blocco dei cambi, divieto di protezioni doganali, privatizzazione della gestione delle banche centrali, politiche di tagli e nuove tasse. «Queste mosse hanno prodotto e continuano a produrre esattamente i risultati opposti a quelli promessi e per cui erano stati imposti», scrive Della Luna nel suo blog. Ed è un declino “irreversibile”: «Il che dimostra che il vero fine per cui sono stati concepiti e imposti è molto diverso da quello dichiarato, probabilmente opposto, ossia di creare disperazione, paura, miseria, distruzione, la fine delle democrazie parlamentari, della responsabilità dei governanti verso i governati, della possibilità di un’opposizione e persino di un dissenso culturale, scientifico, giuridico».
Lo stesso Fmi ha riconosciuto che, su 167 paesi colpiti da misure di “risanamento” e rigore, nessuno si è risanato né rilanciato, ma tutti sono peggiorati, soprattutto in quanto a Pil e debito pubblico. «I paesi che crescono sono quelli che non applicano questa ricetta e che mantengono il dominio della loro propria moneta: i Brics. La Russia ha superato l’Italia in fatto di Pil e ora l’Italia è nona, fuori dal G8». Già lo si era visto col primo aumento dell’Iva, quello di Monti, aumentata dal 20 al 21%: consumi scoraggiati, crollo della domanda, ulteriore recessione. Con Letta, obbligato a non sforare il tetto europeo del 3% per il deficit, l’Iva è al 22%. Risultato? Scontato: depressione. Che poi, per Della Luna, è esattamente l’obiettivo voluto, come già per Monti. Tutto a va a rotoli? Non è certo un caso: «I vent’anni di stagnazione, declino, delocalizzazioni ed emigrazioni, senza capacità di recupero, di questo paese, nonostante i diversi cambi di maggioranze parlamentari e di inquilini del Quirinale, sono un aspetto di questo processo di lungo termine. Vent’anni inaugurati dal Britannia Party e da Mani Pulite».
A questo, continua Della Luna, sono serviti l’architettura dell’Ue, del mercato comune, dei parametri di convergenza, e soprattutto di quel sistema di blocco dei naturali aggiustamenti dei cambi monetari noto come “euro”. «A questo piano hanno lavorato molti governi e gli ultimi capi dello Stato: ne ho parlato ampiamente nei miei ultimi tre saggi, “Cimit€uro”, “Traditori al governo”, e “I signori della catastrofe”», pubblicati da Arianna-Macro Edizioni. E chi ha collaborato al piano di liquidazione dell’Italia «non ha mai avuto problemi giudiziari e, se ne aveva, gli sono stati risolti». Grande svendita del paese, a bordo del famoso panfilo inglese. Fine dell’Italia, altro che Ruby o diritti Mediaset. L’attuale governante Letta? Un continuatore: la sua finanziaria 2014 è pura «policy del dissanguamento lento e pacifico in favore dei paesi e dei capitali dominanti», e si basa sui due pilastri della politica italiana degli ultimi decenni: mantenere l’Italia sottomessa alla super-casta mondiale dell’élite finanziaria e, necessariamente, continuare a foraggiare la mini-casta nazionale incaricata di portare a termine la missione, agli ordini dell’euro-regime.
«Una sorta di patto: tu, casta italiana, aiutaci a estrarre tutto quello che c’è di buono per noi in Italia, e ad annientare la capacità italiana di competere con noi sui mercati; in cambio, noi ti lasceremo continuare a mangiare come sei abituata sulle spalle della cosa pubblica, dei lavoratori, dei risparmiatori – ma non troppo voracemente, altrimenti il paese collassa o insorge, vanificando l’esecuzione del piano». Naturalmente l’operazione «deve apparire all’opinione pubblica come perfettamente legittima e democratica», meglio quindi se al governo ci sono larghe intese. Parliamoci chiaro: «Che cosa può mai fare, per rilanciare un paese, un governo che non può permettersi, nemmeno per fronteggiare una tragedia nazionale, di ridurre gli sprechi e le mangerie di una partitocrazia-burocrazia ladra e incapace quanto trasversale?». E’ una casta incompetente ma «selezionata, da decenni, solo per intercettare le risorse pubbliche». Non ci saranno svolte, ma solo promesse.
Poi, continua Della Luna, l’Italia è invecchiata, tecnologicamente arretrata, sorpassata per le infrastrutture e in più sovra-indebitata, vessata da maxi-interessi. E infine devastata dalla disoccupazione. Il paese vacilla: «Non vi sono abbastanza giovani lavoratori per pagare le pensioni e le cure dei vecchi». Succede tutto questo perché l’Italia «è sottomessa a potenze straniere che la condizionano e la limitano». Lo profetizzò quarant’anni fa l’economista Nikolas Kaldor: bloccando i cambi e introducendo l’unione monetaria europea, sarebbe ulteriormente aumentato il vantaggio competitivo dei più forti, che avrebbero assorbito industrie, capitali e lavoratori dai paesi più fragili. Vent’anni fa ribadivano questa previsione economisti come Paul Krugman e Wynne Godley. Quindi, «tutti quelli che hanno architettato l’euro sapevano benissimo su che scogli era diretta la nave: il loro scopo era appunto quello di farla naufragare».
Le previsioni continuano ad avverarsi in modo sempre più violento da almeno sette anni, ma non è stato introdotto alcun correttivo; al contrario, sono state inasprite le misure di squilibrio e sopraffazione. E chi ha osato anche solo accennare a un referendum sull’euro – Berlusconi, Papandreou – è stato «sostituito dalla Merkel», che ha imposto governi compiacenti (Monti, Letta) patrocinati dal Quirinale. Mentre in Gran Bretagna si fa largo l’Ukip di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen, due formazioni fieramente all’opposizione di Bruxelles, «l’Italia si trova nella condizione di protettorato», quasi fosse tornata alla debolezza strutturale pre-unitaria, di entità politica «messa insieme artificialmente, per volontà straniera, mediante conquiste militari». Napolitano? «Si conferma un realista e un saggio disincantato». Inutile opporsi allo strapotere di forze soverchianti: «Poiché gli italiani sono in questa condizione, bisogna farli obbedire e agire anche contro il loro interesse, onde risparmiare loro un male peggiore». La consapevolezza? «Renderebbe la gente solo più infelice e inquieta» e anche «più esposta alle violenze repressive» se osasse ribellarsi. Come dice Obama, fiduciario del Washington Consensus e dei suoi super-banchieri, quella dell’Italia è proprio la “right way”.
«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.
Letta e ObamaSi è tutto tragicamente avverato: lo dicono Pil, occupazione, flussi di capitale, investimenti, quote di mercato internazionale, qualità della scuola, prospettive per i giovani e per i pensionati. Una manovra che viene da lontano: blocco dei cambi, divieto di protezioni doganali, privatizzazione della gestione delle banche centrali, politiche di tagli e nuove tasse. «Queste mosse hanno prodotto e continuano a produrre esattamente i risultati opposti a quelli promessi e per cui erano stati imposti», scrive Della Luna nel suo blog. Ed è un declino “irreversibile”: «Il che dimostra che il vero fine per cui sono stati concepiti e imposti è molto diverso da quello dichiarato, probabilmente opposto, ossia di creare disperazione, paura, miseria, distruzione, la fine delle democrazie parlamentari, della responsabilità dei governanti verso i governati, della possibilità di un’opposizione e persino di un dissenso culturale, scientifico, giuridico».
Lo stesso Fmi ha riconosciuto che, su 167 paesi colpiti da misure di “risanamento” e rigore, nessuno si è risanato né rilanciato, ma tutti sono peggiorati, soprattutto in quanto a Pil e debito pubblico. «I paesi che crescono sono quelli che non applicano questa ricetta e che mantengono il dominio della loro propria moneta: i Brics. La Russia ha superato l’Italia in fatto di Pil e ora l’Italia è nona, fuori dal G8». Già lo si era visto col primo aumento dell’Iva, quello di Monti, aumentata dal 20 al 21%: consumi scoraggiati, crollo della domanda, ulteriore recessione. Con Letta, obbligato a non sforare il tetto europeo del 3% per il deficit, l’Iva è al 22%. Risultato? Scontato: depressione. Che poi, per Della Luna, è esattamente l’obiettivo voluto, come già per Monti. Tutto a va a rotoli? Non è certo un caso: «I vent’anni di stagnazione, declino, delocalizzazioni ed emigrazioni, senza capacità di recupero, di questo paese, nonostante i diversi cambi di maggioranze parlamentari e di inquilini del Quirinale, sono un aspetto di Draghi e Montiquesto processo di lungo termine. Vent’anni inaugurati dal Britannia Party e da Mani Pulite».
A questo, continua Della Luna, sono serviti l’architettura dell’Ue, del mercato comune, dei parametri di convergenza, e soprattutto di quel sistema di blocco dei naturali aggiustamenti dei cambi monetari noto come “euro”. «A questo piano hanno lavorato molti governi e gli ultimi capi dello Stato: ne ho parlato ampiamente nei miei ultimi tre saggi, “Cimit€uro”, “Traditori al governo”, e “I signori della catastrofe”», pubblicati da Arianna-Macro Edizioni. E chi ha collaborato al piano di liquidazione dell’Italia «non ha mai avuto problemi giudiziari e, se ne aveva, gli sono stati risolti». Grande svendita del paese, a bordo del famoso panfilo inglese. Fine dell’Italia, altro che Ruby o diritti Mediaset. L’attuale governante Letta? Un continuatore: la sua finanziaria 2014 è pura «policy del dissanguamento lento e pacifico in favore dei paesi e dei capitali dominanti», e si basa sui due pilastri della politica italiana degli ultimi decenni: mantenere l’Italia sottomessa alla super-casta mondiale dell’élite finanziaria e, necessariamente, continuare a foraggiare la mini-casta nazionale incaricata di portare a termine la missione, agli ordini dell’euro-regime.
«Una sorta di patto: tu, casta italiana, aiutaci a estrarre tutto quello che c’è di buono per noi in Italia, e ad annientare la capacità italiana di competere con noi sui mercati; in cambio, noi ti lasceremo continuare a mangiare come sei abituata sulle spalle della cosa pubblica, dei lavoratori, dei risparmiatori – ma non troppo voracemente, altrimenti il paese collassa o insorge, vanificando l’esecuzione del piano». Naturalmente l’operazione «deve apparire all’opinione pubblica come perfettamente legittima e democratica», meglio quindi se al governo ci sono larghe intese. Parliamoci chiaro: «Che cosa può mai fare, per rilanciare un paese, un governo che non può permettersi, nemmeno per fronteggiare una tragedia nazionale, di ridurre gli sprechi e le mangerie di una partitocrazia-burocrazia ladra e incapace quanto trasversale?». E’ una casta incompetente ma «selezionata, da decenni, solo Nikolas Kaldorper intercettare le risorse pubbliche». Non ci saranno svolte, ma solo promesse.
Poi, continua Della Luna, l’Italia è invecchiata, tecnologicamente arretrata, sorpassata per le infrastrutture e in più sovra-indebitata, vessata da maxi-interessi. E infine devastata dalla disoccupazione. Il paese vacilla: «Non vi sono abbastanza giovani lavoratori per pagare le pensioni e le cure dei vecchi». Succede tutto questo perché l’Italia «è sottomessa a potenze straniere che la condizionano e la limitano». Lo profetizzò quarant’anni fa l’economista Nikolas Kaldor: bloccando i cambi e introducendo l’unione monetaria europea, sarebbe ulteriormente aumentato il vantaggio competitivo dei più forti, che avrebbero assorbito industrie, capitali e lavoratori dai paesi più fragili. Vent’anni fa ribadivano questa previsione economisti come Paul Krugman e Wynne Godley. Quindi, «tutti Napolitanoquelli che hanno architettato l’euro sapevano benissimo su che scogli era diretta la nave: il loro scopo era appunto quello di farla naufragare».
Le previsioni continuano ad avverarsi in modo sempre più violento da almeno sette anni, ma non è stato introdotto alcun correttivo; al contrario, sono state inasprite le misure di squilibrio e sopraffazione. E chi ha osato anche solo accennare a un referendum sull’euro – Berlusconi, Papandreou – è stato «sostituito dalla Merkel», che ha imposto governi compiacenti (Monti, Letta) patrocinati dal Quirinale. Mentre in Gran Bretagna si fa largo l’Ukip di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen, due formazioni fieramente all’opposizione di Bruxelles, «l’Italia si trova nella condizione di protettorato», quasi fosse tornata alla debolezza strutturale pre-unitaria, di entità politica «messa insieme artificialmente, per volontà straniera, mediante conquiste militari». Napolitano? «Si conferma un realista e un saggio disincantato». Inutile opporsi allo strapotere di forze soverchianti: «Poiché gli italiani sono in questa condizione, bisogna farli obbedire e agire anche contro il loro interesse, onde risparmiare loro un male peggiore». La consapevolezza? «Renderebbe la gente solo più infelice e inquieta» e anche «più esposta alle violenze repressive» se osasse ribellarsi. Come dice Obama, fiduciario del Washington Consensus e dei suoi super-banchieri, quella dell’Italia è proprio la “right way”.

