25/10/2013
È necessario riaprire il cantiere dell'Europa, ragionando su un assetto federale, un governo centrale che decida tempestivamente sotto il controllo del Parlamento
Per capire quello che sta succedendo a livello europeo occorre fare qualche passo indietro e ripercorrere la storia più recente dell’integrazione europea. Questa Unione europea è quella dell’Atto unico (1986), del Trattato di Maastricht (febbraio 1992) e di quello di Lisbona (2009). È per lo più il risultato dell’approccio funzionalistico e del metodo intergovernativo. Dopo l’attuazione della moneta unica, si è tentato il grande salto con la Convenzione e la negoziazione del cosiddetto Trattato costituzionale ma i referendum francese e olandese del 2005 lo hanno bocciato e siamo ripiegati sul Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea - approvato nel 2007 ed entrato in vigore dal 2009.
L’Ue di Maastricht e Lisbona ha dato tutto quello che poteva dare ma stiamo constatando tutti che quello che è stato fatto non è sufficiente. Nel novembre 2008 la Commissione aveva proposto un “recovery plan” da 200 miliardi di euro. Ben poca roba rispetto ai 700 miliardi di dollari che il governo Usa ha stanziato solo per salvare le banche. In ogni caso, il piano di Barroso è rimasto nei cassetti del Consiglio europeo e, così, l’economia europea precipita nella recessione senza alcun paracadute. Il governo Berlusconi, in quegli anni, negava pervicacemente che ci fosse una crisi. Dopo la pesante recessione del 2009, politici, economisti e osservatori soprattutto americani ci hanno avvertito continuamente che, senza adeguate politiche espansionistiche, l’Ue sarebbe caduta in una seconda recessione . E così, puntualmente, è accaduto nel 2011 e 2012. Anche il 2013 disgraziatamente sarà un anno di recessione per non pochi paesi periferici.
In alcuni principali paesi membri, i governi hanno salvato le banche trasformando i debiti di queste in debiti “sovrani” e, quindi, alimentando la paura di una disintegrazione dell’euro. Hanno mentito perché la vera causa del disastro è stata la speculazione incontrollata della finanza internazionale ed europea. I suoi costi sono stati scaricati sui contribuenti e, per di più, sostenendo che il modello sociale europeo è insostenibile. In sintesi, i maggiori sforzi dell’UE sono stati fatti per assicurare, con lentezza e gradualità esasperanti, un po’ di assistenza finanziaria ai paesi membri in difficoltà senza affrontare sul serio il problema della loro solvibilità. Il caso della Grecia docet e il tardivo ravvedimento del Fmi riesce a irritare persino la Commissione europea che, come noto, è uno dei componenti della famigerata Troika. Lascia imperturbata la Bce.
Resta il fatto gravissimo che l’Ue non abbia saputo conciliare il risanamento dei conti pubblici dell’Irlanda e di alcuni paesi euromed con la crescita degli stessi. Con metodo intergovernativo si sono creati alcuni strumenti di più stretto coordinamento (Twopack, Sixpack, Euro-plus, Fiscal compact), si è imposto il pareggio di bilancio persino con norme costituzionali, e si sono inasprite le sanzioni ma non ci si rende conto che il coordinamento non funziona. Non ha mai funzionato a livello internazionale nonostante i continui vertici del G7, G8, G20 e ora del G2 e non sta funzionando nella Ue. L’austerità imposta dalla Germania sta distruggendo l’Unione.
A livello ufficiale del Consiglio europeo si stenta a prendere atto che quello che fanno i veri governi degli Stati federali e centralizzati con i loro cospicui bilanci sono azioni di allocazione, stabilizzazione e redistribuzione e che, per fare questo, serve un vero governo a livello centrale. Con il Tfue la governance economica (che ingloba le tre funzioni predette e la crescita) è stata lasciata ai governi dei Paesi membri. In pratica non è stata accettata neanche la proposta compromissoria e di transizione di Tommaso Padoa Schioppa di una suddivisione di responsabilità di rigore nella gestione dei conti pubblici da mantenere ai governi dei paesi membri e della crescita all’Ue. Il volet crescita del Patto di stabilità non è mai decollato. Al contrario si è fatto di peggio e di più. Come detto, si sono stretti i ceppi alle mani e ai piedi dei governi dei paesi membri e non si è fatto e non si prevede di far niente per sostenere la crescita. È una lunga storia di errori ed omissioni senza precedenti che non sembra conoscere fine. Anche dopo il Rapporto dei quattro Presidenti del dicembre 2012 non ci sono stati passi in avanti sulla strada della costruzione di un bilancio europeo in grado di svolgere almeno le due essenziali funzioni macroeconomiche di allocazione delle risorse e di stabilizzazione del ciclo.
