Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 3 novembre 2012

Una Weimar ellenica

Autore: Nicola Melloni - controlacrisi
       
Qualche settimana fa il primo ministro greco Samaras ha messo in guardia l’Europa: la democrazia greca è a grave rischio e ricorda quella di Weimar prima dell’ascesa al potere di Hitler. Una provocazione molto forte, tenuta in nessuna considerazione dalle cancellerie europee e che è passata inosservata sulla maggior parte dei media italiani. Il paragone sembra davvero essere molto forte, ma non proprio campato in aria. La storia del XX secolo ha insegnato che le crisi economiche e la caduta in disgrazia dei regimi democratici hanno spesso portato a soluzioni autoritarie e reazionarie. In Germania l’ascesa dei Nazisti al potere fu impetuosa ed avvenne in concomitanza con la grande Crisi del '29. Nel 1928 i nazisti avevano poco più del 2%, due anni dopo erano già al 18 e nel 1933 conquistarono il potere con oltre il 37%. Nel frattempo la disoccupazione era arrivata al 33%, grazie anche alle politiche di austerity dei vari governi “tecnici” che si susseguirono in Germania in quegli anni. Ad Atene non siamo ancora a questi livelli ma l’austerità ha minato le fondamenta del contratto sociale che rende possibile il normale svolgimento della vita pubblica. La maggioranza dei giovani sono disoccupati; la classe media sta ormai sparendo; il potere di acquisto è crollato; ed i servizi pubblici, a cominciare da scuola e sanità, sono al collasso. Soprattutto non sembra esserci nessuna via d’uscita, il rapporto debito/pil peggiorerà più del previsto il prossimo anno, sfiorando il 190% e richiederà, una volta di più, nuovi tagli. Al momento la crisi ha portato soprattutto all’impetuosa avanzata di Syriza che quasi solitaria si è opposta al memorandum europeo, pur volendo rimanere nella Ue - ma da membro paritario e non come junior partner senza alcun diritto di voto. Le forze della conservazione si sono arroccate dietro Nuova Democrazia che rappresenta tutto quel sistema clientelare che ha governato la Grecia negli ultimi 30 anni. Ma mentre la disoccupazione cresce ed il vecchio sistema politico pian piano si incrina, un fetore di marcio comincia a salire in superficie. I nazisti di Alba Dorata che han preso il 6% alle ultime elezioni sarebbero ormai già in doppia cifra, secondo praticamente tutti i sondaggi. La loro azione politica non è dissimile dallo squadrismo nazi-fascista degli anni '20 e '30. Picchiano gli stranieri e ne distruggono banchetti e negozi. Prendono d’assalto teatri che ospitano spettacoli a loro sgraditi. Marciano alla luce del sole sotto lo sguardo compiaciuto della polizia, decisamente infiltrata dall’estrema destra. Tra gli agenti in strada pare che qualcosa come il 50-60% simpatizzino attivamente per Alba Dorata. Non è davvero un caso allora che la stessa polizia si sia resa protagonista di comportamenti molto simili a quelli tenuti delle nostre forze dell’ordine durante il G8 di Genova. Botte gratuite ai manifestanti, arresti illegali, torture sistematiche nelle caserme. La politica istituzionale assiste inerme, quando non compiaciuta. Il Pasok è ormai sparito ma continua a sostenere un governo legato mani e piedi dalla troika. Nuova Democrazia pretende di ergersi come l’unico partito tradizionale, contro la sinistra e la destra, ma il suo esecutivo continua una politica di austerity che è insensata agli occhi di tutti, mentre difende con le unghie e con i denti i privilegi di una striminzita ma influente classe di truffatori e sfruttatori. Sia il governo attuale che quello precedente si sono rifiutati di pubblicare una lista di grandi evasori data a Venizelos (l’ex primo ministro socialista) dal Fondo Monetario e dalla Ue. Troppi nomi grossi erano coinvolti nello scandalo. Ma quando un giornalista coraggioso, Kostas Vaxevanis, è riuscito a pubblicare i nomi degli evasori, ecco che la giustizia greca, immobile fino a quel momento, si è messa immediatamente in moto. Non perseguendo gli evasori, ma arrestando il giornalista. Alla faccia del caso Sallusti – ecco quel che vuol veramente dire stampa imbavagliata. In una situazione di questo genere è inevitabile che la fiducia nella democrazia e nelle sue regole vengano meno. I cittadini vedono che lo squadrismo resta impunito; che la polizia viola i diritti umani; che i soliti noti godono dell’impunità più sfacciata mentre chiunque si opponga viene messo a tacere, con le buone o con le cattive. Soprattutto, i cittadini greci vivono in un paese a sovranità limitata, non più padroni del loro destino, non più in grado di esprimere la loro opinione. In tutto questo l’Europa non batte ciglio. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato ultimamente diversi studi che spiegavano quanto fosse controproducente l’austerity. La stessa Christine Lagarde ha richiesto una tempistica diversa per ripagare il debito, in effetti sposando la richiesta di Samaras di aver un po’ più tempo per rimettere a posto i conti. Ma nulla da fare, la politica europea non è disposta a transigere. Almeno sui numeri, mentre sull’etica è tutto un altro discorso – Merkel&C. hanno tifato ed aiutato Nuova Democrazia in ogni maniera pur sapendo che proprio quelle stesse persone che stavano per tornare al governo erano state le principali protagoniste del disastro greco, e pur sapendo benissimo che quella lista di evasori e ladri chiamava in causa proprio conservatori e socialisti che siedono ora al governo. E’ un Europa cieca che si rifiuta di vedere a quali disastri stia portando il rigore finanziario, proprio come fecero i governi tedeschi tra il 1928 ed il 1933. I poteri tradizionali lottano col coltello tra i denti per mantenere le loro posizioni di privilegio, per ora attaccati alla sopravvivenza della vecchia politica clientelare che ha però ormai finito i soldi da distribuire. La classe politica è ormai delegittimata, le istituzioni democratiche cominciano a vacillare, come i fatti sopraelencati chiaramente dimostrano. La soluzione neo-liberale di restringere tutti gli spazi di democrazia attiva rischia di non poter reggere l’urto della crisi economica e dell’esplosione sociale. Il tempo per risolvere questa situazione sta rapidamente finendo e se si continuerà ad andare avanti di questo passo il parallelo con Weimar rischia di diventare drammaticamente attuale.

Ritorno a Firenze. Come aprire una breccia nella muraglia liberista

Le attuali politiche dell'Europa sono indifendibili, un'altra rotta è obbligatoria. Come passare dalla protesta alla proposta e all'unione su una politica diversa. Vero antidoto all'astensione e al grillismo

- sbilanciamoci -
Da quando ci siamo trovati, e felicemente, a Firenze il 9 dicembre 2011 al Forum su “La via d’uscita” molto tempo è passato, e pare più lungo per l’infittirsi delle strette dell’“austerità” seguite in Europa dopo la crisi del 2008. La spinta dei movimenti non solo non si è affievolita, al contrario, anche se, come osserva Donatella Della Porta, la loro seconda ondata ha un carattere più nazionale, forse di minor respiro della prima, altermondialista. Ma è importante che sempre più spesso si passi dalla protesta alla proposta, dal generoso ma irrealistico “Non pagheremo la vostra crisi”, che stiamo pagando tutti i giorni, al “come è possibile una politica diversa”.
I poteri forti e le istituzioni sembrano i soli a non sentire questa voce, quando non tentano di azzittirla come in Grecia e in Spagna; e continuano a seguire la strada liberista, accumulando il peso della crisi sulle spalle dei paesi meno ricchi e delle classi subalterne. È una strada crudele e senza sbocco, come si sgolano a ripetere non dei marxisti di ferro, ma studiosi come Krugman e Stiglitz, cui si aggiunge qualche voce anche nostra, come Luciano Gallino o Guido Rossi. Il Portogallo, la Spagna, l’Italia e, più drammaticamente, la Grecia sono entrati o stanno entrando in recessione, la crescita non decolla, mentre aumenta (da noi di quattro punti) il debito per pagare il debito, senza che si veda un lumicino di ripresa, checché ne dica Mario Monti.
In Francia gli attacchi al governo Hollande e ai suoi modesti ritocchi, fatti o annunciati, alla fiscalità dei più abbienti hanno sollevato una inedita gazzarra della destra e di tutte le tv e dei grandi giornali, che impressiona anche l’opinione comune (“se il governo li tassa, si capisce che vadano fuori dal nostro paese”, sento sussurrare da poveri e povere diavole al mercato). Sempre in Francia chiude o delocalizza un’impresa alla settimana, la previsione di crescita è stata ridotta dallo 0,8 allo 0,2, grandinano i tagli sui servizi pubblici (escluse educazione e sanità), i disoccupati hanno superato i tre milioni, cioè il 10 per cento delle forze di lavoro, e non cessano di salire.
In Europa i disoccupati sono quasi 26 milioni, senza contare – vero e proprio imbroglio – i milioni di precari, ”occupati” per i pochi giorni al mese o all’anno (Gallino, Fumagalli). Se la Bce è riuscita a bloccare gli eccessi della speculazione finanziaria sui paesi indebitati, le condizioni che vengono loro fatte diventano estreme, e il tentativo è di sottoporne ogni spesa a un controllo ed eventuale veto del vertice dei più forti. Le resistenze dei paesi del virtuoso nord nei confronti del sud “cicala” dimostrano quanto sia esile la solidarietà continentale; appena l’euro sembra in salvo non si nasconde l’intenzione di arrivare a un’Europa a due velocità.
Almeno fosse una terapia crudele ma efficace. Non lo è. Non risana i bilanci e spinge alla disperazione il novanta per cento delle popolazioni, sulla schiena delle quali sgavazzano il dieci per cento dei più ricchi e, in essi, soprattutto l’uno per cento più ricco (per cui solo la produzione di lusso è sicura di fare guadagni esponenziali), con il risultato che dovunque si sta riformando un’estrema destra che non se la prende con i padroni, ma con l’Europa e i suoi meccanismi, lasciando quel che era il grande bacino della sinistra per modelli di stampo fascista, che parevano estinti per sempre con la seconda guerra mondiale. Quel che era una volta l’ovvio e magari rozzo risentimento contro i ricchi sta facilmente diventando massa di manovra dei più forti. Le pavide sinistre sembrano aver dimenticato la lezione del 1900.