venerdì 1 novembre 2013

– Il Pd lancia la sua piattaforma, può votare anche il boia di Riga

ALESSANDRO ROBECCHI
arobecchiLa tecnologia fa passi da gigante, chi si ferma è perduto, chi non riesce a stare al passo con l’innovazione rischia di soccombere. Per questo tutti i maggiori partiti stanno mettendo a punto i loro nuovi Sistemi Operativi. Eccoli nel dettaglio.
Movimento 5 Stelle. Il nuovo Sistema Operativo prevede che un elettore possa dire la sua sulle proposte di legge dei parlamentari. Dire mi piace, non mi piace, proporre modifiche, segnalare errori. Alla fine di questo lungo iter, il parlamentare presenta la proposta di legge come pare a lui. Si chiama democrazia liquida, nel senso che c’è chi se la beve. Si tratta di un sistema chiuso: possono intervenire solo quelli iscritti fino a una certa data, che hanno mandato documento, numero di scarpe, nome della suocera e una foto delle vacanze. La piattaforma è molto intuitiva, nel senso che si intuisce che alla fine si farà quello che piace a Beppe Grillo. La partecipazione è gratuita, a legge approvata, a seconda del proprio contributo, si riceverà una spilletta con la scritta “Casaleggio ha ragione”.
Partito Democratico. Nel caso del Pd, invece, il Sistema Operativo è apertissimo, open source, come si dice, cioè aperto ai contributi di tutti. Alle primarie per scegliere il segretario voteranno gratis gli iscritti e pagando due euro tutti gli altri, compresi il Boia di Riga, Renato Brunetta, la Pascale, Briatore e Homer Simpson. E’ un po’ come se nel vostro condominio l’amministratore potesse essere votato dagli inquilini del palazzo di fronte, che potrebbero decidere di abbattere casa vostra. Principale beneficiario del nuovo sistema operativo Pd sarebbe un egocentrico giovane fiorentino, che ama circondarsi di simboli anni ’50 e ’60 e fare discorsi economici anni ’80. Se installato, il nuovo Sistema Operativo promette di dare 100 euro a ogni utente, proprio come i siti di scommesse che ti regalano qualche spicciolo per farti giocare di più e spellarti con comodo. Il Sistema Operativo entrerà in funzione a pieno regime l’8 dicembre, data in cui comincerà a intaccare il Sistema Operativo del governo Letta.

Popolo delle Libertà. Qui l’aggiornamento del Sistema Operativo è addirittura radicale, a partire dal nome (si chiamerà Forza Italia, un ritorno ai vecchi Commodore). Si abbandonano i collegamenti senza fili e si ripristinano comandi più tradizionali, come il guinzaglio, per periferiche come Angelino Alfano. Il sistema ha qualche problema, per esempio contiene ancora qualche virus, tipo il temibile Formigoni, il tribunale di Napoli e la legge Severino, in grado di creare conflitti interni e compromettere il funzionamento complessivo della macchina, e che l’antivirus Verdini non è ancora riuscito a debellare. E’ un Sistema Operativo molto chiuso, che dopo il voto sulla decadenza del microprocessore sarà chiusissimo, oppure dedicato ai servizi sociali. Sul salvaschermo c’è un cagnolino. Tutto è gestito da un piccolo microprocessore e, a partire dall’8 dicembre, da sua figlia che il reparto Ricerca & Sviluppo sta testando in un luogo segreto.

Scelta Civica. Qui c’è molto da lavorare. Il vecchio Sistema Operativo, il Monti 1.0, è andato in crash a causa del conflitto con il Casini 2.1 Paracul Edition. Per ora il sistema è in stand-by e sullo schermo compare la scritta “Attendere prego. Alcune periferiche preferirebbero il Sistema Operativo di Forza Italia, del quale potrebbero persino evitare la decadenza nella speranza di prendere il posto del piccolo microprocessore, se sua figlia si ostina a non farsi installare.
Alessandro Robecchi
(31 ottobre 2013)

giovedì 31 ottobre 2013

Pavlos Fyssas, i retroscena di un omicidio politico

   

