Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

lunedì 29 ottobre 2012

Nuova governance Ue: il tentativo di uscire da destra dalla crisi

di Alfonso Gianni - sinistrainrete -

In uno dei suoi consueti articoli domenicali sul Sole24Ore Guido Rossi ha scritto che nel contesto dell’attuale globalizzazione «la sovranità degli Stati nazione ha dunque abdicato e lo Stato di diritto si è trasformato in uno Stato dell’economia». Questa citazione - che sembra riecheggiare il passaggio dall’homo aequalis all’homo oeconomicus per dirla alla Louis Dumont - potrebbe a tutti gli effetti essere apposta come lapide all’idea dell’Europa politica dei popoli sepolta dopo il vertice di fine giugno.

In effetti la tanto attesa, e pour cause temuta, riunione del Consiglio Europeo del 28-29 giugno a Bruxelles ha portato a un primo significativo compimento di un percorso non breve che ha condotto le elites europee - più che malgrado, grazie alla più grave crisi economica della storia del capitalismo in Europa - a dotarsi di un sistema compiuto di governance continentale in campo economico e politico. Con molto amaro in bocca si potrebbe persino dire che l’evento almeno un suo piccolo lato positivo ce l’ha, dal momento che da questa data in poi a nessuno dovrebbe essere più consentito di reclamare la costruzione di un governo del sistema economico europeo, quasi che questo fosse in quanto tale un elemento intrinsecamente positivo. Ora la governance c’è, è dotata di snelle articolazioni e robuste rigidità, come si conviene a ogni costruzione sistemica, e corrisponde certamente al tentativo organico di un’uscita da destra dalla crisi, grazie a l rilancio in grande stile di un neoliberismo aggiornato e corretto. Un tentativo dagli esiti tutt’altro che sicuri, ma che per ora non incontra ostacoli capaci di fermarlo.

La riscossa del neoliberismo

Il tempo dello sbandamento appare superato. Mi riferisco in particolare a quei mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009, lungo i quali i dogmi del neoliberismo vacillavano vistosamente sotto i colpi di massicci interventi statuali a favore delle banche, dettati dalla necessità di evitare che il loro crollo si tramutasse in una crepa insanabile per il sistema capitalistico. Le forze di una sinistra spaurita e in forte crisi di identità non ne seppero approfittare. Le classi e le elites dominanti si sono riorganizzate e sono tornate a imporre le loro ricette. La crisi è tutt’altro che risolta, come ci avvertono tutti gli indicatori, sia sul terreno finanziario che, a maggior ragione, su quello dell’economia reale. Ma le forze del capitalismo europeo hanno ristabilito gerarchie e assetti che non sembrano minacciati da forze capaci di proporre alternative da posizioni di forza così consistenti da mettere le prime in pericolo. Ed è ciò che conta per queste ultime.

Su questa base esse sperano se non di competere a fondo, certamente di sopravvivere alla crescente potenza e forza d’urto dal capitalismo dei paesi un tempo detti emergenti. Una scelta sintetizzata nel comportamento emblematico della Germania: proiettarsi nel mercato globale forte di una primazia assoluta nel contesto europeo, anche a costo di scontare una contrazione del proprio export sul mercato continentale a causa della crisi accentuata dalle stesse rigide regole da essa fermamente volute, che, imponendo rigore, riducono la capacità d’acquisto di larghissimi strati di popolazione; fidando al contempo nella possibilità di qualche concessione, dopo anni e anni di retribuzioni al di sotto dell’aumento della produttività, alla forza lavoro impiegata nel proprio territorio nazionale, anche al fine di spezzare ogni pulsione solidaristica tra le popolazioni lavorative europee. Non si tratta, come ben si vede, di un disegno solidissimo, al contrario del tutto esposto ai contraccolpi della dimensione mondiale della crisi che non ha ancora esaurito le sue sorprese, ma pur sempre una strategia che soprattutto si alimenta del vuoto di quelle altrui.


Gli esiti del vertice di giugno


Dal punto di vista formale la riunione del Consiglio Europeo del 28-29 giugno si è conclusa con l’approvazione di un “Patto per la crescita e l'occupazione”, ossia le misure che, nelle intenzioni dei proponenti, l'Unione europea e gli Stati membri dovranno adottare per rilanciare la crescita, gli investimenti e l'occupazione e rendere l'Europa più competitiva; la delineazione di invasive raccomandazioni specifiche per paese volte a fornire orientamenti per le politiche e i bilanci degli Stati membri; la sottolineatura del ruolo che dovrà svolgere il quadro finanziario pluriennale per consolidare la crescita e l'occupazione.