In altre parole, si potrà raggiungere un pareggio contabile entro un determinato anno ma difficilmente si potrà parlare di equilibrio strutturale (di medio termine) dei conti pubblici perché se l’economia non cresce, le entrate non crescono mentre le spese continuano a crescere per una serie di meccanismi automatici e anzi accelerano proprio per gli stessi motivi. E, ancor peggio, cresce il rischio di inasprimento dei conflitti sociali che, secondo l’ultimo Rapporto annuale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, è il più alto che nel resto del mondo.
È già passato un anno da quando nel giugno 2012 il Consiglio europeo ha formulato un “Compact for Growth and Jobs” e siamo punto e da capo. Con l’aggravante però che nel dicembre e nel febbraio scorsi falliva il tentativo di trovare un compromesso sulle prospettive finanziarie 2014-2020. Adesso dopo il Consiglio del 27-28 giugno ci dicono che il compromesso è stato raggiunto e che ci sarebbe un’intesa per potere spostare nel tempo anticipandole e da una voce all’altra le somme stanziate nelle cosiddette Prospettive finanziarie che evidentemente poco o punto rassomigliano a un bilancio utilizzabile ai fini della politica economica e finanziaria. Ha avuto la meglio l’Inghilterra come sui suoi rimborsi: un paese di cui è dubbia la permanenza nell’Unione.
A livello interno il governo in carica e quelli precedenti ci hanno detto che la strategia della crescita va lanciata o passa a livello europeo. Ma a Bruxelles ribadiscono che la crescita resta responsabilità dei paesi membri e va cercata nei piani nazionali di riforma (Pnr). Senza cospicui finanziamenti, questi restano per lo più documenti di buone intenzioni a cui il Parlamento italiano dedica scarsa attenzione anche perché i Pnr sono fortemente condizionati dai precedenti documenti di economia e finanza – mirati soprattutto al rispetto del vincolo di bilancio.
A mio giudizio, anche il piano varato dal Consiglio europeo del 27-28 giugno per l’occupazione giovanile non è un piano per la crescita. È la conferma di impegni simbolici assunti precedentemente . Opera con strumenti indiretti, ossia, incentivi alle assunzioni da parte delle imprese in un contesto di domanda effettiva insufficiente invece che direttamente con la creazione di nuovi posti di lavoro e per di più con risorse del tutto inadeguate se si considera che, a livello europeo, ci sono 27 milioni di disoccupati di cui 5,6 giovani. La vantata triplicazione dei fondi che deriverebbero all’Italia è propaganda politica o pubblicità ingannevole che anticipa buone intenzioni che potrebbero diventare operative a metà 2014 e nel 2015, ossia, tra 1-2 anni. Sia per le modalità, per i tempi lunghi e per l’ammontare delle risorse mobilitabili non sembrano provvedimenti che possano innescare un processo di crescita se – come prevede il Centro studi Confindustria – nel 2013 il Pil, consumi interni, e gli investimenti fissi lordi calano rispettivamente dell’1,9, il 3 e il 5,8%.
E che dire del passo in avanti sull’Unione bancaria? Anche su questo delicato fronte, l’accordo raggiunto non entusiasma nessuno perché, dopo la supervisione unica affidata alla Bce, non ci sono regole pienamente condivise in materia di regolazione dei fallimenti e ristrutturazioni. Se è corretto coinvolgere tutti i creditori, azionisti e correntisti ad eccezione dei minimi, tutti i paesi membri vogliono “salvaguardare” le loro specificità. È un fatto che il mercato bancario resta fortemente segmentato e si frappone all’efficienza ed efficacia della politica monetaria e creditizia comune. Anche qui miseria del gradualismo in un mondo in cui capitali ingenti si spostano con un click sulla tastiera del computer.