"Pavlos vive, distruggi i fascisti". Atene, 25 settembre 2013
L’assassinio di un antifascista commesso da uno dei suoi membri il 17 settembre ha gettato luce sul partito neonazista Alba dorata e sui suoi legami col potere politico ed economico. Estratti.
Sul buffet in salotto le foto formano una sorta di piccolo altare in memoria del figlio perduto: Pavlos al matrimonio della sorella, Pavlos in concerto, Pavlos adolescente. Era un bel ragazzo, con enormi occhi neri e un bel sorriso. “Più di ogni altra cosa era un ragazzo di buon cuore. Tutti gli si affezionavano subito”, sussurra sua madre Magda, come ipnotizzata da quelle immagini di giorni felici. Dietro di lei il padre di Pavlos, Panatiotis, resta chiuso nel suo dolore.
Due pugnalate dritte al cuore hanno fatto di loro figlio un simbolo: quello della deriva criminale del partito di estrema destra Alba dorata, entrato per la prima volta nel parlamento greco nel 2012. Pavlos Fyssas, rapper di 34 anni, avrebbe preferito diventare celebre per le sue canzoni. Invece è comparso in prima pagina sui giornali come un martire, pugnalato nella notte tra il 17 e il 18 settembre da militanti di Alba dorata, una formazione dichiaratamente neonazista. La morte del giovane, avvenuta di sera, in un periferia popolare, al termine di una partita di calcio, scatenerà un terremoto politico e si trasformerà in una questione di stato. Per la prima volta dal ritorno della democrazia nel 1974, infatti, lo stato maggiore di un partito rappresentato in parlamento si troverà esposto a gravissime accuse penali.
Dopo il delitto molti hanno sottolineato l’importanza di questa “morte di troppo” che sarebbe riuscita a scuotere una volta per tutte l’opinione pubblica e le autorità. Perché contrariamente a tutte le precedenti vittime di Alba dorata, quasi esclusivamente immigrati, Fyssas era greco. Come ha potuto Alba dorata, un partito che si considera accanitamente nazionalista e riservato “ai soli greci per nascita”, varcare questa soglia e assassinare un greco nel bel mezzo della strada? Chi ha veramente guidato la mano dell’assassino, un camionista di 45 anni, padre di due figli, dall’aspetto alquanto ordinario, che aveva soltanto da rimetterci facendosi coinvolgere da un delitto?
In realtà c’è mancato veramente poco che nessuno facesse caso all’omicidio di Pavlos e che il suo assassinio restasse un episodio locale, subito archiviato senza conseguenze. Tutto si deve ai riflessi di un poliziotto. Quel 17 settembre Pavlos incontra la sua ragazza Chryssa e altri amici per andare a vedere la partita tra l’Olympiakos e il Paris Saint-Germain. Come tutti gli altri ragazzi del Pireo, Pavlos è un tifoso dell’Olympiakos, pronto a urlanre se un fallo passa inosservato.
“Sono arrivati poco prima dell’inizio della partita. Lo ricordo bene perché conoscevo Pavlos di vista, anche se non sapevo che era un rapper. Per me era soltanto uno dei giovani del quartiere”, racconta il proprietario del Coralie Café, il bar di Keratsini sulla cui terrazza coperta c’è un grande schermo piatto per gli avventori. “Durante la partita non ho notato nulla di strano. Pavlos ha bevuto qualche birra insieme agli amici, l’atmosfera era alquanto accesa, come ogni volta che gioca l’Olympiakos. Ma non ci sono stati eccessi”. Afferma di non essersi accorto di due o tre individui (le versioni sul numero divergono) che, secondo alcuni testimoni, si sarebbero scambiati sms mentre tenevano d’occhio Pavlos durante la partita. “Soltanto alla fine della partita, quando tutti sono usciti dal bar, mi sono accorto anche io di quella banda, sbucata fuori da chissà dove, che si era radunata sul marciapiede davanti”, aggiunge il proprietario del bar.
Una ventina di uomini infervorati comincia ad apostrofare il rapper e i suoi amici che indugiano in strada. Ben presto il tono cambia. Tre uomini si staccano dal gruppo e si avvicinano a Pavlos, lo spintonano. Rimasta indietro, Chryssa, la sua ragazza, osserva tutto e lancia l’allarme, cerca di avvisare un gruppo di poliziotti che stranamente sta seguendo la scena a distanza, senza intervenire. Tutto inutile. Lei li supplica di fare qualcosa, quando all’improvviso arriva un’automobile a manetta e si ferma proprio davanti all’assembramento. Dalla macchina scende un tipo, afferra Pavlos come se volesse abbracciarlo e lo pugnala due volte al cuore.
Rompendo l’inerzia dei suoi colleghi, un poliziotto tira fuori la pistola e la punta sull’assassino
Prima di crollare a terra, il giovane fa appena in tempo a indicare il suo assassino ai poliziotti che finalmente si sono avvicinati. In quel preciso istante, rompendo l’inerzia dei suoi colleghi, un poliziotto tira fuori la pistola e la punta sull’assassino, che sembra così sicuro della propria impunità da attardarsi in macchina dopo aver gettato il coltello nel canaletto di scolo. “Senza quel coraggioso poliziotto che ha arrestato l’assassino saremmo ancora qui a fare congetture di ogni tipo sulle cause di un omicidio mai rivendicato. Alcuni continuerebbero ad affermare che si è trattato semplicemente di una rissa finita male al termine di una partita di calcio”, sottolinea il celebre giornalista Pavlos Tsimas di Mega TV, la più importante emittente televisiva privata.

Lavoro sporco

In un primo tempo, del resto, è proprio questa la versione che si diffonde: si è trattato solo di un acceso diverbio degenerato tra giovani tifosi di calcio di periferia. Ma la giustizia scopre molto presto che Georges Roupakias, l’assassino arrestato, è iscritto ad Alba dorata. Controllando il suo cellulare si scopre anche che poco prima di commettere l’omicidio e subito dopo ha telefonato a parecchi responsabili del partito. Iscritto da appena un anno, era pagato dal partito e appariva spesso nelle fotografie scattate in occasione di assembramenti organizzati da neonazisti, malgrado le smentite dei dirigenti di Alba dorata che in un primo tempo hanno affermato di non conoscerlo. Anche questi ultimi saranno presto interrogati, grazie ai dossier conservati dai servizi segreti greci che da tempo intercettavano le loro telefonate.
Di notte Alba dorata organizza dei pogrom, di giorno il governo incoraggia le retate e l’arresto dei migranti
C’è dunque di che essere soddisfatti. Ma alcuni commentatori hanno espresso i loro dubbi: se la polizia aveva da tempo elementi per inchiodarli, perché non è intervenuta prima? “Alba dorata gioca un ruolo comodo per molti. Questo partito è diventato popolare dichiarandosi contro il sistema, in opposizione alla classe politica tradizionale che tutto il paese detesta. Ma queste sono soltanto apparenze. In parlamento Alba dorata ha sempre votato come il governo: per i licenziamenti, le privatizzazioni, i tagli salariali. Lo stesso vale per le aggressioni commesse ai danni degli stranieri, che permettevano anche di giustificare o minimizzare l’impatto delle politiche anti-immigratorie. Di notte Alba dorata organizza dei pogrom, di giorno il governo incoraggia le retate e l’arresto dei migranti in campi dalle condizioni di vita disumane”, spiega Dimitri Zotas, avvocato di molti immigrati vittime del partito neonazista.
“Il problema è che Alba dorata ha finito per sfuggire di mano ai suoi ideatori. Forti della loro popolarità in aumento – quasi al 15 per cento alla vigilia dell’omicidio di Pavlos – mai realmente preoccupati per le loro aggressioni contro gli immigrati, i neonazisti si sono sentiti invulnerabili. Hanno creduto di potersi spingere ancora oltre. Forse troppo”.
Traduzione di Anna Bissanti

Il colpo di Stato di banche e governi

I governi europei hanno risposto alla crisi in due modi: camuffandone le cause (attribuite all'eccessivo debito degli Stati anziché ad un sistema bancario fuori controllo) e imboccando la strada dell’autoritarismo emergenziale. Ma qual era il loro obiettivo? Lo spiega l'ultimo libro di Luciano Gallino “Il colpo di stato di banche e governi” (Einaudi), un appassionano grido d'allarme contro l'"attacco alla democrazia" in corso in Europa. Per gentile concessione dell'editore ne anticipiamo un estratto.

di Luciano Gallino
Dal 2010 in poi, e intervenuto nei Paesi dell’Unione europea un paradosso: i milioni di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è una catena che comprende diversi anelli. (...)

Se ci si chiede come una simile paradossale concatenazione di decisioni e di eventi sia stata possibile, vien fatto di pensare sulle prime a una colossale serie di errori commessa dai governi Ue. In effetti bisogna essere piuttosto ottusi in tema di politiche economiche per credere di poter rimediare alla crisi ponendo in essere, nel pieno corso di questa, robusti interventi dagli effetti recessivi affatto certi. Ciò nonostante, sebbene l’ottusità economica di parecchi governanti Ue sia fuor di dubbio, sarebbe far torto ai loro stuoli di consiglieri e funzionari supporre che non siano riusciti a far comprendere a ministri e presidenti del Consiglio e capi di Stato che l’austerità, nella situazione data, era una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico.

In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che e stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non e certo quello di risanare l’economia. E piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto in corso da oltre trent’anni. Essa e stata messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull’espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2007.

I cittadini della Ue, al pari di quelli Usa, hanno già sopportato pesanti oneri prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti, in seguito per le conseguenze dirette della crisi. I loro governi debbono aver pensato che difficilmente avrebbero sopportato senza opposizione alcuna altri costi sociali e personali, sotto forma di smantellamento dei sistemi di protezione sociale e di peggioramento delle condizioni di lavoro di cui hanno goduto per almeno due generazioni. Però questo è l’ultimo territorio da conquistare per poter proseguire nel drenaggio delle risorse dal basso in alto. Esso è formato dalle migliaia di miliardi spesi ogni anno per i suddetti sistemi – gran parte dei quali, a cominciare dalle pensioni, rappresenta salario differito, non elargizioni da parte dello Stato.

I governi Ue hanno quindi posto in opera, al fine di ottenere che la classe da essi rappresentata possa proseguire senza troppi ostacoli la distribuzione dal basso in alto, due strategie che si sono rivelate negli anni post-2010 assai efficaci.
La prima è consistita, come ricordato sopra, nel camuffare la crisi come se questa volta non avesse origini nel sistema bancario, bensì fosse dovuta al debito eccessivo degli Stati, provocato a loro dire dall’eccessiva spesa sociale. In secondo luogo, nella previsione che tale schema interpretativo non fosse sufficiente per tenere mogi i cittadini, hanno imboccato la strada dell’autoritarismo emergenziale. Cosi come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all’emergenza denominata "debito eccessivo dei bilanci pubblici" le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri. Ai suoi lavori collaborano la Commissione europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e la Bce. Inoltre godono dell’apporto esterno del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le misure da prendere sono poi messe a punto dalla Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi e inviate ai rispettivi Parlamenti per l’approvazione.

Cosi è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia; il pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato sociale – chiamato Euro Plus; il cosiddetto "patto fiscale" ovvero Trattato sulla stabilita ecc.; la creazione del Meccanismo europeo di stabilità. Essendo l’approvazione "chiesta dall’Europa", i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza. Sono i governi a comandare.

Mediante codesto processo che è guidato a livello Ue da poche dozzine di persone, la democrazia nell’Unione appare in corso di rapido svuotamento. Persino il Trattato della Ue, nel quale il concreto esercizio della democrazia riceve assai meno attenzione del libero mercato e della concorrenza, appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika.

Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide e presentato come alternativlos, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell’euro, dei bilanci sovrani, dell’intera economia europea.
Posti dinanzi a simili minacce, che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente, i cittadini degli Stati cardine della Ue hanno finora subito si può dire a capo chino gli interventi dell’autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles, sebbene esso stia assumendo sempre più il profilo di un colpo di Stato a rate.

