Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 25 febbraio 2012

Aldo Tortorella: Chi gioca coi soldi di tutti

di Aldo Tortorella - controlacrisi -
Merita qualche riflessione in più, rispetto a una rinnovata constatazione della concentrazione finanziaria, lo studio sugli incroci proprietari delle maggiori multinazionali di recente pubblicazione su una delle più rigorose riviste scientifiche della rete e poi ripresa da molti siti e da pochi quotidiani. La conclusione di questa ricerca è che 1300 multinazionali, in prevalenza banche, assicurazioni, gruppi finanziari, controllano una miriade di altre grandi società assommando così il 60% del fatturato globale e che 147 di esse sono quelle “superconnesse” in modo tale da rappresentare il 40%della ricchezza del pianeta. «Un pugno di società controlla il mondo. Ecco la rete globale del potere finanziario», titolò anche La Repubblica on line il 2 gennaio.
È stato giustamente detto che per molti, ad esempio per il movimento Occupy Wall Street, la cui parola d’ordine è «siamo il 99% del pianeta contro l’1%», si tratta di una non notizia o, al massimo, di una conferma scontata. È quasi un luogo comune, infatti, che il 20% dei più ricchi possiede l’80% del patrimonio mondiale, oppure che pochi dei più grandi finanzieri hanno più di quanto posseggano un bel po’ di Stati africani. La notizia nuova rappresentata da quella ricerca, però, sta sia nella sua fonte
e nella sua qualità sia, mi pare, nelle sue implicazioni non puramente quantitative.
La fonte è quella della cattedra di analisi dei sistemi complessi, dell’Istituto di alta tecnologia di Zurigo, uno dei maggiori centri di ricerca del mondo, che vanta tra i suoi studenti e professori del passato lontano e recente una trentina di premi Nobel nellematerie scientifiche (tra cui Einstein), oltre che una serie di celebrità in tutti i campi. Presso questa cattedra, che applica le conoscenze matematiche implicite nella materia ai sistemi economici e sociali, lavorano i tre studiosi – Stefania Vitali, James Glattfelder, Stefano Battiston – autori di questo saggio (The network corporate control) che ha le caratteristiche di una ricerca pura.
Essa, cioè, è del tutto priva di qualsiasi premessa o intenzionalità ideologica, come ben chiariscono gli autori nelle discussioni accademiche e non accademiche che hanno seguito la pubblicazione sulla rete. Il che vale a dire, com’è ovvio, che nella sua origine e motivazione non vi è alcuna ipotesi favorevole od ostile alle dottrine economiche liberistiche o antiliberistiche e meno che mai a ipotesi su supposti complotti del capitale.
Semplicemente, ma non facilmente, gli autori hanno creato un (complicato) metodo di indagine per accertare gli intrecci proprietari a partire dal database Orbis che catalogava 37 milioni di società finanziarie e industriali, banche, assicurazioni, enti economici di tutto il mondo. La principale diversità di questa ricerca rispetto alle altre che l’hanno preceduta sta appunto nel fatto di non limitare l’analisi a un gruppo ristretto di società, ma di avere preso come punto di avvio il massimo possibile dei soggetti da esaminare.

L'ISLANDA RISOLVE LA CRISI MA I MEDIA NON NE PARLANO

Se la Germania persegue i suoi interessi.

Di Roberto Romano - sbilanciamoci -
Dietro la rigidità tedesca sull'equilibrio di bilancio, c'è l'obiettivo di consolidare l'oligopolio della propria industria

Se la macroeconomia e il buon senso contraddicono le politiche europee, se una parte consistente degli economisti insiste su un diverso ruolo della BCE e dei bilanci pubblici, perché alcuni leader europei insistono su linee di politica economica estremiste? Soprattutto, perché la Germania impone a tutti gli stati europei l’equilibrio di bilancio (debito e indebitamento), con delle politiche deflattive senza precedenti, tanto da mettere a rischio l’euro, cioè una svalutazione (implicita) del marco pari al 40% del valore reale?

Forse dobbiamo vedere la realtà da un altro luogo. Se l’obiettivo della Germania e dell’area economica di suo interesse “industriale” puntasse a un nuovo equilibrio internazionale? La prima cosa da mettere a fuoco è la particolare struttura industriale tedesca, che riflette una struttura produttiva (soprattutto manifatturiera) sempre più multinazionale, che compensa gli elevati costi del lavoro con sofisticati fattori d’innovazione tecnologica continua e di organizzazione commerciale. Una struttura che ha beneficiato della svalutazione implicita del marco. Questa ha permesso alla Germania e alla sua area economica di riferimento di consolidare avanzi commerciali, pagati sostanzialmente dagli altri paesi europei.