Grecia, la Corte dei Conti boccia riforma delle pensioni voluta dal governo con la troika

- controlacrisi -
La Corte dei Conti greca ha bocciato una gran parte della riforma delle pensioni voluta dal governo ma anche concordata con la troika.
La Corte infatti che ha esaminato i provvedimenti legislativi chesaranno al vaglio del Parlamento, ha ritenuto incostiruzionali alcuni passaggi della riforma.

In modo particolare la Corte non giustifica l'aumento dell'età pensionabile a 67 anni né il taglio dal 5% al 10% dei rimborsi pensionistici.
Fa sapere inoltre che dall'inizio del piano per slavare il Paese, il fatto di ridurre, e per la quinta volta consecutiva, le pensioni viola una serie di diritti tutelati dalla Costituzione.

Tra questi i principi di dignità della persona e di uguaglianza di fronte alla legge.

I parlamentari che la settimana prossima dovranno votare le nuove misure di austerità richieste dalla troika potranno anche non tener conto del parere della Corte, tuttavia i cittadini greci potrebbero ricorrere contro la legge, se venisse approvata. In questo mondo verrebbe minacciato minando il pacchetto di riforme sulla base del quale il governo sta negoziando con la troika i nuovi aiuti internazionali.

Il governo dai tagli alle pensioni prevede circa la metà dei 9,37 miliardi di euro di risparmi previsti nel bilancio per il 2013. I risparmi di spesa dovranno rientrare in un pacchetto di misure di austerità da 13,5 miliardi di euro. Per questo il governo sta faticosamente contrattando con la troika.

“Che si fotta la troika”: Lisbona di nuovo in piazza

Fonte: CONTROPIANO.ORG | Autore: Luca Fiore
Lo slogan 'que se lixe a troika' torna a risuonare davanti al parlamento portoghese contro l'approvazione di una finanziaria pesantissima per le famiglie e i lavoratori. Niente scontri ma rabbia crescente. L'Unione Europea chiede di più.
Alla fine di un lungo e tempestoso dibattito parlamentare ieri pomeriggio l’Assemblea della Repubblica di Lisbona ha approvato in prima lettura un bilancio dello Stato fitto di tagli, licenziamenti e privatizzazioni. A favore hanno votato solo i deputati dei partiti di centrodestra che sostengono il governo – il Psd e il Cds-PP – mentre contro si sono espressi tutti gli altri: i socialisti, i comunisti del Pcp, la sinistra radicale del Bloco de Esquerda, i Verdi. Rui Barreto, un deputato del Cds eletto nell’isola di Madeira, ha disobbedito al suo partito e ha votato contro la Finanziaria, e contro di lui potrebbe scattare l’espulsione.
Inizialmente era previsto che il voto finale avvenisse in serata. Ma poi il presidente della Camera, su richiesta della maggioranza, ha deciso di accelerare l’iter per arrivare alla votazione prima che la piazza antistante l’Assemblea si riempisse di manifestanti.
Che a migliaia si sono dati appuntamento davanti al Palazzo del Parlamento nel tardo pomeriggio, per protestare contro i tagli e la politica dei sacrifici a senso unico. Nel segno dello slogan “que se lixe a troika” (che si fotta la troika) che alcune settimane fa ha riempito Lisbona di centinaia di migliaia di lavoratori, giovani e disoccupati arrabbiati.
Anche questa volta, scandendo slogan come ''svegliati popolo del Portogallo'' e ''Fuori la troika'' i manifestanti hanno preso di mira soprattutto il ruolo delle istituzioni dell’Unione Europea e del Fondo Monetario visti sempre più, nei paesi sottoposti all’austerity, come vampiri assetati del sangue dei popoli. ''Abbasso i traditori!" e ''Vergogna'' hanno gridato i manifestanti mentre le auto blu con a bordo i membri del governo lasciavano il Parlamento dopo l'approvazione di una Finanziaria pesantissima: ben 5,3 miliardi di euro per un paese di 10 milioni di abitanti, l'80% dei quali di nuove tasse sui lavoratori. Una manovra che a una famiglia media portoghese costerà quasi due mesi di salario, condannando alla povertà una fascia larghissima della popolazione già stremata dalla cura da cavallo dei tecnocrati dei banchieri di Bruxelles e Francoforte.
Già alle 15 comunque centinaia di lavoratori aderenti al sindacato comunista CGTP riempivano la piazza aspettando l'arrivo dei cosiddetti 'indignados' e cantando “Grândola, Vila Morena”, la canzone la cui messa in onda da parte di alcune radio portoghesi diede il là all’inizio della rivoluzione antifascista nel 1974. Per abbandonare il Parlamento i deputati hanno dovuto far ricorso a delle uscite secondarie, protetti da centinaia di poliziotti in assetto antisommossa, mentre i manifestanti esplodevano petardi. Al calar della notte centinaia di persone hanno divelto o scavalcato le transenne poste a protezione dell’Assemblea Nazionale, e hanno acceso un enorme falò a pochi passi dal Parlamento finché intorno alle 21 la piazza si è svuotata.
Contro il Bilancio del governo guidato da Passos Coelho, però, si è schierata, oltre a sindacati e partiti di sinistra, anche l’associazione dei magistrati, che accusa l’esecutivo di aver violato il principio costituzionale dell’equa tassazione. Se la Corte Costituzionale concorderà con questa accusa, l’approvazione definitiva della manovra prevista per il 27 novembre verrebbe vanificata e si aprirebbe una crisi politica senza precedenti.
Intanto però a Lisbona, avvertono alcuni quotidiani portoghesi, sono già arrivati gli emissari della troika. I delegati di Fmi, Banca Centrale e Commissione Europea sono nella capitale a vigilare sull’approvazione delle “raccomandazioni” fatte in questi mesi a Passos Coelho e a suggerirne di nuove. In particolare la troika preme affinché il governo di centrodestra vari al più presto una profonda riforma dello Stato, fatta di privatizzazioni nella sanità e nell’istruzione, di cancellazione del contratto nazionale di lavoro, di aumento dell’età pensionabile. L’inverno a Lisbona durerà ancora a lungo.

I grandi banchieri nel 2011 in Italia sono costati 134 milioni

Fonte: ilfattoquotidiano.it
       

Ammontano a circa 134 milioni di euro i compensi erogati, nel 2011, dalle prime otto banche italiane ai propri consiglieri, dirigenti e sindaci. A fare i conti in tasca agli istituti di credito dopo l’invito di ieri del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, a ridurre i costi di dirigenti e amministratori, è stata l’Ansa che ha spulciato nelle relazioni sulle remunerazioni del 2011 delle banche quotate e che includono il costo dei consigli, dei collegi sindacali e dei dirigenti strategici, questi ultimi in numero variabile a seconda dell’organizzazione. In dettaglio Intesa Sanpaolo ha speso circa 28,3 milioni, Mediobanca 20,8 milioni, Unicredit 18,7 milioni, il Banco Popolare 18,2 milioni, Ubi Banca 13,4 milioni, Mps 13,2 milioni, la Bpm 11,1 e la Popolare dell’Emilia 10,7 milioni.
E questo nonostante lo scorso esercizio non sia stato dei più entusiasmanti per le banche italiane, in perdita, secondo i dati Consob, per 26,1 miliardi a causa della svalutazione degli avviamenti accumulati negli anni delle grandi acquisizioni. Tanto che gli istituti hanno avviato programmi di esuberi che coinvolgono circa 20mila dipendenti. I banchieri più pagati nel 2011 sono stati quelli in uscita, grazie ai trattamenti di fine rapporto e alle buonuscite che però, complice la crisi, non raggiungono più i livelli stellari a cui ci avevano abituati Alessandro Profumo (40 milioni da Unicredit), Matteo Arpe (circa 31 milioni per l’addio da Capitalia) e Cesare Geronzi (20 milioni da Capitalia, con un bis da 16 milioni alle Generali). In testa alla classifica dei banchieri del 2011 si colloca Antonio Vigni, ex direttore generale della disgraziata Monte dei Paschi di Siena oggi in condizioni disperate, che ha percepito 5,4 milioni (4 milioni a titolo di trattamento di fine rapporto), appaiati a 3,5 milioni ci sono il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, ex ad di Intesa Sanpaolo (che ha rinunciato alla buonuscita, incassando solo il Tfr) e l’ex direttore generale della Bpm di Massimo Ponzellini, Fiorenzo Dalu. Appena dietro si colloca Mimmo Guidotti, ex direttore della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, con 3,3 milioni. Al netto delle buonuscite, il podio dei banchieri d’oro del 2011 vede Mediobanca realizzare una doppietta, con Renato Pagliaro (2,6 milioni) e Alberto Nagel (2,47 milioni). Oltre a Passera hanno ricevuto uno stipendio da consiglieri di banca altri tre ministri del governo Monti: si tratta di Elsa Fornero (332mila euro da Intesa), Piero Giarda (101mila euro dal Banco Popolare) e Piero Gnudi (117 mila euro da Unicredit).