(31 ottobre 2013)

 


mercoledì 30 ottobre 2013

Letta e la fine del Ventennio

Scritto da Diego Fusaro - sinistrainrete -

“Si è chiuso un ventennio”: è quanto sostenuto dal premier Enrico Letta non molti giorni addietro, durante l’intervista di Maria Latella su Skytg24. Purtroppo Letta si sbaglia: e si sbaglia perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento. Più precisamente, portatrici della stessa visione ultracapitalistica del mondo, destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici (dal Fondo monetario Internazionale alla Banca Europea), che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare. Nella forma della pura gestione dell’esistente, la politica e la democrazia non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato.
Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Quello di Silvio Berlusconi come uomo politico? Può darsi. Non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta, ossia il tragicomico serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD, che dalla lotta per l’emancipazione di tutti è oggi passato armi e bagagli a difendere le ragioni del capitale finanziario globalizzato.
La cultura della sinistra è da tempo il luogo di riproduzione simbolica del capitale: nichilismo, relativistico, distruzione dei retaggi borghesi, difesa dei diritti civili per rimuovere la difesa di quelli civili, ecc. Da Carlo Marx alla signora Dandini, da Antonio Gramsci a Massimo D’Alema: la parabola sta tutta qui. Farebbe ridere se non facesse piangere: è, come già più volte ho ricordato su queste pagine, una tragedia politica e sociale di tipo epocale.
Nella sua vera essenza di protesi di manipolazione simbolica del consenso e di addomesticamento organizzato del dissenso, la dicotomia tra destra e sinistra occulta oggi – con buona pace di Letta – il totalitarismo del mercato, che le forze inerziali della simulazione tra le due fazioni non nominano nemmeno più, metabolizzandolo come dato naturale-eterno. La sopravvivenza virtuale della dicotomia nell’epoca dell’identità in atto di destra e sinistra ricopre, in sede politica, la stessa funzione che, nell’ambito dei mass media, è svolta dalla simulazione mediatica: quest’ultima – Debord docet– crea una realtà virtuale che non solo non intrattiene alcun rapporto con la “realtà reale”, ma che, di più, la occulta e la rende programmaticamente invisibile.
Si è liberi di scegliere tra gruppi, schieramenti, partiti e fazioni che hanno preventivamente aderito al dogma della “gabbia d’acciaio” (Max Weber), ossia alla supina adesione all’integralismo economico presentato come destino intrascendibile e alternativloss, “senza alternative” (la formula preferita da Angela Merkel): la scelta è libera e, insieme, fittizia, poiché, quale che sia, si risolve nella vittoria dello stesso, frammentato in molteplicità organizzata.
Oggi il monoteismo del mercato risulta letteralmente invisibile nel proliferare ipertrofico delle dicotomie ingannatorie; di più, può agevolmente contrabbandarsi come pur sempre preferibile rispetto agli estremismi che hanno popolato un secolo breve, ma più di ogni altro denso di tragedie. Essere antifascisti in assenza completa del fascismo o anticomunisti a vent’anni dall’estinzione del comunismo storico novecentesco costituisce un alibi per non essere anticapitalisti, facendo slittare la passione della critica dalla contraddizione reale a quella irreale perché non più sussistente.
Forse che l’adesione cadaverica al nomos dell’economia e all’ordine neoliberale non si ritrova, in forma uguale, a destra come a sinistra? Letta e Berlusconi si rivelano, in ciò, a egual titolo “maschere di carattere” – come avrebbe detto Marx – della produzione capitalistica.
Può darsi che sia finito il ventennio di Berlusconi, ma il suo spirito continua a vivere negli “eroi” del centro-sinistra, che di Berlusconi sono da anni i più preziosi alleati. La differenza tra i sinistri e i destri – nell’epoca dell’identità in atto di destra e sinistra – sta solo nel fatto che i primi fanno finta di non essere berlusconiani, disapprovando sempre e solo gli aspetti folkloristici del Cavaliere (Arcore, Olgettina, Ruby, ecc.), ma condividendo in toto l’idea perversa della politica come continuazione dell’economia con altri mezzi e il disinteresse totale e conclamato per la questione sociale e per i diritti degli esclusi dal sistema. Se la sinistra smette di interessarsi a questi temi, occorre allora smettere di interessarsi alla sinistra.

Riflessioni sulla ricostruzione di un partito comunista unito e adeguato

di Domenico Moro* - sinistrainrete -

Riceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione sulle prospettive dei comunisti in Italia

Una fase storica nuova e la fine del “Patto sociale” postbellico

Ricostruire il partito comunista, oggi, richiede il superamento della frammentazione organizzativa e dell’inadeguatezza tattica e, prima ancora, strategica dei comunisti. Infatti, unità ed adeguatezza ai compiti della fase storica sono inestricabilmente legati. Per questa ragione, per prima cosa, vanno chiarite, seppure schematicamente, le caratteristiche e gli aspetti di discontinuità della fase in cui siamo entrati rispetto a quella che l’ha preceduta. Ciò comporta anche il delicato compito di fare i conti con la storia del comunismo novecentesco.

La fase storica in cui siamo inseriti è il risultato di diversi fenomeni legati tra di loro, maturati nei decenni precedenti. La fine della Seconda guerra mondiale e la vittoria sul fascismo videro il fronte socialista internazionale e il movimento operaio europeo occidentale attestarsi su rapporti di forza avanzati, che si concretizzavano nelle Costituzioni antifasciste e nel “patto sociale” tra le classi. Su tali basi, si svolse una fase trentennale di lotte sia nei Paesi cosiddetti “avanzati” che nei Paesi periferici, che portò l’imperialismo, a partite dalla potenza-guida statunitense, ad una crisi di egemonia, aprendo la strada alla possibilità di un superamento del capitalismo. Il punto di più alto di queste lotte si ebbe tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70, quando i movimenti antimperialisti ed il movimento operaio dei Paesi centrali, anche grazie al contesto di boom economico seguito alla ricostruzione post bellica, segnarono importanti successi, mentre l’Urss e il fronte dei Paesi socialisti sembrarono consolidare le loro posizioni. Nello stesso tempo, però, stavano maturando quelle trasformazioni nel modo di produzione capitalistico che ne hanno modificato la forma e le cui conseguenze, non essendo state ben comprese, hanno spiazzato il fronte internazionale socialista e dei lavoratori. Tra queste modifiche sono da annoverare, in primo luogo, l’aumento della esportazione dei capitali e la formazione di un mercato finanziario mondiale, che, uniti all’aumentata interconnessione e interdipendenza tra i vari capitali, ha dato avvio alla fase multinazionale e poi transnazionale del capitale. Queste trasformazioni, sempre a metà degli anni ’70, si sono incrociate con il ripresentarsi nei Paesi del centro imperialista della sovrapproduzione assoluta di capitale, rideterminando la conseguente tendenza alla caduta del saggio di profitto e le crisi generali.

A fronte della sua crisi economica e di egemonia, l’imperialismo Usa ed occidentale ideò, a metà degli anni ’70, una strategia di contro-attacco tesa a scaricare la crisi sulla classe operaia e a rinsaldare i rapporti di dominio nella periferia. Questa strategia era fondata su alcuni punti: contrasto alle rivendicazioni salariali e di welfare, privatizzazioni e liberalizzazioni, modificazioni istituzionali secondo il principio della “governabilità”, ovvero della subalternità dei parlamenti all’esecutivo e quindi alle esigenze dell’accumulazione capitalistica. In pratica, il modello classico del compromesso o patto sociale socialdemocratico e keynesiano, basato sulla spesa pubblica e sul welfare, doveva essere sostituito da un modello diverso, etichettato come neoliberista, e che in realtà non era altro che la riproposizione del capitalismo senza vincoli e quindi del mercato autoregolato come soluzione al calo dei profitti. Questa controffensiva trovò inizio con la vittoria della Thatcher nel Regno Unito e con l’elezione di Reagan negli Usa. Le nuove politiche di deregulation, assecondando i nuovi assetti del capitale, diedero un’ulteriore spinta all’internazionalizzazione del mercato, che negli anni ’80 si riportò al livello precedente alla Prima guerra mondiale. La cosiddetta globalizzazione e la contemporanea rivoluzione informatica diedero inizio ad un processo di ristrutturazione sociale enorme, che, da una parte, indebolì il movimento operaio dei Paesi avanzati e, dall’altra, erose, a partire dalla sua periferia, il fronte socialista, contribuendo a determinarne la dissoluzione. Nei Paesi avanzati la nuova strategia riuscì a realizzare un’ampia egemonia in un vasto schieramento di forze politiche e culturali che assorbirono le nuove linee guida. La stessa socialdemocrazia europea occidentale si fece interprete già prima della caduta dell’Urss, e in modo ancora più netto successivamente, delle nuove politiche, uniformandosi, in un atteggiamento bipartisan, al criterio della governabilità. Sempre in Europa occidentale la strategia neoliberista e liberalizzatrice si è concretizzata nella realizzazione della moneta unica e nei vincoli di bilancio che consentono di bypassare i parlamenti e scavalcare la resistenza dei movimenti operai nazionali, consentendo la deflazione salariale, le controriforme del welfare, del mercato del lavoro, delle pensioni e, in modo connesso, le modifiche istituzionali in senso governamentale.