In qualche misure l’industria tedesca deve affrontare il problema della competitività internazionale, ma si rende conto che le politiche adottate non sono più sufficienti. In particolare, la popolazione tedesca non sarebbe mai disposta a sostenere politiche deflattive come quelle adottate dall’Italia o da altri paesi europei. La stessa industria tedesca le troverebbe insopportabili perché incrinerebbe le buone relazioni sindacali e reddituali delle proprie maestranze. In altre parole, le politiche deflattive colpirebbero la classe media tedesca, il vero cuore della società tedesca. Soprattutto l’industria tedesca non potrebbe mai rinunciare al cuore oligopolistico della propria industria, la quale ha maturato vantaggi in tutti i settori produttivi di scala, assecondati da una ricerca e sviluppo senza pari in Europa, capace anche di anticipare la domanda. Si pensi alla green economy.

L’obbiettivo tedesco è quello di consolidare il proprio cuore oligopolistico, facendo leva su un’area economica integrata di subfornitura che rifornisce la propria industria a prezzi contenuti. In questo modo i prezzi finali dei beni e servizi tedeschi potrebbero compensare l’approfondimento della competizione internazionale, senza “intaccare” la condizione materiale dei propri cittadini. Non solo, l’avanzo commerciale della Germania, a questo punto non solo riferito all’Europa, continuerebbe ad essere pagato dall’UE, ma con un ruolo inedito della stessa Germania. Il consolidamento del settore dell’automotive tedesco, a discapito di quello di altri paesi europei, fotografa perfettamente il “potere” tedesco. In questo modo si può spiegare il no della Merkel alla proposta di Marchionne di acquistare l’Opel. Perché avrebbe dovuto accettare? In fondo la crisi del settore avrebbe dovuto suggerire un riequilibrio a livello europeo sul modello dell’aerospazio. L’idea era ed è un'altra. La Germania deve essere il cuore oligopolistico industriale europeo, mentre tutte le altre economie possono ambire a diventare soggetto privilegiato della subfornitura.

Con una tassa sui patrimoni finanziari, 800.000 posti di lavoro.

di Francesco Scacciati , Guido Ortona , Ugo Mattei - sbilanciamoci -
La soluzione della crisi passa per un maggiore e migliore intervento dello Stato: un'imposta patrimoniale sulla ricchezza mobiliare può creare 800.000 posti di lavoro

In questo intervento proponiamo quanto segue:
Ottocentomila disoccupati vengono assunti nel settore pubblico dell'economia con una retribuzione netta di 1.200 euro al mese. L'operazione è finanziata con un'imposta patrimoniale sulla ricchezza mobiliare (escludendo cioè le abitazioni, i terreni ecc.)

Prima di entrare nel merito chiariamo che:
a) gli 800.000 posti e i 1.200 euro al mese vanno intesi come ordine di grandezza; nell'elaborazione tecnica che dovranno effettuare gli enti competenti se la proposta verrà accettata si potrà pensare a modifiche anche consistenti, come per esempio la differenziazione delle retribuzioni in funzione della qualifica;
b) le aliquote fiscali che verranno citate più sotto sono anch'esse un ordine di grandezza medio. È sicuramente preferibile ricorrere ad aliquote progressive. Analogamente, si potrà pensare anche a una limitata tassazione del patrimonio immobiliare. Tutto ciò di nuovo deve essere demandato a una sede tecnica.

Ci siamo sforzati di esporre la proposta nel modo più chiaro possibile; donde la forma un po' inusuale di questo testo.

1. Premessa. L'emergenza economica in cui ci troviamo è l'insieme di più emergenze. Una è quella occupazionale. Gli economisti seri concordano su questi quattro punti: a) i prossimi mesi, o anni, di recessione aggraveranno questa emergenza; b) una crescita debole, paragonata a quella degli ultimi anni prima della recessione, non è sufficiente a risolvere questa emergenza, e forse nemmeno a impedirne l'aggravarsi; c) i costi di questa emergenza sono enormi, e di lungo periodo: in quanto oltre alle gravi sofferenze di natura sia economica sia psicologica per i disoccupati (che molti politici trascurano) comprendono anche la perdita di capacità lavorative, la disaffezione verso il lavoro, e vari tipi di degenerazione del tessuto sociale; d) il mercato non è in grado di risolvere questa emergenza.