L’enfasi che ha accompagnato l’esito del consiglio ha raggiunto vette oscillanti fra il ridicolo e il delirante. Nel primo caso si collocano l’inseguirsi di improponibili metafore calcistiche favorite dalla contemporaneità con i campionati europei, particolarmente usate nel nostro paese che come si sa vanta tradizioni di alto lignaggio in questo campo. Certo che leggere un Eugenio Scalfari che paragona Hollande a Cassano e Monti a Balotelli era difficilmente immaginabile per chiunque.

Nel frattempo quasi nessuno si occupava dei testi scaturiti dal vertice. Invece bisogna farlo perché parole così centellinate avranno un peso sulla vita di tutti noi per anni a venire. Del resto non è una lettura così faticosa. Si può benissimo cominciare dal fondo dell’allegato al documento conclusivo del Consiglio europeo del 29 giugno, dove si può leggere che «la stabilità finanziaria è un prerequisito della crescita». E qui si chiude il sipario su tutte le illusioni e i facili entusiasmi, compreso quelli di D’Alema che in questa vicenda ha voluto vedere un’introvabile vittoria del centrosinistra in ogni luogo d’Europa.

Per diversi motivi. Il primo è che non si dovrebbe parlare genericamente di crescita, ma precisare cosa per essa si intende, quanto benessere ambientale, sociale, occupazionale e culturale essa dovrebbe apportare per potere essere misurata positivamente. Ma possiamo riconoscere che questo è un argomento fin troppo raffinato per una circostanza così legata alla più cupa e disperata emergenza.

Il secondo motivo è che, anche senza entrare nel merito della qualità di questa presunta crescita che si vorrebbe favorire, la quantità di risorse a essa destinata - 130 miliardi di euro - appare improbabile nelle modalità di reperimento e comunque di assai modesta entità - solo l’1% del Reddito Nazionale Lordo della Ue - e di incerta destinazione.

Già questo ridimensiona nella sostanza l’operazione che Hollande voleva condurre. Sapendo di avere ben pochi margini per cambiare effettivamente il fiscal compact, il nuovo presidente francese voleva almeno giustapporvi un consistente programma di crescita e di sviluppo, che in qualche modo giustificasse il rigorismo in sede di bilancio Ma quanto ha ottenuto ha reso priva di rete di protezione la troppo precipitosa dichiarazione rilasciata a margine del vertice sul fatto che, seppure non introducendo obblighi di pareggio in Costituzione, avrebbe fatto di tutto affinché il Parlamento approvasse i vincoli di bilancio nel più breve tempo possibile. Come ha osservato la stampa francese, sia quella di destra che quella di sinistra, questi vincoli sono già così stringenti da rimandare e ridimensionare le promesse di riforma sociale e fiscale che costituivano l’ossatura del programma elettorale che determinarono la vittoria sia nelle elezioni presidenziali che in quelle legislative dei socialisti guidati da Hollande.


I nuovi fondi Ue non risolvono la questione della tenuta dell’euro


In terzo luogo perché la vera stabilità finanziaria non è stata raggiunta. L’unica cosa che avrebbe potuto garantirne le condizioni sarebbe stata la trasformazione della mission della Bce in prestatore in ultima istanza, come si conviene per una banca federale; la mutualizzazione del debito attraverso gli eurobonds e, ancor meglio, l’istituzione dei projectbonds di cui parlava Jacques Delors ormai tanti anni fa. Nulla di particolarmente innovativo rispetto al funzionamento del sistema capitalista in altre parti del mondo. Ma niente di tutto questo è avvenuto. La Merkel, da troppi entusiasti data per perdente nel confronto, su questo punto ha resistito. La stessa ironia del leader della Spd Gabriel - legata al fatto che le misure antispread comunque si configurerebbero come eurobonds mascherati - è parsa del tutto fuorviante e autolesionista.

Infatti il meccanismo adottato prevede un intervento tutt’altro che illimitato da parte dei nuovi fondi, l’Efsf e l’Esm - retti da un sistema di governance esemplare per mancanza di trasparenza democratica - che potranno finanziare direttamente le banche, risolvendo così il problema, posto da Rajoy, dell’incremento enorme del debito spagnolo dovuto a un finanziamento che passa attraverso lo stato prima di raggiungere gli istituti di credito e spezzando il circuito perverso tra debiti bancari e statali.