Cosa e' successo in Sicilia

" Cosa è successo in Sicilia? Il dato politico fondamentale è uno solo, quello che alcuni temevano, altri si aspettavano, altri ancora snobbavano: ora c’è una nuova forza, che fa sul serio. Nuova perché al di là di ogni logica partitica “classica” fondata sulla suddivisione destra - centro - sinistra. È dalla crisi di questa logica, della forma-partito, che è sorto questo movimento di opposizione: il MoVimento 5 Stelle. Il quale, da oggi, è la prima forza politica in Sicilia: 15 seggi contro i 14 del Pd ed i 12 del Pdl. Con questo movimento è nato un nuovo modo di fare politica che parte dei bisogni della gente e cerca di offrire soluzioni concrete praticabili e non imposte dall’alto, ma che nascono dal confronto e dal dibattito pubblico. Il MoVimento aspira così a presentare nel nostro Paese una nuova immagine della democrazia: non più fondata sull’idea di rappresentanza e sulla delega ai partiti, bensì sulla diretta partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Partecipazione che passa attraverso una nuova forma di comunicazione, la rete (blog, twitter, etc.), aggirando gli organi tradizionali come stampa e televisione, su cui invece contano gli altri partiti. È questa inedita fusione tra la concezione “originaria” della democrazia e la rivoluzione delle forme di comunicazione che rende, per la prima volta, possibile una autentica partecipazione del cittadino alla politica. Per questo il MoVimento dà prova di essere profondamente radicato nel territorio e, al contempo, di non conoscere confini, campanilismi, clientele. Il voto in Sicilia lo conferma. Il MoVimento “sfonda” nelle città (Palermo, con 43.000 voti contro i 26.000 del Pd, ma anche Messina, Agrigento e Caltanisetta). E cosa fanno i neo-eletti? Parlano con i cittadini, cercando di rispondere alle loro domande, mentre quelli degli altri partiti sperimentano la possibile tenuta del “patto di ferro” tra Pd ed Udc per le prossime elezioni politiche. C’è un abisso che separa la vecchia dalla nuova politica. Il MoVimento chiude definitivamente i conti con il “politico di professione”, con la rappresentanza, con il “vivere della politica”: il politico del MoVimento è un cittadino come gli altri che, con il sapere che gli deriva dalla professione che esercita nella società, si mette per un breve periodo della sua vita al servizio degli altri cittadini, per poi ritornare alle sue precedenti occupazioni. Egli vive, finalmente, per la politica, per i cittadini. Radicato nel territorio, ma senza i limiti che sono propri dei governi locali e localistici, il MoVimento 5 Stelle ha cominciato davvero a fare sul serio e, dopo la Sicilia, lo attendono le prove della Lombardia e del Lazio che, probabilmente, precederanno le elezioni politiche. E sarà proprio in vista delle elezioni politiche che, rispetto ai programmi regionali, il MoVimento dovrà discutere al suo interno, ed elaborare una soluzione nuova ed originale, il problema fondamentale del nostro Paese: quello della posizione italiana in Europa e del destino della moneta unica. Mentre tutti i partiti politici (se si esclude quel che resta della Lega Nord) sono “allineati” con la posizione del Governo dell’ “europeismo” ad oltranza, il MoVimento potrà - e dovrà - dare una nuova “scossa” alla politica italiana. Le elezioni in Sicilia sono un nuovo inizio. Ce n’est qu’un debut, continuons le combat! " Paolo Becchi

Intervista a Samir Amin


di Ruben Ramboer - rifondazione -
"Il capitalismo entra nella sua fase senile" "Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale". Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E lo è ancor meno con la politica dei governi. "Economizzare per ridurre il debito? Menzogne deliberate"; "Regolazione del settore finanziario? Frasi vuote". Egli ci consegna la sua analisi al bisturi della crisi economica. Dimenticate Nouriel Roubini, alias dott. Doom, l'economista americano diventato famoso per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all'inizio degli anni 1970.
"All'epoca, economisti come Frank, Arrighi, Wallerstein, Magdoff, Sweezy ed io stesso, avevamo detto che la nuova grande crisi era cominciata. La grande. Non una piccola con le oscillazioni come ne avevamo avute tante prima, ricorda Samir Amin, professore onorario, direttore del forum del Terzo Mondo a Dakar ed autore di molti libri tradotti in tutto il mondo. "Siamo stati presi per matti. O per comunisti che desideravano quella realtà. Tutto andava bene, madama la marchesa… Ma la grande crisi è davvero cominciata a quel tempo e la sua prima fase è durata dal 1972-73 al 1980".
Parliamo per cominciare della crisi degli ultimi cinque anni. O piuttosto delle crisi: quella dei subprimes, quella del credito, del debito, della finanza, dell'euro… A che punto siamo?
Quando tutto è esploso nel 2007 con la crisi dei subprimes, tutti hanno fatto finta di non vedere. Gli europei pensavano: "Questa crisi viene dagli Stati Uniti, la assorbiremo rapidamente". Ma, se la crisi non fosse venuta da là, sarebbe cominciata altrove. Il naufragio di questo sistema era scritto e lo era fin dagli anni 1970. Le condizioni oggettive di una crisi di sistema esistevano ovunque. Le crisi sono inerenti al capitalismo, che le produce in modo ricorrente, ogni volta in modo più profondo. Non si possono comprendere le crisi separatamente, ma in modo globale. Prendete la crisi finanziaria. Se ci si limita a questa, si troveranno soltanto cause puramente finanziarie, come la deregolamentazione dei mercati. Inoltre, le banche e gli istituti finanziari sembrano essere i beneficiari principali di quest'espansione di capitale, cosa che rende più facile indicarli come unici responsabili. Ma occorre ricordare che non sono soltanto i giganti finanziari, ma anche le multinazionali in generale che hanno beneficiato dell'espansione dei mercati monetari. Il 40% dei loro profitti proviene da operazioni finanziarie. Quali sono state le ragioni oggettive della diffusione della crisi? Samir Amin. Le condizioni oggettive esistevano ovunque. È la sovranità "degli oligopoli o dei monopoli generalizzati" che ha posto l'economia in una crisi di accumulazione, che è allo stesso tempo una crisi di sottoconsumo ed una crisi di profitto. Solo i settori dei monopoli dominanti hanno potuto ristabilire il loro tasso di profitto elevato, distruggendo però il profitto e la redditività degli investimenti produttivi, degli investimenti nell'economia reale.
"Il capitalismo degli oligopoli o monopoli generalizzati" è il nome con cui lei chiama una nuova fase di sviluppo del capitalismo. In cosa questi monopoli sono diversi da quelli di un secolo fa?
La novità è nel termine "generalizzato". Dall'inizio del 20° secolo, ci sono stati attori dominanti nel settore finanziario e nel settore industriale, nella siderurgia, la chimica, l'automobile, ecc. Questi monopoli erano grandi isole nell'oceano delle piccole e medie imprese, realmente indipendenti. Ma, da una trentina di anni, assistiamo ad una centralizzazione sproporzionata del capitale. La rivista Fortune cita oggi 500 oligopoli le cui decisioni controllano l'intera economia mondiale, dominando a monte e a valle tutti i settori di cui non sono direttamente proprietari. Prendiamo l'agricoltura. Una volta un contadino poteva scegliere tra molte imprese per le sue attività. Oggi, piccole e medie imprese agricole devono affrontare a monte il blocco finanziario di colossi bancari e monopoli di produzione dei fertilizzanti, dei pesticidi e degli OGM di cui Monsanto è l'esempio più eclatante. E, a valle, deve affrontare le catene di distribuzione e i grandi supermercati. Con questo doppio controllo, la sua autonomia e i suoi redditi si riducono sempre di più.

venerdì 2 novembre 2012

Noam Chomsky: Chi possiede il mondo?

Fonte: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
          
AMY GOODMAN: Siamo a Portland, Oregon, nell'ambito del tour in 100 città organizzato dalla Maggioranza ridotta al silenzio. Questa settimana in cui il presidente Obama e l’aspirante alla presidenza, Mitt Romney hanno fatto un dibattito su problemi di politica estera, e sull’economia, noi ci rivolgiamo a Noam Chomsky, dissidente politico famoso in tutto il mondo, linguista, scrittore, e professore al MIT. In un recente discorso, il professor Chomsky ha esaminato argomenti in gran parte ignorati o soltanto accennati durante la campagna elettorale, dalla Cina alla Primavera Araba, al riscaldamento globale e alla minaccia nucleare posta da Israele contro l’Iran. Ha parlato il mese scorso all’Università del Massachusetts ad Amherst a un evento sponsorizzato dal Center for Popular Economics. La sua conferenza era intitolata. “Chi possiede il mondo?”
NOAM CHOMSKY: quando pensavo a queste osservazioni, avevo in mente due argomenti, non riuscivo a decidere quale dei due scegliere, in effetti molto ovvii. Uno è: quali sono i problemi più importanti che dobbiamo affrontare? Il secondo è: quali problemi non si stanno trattando seriamente – o per nulla – in questa follia quadriennale in corso che si chiama elezione? Mi sono però reso conto che non c’è un problema; non è una scelta difficile: sono lo stesso argomento. E ci sono delle ragioni che sono di per se stesse molto significative. Mi piacerebbe tornare su questo punto fra un momento. Prima dirò alcune parole sul contesto, iniziando dal titolo che è stato annunciato: “Chi possiede il mondo?”
In realtà, una bella risposta a questa domanda è stata data tanti anni fa da Adam Smith, una persona che ci si aspetta che adoriamo, ma che non leggiamo. Era un po’ sovversivo quando lo si legge. Si riferiva alla nazione che era la più potente del mondo ai suoi tempi, e, naturalmente, era la nazione che lo interessava, cioè l’Inghilterra. E ha fatto notare che in Inghilterra gli architetti della politica sono coloro che possiedono la nazione: e che ai suoi tempi erano i mercanti e i produttori di merci. E ha detto che essi si assicurano di disegnare le linee politiche, in modo che i loro interessi vengano seguiti in modo particolare. La politica è al servizio dei loro interessi, per quanto sia doloroso l’impatto sugli altri, compreso il popolo inglese.
Smith era, però un conservatore vecchia maniera con principi morali, quindi ha aggiunto le vittime dell’Inghilterra, le vittime di quella che chiamava “l’ingiustizia selvaggia degli Europei”, dimostrata specialmente in India. Ebbene, non aveva illusioni su chi fossero i proprietari, quindi, per citarlo di nuovo, “Tutto per noi stessi e nulla per le altre persone, sembra, in ogni età del mondo, essere stata la ignobile massima dei padroni del genere umano.” Era vero allora; è vero adesso.
La Gran Bretagna ha mantenuto la sua posizione come potenza mondiale dominante quando il ventesimo secolo era già cominciato da un pezzo, malgrado il suo declino progressivo. Alla fine della seconda guerra mondiale, il dominio si era spostato rapidamente nelle mani dell’ultimo arrivato al di là del mare, gli Stati Uniti, di gran lunga la società più potente e ricca nella storia del mondo. La Gran Bretagna poteva aspirare soltanto ad essere il suo socio meno anziano, come aveva mestamente riconosciuto il Foreign Office britannico (il mistero degli esteri). In quel momento, il 1945, gli Stati Uniti possedevano letteralmente la metà della ricchezza mondiale, incredibile sicurezza, controllavano l’intero emisfero occidentale, entrambi gli oceani, le sponde opposte di entrambi gli oceani. Non c’è nulla, non c’è mai stato nulla del genere nella storia.
E i pianificatori lo hanno capito. I pianificatori di Roosvelt si incontravano durante la Seconda guerra mondiale per disegnare il mondo del dopo guerra. Erano molto sofisticati al riguardo, e i loro piani sono stati abbastanza messi in pratica. Volevano assicurarsi che gli Stati Uniti avrebbero controllato quella che chiamavano una “grande area” che avrebbe incluso, sistematicamente l’intero emisfero occidentale, tutto l’Estremo Oriente, l’ex Impero britannico, di cui gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo, e il più possibile dell’Eurasia – cosa di importanza cruciale – i suoi centri di commercio e di industria in Europa occidentale. E nell’ambito di questa area, dicevano, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto un potere indiscutibile con una supremazia militare ed economica, assicurando nello stesso tempo la limitazione di qualunque esercizio di sovranità da parte di stati che potessero interferire con questi disegni globali.
Quelli erano piani piuttosto realistici a quell’epoca, data l’enorme disparità di potere. Gli Stati Uniti erano stati di gran lunga il più ricco paese del mondo perfino prima della Seconda Guerra mondiale, sebbene non ne fossero ancora i principali protagonisti mondiali. Durante la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano guadagnato moltissimo. La produzione industriale era quasi quadruplicata, e ci aveva fatto uscire dalla depressione economica. I rivali nell’industria sono stati rovinati o seriamente indeboliti. Era dunque un sistema di potere incredibile.