Ne consegue inevitabilmente quanto segue:

a) l'emergenza occupazionale va affrontata come tale, cioè con provvedimenti di emergenza, che devono durare fino a che dura l'emergenza.

b) È compito dello stato sostituirsi al mercato per creare occupazione.

c) Le risorse per affrontare questa emergenza devono essere sottratte al ricatto dei mercati finanziari. Infatti un aumento del costo del debito implica una riduzione delle risorse pubbliche disponibili, il che fa aumentare la disoccupazione; e contrastare la disoccupazione con nuova spesa pubblica implica un aumento del costo del debito, e così via.

d) Le risorse necessarie devono quindi provenire da una fonte consistente e stabile. La via più percorribile in tempi brevi è la tassazione della ricchezza mediante un'imposta patrimoniale.

Donde la proposta qui illustrata. Essa solleva quattro ordini di problemi: tecnici, cioè come implementarla; economici, cioè la valutazione degli effetti che avrebbe sull'economia; finanziari, cioè dove trovare i soldi per attuarla; e infine politici. Degli aspetti tecnici, economici e politici discuteremo più sotto; è importante prima di continuare verificare che i soldi ci siano, per dirla un po' brutalmente.

Ci sono. A quanto riferisce la Banca d'Italia, la ricchezza mobiliare netta degli italiani, cioè quella costituita da moneta e titoli (e non da abitazioni e altri immobili, e calcolata sottraendo i debiti) è di circa 2700 miliardi di euro, di cui almeno il 45% è nelle mani del 10% più ricco.
RISE AGAIN GLORIOUS GREEK PARTISANS !

venerdì 24 febbraio 2012

Greece: European creditor countries are demanding. Parlamento esautorato.

di: Andrea Perrone - rinascitaeu -
Grecia: il Parlamento è esautorato
I Paesi europei creditori della Grecia chiedono che entro la fine del mese siano approvati 38 cambiamenti specifici nel fisco, nella spesa pubblica e nelle politiche salariali, oltre a una serie di riforme da attuare nei prossimi due anni. Le richieste, contenute in tre documenti per un totale di 90 pagine, visionate dal quotidiano della City, Financial Times, sono il prezzo accettato da Atene in cambio del nuovo prestito a tassi d’usura da 130 miliardi di euro. La lista delle misure comprende indicazioni di massima e di dettaglio, che vanno dalla modifica delle procedure giudiziarie, delle assicurazioni e del catasto all’acquisto di sistemi informatici per l’Agenzia delle entrate, alle prescrizioni di farmaci e allo stoccaggio di greggio.
In dieci pagine sono racchiuse le azioni prioritarie, da approvare
entro mercoledì: la riduzione della spesa farmaceutica per 1,1 miliardi di
euro, il completamento di centinaia di verifiche fiscali e la liberalizzazione
di attività come quelle dei parrucchieri, delle guide turistiche e dei centri
per le diete. I 38 provvedimenti urgenti, che riguardano tutti i settori
dell'economia nazionale, andranno presi attraverso diversi iter: leggi
parlamentari, circolari ministeriali e decreti presidenziali. Pochissimi
interventi sono già stati attuati o sono in fase di attuazione: tra questi i
tagli alle pensioni per 300 milioni di euro e altri tagli alla spesa pubblica
per 325 milioni. Entro il primo semestre dovranno essere ultimate altre
riforme; si tratta, in molti, casi, di quelle strutturali concordate nel primo
piano di salvataggio, nel 2010. Entro settembre dovranno essere aperte le
professioni più chiuse, come quelle dei farmacisti e degli avvocati, e
liberalizzate le licenze dei taxi. La legge in materia è già passata, ma i
decreti attuativi sono stati più volte rinviati sotto la pressione degli
scioperi. Lo stesso vale per gli appalti della sanità.
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Athens told to change spending and taxes
by Peter Spiegel in Brussels, Gerrit Wiesmann in Berlin and Kerin Hope in Athens

European creditor countries are demanding 38 specific
changes in Greek tax, spending and wage policies by the end of this month and
have laid out extra reforms that amount to micromanaging the country’s
government for two years, according to documents obtained by the Financial
Times.