Già a fine giugno risultava chiaro ciò che lo sarà ancor di più a settembre. Se gli stati vorranno stabilizzare il mercato dei loro titoli, quindi contenere l’incremento dello spread, dovranno esplicitamente richiedere l’intervento dei fondi e in questo caso si troveranno di fronte nuovamente la Bce, decisa, come ha già affermato il suo presidente Mario Draghi, a imporre una “stretta condizionalità” nel concederli. Inoltre la quantità di risorse mobilitabile dai fondi sarà determinata dalla quantità di soldi messi a disposizione dagli stati membri, fra i quali gli stessi che sono bisognosi d’aiuto. Anche se la Bce potrà acquistare titoli di stato sia sul mercato secondario che su quello primario, aggirando così il divieto posto a Maastricht di finanziare gli stati aderenti alla Unione monetaria, siamo molto lontani da una illimitata capacità di creazione di credito come si converrebbe a una vera banca federale.


Continua la danza sul ciglio del burrone

Come ha correttamente osservato un analista solitamente assai equilibrato come Marcello de Cecco, i keynesiani hanno perduto un’altra volta. Va detto non per deprimersi, ma per sapere cosa si ha di fronte: avvero altri sette anni di vacche magre, almeno. Continua la danza sul ciglio del burrone e il rischio che qualcuno dei Piigs ci precipiti dentro, e con esso tutta l’Europa, aumenta ogni giorno che passa. La stessa possibilità della fine dell’euro è nell’ordine delle cose possibili, anche se continuo a ritenere tutt’altro che desiderabili, come pure l’allontanamento dall’eurozona della Grecia e anche di altri paesi mediterranei, con la creazione di una duplice area monetaria nel nostro continente. Come ha giustamente osservato Christian Marazzi, i dati sulla riduzione, a partire dall’inizio della crisi internazionale, cioè dal 2007, dei prestiti bancari cross-border di Germania e Francia, sono cospicui. Ai paesi periferici dell’Europa va un 25% in meno di prestiti bancari. In altre parole i paesi forti della Ue si stanno già preparando a una soluzione divisoria dell’area europea, ristabilendo una sorta di sovranismo bancario dei potenti.

Quanto è stato deciso nel vertice di fine giugno è di per sé impotente a fermare la speculazione internazionale ed è stato dimostrato, sia in positivo che in negativo, anche dagli avvenimenti politici, economici e finanziari dell’estate su cui tra poco torneremo.

Anche per la sinistra - anche se non sempre questo nome è appropriato e accettato - si tratta di un’altra occasione perduta. Né i socialisti francesi né i socialdemocratici tedeschi - ma la contrarietà agli eurobonds di questi ultimi assieme ai Verdi era già nota da tempo - hanno giocato il ruolo che più d’uno si attendeva. Il Partito democratico italiano ha naturalmente fatto di peggio e si è affettato a garantire la maggioranza dei due terzi nel parlamento italiano per inserire il pareggio di bilancio in Costituzione, modificando il relativo articolo 81, in modo da impedire che si possa fare ricorso al referendum popolare, come accadde in un recente passato per altre modifiche costituzionali respinte appunto per questa via. E infine ha accelerato sulla ratifica parlamentare, prima della cesura estiva, del fiscal compact.


Il fiscal compact

Quest’ultimo insieme di regole - da qualcuno chiamate, non si sa se per fanatismo o latente umorismo, le “regole d’oro” - sono contenute in sedici articoli che costituiscono il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria” detto appunto fiscal compact. La sua gestazione è stata relativamente rapida. A margine del Consiglio europeo dell’8-9 dicembre 2011, i 17 Capi di Stato e di governo della zona euro adottarono una dichiarazione , cui hanno aderito anche tutti gli altri stati membri in cui non vige la moneta unica, ad eccezione del Regno Unito, che prevedeva un nuovo trattato internazionale per rafforzare le discipline di bilancio dei singoli paesi.

Questa dichiarazione veniva in soccorso alla impossibilità di assumere una decisione direttamente nel Consiglio Europeo, a causa dell’opposizione del Regno Unito ad introdurre norme di regolazione dei mercati finanziari contrarie ai propri interessi. In realtà buona parte degli interventi delineati nella dichiarazione erano già previsti dalla legislazione approvata l’8 novembre 2011 (c.d. six pack), nonché dalle proposte legislative presentate dalla Commissione Europea il 23 novembre successivo o dal Patto euro plus. In sostanza la dichiarazione aggirava l’impossibilità di agire direttamente tramite la modificazione dei trattati vigenti, in mancanza di una unanimità dei paesi membri della Ue, attraverso il ricorso a un nuovo trattato internazionale.