Atene, Corte Conti boccia piano pensioni: ‘Incostituzionale’

La decisione dei magistrati contabili, vincolante per l’esecutivo, si abbatte come un fulmine nel già terso cielo greco, con la maggioranza del premier Samaras che perde pezzi. Non a caso la piazza finanziaria ellenica tracolla del 6,5% con i titoli bancari a picco. Torna l'incubo dracma

Crisi Grecia
 
La riforma pensionistica chiesta dalla Troika è incostituzionale. Così la Corte dei Conti greca sul terzo memorandum, in fase di approvazione dal Parlamento ellenico, che costituisce la spina dorsale delle misure propedeutiche alla concessione della nuova tranche di aiuti da 31 miliardi, per evitare un default ormai nei fatti già avvenuto. E la Borsa ellenica crolla del 6,5% facendo tornare l’incubo dracma.
I magistrati dell’Alta Corte hanno infatti giudicato fuori dal dettato costituzionale il taglio delle pensioni (il quinto dall’inizio della crisi) e l’innalzamento di due anni dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, in quanto la misura chiesta dai creditori internazionali si pone in palese contrasto con “l’obbligo costituzionale di rispettare e proteggere la dignità umana nell’osservanza dei principi di uguaglianza e proporzionalità professionale”.
La decisione dei magistrati contabili, vincolante per l’esecutivo, si abbatte come un fulmine nel già terso cielo greco, con la maggioranza del premier Samaras che perde pezzi: se ieri il primo articolo del memorandum era passato nonostante l’astensione di Venizelos e Kouvellis, oggi si registrano due defezioni. Lasciano il Pasok i deputati Kassis e Xenogiannopoulou, tanto che il leader socialista nel corso di un’infuocata assemblea nella sede di Ippokratus arriva a minacciare che chi non voterà il piano sarà fuori dal partito.
Nel frattempo la giornata prosegue con il tracollo della Borsa, che nella capitale ellenica riporta un indice generale preoccupante, con il settore bancario che perde più di tutti (meno 12%), a fronte di un calo complessivo del 6,5% già di per sé imponente. Delle aziende quotate, 117 sono in negativo, 19 in positivo, mentre 14 invariate. Ma a spaventare i cittadini greci, che torneranno in piazza per uno sciopero generale il 6 e il 7 novembre, è la portata del nuovo memorandum sul quale il titolare delle finanze Iannis Stournaras ha già detto che “la Troika non ha fatto alcun passo indietro”, ammettendo che le concessioni sulla pelle dei cittadini sono quindi state avallate solo dal governo greco.
I tagli non ammontano più a 11,5 miliardi di euro fino al 2014, ma sono saliti a 18,8 miliardi con il cuscinetto di un biennio in più: significa che il memorandum, se dovesse essere approvato la prossima settimana dalla Camera, “scadrebbe” nel 2016. Anche se, come molti analisti osservano, non risolve a monte il problema ellenico, dal momento che i 31 miliardi promessi dalla Troika e che dovranno essere avallati dall’Eurogruppo del 12 novembre, saranno sufficienti alle casse dello Stato per soli sei mesi. E comunque dopo quella data si ripresenterà il problema di sempre in Grecia, che costituisce una costante dall’inizio della crisi ad oggi: il denaro. E che fino ad oggi nessuna cura è riuscita a sanare.

giovedì 1 novembre 2012

A.A.A. Sovranità vendesi

- byoblu -
"A.A.A. Cittadinanza vendesi. Preferibilmente a cinesi. Telefonare ore pasti. Parlamento Ungherese". Questa in sostanza l'essenza della proposta di legge appena presentata in Ungheria. In cambio di una "via preferenziale" nell'ottenimento della cittadinanza, l'Ungheria chiede agli extracomunitari l'acquisto di almeno 250mila euro in titoli di Stato. Negli Stati Uniti puoi avere la Green Card, preludio all'ottenimento del passaporto, ma se ti dimostri meritorio nel settore dell'occupazione, con almeno un milione di dollari di investimenti e 10 nuovi posti di lavoro creati. In Ungheria, invece, diventi sovrano (perché il cittadino è, almeno in teoria, sovrano).
E' il trionfo del mercato. Presto si inizeranno a vendere seggi parlamentari in cambio di un quantitativo minimo di Btp, magari cariche istituzionali, che ne so: una presidenza del Consiglio, un Ministero. A chi si comprerà tutte le emissioni di un intero anno solare potrà essere assegnata la Presidenza della Repubblica ad honorem, e se qualcuno - magari Goldman Sachs - volesse rilevare l'intero ammontare del debito pubblico, potrebbe diventare padrone, depositando i diritti d'autore regolarmente alla SIAE, della Carta Costituzionale, avendo così il privilegio di cambiarla a piacemento, magari per restaurare lo Statuto Albertino o la mercato-crazia.

L'Ungheria sta negoziando un difficile prestito da 15 miliardi con la Troika. Ecco il risultato di questo modello culturale interamente basato sulla contabilità spicciola, dove la creazione di denaro non è più funzionale al benessere dei popoli, ma questi sono sacrificabili sull'altare del controllo sociale e demografico, ottenuto mendiante la grande usura legalizzata (senza averla mai votata) delle istituzioni internazionali.

Le peculiarità del movimento grillino

- rifondazione -

di Giovanni Cocconi
Il successo di Grillo si ripeterà alle politiche e in che proporzioni?
Tutti i sondaggi in Sicilia davano Grillo sopra il 15 per cento. Non è vero che non ha recuperato niente dall’astensionismo, anzi. Il problema è che la fuga dal voto è stata talmente forte tra gli elettori di tutti gli altri partiti che il recupero fatto dal M5S l’ha solo lievemente limitata. Il successo alle politiche dipenderà dall’effettiva offerta politica e dalla stessa legge elettorale (e quindi da chi l’elettore può pensare governerà dopo il voto).
In termini di consenso il fenomeno Cinquestelle può anche ulteriormente rafforzarsi. Molti cittadini che oggi non si pronunciano potrebbero decidere di tornare a votare. Se a livello nazionale si ripetesse questa quota di astensionismo Grillo replicherebbe il successo siciliano. Se, invece, tornasse a svilupparsi una contesa forte tra centrodestra e centrosinistra la gente potrebbe tornare a votare Pd e Pdl.
Il M5S è destinato a durare a lungo nella politica italiana?
Nell’ultimo messaggio sul suo blog Grillo si definisce per la prima volta come il capo del Movimento 5 Stelle e definisce in modo molto rigido i paletti per le candidature in parlamento. Regole, per dire, molto più rigidi di quelle del Pd. Però non possiamo dire che il M5S abbia un’identità forte come quella della Lega, il più antico partito politico in parlamento, anzi forse deve ancora trovarla. Dalle nostre ricerche, tuttavia, emerge un fortissimo senso di appartenenza degli attivisti, una community che si è creata in gran parte online e che è molto reticente a raccontare all’esterno le dinamiche interne. Questa dimensione tenderà a crescere da qui alle elezioni. Il problema più delicato è che la Lega aveva un riferimento esterno molto forte, l’identità locale e nordista, riferimento che in questo caso ancora manca. Potrebbe diventarlo il richiamo ecologista o quella libertario o quello dei diritti. Il Cinquestelle, però, non è il nuovo Uomo qualunque.
Nel M5S prevale la dimensione orizzontale o quella verticale?
Fifty fifty. Il caso Favia è stato rapidamente riassorbito. Anche nei sondaggi che conduciamo tra glio attivisti emerge il ruolo forte attribuito a Grillo. Ma non è un nuovo berlusconismo dove, sostanzialmente, si delegava al leader il compito di soddisfare le domande degli elettori. Qui esiste un’autodefinizione di Grillo come capo ma il messaggio è l’opposto: “fate voi le cose, non le faccio io al posto vostro”. E poi la dimensione di comico gli offre strumenti in più per parlare alla gente, il suo messaggio va più in profondità. Nel libro cerchiamo di spiegare la natura tutta particolare di questa leadership che rende il M5S diverso dagli altri partiti. Il messaggio del movimento è: noi siamo un veicolo perché i cittadini contino di più. Nessuna delega alla politica, ma una forma di democrazia interna al movimento molto forte.
Il M5S ruba più consensi a sinistra o a destra?
Ogni partito critico verso la politica pesca voti a destra e a sinistra. Anche la Lega, a suo tempo, rubò voti a sinistra.
Il M5S è un antidoto all’ondata neo-populista in Europa o no?
Tutti questi movimenti neo-populisti nascono dalla sfiducia nei partiti e dalla loro crisi di legittimità ma la risposta di ognuno è diversa. La specificità del M5S rispetto alla nuova destra europea è quella di voler accorciare la distanza tra cittadino ed eletto, di incentivare la partecipazione diretta ma proponendo contenuti tipici di una certa sinistra libertaria post-ideologica.
da Europa