Dunque, all’interno dei Paesi del centro la fase attuale si caratterizza non solo per il peggioramento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato, ma, più in generale, per la modificazione profonda del contesto economico, sociale, politico ed istituzionale in cui si esercita la lotta di classe. I rapporti tra il grande capitale multinazionale e transnazionale e le classi subalterne non sono più improntati al compromesso, visto che il mantenimento di alti profitti passa non tanto per l’aumento della produttività e degli investimenti in capitale fisso quanto piuttosto per la contrazione del salario diretto, indiretto e differito. La forma stessa ed i contenuti dell’azione dello Stato sono stati modificati: l’aspetto di mediazione tra le classi si è indebolito, mentre quello del dominio sulla classe lavoratrice si è rafforzato, nonostante ed anzi grazie alla delega di alcuni aspetti dello Stato al livello sovrannazionale europeo. Le modificazioni istituzionali nei Paesi avanzati sono funzionali a mantenere la governabilità in presenza di importanti modificazioni sociali. Tra queste va in particolare segnalata la formazione di un consistente esercito industriale di riserva, all’interno del quale quella intermittente diventa la forma di rapporto di lavoro più diffusa. Di conseguenza, alla tendenza all’impoverimento relativo si è aggiunta, per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale e, per certi versi, dagli anni ‘90 dell’800, la tendenza all’impoverimento assoluto dei lavoratori. La marginalizzazione dalla vita sociale e lavorativa, l’introduzione di leggi elettorali maggioritarie e di modifiche istituzionali, che rendono più difficile intervenire contro le politiche main stream, e soprattutto l’atteggiamento bipartisan dei principali partiti di centro-sinistra e di centro-destra, che si è tradotta in alcuni paesi europei nella formula delle “larghe intese” o “grande coalizione”, hanno prodotto un fenomeno di ripulsa verso la politica in milioni di lavoratori. Questa ripulsa, lì dove – come in Italia - è mancata una risposta strutturata di classe, si è tradotta o nell’adesione a forze politiche xenofobe, populiste e piccolo borghesi, o nell’apatia e nell’astensionismo.

La trentennale offensiva imperialista iniziata alla fine degli anni ’70 è arrivata a completamento in Europa occidentale grazie ai vincoli Ue e alla crisi dell’euro. Si rende così necessario che le forze della classe lavoratrice diano inizio, a loro volta, ad una fase di contro-attacco. A questo scopo, bisogna essere consapevoli che la radicalizzazione delle contraddizioni tra capitale e lavoro salariato ed il cambiamento del contesto generale implicano un mutamento di strategia e di tattica, rispetto alla fase storica precedente. È inoltre evidente che il riadeguamento strategico e tattico non può realizzarsi se non unitamente alla riunificazione dei comunisti ed alla ricostruzione di un partito organizzativamente ed teoricamente adeguato alla nuova fase.

Cinque tesi sull’Europa

di Sandro Chignola - sinistrainrete -

1. Provincializing Europe
L’Europa è il nostro territorio: lo spazio eterogeneo, contraddittorio, striato sul quale territorializzare le lotte.

Questo significa almeno due cose.

La prima
: che il processo costituente europeo, pur assumendo l’insieme delle sue contraddizioni e il suo brusco mutamento di direzione nella crisi, ha segnato un punto di non ritorno. Esso ha innescato nella ridefinizione delle geografie del capitale, nella rimodulazione dei ritmi e degli spazi dell’accumulazione, nella reinvenzione delle tecnologie di governo, un salto di scala tale da liquidare il modello socialdemocratico di integrazione e compromesso al quale è stata legata la costituzione nei singoli paesi. La formula dello Stato-nazione – assieme al soggetto sul quale ha fatto perno il suo progetto di cittadinanza: il capofamiglia bianco, maschio, lavoratore a tempo indeterminato – non ha più corso in Europa. Ma, in secondo luogo, cosa intendiamo quando diciamo che l’Europa è il nostro territorio? Che il mondo da tempo non risponde più alle gerarchie tradizionali.
E che, proprio per questo, è sul terreno dell’Europa che vanno verificate e sfidate le strategie della governance globale: cioè all’interno di ambivalenti processi di ristratificazione del comando in risposta a quei sommovimenti e a quelle insorgenze del lavoro vivo che ridisegnano le geografie del continente aprendolo in direzione del Mediterraneo e verso Est – ed è questo che ci interessa.

L’Europa è il nostro territorio perché esso ci offre il punto di vista, la prospettiva, dalla quale guardare ai processi che cercano di fissare nuove gerarchie e nuovi dispositivi di accumulazione. E viceversa: perché solo una visione molto più generale e vasta, capace di tenere l’altezza di questi processi, ci mette in grado di riconoscere l’Europa – nella sua limitatezza e nelle acute contraddizioni che la attraversano – come un punto intermedio di articolazione e di snodo della dialettica del capitale globale. Provincializzare l’Europa, dunque: mettere in questione la consistenza del suo progetto di integrazione, analizzare i suoi dispositivi postdemocratici di governo come parte di un molto più vasto processo di riposizionamento dei poteri e delle funzioni del capitale finanziario globale, mappare i contorni delle nuove geografie della valorizzazione e i processi transnazionali della soggettivazione dei governati come chiave per una risignificazione della cittadinanza in chiave «europea» – ci sembra il presupposto irrinunciabile, intransitabile, per aprire la discussione e per rimettere in moto un pensiero ed una pratica politica all’altezza del presente.

2. Management della crisi e decostituzionalizzazione: sulla governance europea

Ciò che ci sembra necessario, innanzitutto, è riconsiderare il processo di integrazione europeo degli ultimi vent’anni. Esso ci sembra caratterizzato, nella continuità di un processo che prende l’avvio con la crisi economica che si apre tra il 2007 e il 2008, da una particolare forma di management della crisi. Quanto entra in crisi è la forma stessa dell’esperienza costituzionale su cui per tutto il Novecento si è retta la specificità del «modello europeo» e che approda, nel secondo dopoguerra, al Welfare State. Da un lato, la crisi fiscale dello Stato, dall’altro quella del modello-fabbrica come schema dell’organizzazione fordista del lavoro e come sistema di integrazione politica e sociale della classe operaia. È su questa doppia crisi che si spezza lo schema virtuoso di reciproco stimolo tra organizzazioni operaie e costituzione sul quale si regge il compromesso che caratterizza il ciclo di espansione dei diritti sociali nella maggior parte dei paesi europei. A partire dagli anni ’80 del Novecento, deindustrializzazione e organizzazione reticolare e diffusa della produzione, terziarizzazione e cognitivizzazione del lavoro, finanziarizzazione dell’economia e del capitale, organizzano la risposta alla crescente ingovernabilità delle fabbriche traducendosi in nuovi dispositivi di cattura della cooperazione sociale. Nuovi saperi e nuove tecnologie del diritto vengono messi in atto per gestire i processi non più allocabili nel quadro della costituzione e dello Stato-nazione. Parlare di decostituzionalizzazione significa, per noi, non soltanto puntare l’attenzione sulle caratteristiche di una produzione di norme e di regolamenti che non rispetta più la tradizionale gerarchia delle fonti del diritto, che incide materialmente sulla vita degli uomini e delle donne senza ancorarsi proceduralmente alla legittimità della decisione democratica, e la cui connotazione esecutiva, amministrativa, cavalca una retorica dell’efficienza che rinvia alla concretizzazione e alla massimizzazione degli scopi più di quanto non faccia invece riferimento ai processi di formazione della volontà generale, ma anche porre l’accento sulle eccedenze e le eterogeneità che segnano l’esercizio contemporaneo dei poteri in Europa e che impediscono di riferire il loro esercizio alla forma della costituzione. Il moltiplicarsi dei livelli e degli attori coinvolti nei processi di governance europea, l’individuazione di campi di «rilevanza costituzionale» oltre il quadro tradizionalmente perimetrato – in dottrina e nella pratica – dalla costituzione, l’impossibilità di ricondurre i processi «tecnici» di giuridificazione ad una decisione ultima o a una «Grundnorm», il doppio sfondamento dei confini che avevano sino ad ora separato la giurisdizione del diritto europeo e quella del diritto nazionale (con le differenze radicali di produzione che segnano l’uno e l’altro), il diritto pubblico e il diritto privato, marcano un insieme di pratiche all’interno dei quali viene destabilizzato l’equilibrio tra sovranazionalismo giuridico e processi politici di negoziazione su cui si era fondato il progetto di integrazione europea. E tuttavia viene con ciò conquistata una soglia che impedisce il ritorno all’indietro. Quando parliamo di management della crisi è questo che intendiamo: la processualità giuridica europea è sempre più nettamente caratterizzata da dinamiche autonome e sempre più postdemocraticamente collegata ad apparati burocratici e a gruppi di interesse.

Operazione verità: a che punto è la notte italiana

- sinistrainrete -

Questo è un lancio corale: vari siti e blog economici indipendenti, tutti insieme oggi rilanciamo questa operazione di verità sulla vera deriva che in questo contesto dissennato inevitabilmente prenderanno i conti pubblici italiani - e sulla colpevole falsità di chi annuncia una ripresa impossibile che slitta di anno in anno...

Il post è stato elaborato con la collaborazione di vari autori.


Premessa

In questi anni di crisi, oltre alle tasse e al disagio economico e sociale, c'è stata un'altra grande costante che ha tenuto compagnia alle nostre giornate, ai nostri momenti: la menzogna proferita in modo sistematico dai vari governi e dai politici di turno che, in maniera spudorata e vergognosa, hanno reiteratamente mentito e mistificato (e continuano a farlo) circa l'esatta situazione dell'economia e dei conti pubblici, in costante ed inesorabile deterioramento.

È chiaro che tutto ciò incorpora evidenti elementi di criminalità, proprio perché tende ad alimentare false aspettative da parte degli agenti economici più deboli: i disoccupati con le loro famiglie e le imprese, prime vittime sacrificali di questa crisi.