Come si può vedere è stata messa in atto una procedura bizantina che ha permesso di negoziare e stipulare il nuovo trattato al di fuori del quadro istituzionale della Unione europea e diversamente dalle procedure previste per la modifica dei trattati in vigore. Dalla riunione del 9 dicembre ha preso le mosse un gruppo di lavoro che, attraverso varie verifiche in diverse riunioni, ha elaborato un testo che è stato approvato nella riunione straordinaria del Consiglio europeo del 30 gennaio e poi firmato il 2 marzo del 2012.


Le misure draconiane di riduzione del deficit e del debito

Le novità più stringenti e più gravi stanno nel Titolo Terzo del trattato, nel c.d. Patto di Bilancio. Per quanto ormai queste norme siano abbastanza note, conviene richiamarle, per evitare ogni dubbio rispetto al loro carattere estremamente cogente. L’articolo 3 impegna le parti contraenti ad applicare e introdurre, entro un anno dalla entrata in vigore del trattato, quindi non oltre l’inizio del 2014, con norme vincolanti a carattere permanente, preferibilmente (ma non obbligatoriamente, vale la pena di ricordarlo per sottolineare l’eccesso di zelo del parlamento italiano) di tipo costituzionale, nuovi principi regolatori della procedura di bilancio nazionale in modo che questo sia in pareggio o addirittura in attivo.

Tale condizione si intende rispettata solo se il deficit annuo non eccede lo 0,5% del Pil, rispetto all’obbiettivo a medio termine di ogni singolo paese (per l’Italia è il pareggio strutturale di bilancio entro il 2014), che può elevarsi all’1% solo se il rapporto debito pubblico/Pil è significativamente al di sotto della mitica soglia del 60%, circostanza che come sappiamo non riguarda minimamente il nostro paese che si trova oltre il 120%. Le deviazioni temporanee da questi obiettivi possono avvenire solo in periodi di grave recessione. In caso di deviazioni significative verrà attivato un meccanismo di correzione automatica, obbligando così il paese a ricorrere ai tagli necessari della spesa pubblica.

L’articolo 4 si occupa invece, con norme ancora più drastiche della riduzione del rapporto debito pubblico/Pil. Se quest’ultimo supera la soglia del 60% le parti contraenti il trattato si impegnano a ridurlo di un ventesimo all’anno. Nel caso italiano si tratterebbe di operare un taglio nel bilancio del 3% annuo, circa 48 miliardi di euro ai valori attuali tra il 2015 e il 2035: una pietra tombale su qualunque iniziativa di politica economica anticiclica che si aggiunge dall’espulsione del keynesismo dalla nostra Costituzione operata grazie alla modifica dell’articolo 81 che nel nuovo testo stabilisce l’obbligo del pareggio di bilancio. In caso di disavanzo eccessivo, come dice l’articolo 5, i paesi “cicala” dovranno sottoporre alla Commissione e al Consiglio un programma di riforme cosiddette strutturali, ovvero di taglio alla spesa pubblica, per sanare la situazione.

Come si vede si tratta di un corpo di norme molto dettagliate e rafforzate da misure correttive, per non dire punitive, in caso di non pieno soddisfacimento delle medesime da parte dei singoli paesi. Nell’articolo 8 si prevede inoltre l’intervento della Corte di Giustizia europea, cui possono ricorrere i singoli paesi in contrasto con i giudizi espressi dalla Commissione. Esula dai confini di questo articolo analizzare in profondità la questione assai rilevante che qui si pone, e che comunque va almeno ricordata, ovvero la sottrazione alle rispettive Corti Costituzionali della competenze di giudicare in merito a comportamenti devianti da regole che nel frattempo, come nel caso italiano, sono state introdotte in Costituzione o che comunque sono collocate in una posizione di rango equivalente a queste ultime. Tema che diventa attualissimo e scottante nel momento in cui si attende, proprio mentre vengono composte queste righe, il giudizio della Corte Costituzionale tedesca in merito al finanziamento da parte della Germania dei nuovi fondi previsti nel trattato.