A Firenze l'altra Europa è pronta

Fonte: sbilanciamoci.info | Autore: Tommaso Fattori
       
Dall’8 all’11 novembre a Firenze si tiene l’incontro europeo “Firenze 10+10. Unire le forze per un’altra Europa”: movimenti, sindacati e associazioni di tutta Europa si scambieranno esperienze e proporranno le alternative alle politiche che hanno portato l’Europa alla crisi. Un appuntamento da non perdere.
Mai lasciarsi sfuggire l’occasione offerta da uno shock sistemico per portare a compimento la rivoluzione neoliberista, secondo il suggerimento di Milton Friedman.
Mentre “mercati” e “tecnici” insistono fantasiosamente nel propagandare crisi e debiti pubblici come l’effetto di un’eccessiva spesa sociale e di un insostenibile costo del lavoro, assistiamo alla “strana morte mancata del neoliberismo” (Crouch), vera causa del disastro economico, sociale ed ambientale in cui siamo immersi. Nel frattempo i poteri economico-finanziari utilizzano la crisi per annientare i diritti sociali e del lavoro e per privatizzare beni comuni e servizi pubblici. La crisi finanziaria e bancaria, trasformata in crisi del debito pubblico, si è ulteriormente tradotta in crisi, anzi in agonia, della tradizionale democrazia rappresentativa, in un quadro nel quale persino i referendum popolari possono essere impediti senza scandalo (Grecia) o tollerati a patto di lasciarne in buona parte disatteso il risultato (Italia). Attraverso il fiscal compact e il six pack le classi dirigenti europee stanno a loro volta utilizzando la crisi per concentrare i poteri decisionali sulle politiche pubbliche, a partire da quelle fiscali, nelle mani di un’oligarchia priva di legittimazione democratica diretta, solerte portavoce dei mercati finanziari: Commissione, Bce, tecnocrazia. Una rivoluzione silenziosa dall’alto, nella quale, dietro lo sbriciolamento delle vecchie istituzioni rappresentative nazionali, non si intravede nessuna forma di nascente democrazia sovranazionale.
Una simile situazione richiede una forte e urgente risposta sociale su scala continentale. Iniziative e lotte non mancano, in varie parti d’Europa, ma rischiano di rimanere inefficaci perchè incapaci di incidere sulla dimensione che decide delle nostre vite: la dimensione europea del fiscal compact e delle politiche di austerità; più in generale, la dimensione sovranazionale in cui si muove il finanzcapitalismo e dove si è inesorabilmente spostato il conflitto fra capitale e lavoro, ambiente, beni comuni. Se ogni movimento resta confinato nello spazio nazionale e nella difesa del suo singolo pezzetto, se ciascuno resta chiuso nella propria crisi, difficilmente ne verremo a capo mentre populismo, estrema destra e xenofobia si rafforzeranno sempre più, con esiti prevedibili. In direzione opposta possiamo tentare di unire le forze per un’Europa dei diritti e dei beni comuni, mostrando che esiste un demos europeo più forte dell’Europa dei “mercati” e della Bce. Firenze 10+10 vuol contribuire all’elaborazione di una strategia comune dei movimenti in tutto il continente, capace di guardare al prossimo decennio (+10) e non solo all’immediato domani. Firenze vuol contribuire a ricostruire le precondizioni di una mobilitazione paneuropea coordinata ed efficace, in grado di opporre un processo costituente dal basso alla rivoluzione oligarchica dall’alto e un nuovo patto di cittadinanza al fiscal compact.
Sono cinque le aree individuate per la costruzione di alleanze, nei quattro giorni di incontri (8-11 novembre 2012): democrazia; austerità, finanza e debito; lavoro e diritti sociali; beni comuni e servizi pubblici; Europa nel mondo. Pur nelle differenze, reti e movimenti sociali condividono oggi più di ieri alcuni elementi fondamentali dell’alternativa, come dimostrano i numerosi documenti simili elaborati negli ultimi anni. A queste proposte e rivendicazioni occorre però dar più solide gambe sociali, uscendo dalla frammentazione attuale, coinvolgendo nuove forze ed individuando consensualmente alcune azioni o iniziative da poter fare tutti assieme.

CONTRO LA POVERTA', PER UNA NUOVA EUROPA

CONTRO LA POVERTA', PER UNA NUOVA EUROPA

di Davide Reinacadoinpiedi -

La povertà morde e avanza. Nel 2011 il numero delle persone indigenti è arrivato a 116 milioni e la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili. L’obiettivo europeo dovrebbe essere quello di generare nuova occupazione e maggiore equità sociale.

Davide  Reina La povertà in Europa morde e avanza. Nel 2011 il numero delle persone indigenti è arrivato a 116 milioni e la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili, specie tra i giovani: uno su due in Spagna, uno su tre in Italia, e uno su quattro nella maggior parte dei paesi del vecchio continente. Questa è la dura realtà con la quale dobbiamo, tutti noi europei, fare i conti. Insieme con la fine della grande illusione: la crescita. I prossimi saranno anni di crescita zero in Europa. A meno che qualcuno non voglia sostenere che il +1 o il 1.5% sono crescite. Toglieteci l'inflazione e le approssimazioni statistiche, e i dibattiti sui decimali dei PIL assomiglieranno sempre più a sofismi per addetti ai lavori.
In questo scenario l'obiettivo europeo dovrebbe essere quello di generare nuova occupazione e maggiore equità sociale, a parità di PIL. La crescita del tasso di occupazione può infatti realizzarsi anche attraverso miglioramenti qualitativi del PIL. Per esempio, favorendo fiscalmente le imprese a maggiore tasso di occupazione così come quelle caratterizzate, grazie alla loro innovazione e unicità di tecnologia o di prodotto, da una maggiore resilienza dei loro posti di lavoro. Lo stesso, dicasi per l'equità sociale. Basterebbe copiare i paesi scandinavi che l'hanno già realizzata creando welfare efficienti e attenti alle classi meno agiate, senza per questo indebitarsi (infatti, guarda caso, i loro titoli di stato sono tra i più ricercati). E lo stesso, dicasi per l'equità economica. Ancora una volta, guardiamo a nord. La Norvegia e la Danimarca sono i paesi al mondo in cui chi nasce povero ha le maggiori probabilità di diventare benestante nell'arco della vita grazie alle proprie capacità, in cui l'indice di diseguaglianza economico-sociale (l'indice di GINI) è tra i più bassi al mondo, e dove le persone sono praticamente attorniate da un sistema di garanzie sociali e lavorative ma, non per questo, a quei paesi fa difetto l'imprenditorialità. Andate a Copenhagen o a Oslo, e ve ne renderete conto. Quanto al fatto che in quei paesi si paghino più tasse: è una bufala. In Danimarca il prelievo fiscale complessivo sulle imprese è pari al 27,5%, contro il 68,5% italiano.

Intanto, l'inverno alle porte annuncia la prima grande stagflazione nella storia dell'Europa unita: ci attende un tempo di crescita zero e d'inflazione indotta dall'incremento di energia e materie prime, con quasi un giovane europeo su quattro senza lavoro. A questo risultato, ha portato lo squilibrio di potere in favore della rendita finanziaria e a danno del capitale produttivo e dell'occupazione, di questi ultimi vent'anni. Abbiamo creato un capitalismo oligarchico ed esclusivo che premia la rendita e distrugge l'occupazione. Ma abbiamo anche creato un sistema di speculazione sulle materie prime e sull'energia così concentrato, così mal regolato e opportunista, da riuscire a rendere i prezzi dei carburanti, delle derrate alimentari, delle diverse energie, di fatto impermeabili al ciclo economico. In pratica: non appena l'economia riparte i prezzi schizzano verso l'alto, ma quando l'economia entra in recessione i prezzi non scendono. Di conseguenza l'operaio europeo, o il piccolo impiegato, assomigliano molto agli incaprettati della mafia. Durante la recessione infatti, la riduzione del potere d'acquisto associata a diminuzioni o mancati adeguamenti degli stipendi all'inflazione li strangola dall'alto, mentre l'incremento nel costo della luce, del gas, del pane, del latte, delle medicine, della benzina (durante la crisi!!) li strangola dal basso. Il punto è che rispetto agli stipendi, così come rispetto ai prezzi dei beni di prima necessità, operai e impiegati non hanno più nessuna vera forza contrattuale e negoziale. Un mondo su cui non hanno più influenza decide delle loro vite, e li può immiserire a suon di stipendi bloccati e aumenti delle bollette nell'ordine dei 50 (o 100) euro al mese. E quando guadagni mille euro al mese variazioni di questo tipo fanno la differenza tra una vita parca ma dignitosa, e una sopravvivenza miserabile e priva di dignità. A tutto questo si aggiungono le ingiustizie intollerabili proprie del nostro welfare. Per esempio, in Italia un operaio (uno dei pochi fortunati) che guadagna 1.500/2.000 euro al mese paga per un esame del sangue circa trenta euro, mentre un italiano tra i più ricchi ne paga grosso modo il doppio o il triplo. Questo non è accettabile. In una giusta società l'operaio in questione non dovrebbe pagare un euro, e il ricco in questione non dovrebbe avere diritto all'esame del sangue presso pubblico ospedale.

Il paradiso dei super-evasori globali

Un rapporto del Tax justice network fornisce le cifre della ricchezza finanziaria. Ecco cosa ci nascondono i più ricchi del mondo.