Osservatori come Dastoli e Santaniello, con lunga esperienza all’interno della struttura comunitaria, spiegano questa situazione ragionando sui limiti della costruzione europea che non prevedeva un preciso processo che portasse alla realizzazione dell’Unione economica e su quelli del Trattato di Maastricht che lasciava alla competenza dei governi dei paesi membri la competenza in materia di politica economica e finanziaria e, per di più, affidandosi a un coordinamento automatico. Il sistema che ne risulta è squilibrato perché politica monetaria e politica fiscale sono entrambi strumenti della politica economica e finanziaria. Come se non bastasse l’errore viene ripetuto con il Tfue. Ora l’avere previsto regole più stringenti di coordinamento preventivo e sanzioni più pesanti per chi le viola, di per sè, non addrizza un albero che è nato storto. Anche la politica economica è diretta dal pilota automatico della Bce.
La verità è che negli ultimi anni Commissione e Consiglio europei hanno esaurito la loro spinta propulsiva ed è diventata egemone la Banca Centrale Europea riempiendo un vuoto di iniziativa politica. Il Parlamento europeo viene emarginato e non riesce ad esercitare un effettivo controllo democratico sulle decisioni. Deve limitarsi a formulare auspici e raccomandazioni sulle questioni decisive. Il processo di integrazione subisce una evoluzione/involuzione per cui decisioni che riguardano la politica economica e sociale, che riguardano la vita dei cittadini europei vengono spostate sempre più in alto a strutture tecnocratiche al di fuori di ogni controllo democratico. I riflessi interni di questo processo sono che si restringono i margini di discrezionalità dei governi sub-centrali. Il paradosso è che non c’è un vero e proprio governo centrale a Bruxelles e quelli sub-centrali, volenti o nolenti, subiscono una progressiva erosione dei loro poteri. Anche la linea intergovernativa che si esprime a mezzo di Trattati risulta screditata ed inefficiente perché, per sua natura, arriva tardi e non riuscendo a risolvere i problemi, si delegittima da sola.
Per reagire, non solo bisogna tornare all’approccio comunitario ma bisogna riaprire il cantiere della riforma dei Trattati e andare oltre, cioè, ragionare su proposte congrue e coerenti con la costruzione di strumenti che prefigurino un assetto federale vero e proprio, un governo centrale in grado di decidere tempestivamente sotto il controllo del Parlamento europeo. Si tratta di scelta obbligata. Altrimenti non si capisce che senso abbiano le prospettate quattro unioni: bancaria, economica, fiscale, politica. Nel 2014 si vota per il Parlamento europeo. O queste questioni entrano nel dibattito elettorale oppure anche l’Unione proseguirà sulla strada del declino.
L’Ue di Maastricht e Lisbona ha dato tutto quello che poteva dare ma stiamo constatando tutti che quello che è stato fatto non è sufficiente. Nel novembre 2008 la Commissione aveva proposto un “recovery plan” da 200 miliardi di euro. Ben poca roba rispetto ai 700 miliardi di dollari che il governo Usa ha stanziato solo per salvare le banche. In ogni caso, il piano di Barroso è rimasto nei cassetti del Consiglio europeo e, così, l’economia europea precipita nella recessione senza alcun paracadute. Il governo Berlusconi, in quegli anni, negava pervicacemente che ci fosse una crisi. Dopo la pesante recessione del 2009, politici, economisti e osservatori soprattutto americani ci hanno avvertito continuamente che, senza adeguate politiche espansionistiche, l’Ue sarebbe caduta in una seconda recessione . E così, puntualmente, è accaduto nel 2011 e 2012. Anche il 2013 disgraziatamente sarà un anno di recessione per non pochi paesi periferici.
In alcuni principali paesi membri, i governi hanno salvato le banche trasformando i debiti di queste in debiti “sovrani” e, quindi, alimentando la paura di una disintegrazione dell’euro. Hanno mentito perché la vera causa del disastro è stata la speculazione incontrollata della finanza internazionale ed europea. I suoi costi sono stati scaricati sui contribuenti e, per di più, sostenendo che il modello sociale europeo è insostenibile. In sintesi, i maggiori sforzi dell’UE sono stati fatti per assicurare, con lentezza e gradualità esasperanti, un po’ di assistenza finanziaria ai paesi membri in difficoltà senza affrontare sul serio il problema della loro solvibilità. Il caso della Grecia docet e il tardivo ravvedimento del Fmi riesce a irritare persino la Commissione europea che, come noto, è uno dei componenti della famigerata Troika. Lascia imperturbata la Bce.