La rimozione del problema nel centrosinistra

Di fronte alla rilevanza e alla cogenza di simili norme risalta in modo ancora più clamoroso la rimozione che di esse è in atto nel dibattito politico italiano. Il ruolo di opposizione alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione è stato lasciato alla Lega. Condizione un po’ paradossale dal momento che a difendere la sovranità nazionale viene chiamata una forza che ha fatto della distruzione dell’unità nazionale il suo pilastro ideologico. Va da sé che la Lega ha assolto questo compito da una visuale di destra e antieuropeista. Ma questo la dice lunga sull’assuefazione al nuovo pensiero unico delle elites europee che coinvolge la stragrande maggioranza delle forze politiche del nostro paese.

Il centro sinistra nel suo complesso è tutt’altro che immune da questo cupio dissolvi. Di fronte al delinearsi di qualche perplessità, il segretario Bersani si affretta a tacitarle attraverso una derubricazione della gravità delle norme e una cieca e immotivata fiducia nella possibilità di aggiustare il tiro senza modificarle in un rapporto diretto con la Commissione europea. Come se nel nuovo trattato non fossero espressamente previste sanzioni per gli sforamenti e come se le dichiarazioni di Monti e della Commissione non andassero tutte in senso contrario. Come se gli ulteriori passi compiuti dalla Bce di Draghi non imponessero ulteriori camicie di forza ai singoli paesi.

D’altro canto, nel dibattito interno a Sinistra Ecologia Libertà, per fronteggiare la critica di chi sostiene che senza una dichiarata intenzione, esplicitata nel programma della coalizione, di rimettere in discussione il fiscal compact non è possibile fare un governo di centrosinistra, perché a quel punto non esisterebbe nel merito una politica di sinistra o perlomeno di discontinuità con il precedente Esecutivo di Mario Monti, viene contrapposta la stravagante teoria che essendo il fiscal compact troppo rigido per potere essere applicato, necessariamente cadrà da solo. Come se la storia novecentesca - per fermarci qui - non ci avesse insegnato che anche le cose peggiori e contrarie al buon senso non solo sono state proclamate ma anche largamente e tragicamente applicate. Come se la ratifica di quelle norme da parte del più importante partito del centrosinistra potesse essere una parentesi alla stregua di come in molti vogliono considerare l’intera esperienza del governo Monti, da cui ci si potrebbe liberare da un momento all’altro senza neppure dichiararlo e farne oggetto di battaglia politica.

Al contrario il giudizio sul nuovo sistema di governance europea appare sempre più come una delle più rilevanti discriminanti per distinguere la sinistra dalla destra. Gli avvenimenti successivi al vertice di fine giugno, rendono ancora più evidente questa linea di demarcazione.


I pesanti condizionamenti decisi dalla Bce per intervenire


Il temuto assalto dei grandi speculatori che avrebbe potuto dare un colpo di grazia ai paesi in difficoltà, fra cui in primis la Spagna e l’Italia e che si temeva potesse da tradizione avvenire nel cuore dell’estate, non si è verificato o quantomeno non in forme distruttive. Non c’è dubbio che se il generale Agosto non ha potuto fare ulteriori vittime molto è dovuto al nuovo dinamismo che Draghi ha saputo imporre ai vertici della Bce. L’effetto del suo annuncio sul fatto che la banca centrale avrebbe preso tutte le misure a sua disposizione per proteggere l’Euro c’è dunque stato. Il che dimostra che fermare la speculazione non è impresa impossibile. Solo che un simile annuncio può valere e avere efficacia per una volta. Alla seconda occasione sarebbe già un’arma spuntata. Ben diversa sarebbe la situazione se finalmente si giungesse alla radicale modificazione del ruolo della Bce.

Ma questa modifica non c’è stata, né viene prevista, anzi è apertamente osteggiata. Le mosse di Draghi possono anche essere considerate spericolate e al limite del divieto di bailout, ma non si sono potute spingere fino all’acquisto sul mercato primario dei titoli di stato dei paesi in difficoltà. Lo vietano i vincoli del Trattato di Maastricht cui la mission della Bce è legata. Naturalmente ciò ha alimentato le polemiche delle elites tedesche contro il presidente della Bce con toni anche molto aspri e inusuali.