di Sarah Jaffe
da il manifesto del 15 agosto 2012

21 mila miliardi di dollari è la cifra custodita nei Paesi offshore e nelle mani di un'élite di ricchi. Mentre i governi tagliano spese pubbliche e welfare, meno di dieci milioni di persone nascondono al fisco una somma pari al Pil di Stati Uniti e Giappone. A favorire questo processo, le grandi banche salvate dai governi: Goldman Sachs, Ubs, Credit Suisse
Ventunomila miliardi di dollari. È questa la cifra che gli uomini più ricchi del mondo nascondono nei paradisi fiscali offshore sparsi per il Pianeta. Potrebbe anche trattarsi di una somma maggiore - fino a trentadue mila miliardi - ma il suo ammontare complessivo è quasi impossibile da calcolare.
Mentre i governi tagliano la spesa e licenziano lavoratori - perché c'è bisogno di austerità a causa del rallentamento dell'economia - gli ultra-ricchi, meno di dieci milioni di persone, hanno nascosto al fisco una somma pari alla somma del prodotto interno lordo degli Stati Uniti e di quello del Giappone. Lo rivela il nuovo rapporto di Tax justice network. Le cifre fornite dal documento sono scioccanti. «Le entrate perse a causa dei paradisi fiscali - rileva lo studio - sono talmente ampie da costituire una differenza significativa secondo tutti i nostri indici convenzionali di diseguaglianza. Poiché la maggior parte della ricchezza finanziaria mancante appartiene a una (piccola) élite, l'impatto è sconcertante».
James S. Henry, ex capo economista di McKinsey & Co., autore di The Blood Bankers e di articoli apparsi su The Nation e sul New York Times, ha scavato nei documenti della Bank for international settlements, del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale, delle Nazioni unite, di banche centrali e di analisti del settore privato, riuscendo infine a tracciare il profilo dell'enorme riserva di denaro che fluttua nelle nebulose località definite offshore. E stiamo parlando soltanto del denaro, perché il rapporto non si occupa di appartamenti, yacht, opere d'arte e altre forme di ricchezza nascoste - nei paradisi fiscali e quindi non tassate - dai super-ricchi. Henry lo definisce il «buco nero» nell'economia mondiale e nota che «nonostante ci siamo sforzati di essere prudenti, i risultati sono scioccanti».
C'è una gran quantità d'informazioni in questo rapporto, quindi abbiamo scelto sei cose fondamentali da conoscere sul denaro che i più ricchi del mondo stanno nascondendo a tutti noi.
1. Incontra il top 0.01%
«Secondo i nostri calcoli, almeno 1/3 di tutta la ricchezza finanziaria privata e circa la metà di quella offshore è posseduta dalle 91.000 persone più ricche del mondo, appena lo 0.01% della popolazione mondiale» rileva il documento. Questi top 91.000 hanno circa 9.800 miliardi del totale stimato nel rapporto e meno di dieci milioni di persone possiedono l'intera pila di denaro.
Chi sono queste persone? È chiaro che sono le più ricche, ma cos'altro sappiamo di loro? Il rapporto parla di «speculatori cinesi trentenni, attivi nel settore immobiliare e magnati del software della Silicon Valley» e coloro la cui ricchezza deriva dal petrolio e dal traffico di droga. Non cita invece - ma avrebbe potuto - candidati alla presidenza degli Stati Uniti: Mitt Romney è stato attaccato per aver nascosto denaro in un conto svizzero e in investimenti nelle Isole Cayman.
Mentre i signori della droga hanno bisogno di nascondere i loro profitti illegali, tanti altri ultra-ricchi evitano di pagare le tasse costruendo intricati gruppi di aziende e altri investimenti soltanto per cancellare un po' di voci dal conto che devono pagare al loro paese.
2. Dove diavolo sono finiti i soldi?
Secondo Henry, il termine offshore non corrisponde più a un luogo fisico, nonostante una quantità di posti come Singapore e la Svizzera continuino a specializzarsi nel fornire ai ricchi di tutto il mondo «residenze fisiche sicure a bassa tassazione».
Ma oggi la ricchezza offshore è virtuale. Henry descrive «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all'interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali».
Una compagnia può essere ubicata all'interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. «In definitiva il termine offshore si riferisce a un insieme di potenzialità» piuttosto che a un posto o a una serie di posti.

mercoledì 31 ottobre 2012

Movimenti nella crisi. Geografia della protesta

di Donatella Della Porta - sbilanciamoci -

Mobilitarsi contro la crisi, mobilitarsi per un’altra democrazia: due ondate di protesta sociale a confronto. L'ultima parte dal locale per farsi globale

Emersa a dieci anni di distanza dalla nascita del movimento per una giustizia globale, la nuova ondata di protesta che è cresciuta in Europa, contro la crisi finanziaria e le politiche di austerity, mostra certamente continuità ma anche discontinuità rispetto al passato. Diversa è soprattutto la forma di transnazionalizzazione della protesta, simile l’attenzione alla costruzione di un’altra democrazia.
Per quanto riguarda la costruzione di un movimento transnazionale, entrambe le ondate di protesta parlano un linguaggio cosmopolita, rivendicando diritti globali e criticando il capitale finanziario globale. In entrambi i casi, in Europa i movimenti hanno sviluppato una sorta di europeismo critico, opponendosi all’Europa dei mercati (e oggi, di banche e finanza) e impegnandosi a costruire una Europa dal basso (oggi, “con l’Europa che si ribella”). Mentre il movimento per una giustizia globale si è però mosso dal transnazionale al locale, coagulandosi nel Forum sociale mondiale e nei controvertici, e organizzandosi poi nei forum continentali e nelle lotte locali, la nuova ondata di protesta sta muovendosi verso un percorso opposto, dal locale al globale.
Seguendo la storia, la geografia e l’economia della crisi – che ha colpito aree diverse in momenti diversi, con diversa intensità, ma anche con caratteristiche differenti (debito pubblico o private, indebitamento con banche nazionali o internazionali) i movimenti anti-austerity hanno dei più evidenti percorsi nazionali. Innanzitutto, tra la fine del 2008 e l’inizio dell’anno successive, in Islanda – primo paese europeo colpito dalla crisi – cittadini autoconvocati hanno reagito al crollo provocato dal fallimento delle tre principali banche del paese, denunciando le responsabilità delle otto famiglie che dominavano politica ed economia (significamente definite come parte di un octopus tentacolare), e imposto un referendum che si è concluso stabilendo una rinegoziazione del debito. Proteste nelle forme più tradizionali dello sciopero generale e delle manifestazioni sindacali hanno accompagnato la crisi irlandese, opponendosi ai tagli nelle politiche sociali. Nel marzo del 2011, in Portogallo, una manifestazione organizzata via Facebook ha portato in piazza 200.000 giovani. In Spagna, un paese rapidamente caduto dalla ottava alla ventesima posizione in termini di sviluppo economico, la protesta degli Indignados si è diffusa da Madrid in tutto il paese, conquistando visibilità globale. Mentre il numero degli attivisti accampati a Puerta del Sol a Madrid cresceva da 40 il 15 maggio del 2011 a 30.000 il 20 maggio, centinaia di migliaia occupavano le piazza centrali di centinaia di città e paesi. La protesta del 15 maggio ha poi ispirato simili mobilitazioni in Grecia, il paese più colpito da drammatiche politiche di austerity, che hanno aggravato le condizioni economiche del paese, facendo crescere esponenzialmente il numero dei cittadini al di sotto della soglia di povertà. In Italia, dove il governo di Mario Monti (governo di grande coalizione, sostenuto da una maggioranza parlamentare PDL-PD-UDC) ha imposto politiche ultra-liberiste, la protesta sta crescendo dal basso, a livello locale, ma anche con momenti di aggregazione nazionale.
Ci sono stati certamente numerosi esempi di diffusione cross-nazionale di forme d’azione e schemi interpretative della crisi. Dall’Islanda, simboli e slogans hanno viaggiato verso il Sud Europa, diffondendosi attraverso canali indiretti, mediatici (soprattutto attraverso le nuove tecnologie), ma anche diretti, fatti di contatti tra attivisti di diversi paesi, per natura geograficamente mobili. Il 15 ottobre 2011, una giornata mondiale di lotta, lanciata dagli Indignados spagnoli, ha visto eventi di protesta in 951 città di 82 paesi. Nel 2012, mentre le proteste sindacali e gli scioperi si susseguono intensi in tutto il Sud Europa, i sindacati spagnoli, greci e portoghesi hanno chiamato ad una giornata di lotta europea contro le politiche di austerità, oltre che a scioperi generali in tutti e tre i paesi per il 14 novembre. Dopo forti tentennamenti, anche la CGIL ha proclamato uno sciopero generale di quattro ore.
Il grado di coordinamento transnazionale della protesta è comunque certamente ancora minore che per il movimento per una giustizia globale, per il quale i forum mondiali e i controvertici hanno rappresentato fonti di ispirazione per identità cosmopolite e occasioni importantissime di costruzione di reticoli transnazionali. Sondaggi fra i cittadini mobilitati nelle proteste anti-austerity in Europa hanno inoltre indicato una crescente attenzione alla dimensione politica nazionale, seppure non disgiunta da quella alla politica europea e mondiale. Le forme di comunicazione transnazionale di questi movimenti sono emerse, se non più deboli, certamente diverse rispetto a quelle dei movimenti di inizio millennio. La dispersione sociale prodotta dalle politiche di austerity ha portato anche ad una maggiore rilevanza delle forme di comunicazione più individuali favorite dal Web 2.0, rispetto a quelle dei network organizzati della precedente ondata.
Nonostante questa (importante) differenza, ci sono comunque molte continuità rispetto alla precedente ondata di protesta: una delle più importanti è l’attenzione alla degenerazione della democrazia liberale in democrazia neoliberista (“La chiamano democrazia, ma non lo è”, recitano i cartelli degli indignados spagnoli), insieme però alla volontà di costruire una democrazia diversa: dal basso, partecipata e deliberativa. Le critiche sono, allora come ora, alla corruzione di parlamenti e governi, accusati di avere provocato la crisi, non solo per adesione ideologica alle dottrine economiche neoliberiste ma anche per diffuse connivenze politico-affaristiche in un coacervo di interessi forti (dell’1% contro il 99%). Anche dal movimento per una giustizia globale viene ai movimenti di oggi l’attenzione alla privazione di diritti di cittadinanza provocata dalla sempre maggiore delega di decisioni ad organizzazioni internazionali, che sfuggono strumenti di controllo – privazione aggravata oggi dal moltiplicarsi di trojke totalmente prive di legittimazione democratica. Allora come ora, inoltre, i movimenti rivendicano il loro ruolo nello sperimentare nuove forme di democrazia, basate su una ampia partecipazione dei cittadini non solo nel momento della decisione, ma anche nella elaborazione di idee, identità, soluzioni ai problemi. In questo, i movimenti di oggi rappresentano anzi una sorta di radicalizzazione della idea di partecipazione e deliberazione estesa a tutti. Nelle acampadas si realizza infatti una continua sperimentazione di quello che gli attivisti di inizio millennio chiamavano il “metodo” del social forum, che vuole facilitare il consenso attraverso la costruzione di una molteplicità di sfere pubbliche, plurali e orizzontali. È attraverso queste pratiche democratiche che, anche oggi, movimenti transnazionali possono crescere dal basso.