Proprio per questo, insieme ad altri siti amici, tra i più seguiti in Italia di economia, tutti liberi e senza padroni, abbiamo pensato di lanciare, coralmente, tutti insieme, questo post divulgativo al fine di far ben comprendere l'esatto stato dei conti pubblici e dell'economia.


La menzogna



I grafici che seguono esplicano in maniera esaustiva i clamorosi errori previsionali commessi dai vari governi che si sono alternati negli ultimi 3 anni di crisi, su Deficit Pubblico, Debito pubblico e Pil Nominale.








A che punto è la notte italiana


Come noto, appena qualche settimana fa, il governo ha reso pubblica la Nota di Aggiornamento al DEF. Per chi non lo sapesse, il DEF è il documento di economia e finanza che rappresenta il punto nodale nella programmazione della politica economica e di bilancio del paese. Il punto d’incontro tra politica nazionale e l’Unione Europea, che incorpora le variabili macroeconomiche e di bilancio che il governo stima si possano realizzare, stante una crescita presunta del PIL.

Leggendo il documento licenziato dal governo, la cosa che più lascia perplessi è dover constatare la volgarità della menzogna esercitata dal governo, proprio su talune variabili che risultano manifestamente abbellite, taroccate, per nulla aderenti con la realtà dei fatti, con l'esatta situazione dell'economia italiana e dei conti pubblici. Questi ultimi, appositamente “massaggiati” per offrire un quadro della finanza pubblica migliore rispetto a quello che effettivamente è.

Cerchiamo di andare nel dettaglio.

martedì 29 ottobre 2013

La sentenza interdittiva per B: "Dolo e perseveranza nel reato". Ferrero: Come fa Pd a stare con Pdl?

               controlacrisi
Nelle motivazioni con cui i giudici della Terza Corte d'Appello hanno disposto la pena interdittiva di due anni per Silvio Berlusconi, nell'ambito del processo sul caso Mediaset, c'è che l'ex premier è stato ''ideatore'' e ''organizzatore del sistema'' creato per frodare il fisco, un sistema ''operante in vaste aree del mondo, attraverso numerosi soggetti, società fittizie di proprietà di Berlusconi o di fatto facenti capo a Fininvest''. Per i magistrati la particolare intensità del dolo'' di Silvio Berlusconi ''nella commissione del reato contestato e nella perseveranza in esso", nonché "il ruolo pubblicamente assunto dall'imputato (...) soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della sua condotta''. Non c'è inoltre ''prova alcuna'' che Silvio Berlusconi abbia estinto il suo ''debito tributario'' per il caso Mediaset ma si è limitato a formulare ''una mera 'proposta di adesione' alla conciliazione extra giudiziale''.
Quanto alla legge Severino, i giudici hanno rilevato che essa ''ha un ambito di applicazione distinto, ben diverso e certamente non sovrapponibile'' con quello del processo penale con al centro il caso Mediaset.

Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, dichiara: "Le motivazioni della sentenza con cui Berlusconi è stato condannato a 2 anni di interdizione dai pubblici uffici per il caso Mediaset rendono ancora più urgente la sua decadenza da senatore: il leader del Pdl non deve e non può più stare in Parlamento. Se la legge è uguale per tutti, Berlusconi se ne deve andare. Resta da capire come faccia il Pd a governare con uno che è stato ritenuto “ideatore e organizzatore del sistema creato per occultare l’evasione” e considerato che - come si legge nelle motivazioni - "Il ruolo pubblicamente assunto dall'imputato, soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della sua condotta". Evidentemente il potere non puzza".

Il piano di Angela Merkel per l’Europa

29 ottobre 2013 Der Spiegel Amburgo
Nel suo terzo mandato la cancelliera tedesca sembra determinata ad assumere finalmente la guida del progetto europeo. Per riuscirvi sarà cruciale l’alleanza con l’Spd e il suo candidato alla guida della Commissione Martin Schulz. Estratti.
È successo in occasione di una cena data nella sede di Bruxelles del Consiglio europeo. Era stato appena servito il dolce, poco prima di mezzanotte, quando Angela Merkel ha fatto quello che i capi di governo europeo le chiedevano da mesi, cioè dimostrare la sua leadership. I paesi della zona euro devono diventare più competitivi, ha ripetuto con insistenza il cancelliere, il controllo che finora ha esercitato la Commissione europea non basta, bisogna adattare delle "misure più vincolanti". Inoltre la "dimensione sociale" non deve essere trascurata, ha detto la leader della Cdu. L'Europa deve fare un "salto qualitativo".
In occasione del suo terzo mandato Merkel è determinata a diventare una vera e propria cancelliera europea. Alle ultime elezioni i tedeschi le hanno dato il più alto numero di consensi che abbia mai avuto, è diventata il "leader più potente d'Europa" (The Economist) e ben presto guiderà una grande coalizione con il secondo partito tedesco. Merkel è convinta di essere in posizione di forza per promuovere un progetto che dovrebbe diventare la sua eredità politica: la riforma dell'Unione europea. Tuttavia anche se il rischio di una prossima disintegrazione della moneta unica è stato per ora evitato e se la congiuntura della zona euro mostra i primi segni di ripresa da molto tempo, Merkel è consapevole che in ogni momento la crisi potrebbe di nuovo aggravarsi. Dalla Francia all'Italia i partiti euroscettici hanno il vento in poppa, in molti paesi indebitati le riforme sono a un punto morto e le banche sono molto restie a concedere dei crediti.
Per questo motivo la cancelliera prepara una serie di riforme europee e sa già come imporre il suo progetto; con l'aiuto dei suoi nuovi partner di coalizione – i socialdemocratici – vuole dare un carattere "sociale" alla sua politica europea. Si tratta di creare dei programmi contro la disoccupazione dei giovani e contro l'evasione fiscale, e di adottare un bilancio specifico per la zona euro per rilanciare la crescita. In cambio Bruxelles avrà un potere di controllo esteso sulle politiche finanziarie ed economiche degli stati membri.
Denaro in cambio di riforme. Merkel vuole adesso dare al suo controverso programma una forma "socialdemocratica" e per fare questo si è trovata un alleato importante. Vuole far passare il suo progetto grazie al sostegno del presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, che presiede la delegazione dell'Spd sulle questioni di politica europea nel quadro dei negoziati in vista della formazione della coalizione, ma pensa già alle prossime tappe della sua carriera. Per ora pensa a essere il capolista dei socialisti alle europee del prossimo maggio, dopodiché, se sarà riuscito a raccogliere abbastanza suffragi, cercherà di diventare presidente della Commissione europea. Così la cancelliera si sbarazzerebbe del suo ex alleato caduto in disgrazia, l'attuale presidente della Commissione José Manuel Barroso. Insieme a Schulz, Merkel potrebbe avviare le riforme in favore della crescita e della competitività.
Schulz vede regolarmente la cancelliera a Berlino, si scambiano sms ed elaborano compromessi
La linea del nuovo governo tedesco è prevedibile: nessun obbligo europeo ma più denaro per i programmi di rilancio e un potere più esteso per Bruxelles. Per imporre la sua nuova strategia Merkel, spesso soprannominata "Mutti" [mammina] nelle sue stesse fila, si è trovata un nuovo alleato in Schulz. E per quanto il dirigente dell'Spd dichiari pubblicamente che "Merkel non è la [sua] migliore amica", a microfoni spenti entrambi i leader si lasciano andare a grandi dichiarazioni di stima reciproca. Schulz vede regolarmente la cancelliera a Berlino, si scambiano sms ed elaborano compromessi, l'ultimo dei quali riguarda il bilancio supplementare dell'Ue. Entrambi sono contrari a una soluzione di tutti i problemi su scala europea. I loro punti di vista convergono anche sui mezzi per riuscire a rafforzare l'unione monetaria ed economica.

Niente complicazioni

Schulz rappresenta un elemento importante per la grande coalizione e i suoi stretti rapporti con il capofila dell'Spd, Sigmar Gabriel, potranno tornare utili a Merkel sul piano europeo. Le elezioni europee dell'anno prossimo saranno le prime a svolgersi sulla base delle condizioni fissate dal trattato di Lisbona. I suoi risultati dovranno quindi essere presi in conto dai 28 capi di governo degli stati membri per la nomina del presidente della Commissione. Martin Schulz, 57 anni, ha buone possibilità di essere scelto. Può contare su un largo sostegno in parlamento e nel Consiglio europeo, che va ben oltre le fila della sua famiglia politica. Merkel lo sa e sarebbe ben contenta di averlo a capo della Commissione, soprattutto perché il socialdemocratico ha la fiducia del presidente francese François Hollande. Un elemento che permetterebbe di rilanciare il logoro motore franco-tedesco.
Il solo problema per la Merkel è che in quanto presidente della Cdu non può sostenere apertamente un membro dell'Spd. Nella campagna per le elezioni europee i due futuri partner di colazione faranno quindi banda a parte. Tuttavia la cancelliera si impegna a non aprire nuovi e inutili fronti di scontro con il socialdemocratico. Così giovedì scorso i leader del Partito popolare europeo si sono riuniti per discutere delle future elezioni europee. Molti hanno detto di volere che il Ppe presenti un suo capolista contro Schulz. Ma Merkel e il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, hanno espresso forti riserve su questo punto. La cancelliera vuole conservare il diritto di nominare il suo favorito al posto di presidente della commissione dopo le elezioni – e forse si potrebbe trattare dello stesso Schulz.
Una cosa è certa, il contributo dei socialdemocratici tedeschi non sarà sgradito se Merkel vorrà imporre il suo programma in Europa.
Traduzione di Andrea De Ritis