Tuttavia sarebbe un grave errore considerare gli esiti della riunione del board della Bce dell’inizio di settembre come una netta sconfitta delle resistenze tedesche. E’ vero che alla decisione di acquisti di bonds in quantità non predeterminata e “adeguata” (cosa ben diversa da illimitata) sul mercato secondario - il programma Omt, acronimo di Outright monetary transactions - si è opposto Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Il che avviene contemporaneamente al fatto che la stessa Bundesbank per la seconda volta interviene per acquistare i titoli decennali in un’asta tedesca che ha visto la domanda inferiore all’offerta, al fine di mantenere basso il rendimento dei titoli medesimi. Ciò che avviene per i propri interessi è negato agli altri. Ma è ancor più significativo che Angela Merkel l’abbia presa con assai maggiore filosofia. Non tanto per amore di quest’ultima, ma perché in sostanza porta a casa un ottimo compromesso che al contempo è un altro pezzo della invasiva e oppressiva governance europea.

Infatti non solo l’intervento della Bce è limitato ai titoli con vita residua da uno a tre anni; non solo la Bce rinuncia al ruolo di creditore privilegiato in caso di default di un paese per non spaventare gli investitori privati; ma soprattutto il programma Omt può essere attuato solo sulla base di strettissime e dure condizioni. Tra l’altro la cancelliera tedesca, così operando, ha inviato un messaggio rassicurante anche i giudici della Corte costituzionale di Karlsruhe che hanno emesso il loro giudizio di liceità condizionata del finanziamento tedesco ai fondi “salva stati” che agiranno sul mercato primario dei titoli di stato. Un via libera giunto proprio mentre stiamo andando in stampa con questo numero di alternative per il socialismo. Il diniego della Corte di Karlsruhe sarebbe stato la sconfessione della sua politica, oltre che un duro colpo alle scelte europee. Al contrario questo sì, pur se condizionato, sarà facilmente digerito, anche grazie all’analogia con la condizionalità prevista dalla Bce per il programma Omt.


L’intervento della Bce vuole favorire la continuità di Monti

In sostanza la famosa troika (Ue, Bce e Fmi) trova un nuovo fondamento normativo per la sua possibilità di intervenire direttamente nella formazione dei bilanci e delle politiche economiche dei paesi che chiedono un intervento della Bce. La grecizzazione dell’Europa fa dunque passi in avanti. Chi chiederà un intervento dovrà sottoscrivere un memorandum e questo avrà un’ultrattività rispetto alla durata dei governi e delle legislature. Come è successo in Grecia le elezioni politiche di un paese diventano inutili, poiché qualunque sia il loro esito la politica che verrà è già predeterminata.

Riguardo al caso italiano l’estate ha registrato un’ulteriore entrata a gamba tesa delle agenzie di rating. Moody’s ha dichiarato che l’Italia è al riparo da rischi di default solo fino al 2013. Poi con le elezioni e le incertezze sul nuovo quadro politico non si sa cosa avverrà. Ora c’è chi pensa, e lo fa nei luoghi del potere che conta, che probabilmente converrebbe che una richiesta d’aiuti da parte italiana giungesse prima del voto. Non tanto per strette esigenze di bilancio ma per pure ragioni politiche. In questo modo infatti si costringerebbero le forze politiche e siglare un memorandum che potrebbe in questo modo imbrigliare e irreggimentare la politica del governo futuro qualunque sia la maggioranza che si determinerà.

Purtroppo l’Italia ha già dimostrato di volere strafare nei compiti a casa, come si è visto con l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, considerata misura non obbligatoria ma solo “preferibile” dai trattati di cui abbiamo parlato. Non solo, ma dall’Europa prendiamo sempre il peggio. Il nostro paese da un lato si oppone alle decisioni della Corte di Giustizia di Strasburgo in tema di diritto alla fecondazione assistita, dall’altro trangugia tutto ciò che viene dal Consiglio europeo e dalla Bce. Come dice l’ottimo Guido Rossi, il nostro governo appare “eterodiretto dall’Europa sui programmi economici, contrario però all’Europa sui diritti umani”.

Proprio questo pericolo concretissimo, di vedere sparire persino ogni funzione e senso della prova del voto, mentre i partiti attualmente rappresentati in parlamento cercano la quadra di loro comodo sulle tecniche e le regole formali della competizione elettorale; proprio il nesso, stretto e modernissimo, fra a-democrazia e rigorismo economico impone che il rifiuto del fiscal compact e delle insieme di regole che strutturano la nuova governance europea sia il perno per la ricostruzione di una moderna sinistra in Europa e in Italia, oltre che il discrimine per stabilire coalizioni elettorali e di governo

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