Resta il fatto gravissimo che l’Ue non abbia saputo conciliare il risanamento dei conti pubblici dell’Irlanda e di alcuni paesi euromed con la crescita degli stessi. Con metodo intergovernativo si sono creati alcuni strumenti di più stretto coordinamento (Twopack, Sixpack, Euro-plus, Fiscal compact), si è imposto il pareggio di bilancio persino con norme costituzionali, e si sono inasprite le sanzioni ma non ci si rende conto che il coordinamento non funziona. Non ha mai funzionato a livello internazionale nonostante i continui vertici del G7, G8, G20 e ora del G2 e non sta funzionando nella Ue. L’austerità imposta dalla Germania sta distruggendo l’Unione.
A livello ufficiale del Consiglio europeo si stenta a prendere atto che quello che fanno i veri governi degli Stati federali e centralizzati con i loro cospicui bilanci sono azioni di allocazione, stabilizzazione e redistribuzione e che, per fare questo, serve un vero governo a livello centrale. Con il Tfue la governance economica (che ingloba le tre funzioni predette e la crescita) è stata lasciata ai governi dei Paesi membri. In pratica non è stata accettata neanche la proposta compromissoria e di transizione di Tommaso Padoa Schioppa di una suddivisione di responsabilità di rigore nella gestione dei conti pubblici da mantenere ai governi dei paesi membri e della crescita all’Ue. Il volet crescita del Patto di stabilità non è mai decollato. Al contrario si è fatto di peggio e di più. Come detto, si sono stretti i ceppi alle mani e ai piedi dei governi dei paesi membri e non si è fatto e non si prevede di far niente per sostenere la crescita. È una lunga storia di errori ed omissioni senza precedenti che non sembra conoscere fine. Anche dopo il Rapporto dei quattro Presidenti del dicembre 2012 non ci sono stati passi in avanti sulla strada della costruzione di un bilancio europeo in grado di svolgere almeno le due essenziali funzioni macroeconomiche di allocazione delle risorse e di stabilizzazione del ciclo.
In altre parole, si potrà raggiungere un pareggio contabile entro un determinato anno ma difficilmente si potrà parlare di equilibrio strutturale (di medio termine) dei conti pubblici perché se l’economia non cresce, le entrate non crescono mentre le spese continuano a crescere per una serie di meccanismi automatici e anzi accelerano proprio per gli stessi motivi. E, ancor peggio, cresce il rischio di inasprimento dei conflitti sociali che, secondo l’ultimo Rapporto annuale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, è il più alto che nel resto del mondo.
È già passato un anno da quando nel giugno 2012 il Consiglio europeo ha formulato un “Compact for Growth and Jobs” e siamo punto e da capo. Con l’aggravante però che nel dicembre e nel febbraio scorsi falliva il tentativo di trovare un compromesso sulle prospettive finanziarie 2014-2020. Adesso dopo il Consiglio del 27-28 giugno ci dicono che il compromesso è stato raggiunto e che ci sarebbe un’intesa per potere spostare nel tempo anticipandole e da una voce all’altra le somme stanziate nelle cosiddette Prospettive finanziarie che evidentemente poco o punto rassomigliano a un bilancio utilizzabile ai fini della politica economica e finanziaria. Ha avuto la meglio l’Inghilterra come sui suoi rimborsi: un paese di cui è dubbia la permanenza nell’Unione.
A livello interno il governo in carica e quelli precedenti ci hanno detto che la strategia della crescita va lanciata o passa a livello europeo. Ma a Bruxelles ribadiscono che la crescita resta responsabilità dei paesi membri e va cercata nei piani nazionali di riforma (Pnr). Senza cospicui finanziamenti, questi restano per lo più documenti di buone intenzioni a cui il Parlamento italiano dedica scarsa attenzione anche perché i Pnr sono fortemente condizionati dai precedenti documenti di economia e finanza – mirati soprattutto al rispetto del vincolo di bilancio.