Il vuoto d’Europa, la politica che non c’è

di Mario Pianta

A cinque anni dall’inizio della crisi, dov’è l’Europa? Istituzioni, politici e sindacati non riescono a pensare in un orizzonte europeo e lasciano il campo allo strapotere della Germania, che aggrava la crisi e cancella la democrazia. I movimenti che verranno a Firenze 10+10 propongono un cambio di rotta

Il Parlamento europeo boccia la Banca centrale europea non per la sua politica che protegge la finanza e aggrava la crisi, ma perché non trova una donna da inserire del Comitato esecutivo (il voto è solo consultivo). I sindacati di Grecia, Spagna e Portogallo convocano uno sciopero generale comune contro le politiche di austerità il 14 novembre e i sindacati italiani e europei restano in silenzio. I partiti socialisti e democratici di Francia, Italia e Germania vanno alle elezioni – tenute sei mesi fa a Parigi, tra cinque mesi da noi, tra un anno a Berlino – senza una posizione comune su Fiscal compact, eurobond e come uscire dalla recessione.
Dov’è l’Europa? Se guardiamo alle istituzioni, alla politica e al sindacato, il vuoto è impressionante. Subalterni al “pensiero unico” della finanza, ripiegati sulle convenienze elettorali di casa propria, i politici europei hanno disertato le loro responsabilità. Senza combattere, hanno lasciato il campo ad Angela Merkel e al protettorato tedesco sul continente che – alleato con la Banca Centrale Europea – da tre anni salva le banche e condanna alla depressione tutti gli altri, rafforza la Germania e sprofonda nella disperazione la periferia dell’Europa.
A cinque anni dallo scoppio della crisi finanziaria, le istituzioni europee sono sempre più parte del problema e non della soluzione. Hanno imposto un Trattato di stabilità (il Fiscal compact) che è tanto folle da essere (speriamo) irrealizzabile: pareggio di bilancio in costituzione, azzeramento del deficit pubblico, rimborso in vent’anni del debito pubblico che supera il 60% del Pil. Hanno affrontato la speculazione contro i paesi fragili regalando 1000 miliardi di euro alle banche che speculavano e messo in piedi un Meccanismo europeo di stabilità che non ha risorse per stabilizzare nulla. Impongono tagli di spesa, dei salari e dell’occupazione in Grecia, Portogallo e Spagna che portano i disoccupati al 25%, distruggono il welfare e la sanità, creano povertà di massa.
Manifestazioni ad Atene e Lisbona, indignados a Madrid, piccoli gruppi di Occupy a Londra e Francoforte, proteste frammentate in Italia e Francia sono state le reazioni di questi anni. Significative, ma inadeguate, queste risposte sociali si presentano ancora senza un orizzonte comune, senza una rete organizzativa europea, senza un’alternativa per il post-liberismo.
La politica istituzionale ha risposto con grande lentezza. A Parigi ha vinto François Hollande con l’alleanza socialisti-verdi, ma i cambiamenti stentano a vedersi; in Grecia la sinistra radicale di Syriza è balzata in avanti ma resta opposizione; in Olanda la spinta di socialdemocratici e socialisti ha comunque portato a una grande coalizione con i liberali. Il cambiamento di rotta dell’Europa non è nell’agenda dei governi e stenta a venire da processi elettorali ancorati a dinamiche strettamente nazionali.
Il paradosso di cinque anni di crisi drammatica senza proteste generalizzate e senza cambiamento politico significativo ha tre ragioni di fondo. La prima è l’opacità del potere in Europa. Manca una Costituzione, strutture “visibili” con responsabilità politiche, il potere ha una natura “dispersa” tra vertici del Consiglio europeo, direttive della Commissione, “indipendenza” della Bce, la voce grossa di Berlino e il potere dei tecnocrati. Tutto ciò rende difficile concentrare la protesta, fermare le decisioni, cambiare le politiche.
La seconda ragione è la tragica mancanza di democrazia in Europa. I capi di governo che decidono tutto – e lasciano che a decidere siano i più forti –, un Parlamento con poteri ridotti, partiti inesistenti a scala europea, autorità non legittimate dal voto dei cittadini e che rispondono soprattutto alle lobby delle imprese. In queste condizioni, anche quando l’opposizione alle politiche europee diventa maggioranza, come si può affermare in un sistema politico senza democrazia?
La terza ragione è l’assenza di uno spazio pubblico europeo, che apra discussioni e deliberazioni comuni, su problemi e soluzioni pensate a scala dell’Europa. Nemmeno la crisi ha fatto emergere un’opinione pubblica europea; l’azione della società civile è rimasta a scala nazionale; sindacati e movimenti hanno dato la priorità alle lotte di resistenza contro gli effetti della crisi; l’Europa non è (ancora) diventata l’orizzonte comune necessario per sconfiggere finanza e neoliberismo.
Eppure, tra il 1999 e il 2006 la critica della globalizzazione neoliberista era diventata la bandiera comune dei movimenti di tutto il mondo, con i Forum sociali mondiali iniziati a Porto Alegre e il primo Forum sociale europeo tenuto nel 2002 a Firenze, con grandi mobilitazioni transnazionali, contro la liberalizzazione di commercio, finanza e investimenti, per la cancellazione del debito del terzo mondo, la Tobin tax, il diritto ai farmaci, la protezione dell’ambiente. Una stagione che ha cambiato il modo di vedere la globalizzazione e organizzare la protesta, ed è riuscita a cambiare alcune politiche concrete: la notizia più recente è che la tassa sulle transazioni finanziarie sarà introdotta da 13 paesi europei.
La crisi ha rotto quest’orizzonte transnazionale e frammentato le mobilitazioni. La politica nazionale ha monopolizzato le energie, chiuso il dibattito in un quadro inadeguato, disperso i movimenti, stretto la società all’interno di dinamiche elettorali che non possono far altro che registrare l’ascesa di disaffezione e populismo. Ma un’occasione per uscire da questa stretta e ricostruire un orizzonte europeo c’è: a Firenze, dall’8 all’11 novembre, migliaia di persone da tutta Europa saranno all’incontro “Firenze 10+10” che chiede un’altra Europa, adesso.
Si metteranno in comune le analisi su quanto è successo, le esperienze costruite dal basso, le proposte su come far cambiare rotta all’Europa. Si intrecceranno i risultati del lavoro di reti sociali e sindacali, di gruppi di economisti e associazioni, l’esperienza di “Un’altra strada per l’Europa”, il forum al Parlamento europeo del 28 giugno scorso che ha messo a confronto movimenti e politici europei su economia e democrazia, con un documento finale che chiede di legare le mani alla finanza, risolvere il problema del debito con una responsabilità comune dell'eurozona, rovesciare le politiche di austerità, tutelare il lavoro, un new deal verde e una vera democrazia in Europa. Queste e molte altre le proposte che emergeranno a Firenze, per far cambiare rotta a un’Europa andata fuori strada. Prima che sia troppo tardi.

L’arma del silenzio mediatico

Fonte: il manifesto | Autore: Manlio Dinucci
       
Si dice che il silenzio è d’oro. Lo è indubbiamente, ma non solo nel senso del proverbio. È prezioso soprattutto come strumento di manipolazione dell’opinione pubblica: se sui giornali, nei Tg e nei talk show non si parla di un atto di guerra, esso non esiste nella mente di chi è stato convinto che esista solo ciò di cui parlano i media. Ad esempio, quanti sanno che una settimana fa è stata bombardata la capitale del Sudan Khartum? L’attacco è stato effettuato da cacciabombardieri, che hanno colpito di notte una fabbrica di munizioni. Quella che, secondo Tel Aviv, rifornirebbe i palestinesi di Gaza.

Solo Israele possiede nella regione aerei capaci di colpire a 1900 km di distanza, di sfuggire ai radar e provocare il blackout delle telecomunicazioni, capaci di lanciare missili e bombe a guida di precisione da decine di km dall’obiettivo. Foto satellitari mostrano, in un raggio di 700 metri dall’epicentro, sei enormi crateri aperti da potentissime testate esplosive, che hanno provocato morti e feriti. Il governo israeliano mantiene il silenzio ufficiale, limitandosi a ribadire che il Sudan è «un pericoloso stato terrorista, sostenuto dall’Iran». Parlano invece gli analisti di strategia, che danno per scontata la matrice dell’attacco, sottolineando che potrebbe essere una prova di quello agli impianti nucleari iraniani. La richiesta sudanese che l’Onu condanni l’attacco israeliano e la dichiarazione del Parlamento arabo, che accusa Israele di violazione della sovranità sudanese e del diritto internazionale, sono state ignorate dai grandi media. Il bombardamento israeliano di Khartum è così sparito sotto la cappa del silenzio mediatico.

Come la strage di Bani Walid, la città libica attaccata dalle milizie «governative» di Misurata. Video e foto, diffusi via Internet, mostrano impressionanti immagini della strage di civili, bambini compresi. In una drammatica testimonianza video dall’ospedale di Bani Walid sotto assedio, il Dr. Meleshe Shandoly parla dei sintomi che presentano i feriti, tipici degli effetti del fosforo bianco e dei gas asfissianti. Subito dopo è giunta notizia che il medico è stato sgozzato. Vi sono però altre testimonianze, come quella dell’avvocato Afaf Yusef, che molti sono morti senza essere colpiti da proiettili o esplosioni. Corpi intatti, come mummificati, simili a quelli di Falluja, la città irachena attaccata nel 2004 dalle forze Usa con proiettili al fosforo bianco e nuove armi all’uranio. Altri testimoni riferiscono di una nave con armi e munizioni, giunta a Misurata poco prima dell’attacco a Bani Walid.

Altri ancora parlano di bombardamenti aerei, di assassinii e stupri, di case demolite con i bulldozer. Ma anche le loro voci sono state soffocate sotto la cappa del silenzio mediatico. Così la notizia che gli Stati uniti, durante l’assedio a Bani Walid, hanno bloccato al Consiglio di sicurezza dell’Onu la proposta russa di risolvere il conflitto con mezzi pacifici. Notizie che non arrivano, e sempre meno arriveranno, nelle nostre case. La rete satellitare globale Intelsat, il cui quartier generale è a Washington, ha appena bloccato le trasmissioni iraniane in Europa, e lo stesso ha fatto la rete satellitare europea Eutelsat. Nell’epoca dell’«informazione globale», dobbiamo ascoltare solo la Voce del Padrone.

Lo spread snobba Berlusconi

Fonte: il manifesto | Autore: Francesco Piccioni
       
Solo 6 punti in più dopo la «svolta populista» di venerdì scorso. La finanza globale considera il «ritorno del Caimano» un film che non si farà mai
Non serviva essere esperti di speculazione finanziaria per sapere che la sortita berlusconiana – «decideremo se togliere la fiducia al governo immediatamente» – avrebbe avuto un effetto visibile: lo spread che aumenta. E così è andata: il differenziale tra Btp e Bund tedeschi è salito nella giornata di ieri fino a 353 punti. Nemmeno tanto, appena 6 punti. Come se i mercati avessero ormai archiviato il Cavaliere e tutte le sue giravolte. Una leggera increspatura, insomma, giusto per far capire che se questo paese è tanto fesso da voler ripercorrere una strada chiusa. il suo destino è già segnato.