domenica 27 ottobre 2013

Un'opposizione per la nostra Europa

 
COMMENTO - Guido Viale - ilmanifesto -
Non siamo più, e da tempo, cittadini italiani; siamo sudditi di un "sovrano" che si chiama governance europea: un'entità mai eletta, che risponde solo al "voto" dei "mercati". E' un governo di fatto che definisce le politiche dei paesi dell'Ue che gli hanno ceduto la loro sovranità, fino a concedere, con l'accordo two-packs, un controllo preventivo sui propri bilanci. Se le cose stanno così - come ci ricorda il ritornello "ce lo chiede l'Europa" - per riappropriarsi della possibilità di far sentire la nostra voce, per restituire alle comunità capacità di autogoverno, occorre creare un'opposizione in ambito e di respiro europei.
Ma come colmare l'abisso tra le politiche imposte dalla governance europea e, per suo tramite, dalla finanza internazionale, e le istanze dei movimenti e delle mille organizzazioni che si battono, ciascuno a suo modo e spesso per proprio conto, per diritti fondamentali che i governi dei paesi dell'Ue stanno erodendo: dignità, lavoro, reddito, casa, salute, istruzione cultura, vecchiaia serena, accoglienza, rispetto della vita di tutti? C'è nella rivendicazione di quei diritti l'embrione di un programma comune in cui si riconoscerebbero facilmente i partecipanti alle manifestazioni sia del 12 che del 19 ottobre, che i rispettivi promotori hanno invece concorso a tener separate per cautele politiche e aggressività verbali in entrambi i casi inaccettabili (se si vuole tutte radunare le forze disponibili).
A questo programma di massima le elezioni europee della primavera prossima, come hanno sostenuto Alfonso Gianni e Tonino Perna, potrebbero fornire una prima occasione per riproporlo in tutti i paesi dell'Unione. I capisaldi di quel programma sono infatti già largamente diffusi e condivisi da un ampio arco di organizzazioni, anche se finora non sono ancora stati oggetto di un confronto diretto e non hanno quasi mai trovato espressione e rappresentanza in sedi istituzionali. Riguardano innanzitutto i diritti indicati precedentemente; poi la revisione radicale dei vincoli finanziari imposti dalle politiche di austerity che hanno colpito le economie, l'occupazione e le condizioni di vita nell'Europa mediterranea (per ora, ma il disastro si sta estendendo anche all'Europa centro-settentrionale). Riguardano in terzo luogo la riconversione ambientale del tessuto produttivo: sia per arrestare, con nuovi prodotti e nuovi mercati - soprattutto, ma non solo, di prossimità - la perdita di milioni di posti di lavoro e la chiusura di decine di migliaia di imprese grandi e piccole, condannate a morte dalla crisi, dalle politiche di austerità, dalle delocalizzazioni, dalla perdita degli sbocchi tradizionali; sia per creare nuove opportunità di lavoro e di impresa in attività dal futuro sicuro, perché servono a contrastare la catastrofe ambientale che incombe sul pianeta.
Il quarto punto è la emersione di una nuova classe dirigente - già in gran parte all'opera nelle pieghe dei movimenti, del volontariato e delle organizzazioni civiche - che sia espressione diretta delle istanze di rinnovamento che provengono dalle comunità in lotta e che si sia formata - anche tecnicamente - in questa nuova temperie. Perché la crisi in corso non dipende solo da politiche sbagliate; è causata soprattutto dal deterioramento morale e culturale dell'establishment europeo: non solo quello politico, ma anche quelli manageriali, imprenditoriali e accademici.
Ma il problema principale non è il programma; è la forza per metterlo in marcia. Dove trovarla? Non si può contare sulle forze politiche esistenti, o su una loro svolta radicale, a meno di una dissoluzione che ne liberi le componenti che aspirano a un vero cambiamento di rotta. Solo una crescita quantitativa e qualitativa degli organismi e dei movimenti che alimentano il conflitto sociale giorno per giorno può costituire un riferimento solido.
Molte e importanti esperienze ci forniscono un filo conduttore per unire le rivendicazioni e le buone pratiche più avanzate dei movimenti alla possibilità di dare una formulazione sintetica al progetto di un radicale rinnovamento della politica e dei suoi obiettivi; e anche alla possibilità di raccogliere intorno ad esso molte forze, sia sociali che morali e intellettuali, ancora in gran parte disperse. Questo filo conduttore è la promozione di una politica fondata sui beni comuni.
In Italia e in gran parte dell'Europa abbiamo di fronte due problemi di fondo: da un lato, imprese che chiudono, licenziano e non assumeranno mai più, mandando in malora patrimoni giganteschi di conoscenze, di esperienza, di consuetudine alla cooperazione, di vite distrutte; dall'altro, la necessità di offrire nuove opportunità all'esercito degli esclusi dal lavoro e dal reddito, o costretti a condizioni umilianti di subordinazione nella palude di un precariato senza prospettive. Si tratta dei giovani, i cui tassi di disoccupazione sono astronomici nei paesi dell'Europa mediterranea, ma in crescita anche nelle economie più solide; ma è una condizione che riguarda tutte le fasce di età: tanti e tante trenta-quarantenni (TQ) che nella loro vita hanno conosciuto solo precariato e tante e tanti cinquanta-sessantenni espulsi dal lavoro, a cui viene progressivamente sottratta la prospettiva del pensionamento. E poi i profughi e i migranti che, inseriti nel lavoro e nelle società, potrebbero portare un contributo decisivo sia allo sviluppo economico e culturale dei paesi europei che alla pacificazione dei loro; per contribuire poi insieme, quando potranno ritornare nelle loro terre, alla formazione di un unico grande popolo mediterraneo.
Ora, non si può continuare a intervenire sulle aziende in crisi delegando ai governi il compito di trovar loro un nuovo padrone. I nuovi padroni, quando si presentano, lo fanno solo - è esperienza quotidiana - per depredare l'azienda dei suoi capitali residui, del suo marchio, del suo know-how, delle sue attrezzature migliori, per poi lasciare i lavoratori sul lastrico. Non si può puntare sulle nazionalizzazioni o sull'intervento statale; e non certo per il fatto che l'Unione europea lo vieta. Su molte di quelle imprese gli Stati hanno fatto disastri non meno gravi delle gestioni private o privatizzate. E poi lo Stato italiano non dispone più, con la dismissione dell'IRI, di manager in grado di gestire un'impresa (tanto che ricorre sempre all'ottuagenario Bondi, che di disastri ne ha già fatti molti). Quelle aziende hanno bisogno di una nuova governance, composta dalle maestranze e dalle loro rappresentanze, dai governi locali e dalle associazioni di cittadinanza dei territori che le ospitano, dalle competenze messe a disposizione da università e centri di ricerca, in un regime che le riconosca come "beni comuni", né private né pubbliche, ma a disposizione delle loro comunità di riferimento. Un programma che vale, a maggior ragione, per recuperare a una gestione condivisa i servizi pubblici locali: acqua, energia, trasporti, rifiuti, scuole, gestione del territorio; le chiavi della conversione ecologica.
L'altro problema centrale è la quantità di energie, intelligenza, creatività e aspettative degli uomini e delle donne escluse dal mondo del lavoro, che potrebbero contribuire alla rinascita culturale e produttiva dell'Europa e, innanzitutto, dei paesi dell'Ue più colpiti dall'austerity.
Per recuperare quelle energie bisogna sottrarle ai ricatti della miseria, della disoccupazione e del precariato, garantendo a tutti un reddito di base incondizionato: le risorse per realizzarlo sono molte meno di quelle che vengono dissipate in armamenti, grandi opere inutili, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale, costi della politica. Ma una volta sottratte al giogo di una vita senza prospettive, la riappropriazione in forme condivise di beni comuni oggi inutilizzati o ceduti a operatori privati grazie ai favori della politica - case, edifici, monumenti, beni culturali, suolo urbano, terre pubbliche o incolte, spiagge, biblioteche, teatri, fabbriche e capannoni - insieme al sostegno finanziario e tecnico a progetti autogestiti di avviamento di impresa potrebbe liberare le energie necessarie per fermare il degrado con programmi di conversione ecologica condivisi e gestiti dal basso. Ovviamente, con il coinvolgimento delle comunità di riferimento e di governi locali sottratti al giogo del patto di stabilità e di sindaci e giunte sottratti ai richiami del business; cominciando dalla requisizione dei beni contesi. Ma solo grandi lotte e grandi mobilitazioni potranno avere questo esito. E' un progetto di lunga lena, ma andiamo incontro a tempi difficili che richiederanno soluzioni estreme; sottometterlo oggi a un pubblico dibattito è un buon punto di partenza.