A mio giudizio, anche il piano varato dal Consiglio europeo del 27-28 giugno per l’occupazione giovanile non è un piano per la crescita. È la conferma di impegni simbolici assunti precedentemente . Opera con strumenti indiretti, ossia, incentivi alle assunzioni da parte delle imprese in un contesto di domanda effettiva insufficiente invece che direttamente con la creazione di nuovi posti di lavoro e per di più con risorse del tutto inadeguate se si considera che, a livello europeo, ci sono 27 milioni di disoccupati di cui 5,6 giovani. La vantata triplicazione dei fondi che deriverebbero all’Italia è propaganda politica o pubblicità ingannevole che anticipa buone intenzioni che potrebbero diventare operative a metà 2014 e nel 2015, ossia, tra 1-2 anni. Sia per le modalità, per i tempi lunghi e per l’ammontare delle risorse mobilitabili non sembrano provvedimenti che possano innescare un processo di crescita se – come prevede il Centro studi Confindustria – nel 2013 il Pil, consumi interni, e gli investimenti fissi lordi calano rispettivamente dell’1,9, il 3 e il 5,8%.
E che dire del passo in avanti sull’Unione bancaria? Anche su questo delicato fronte, l’accordo raggiunto non entusiasma nessuno perché, dopo la supervisione unica affidata alla Bce, non ci sono regole pienamente condivise in materia di regolazione dei fallimenti e ristrutturazioni. Se è corretto coinvolgere tutti i creditori, azionisti e correntisti ad eccezione dei minimi, tutti i paesi membri vogliono “salvaguardare” le loro specificità. È un fatto che il mercato bancario resta fortemente segmentato e si frappone all’efficienza ed efficacia della politica monetaria e creditizia comune. Anche qui miseria del gradualismo in un mondo in cui capitali ingenti si spostano con un click sulla tastiera del computer.
Osservatori come Dastoli e Santaniello, con lunga esperienza all’interno della struttura comunitaria, spiegano questa situazione ragionando sui limiti della costruzione europea che non prevedeva un preciso processo che portasse alla realizzazione dell’Unione economica e su quelli del Trattato di Maastricht che lasciava alla competenza dei governi dei paesi membri la competenza in materia di politica economica e finanziaria e, per di più, affidandosi a un coordinamento automatico. Il sistema che ne risulta è squilibrato perché politica monetaria e politica fiscale sono entrambi strumenti della politica economica e finanziaria. Come se non bastasse l’errore viene ripetuto con il Tfue. Ora l’avere previsto regole più stringenti di coordinamento preventivo e sanzioni più pesanti per chi le viola, di per sè, non addrizza un albero che è nato storto. Anche la politica economica è diretta dal pilota automatico della Bce.
La verità è che negli ultimi anni Commissione e Consiglio europei hanno esaurito la loro spinta propulsiva ed è diventata egemone la Banca Centrale Europea riempiendo un vuoto di iniziativa politica. Il Parlamento europeo viene emarginato e non riesce ad esercitare un effettivo controllo democratico sulle decisioni. Deve limitarsi a formulare auspici e raccomandazioni sulle questioni decisive. Il processo di integrazione subisce una evoluzione/involuzione per cui decisioni che riguardano la politica economica e sociale, che riguardano la vita dei cittadini europei vengono spostate sempre più in alto a strutture tecnocratiche al di fuori di ogni controllo democratico. I riflessi interni di questo processo sono che si restringono i margini di discrezionalità dei governi sub-centrali. Il paradosso è che non c’è un vero e proprio governo centrale a Bruxelles e quelli sub-centrali, volenti o nolenti, subiscono una progressiva erosione dei loro poteri. Anche la linea intergovernativa che si esprime a mezzo di Trattati risulta screditata ed inefficiente perché, per sua natura, arriva tardi e non riuscendo a risolvere i problemi, si delegittima da sola.
Per reagire, non solo bisogna tornare all’approccio comunitario ma bisogna riaprire il cantiere della riforma dei Trattati e andare oltre, cioè, ragionare su proposte congrue e coerenti con la costruzione di strumenti che prefigurino un assetto federale vero e proprio, un governo centrale in grado di decidere tempestivamente sotto il controllo del Parlamento europeo. Si tratta di scelta obbligata. Altrimenti non si capisce che senso abbiano le prospettate quattro unioni: bancaria, economica, fiscale, politica. Nel 2014 si vota per il Parlamento europeo. O queste questioni entrano nel dibattito elettorale oppure anche l’Unione proseguirà sulla strada del declino.
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