Meno di un anno fa quel maledetto spread era arrivato a 575 punti, con Silvio barricato a palazzo Chigi. Forse avrebbe resistito ancora qualche giorno, ma in due ore il titolo Mediaset perse il 12%, tanto da esser sospeso dalle contrattazioni per eccesso di ribasso. Berlusconi uscì a mani alzate e Monti prese il suo posto appena 24 ore dopo esser stato innalzato al ruolo di senatore a vita. Se qualcuno crede che sia stato solo un bizzarro «incrocio di coincidenze», può ritirarsi in convento. Ieri il Biscione ha perso appena il 2,1%, in una giornata negativa per tutte le piazze del Continente (Piazzaffari -1,5%) e con Wall Street chiusa per uragano in arrivo.

Dobbiamo concluderne per forza di cose che Berlusconi è politicamente morto e sepolto nella considerazione globale. Il suo «ritorno» è ormai solo una favoletta per cercare di tener buoni quanti, a sinistra, hanno molto da ridire sulle politiche messe in atto dal governo «tecnico»; ma sui tavoli che contano – le piazze finanziarie e le riunioni della troika (Bce, Fmi, Ue) – le sue minacce suonano ormai come il ruggito di una pulce.

La conferma diretta, in forma algida e velenosa più del solito, è venuta dallo stesso Mario Monti, impegnato a Madrid in colloqui con Mariano Rajoy. Perseguitato da giornalisti obbligati a tener d’occhio solo la provincia italiana, prima si è mostrato sorpreso dal possibile collegamento tra andamenti dello spread e comportamenti berlusconiani: «Non ci avevo pensato». Salvo poi dire che «lo spread attuale è ingiustificato; per qualche ragione che mi sfugge era a 330, oggi è a 350, comunque molto meno di un anno fa quando era a 575». Venti punti, invece di 240; questo è quanto Silvio «pesa» oggi.

Infine si è dilungato con noncuranza sulla sortita suicida del fu Caimano: «Minacce di ritiro della fiducia a questo governo non possono essere fatte, perché non lo vivremmo come una minaccia. Siamo stati richiesti di dare un contributo in un momento difficile di questo paese. Pensiamo di stare avendo buoni risultati, ma non spetta a noi valutarlo. Sono ‘minacce’ che a noi non toglierebbero niente, se non l’attività di governo che non è stata da noi ricercata».

Non chiamatela più antipolitica

Fonte: micromega
       
Comunque si giudichi Grillo e il suo movimento, questa è politica. Nuova nei temi, nei linguaggi, nelle forme, nei luoghi, nelle persone. Ed assai più genuina, o tale ha saputo apparire – come evidenzia il voto siciliano – di quella di larga parte della classe politica: di destra, di centro, e, purtroppo, di sinistra.

di Angelo d’Orsi


Il termine “antipolitica” sebbene creato dagli studiosi, è diventato un comodo alibi per il ceto politico, la coperta sotto la quale nascondersi davanti alla denuncia delle sue manchevolezze, della corruzione, dell’assenza di senso dello Stato, del vero e proprio mercimonio da troppo tempo perpetrato del ruolo istituzionale al quale cittadini e cittadine inconsapevoli, o male informati, o ingenui, li hanno chiamati.

In buona sostanza, il termine viene usato per bollare con marchio d’infamia coloro che non ci stanno a prendere per buone le ricette del “Palazzo”, coloro che – volti nuovi, idee non sempre nuove, ma concrete, linguaggi più nuovi delle idee…– o se ne stanno fuori, non votando, non partecipando neppure da spettatori alle competizioni elettorali, oppure tentano di restituire la parola alla piazza, o se preferite, alla “gente”. Antipolitica il Movimento 5 Stelle? E perché mai? Perché denuncia e condanna in blocco la classe politica, ecco la risposta. Certo. Ma quel 53% di siciliani e siciliane che non si sono recati alle urne, ieri, non sono a loro volta alla stessa stregua “antipolitica”? Non è forse il loro distacco dalle cabine elettorali, un segnale di sfiducia radicale verso la classe politica? E non è, anche, delusione per le promesse non mantenute? E, infine, non è disillusione sulla stessa portata del loro voto? A che serve? – insomma, si chiede almeno una fetta di quei non elettori (ai quali va aggiunto anche il cospicuo numero di schede bianche o annullate). A che serve continuare a votare? “Sono tutti uguali”, “pensano solo al loro interesse personale”, “della Sicilia (o della nazione) non gliene frega niente…”.

La tentazione qualunquista, insomma, affiora, ma l’allontanamento, e anche il diniego di questa politica non significa automaticamente il rifiuto di ogni, qualsivoglia politica. Se qualcuno è in grado di offrirne una diversa, io credo che uomini e donne dell’Isola, ma più in generale del Paese, sarebbero pronti a ritornare al voto. Il Movimento 5 Stelle ha fatto esattamente questo, anche se, nella votazione per la Presidenza regionale, non è andato oltre un certo limite, sia pure assai alto, tanto da diventare improvvisamente, inaspettatamente (ma solo per qualcuno) la prima forza politica isolana. In attesa di diventarla, forse, a livello nazionale.

Perché, anche davanti all’astensione, il Movimento vince? Perché, innanzi tutto, Grillo ha saputo impersonare il ruolo del leader-capopopolo, ma informato, ossia in grado di parlare con cognizione di causa – benché non sempre in modo adeguato: ma lo sono i leader nazionali degli altri partiti, forse? – di cose che interessano all’elettorato. La prima novità è proprio questa. I temi: invece di fare discorsi astratti e fumosi, Grillo ha parlato di temi concretissimi, che concernono la quotidianità (dai trasporti all’inquinamento ambientale…), temi che hanno a che fare con la complessa problematica della sopravvivenza. La politica di Grillo è una (sacrosanta, bisogna precisare) politica “terra terra”, che riporta insomma il baricentro in basso, rispetto alle grandi discussioni ideologiche, ma affronta i problemi della vita delle persone: una politica della sopravvivenza (si pensi al tema dei rifiuti, dell’energia, dell’acqua,…).

«È un'astensione attiva»


121030barcellonaIntervista a Pietro Barcellona di Chiara Ricci
Non ci sono più i poli e il vincitore dovrà navigare a vista. La crisi economica ha fatto il deserto
Pietro Barcellona è un intellettuale di rilievo nella storia della sinistra italiana. E' docente universitario all'Università di Catania, ha diretto l'Istituto Gramsci ed è stato parlamentare del Pci negli anni 70, ai tempi di Enrico Berlinguer. Alla vigilia delle elezioni regionali siciliane, in più di una occasione aveva pubblicamente fatto notare che il dato più significativo del voto sarebbe stato l'astensione.
Professor Barcellona, il 53% dei cittadini dell'isola non è andato a votare. Un record negativo. Lei aveva previsto uno scenario del genere. Su cosa basava questa amara previsione?
Semplicemente dal fatto di vivere quotidianamente la realtà siciliana. Da questo mio punto di osservazione ho capito che questa massiccia astensione non riflette un rifiuto della politica. Possiamo definirla una astensione "attiva". Una forma di opposizione, messa in pratica da una larga fascia di popolazione che in questo modo ha voluto segnalare l'inaccettabilità di quanto sta accadendo. Che rifiuta un mondo senza più contatti con la realtà. Perché oggi la Sicilia è una specie di deserto, civile ancor prima che politico. Qui giorno dopo giorno stanno chiudendo le fabbriche, gli esercizi commerciali, anche le catene della grande distribuzione. La crisi del lavoro è terribile, solo Monti dice di vedere la luce in fondo al tunnel. Così accade che solo tre persone su dieci, escludendo i voti dati al movimento di Grillo, vadano alle urne per dare il loro consenso a questo sistema. Tutti gli altri, in un modo o nell'altro, sono contro.

La sua è una chiave di lettura ben diversa rispetto ai commenti che già si leggono sulle agenzie di stampa.
Ma forte di alcuni precedenti. Quando negli anni '70 lavoravo per il Pci, il partito arrivò anche al 30% alle elezioni del 1975. E quello era un voto puro e semplice contro il governo centrale. Oggi siamo in una situazione simile: gran parte della popolazione non ritiene che sia preferibile avere un candidato eletto o un proprio rappresentante al governo. Vuole opporsi allo stato di cose presenti. Così o si astiene, o vota Grillo perché porta un messaggio chiaro, che ha gran successo in questa fase: la rottamazione di questo sistema.

Ma non è anche il messaggio di Matteo Renzi?
Questo voto toglierà spazio a Renzi. Nonostante i sondaggi, fino ad ora Grillo non veniva considerato troppo nella dimensione nazionale. Invece da oggi la sua credibilità è aumentata, parecchio. E la sua presenza potrebbe diventare inquietante, perché non esprime una proposta che possa convergere, insieme ad altre, verso una ipotesi di governo. La sua è una festa di grande chiasso, di gioiosa distruzione. Se poi si proietta questo voto in uno scenario nazionale, appare chiaro che viene a mancare la governabilità. Né mi sembra che ci siano le forze per un Monti bis.

Può spiegarci meglio questo passaggio?
Io penso che il risultato siciliano abbia fatto tramontare molte illusioni. Ad esempio non è più immaginabile un centro Casini-Riccardi-Montezemolo con il compito di mediare fra i poli. Perché non ne ha le forze, e soprattutto perché non ci sono più i poli. Mi sembra chiaro che Alfano, e Berlusconi, abbiano preso una legnata storica. Mentre quello di Grillo può davvero diventare il primo partito del paese, come lo è diventato in Sicilia. Toccando corde vere e popolari come la lotta alla corruzione, senza però riuscire a diventare un'orchestra. Se si andasse a votare ora alle politiche e non fra sei mesi, sarebbe davvero un guaio.

Però il Pd tutto sommato ha retto.
Il Pd esce meglio da queste elezioni. E vedo che Crocetta si dice entusiasta del risultato. Ma governare non gli sarà per niente facile. La Sicilia è nei fatti in default, e avrebbe bisogno di una maggioranza forte e stabile per affrontare i suoi gravissimi problemi. Non si sa nemmeno se a fine anno in Regione ci saranno i soldi per pagare gli stipendi. Ma una maggioranza stabile non c'è, e se Crocetta dice che la cercherà volta per volta, vuol dire che si navigherà a vista. Per giunta in tutti i partiti ci sono ancora i rappresentanti del partito trasversale degli affari. Il vecchio governatore Lombardo non si è presentato ma i suoi uomini sì e sono stati eletti, quindi si dovrà comunque contrattare con lui. Peggio di prima, quando era perlomeno possibile confrontarsi a viso aperto.
Il Manifesto - 30.10.12

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