Ue, una lunga storia di errori e omissioni

di Enzo Russo - sbilanciamoci -
25/10/2013
 
È necessario riaprire il cantiere dell'Europa, ragionando su un assetto federale, un governo centrale che decida tempestivamente sotto il controllo del Parlamento
Per capire quello che sta succedendo a livello europeo occorre fare qualche passo indietro e ripercorrere la storia più recente dell’integrazione europea. Questa Unione europea è quella dell’Atto unico (1986), del Trattato di Maastricht (febbraio 1992) e di quello di Lisbona (2009). È per lo più il risultato dell’approccio funzionalistico e del metodo intergovernativo. Dopo l’attuazione della moneta unica, si è tentato il grande salto con la Convenzione e la negoziazione del cosiddetto Trattato costituzionale ma i referendum francese e olandese del 2005 lo hanno bocciato e siamo ripiegati sul Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea - approvato nel 2007 ed entrato in vigore dal 2009.
L’Ue di Maastricht e Lisbona ha dato tutto quello che poteva dare ma stiamo constatando tutti che quello che è stato fatto non è sufficiente. Nel novembre 2008 la Commissione aveva proposto un “recovery plan” da 200 miliardi di euro. Ben poca roba rispetto ai 700 miliardi di dollari che il governo Usa ha stanziato solo per salvare le banche. In ogni caso, il piano di Barroso è rimasto nei cassetti del Consiglio europeo e, così, l’economia europea precipita nella recessione senza alcun paracadute. Il governo Berlusconi, in quegli anni, negava pervicacemente che ci fosse una crisi. Dopo la pesante recessione del 2009, politici, economisti e osservatori soprattutto americani ci hanno avvertito continuamente che, senza adeguate politiche espansionistiche, l’Ue sarebbe caduta in una seconda recessione . E così, puntualmente, è accaduto nel 2011 e 2012. Anche il 2013 disgraziatamente sarà un anno di recessione per non pochi paesi periferici.
In alcuni principali paesi membri, i governi hanno salvato le banche trasformando i debiti di queste in debiti “sovrani” e, quindi, alimentando la paura di una disintegrazione dell’euro. Hanno mentito perché la vera causa del disastro è stata la speculazione incontrollata della finanza internazionale ed europea. I suoi costi sono stati scaricati sui contribuenti e, per di più, sostenendo che il modello sociale europeo è insostenibile. In sintesi, i maggiori sforzi dell’UE sono stati fatti per assicurare, con lentezza e gradualità esasperanti, un po’ di assistenza finanziaria ai paesi membri in difficoltà senza affrontare sul serio il problema della loro solvibilità. Il caso della Grecia docet e il tardivo ravvedimento del Fmi riesce a irritare persino la Commissione europea che, come noto, è uno dei componenti della famigerata Troika. Lascia imperturbata la Bce.
Resta il fatto gravissimo che l’Ue non abbia saputo conciliare il risanamento dei conti pubblici dell’Irlanda e di alcuni paesi euromed con la crescita degli stessi. Con metodo intergovernativo si sono creati alcuni strumenti di più stretto coordinamento (Twopack, Sixpack, Euro-plus, Fiscal compact), si è imposto il pareggio di bilancio persino con norme costituzionali, e si sono inasprite le sanzioni ma non ci si rende conto che il coordinamento non funziona. Non ha mai funzionato a livello internazionale nonostante i continui vertici del G7, G8, G20 e ora del G2 e non sta funzionando nella Ue. L’austerità imposta dalla Germania sta distruggendo l’Unione.
A livello ufficiale del Consiglio europeo si stenta a prendere atto che quello che fanno i veri governi degli Stati federali e centralizzati con i loro cospicui bilanci sono azioni di allocazione, stabilizzazione e redistribuzione e che, per fare questo, serve un vero governo a livello centrale. Con il Tfue la governance economica (che ingloba le tre funzioni predette e la crescita) è stata lasciata ai governi dei Paesi membri. In pratica non è stata accettata neanche la proposta compromissoria e di transizione di Tommaso Padoa Schioppa di una suddivisione di responsabilità di rigore nella gestione dei conti pubblici da mantenere ai governi dei paesi membri e della crescita all’Ue. Il volet crescita del Patto di stabilità non è mai decollato. Al contrario si è fatto di peggio e di più. Come detto, si sono stretti i ceppi alle mani e ai piedi dei governi dei paesi membri e non si è fatto e non si prevede di far niente per sostenere la crescita. È una lunga storia di errori ed omissioni senza precedenti che non sembra conoscere fine. Anche dopo il Rapporto dei quattro Presidenti del dicembre 2012 non ci sono stati passi in avanti sulla strada della costruzione di un bilancio europeo in grado di svolgere almeno le due essenziali funzioni macroeconomiche di allocazione delle risorse e di stabilizzazione del ciclo.
In altre parole, si potrà raggiungere un pareggio contabile entro un determinato anno ma difficilmente si potrà parlare di equilibrio strutturale (di medio termine) dei conti pubblici perché se l’economia non cresce, le entrate non crescono mentre le spese continuano a crescere per una serie di meccanismi automatici e anzi accelerano proprio per gli stessi motivi. E, ancor peggio, cresce il rischio di inasprimento dei conflitti sociali che, secondo l’ultimo Rapporto annuale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, è il più alto che nel resto del mondo.
È già passato un anno da quando nel giugno 2012 il Consiglio europeo ha formulato un “Compact for Growth and Jobs” e siamo punto e da capo. Con l’aggravante però che nel dicembre e nel febbraio scorsi falliva il tentativo di trovare un compromesso sulle prospettive finanziarie 2014-2020. Adesso dopo il Consiglio del 27-28 giugno ci dicono che il compromesso è stato raggiunto e che ci sarebbe un’intesa per potere spostare nel tempo anticipandole e da una voce all’altra le somme stanziate nelle cosiddette Prospettive finanziarie che evidentemente poco o punto rassomigliano a un bilancio utilizzabile ai fini della politica economica e finanziaria. Ha avuto la meglio l’Inghilterra come sui suoi rimborsi: un paese di cui è dubbia la permanenza nell’Unione.
A livello interno il governo in carica e quelli precedenti ci hanno detto che la strategia della crescita va lanciata o passa a livello europeo. Ma a Bruxelles ribadiscono che la crescita resta responsabilità dei paesi membri e va cercata nei piani nazionali di riforma (Pnr). Senza cospicui finanziamenti, questi restano per lo più documenti di buone intenzioni a cui il Parlamento italiano dedica scarsa attenzione anche perché i Pnr sono fortemente condizionati dai precedenti documenti di economia e finanza – mirati soprattutto al rispetto del vincolo di bilancio.
A mio giudizio, anche il piano varato dal Consiglio europeo del 27-28 giugno per l’occupazione giovanile non è un piano per la crescita. È la conferma di impegni simbolici assunti precedentemente . Opera con strumenti indiretti, ossia, incentivi alle assunzioni da parte delle imprese in un contesto di domanda effettiva insufficiente invece che direttamente con la creazione di nuovi posti di lavoro e per di più con risorse del tutto inadeguate se si considera che, a livello europeo, ci sono 27 milioni di disoccupati di cui 5,6 giovani. La vantata triplicazione dei fondi che deriverebbero all’Italia è propaganda politica o pubblicità ingannevole che anticipa buone intenzioni che potrebbero diventare operative a metà 2014 e nel 2015, ossia, tra 1-2 anni. Sia per le modalità, per i tempi lunghi e per l’ammontare delle risorse mobilitabili non sembrano provvedimenti che possano innescare un processo di crescita se – come prevede il Centro studi Confindustria – nel 2013 il Pil, consumi interni, e gli investimenti fissi lordi calano rispettivamente dell’1,9, il 3 e il 5,8%.
E che dire del passo in avanti sull’Unione bancaria? Anche su questo delicato fronte, l’accordo raggiunto non entusiasma nessuno perché, dopo la supervisione unica affidata alla Bce, non ci sono regole pienamente condivise in materia di regolazione dei fallimenti e ristrutturazioni. Se è corretto coinvolgere tutti i creditori, azionisti e correntisti ad eccezione dei minimi, tutti i paesi membri vogliono “salvaguardare” le loro specificità. È un fatto che il mercato bancario resta fortemente segmentato e si frappone all’efficienza ed efficacia della politica monetaria e creditizia comune. Anche qui miseria del gradualismo in un mondo in cui capitali ingenti si spostano con un click sulla tastiera del computer.
Osservatori come Dastoli e Santaniello, con lunga esperienza all’interno della struttura comunitaria, spiegano questa situazione ragionando sui limiti della costruzione europea che non prevedeva un preciso processo che portasse alla realizzazione dell’Unione economica e su quelli del Trattato di Maastricht che lasciava alla competenza dei governi dei paesi membri la competenza in materia di politica economica e finanziaria e, per di più, affidandosi a un coordinamento automatico. Il sistema che ne risulta è squilibrato perché politica monetaria e politica fiscale sono entrambi strumenti della politica economica e finanziaria. Come se non bastasse l’errore viene ripetuto con il Tfue. Ora l’avere previsto regole più stringenti di coordinamento preventivo e sanzioni più pesanti per chi le viola, di per sè, non addrizza un albero che è nato storto. Anche la politica economica è diretta dal pilota automatico della Bce.
La verità è che negli ultimi anni Commissione e Consiglio europei hanno esaurito la loro spinta propulsiva ed è diventata egemone la Banca Centrale Europea riempiendo un vuoto di iniziativa politica. Il Parlamento europeo viene emarginato e non riesce ad esercitare un effettivo controllo democratico sulle decisioni. Deve limitarsi a formulare auspici e raccomandazioni sulle questioni decisive. Il processo di integrazione subisce una evoluzione/involuzione per cui decisioni che riguardano la politica economica e sociale, che riguardano la vita dei cittadini europei vengono spostate sempre più in alto a strutture tecnocratiche al di fuori di ogni controllo democratico. I riflessi interni di questo processo sono che si restringono i margini di discrezionalità dei governi sub-centrali. Il paradosso è che non c’è un vero e proprio governo centrale a Bruxelles e quelli sub-centrali, volenti o nolenti, subiscono una progressiva erosione dei loro poteri. Anche la linea intergovernativa che si esprime a mezzo di Trattati risulta screditata ed inefficiente perché, per sua natura, arriva tardi e non riuscendo a risolvere i problemi, si delegittima da sola.
Per reagire, non solo bisogna tornare all’approccio comunitario ma bisogna riaprire il cantiere della riforma dei Trattati e andare oltre, cioè, ragionare su proposte congrue e coerenti con la costruzione di strumenti che prefigurino un assetto federale vero e proprio, un governo centrale in grado di decidere tempestivamente sotto il controllo del Parlamento europeo. Si tratta di scelta obbligata. Altrimenti non si capisce che senso abbiano le prospettate quattro unioni: bancaria, economica, fiscale, politica. Nel 2014 si vota per il Parlamento europeo. O queste questioni entrano nel dibattito elettorale oppure anche l’Unione proseguirà sulla strada del declino.

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