"Offresi modo quasi-legale per portare soldi all´estero"

Fonte: MARCO PREVE - la Repubblica - dirittiglobali -
Una società lussemburghese si propone ad avvocati e commercialisti, ma non è l´unica: fioriscono le organizzazioni
pro-evasione Garantita una commissione del 3% al professionista italiano che accetta l´accordo

GENOVA - Vuoi fare uscire dall´Italia un po´ dei tuoi soldi? Una società di consulenza e tax planning del Lussemburgo ti aiuta a farlo in poche semplici mosse e «per quanto possibile, in modo legale». Proprio così. E lo scrive pure in una mail che in queste ore hanno ricevuto decine di commercialisti e avvocati genovesi, probabilmente migliaia in tutta Italia. Non è uno scherzo, perché la società - naturalmente Société Anonyme - esiste davvero. Si chiama Damani ed ha sede al civico 13 di località d´Gennerwiss nel paese di Aspelt, Principato del Lussemburgo.
La mail, datata 6 febbraio, inizia con un "confidenziale" e poi spiega al destinatario che Damani
sta cercando collaboratori per alleggerire la pressione fiscale sulle società. «Non usiamo società virtuali (off-shore) si effettua una vera fatturazione» precisa, anche se poi si lascia scappare un «per quanto possibile si agisce in modo legale». Se si chiedono ulteriori ragguagli, nel giro di pochi minuti tal Claudio Luise spedisce un´altra mail con due allegati.
E allora la proposta e il percorso diventano assai più chiari. Il primo passo di Damani è trovare
una sponda italiana, ovvero commercialisti o avvocati con clienti preoccupati dalla ventata di
appoggio popolare alla lotta contro gli evasori. Dopo un incontro per guardarsi negli occhi e
siglare l´accordo, si entra nel vivo. Bisogna creare una società in Lussemburgo che parteciperà
in qualche modo la società italiana preesistente. L´anonima del Principato fatturerà delle prestazioni di lavoro alla gemella italiana che quindi pagherà le fatture con possibilità di dedurre. «Ma in realtà - spiegano quelli di Damani - pagherà solo la commissione, e la differenza, che sarà riversata immediatamente potrà essere depositata altrove». Per chiarire meglio il concetto c´è uno specchietto. La catena dell´evasione è semplice. L´imprenditore italiano paga la fattura alla società lussemburghese che, incamerata la commissione, gira la parte restante del denaro a un´altra «società anonima con conto bancario in Svizzera affinché il cliente italiano possa incassare la differenza». Il gioco è fatto. Fatture per operazioni inesistenti, triangolazione italo-lussemburghese-elvetica e l´evasore italiano ha trasportato la valigetta oltre confine senza neppure spostarsi dall´ufficio.
Seguono indicazioni sui costi e sulle percentuali di guadagno per il compare, pardon, per il
collaboratore italiano. «L´acquisto della società di diritto straniero per il cliente 4500 euro circa,
voi (inteso il commercialista o l´avvocato, ndr) domandate circa 7500... su ogni fattura avrete
una commissione del 3% netto». Tra i servizi forniti: indirizzo per la società, numero di telefono,
fax, eventuale sito con mail.
Tanta franchezza e semplicità potrebbero far pensare a una bufala online. «Macché - spiega un
commercialista genovese - è tutto vero. Ci provano e non sono gli unici, specie in questo periodo, sanno che difficilmente in Lussemburgo qualcuno potrà incriminarli». Conferma un ufficiale della guardia di finanza: «Consociamo queste società che si muovono in maniera tanto disinvolta. Fermarle? Difficile finché stanno nei paradisi, speriamo sempre in qualche loro

Christian Marazzi: I benefici del deficit e del debito



CHRISTIAN MARAZZI controlacrisi

C’è qualcosa che rende simile l’economia alla religione, e cioè che, anche per l’economia, il suo meglio è che essa susciti eretici. Che nella scienza economica ci sia bisogno di eresia ce lo spiegano gli americani che da tempo guardano con inquietudine a quanto sta accadendo in Europa, in particolare a quella famigerata dottrina secondo cui occorre fare tutto il possibile per raggiungere il pareggio di bilancio. Il che significa mettere in atto politiche d’austerità a mezzo di tagli alla spesa pubblica e di aumenti del prelievo fiscale per ridurre deficit e debiti in un periodo di recessione. Un vero e proprio suicidio economico e sociale pagato a caro prezzo dai cittadini europei e di cui le banche sono le dirette beneficiarie, dato che i soldi prestati dalle banche centrali per evitare i fallimenti di Grecia, Portogallo, Spagna e Italia (per il momento) finiscono nelle loro tasche, senza in alcun modo contribuire a rilanciare la crescita dell’economia reale. Di fronte a questo autismo dottrinale, di cui i tedeschi sono la punta avanzata ma che ormai ha contagiato l’Europa intera, sta crescendo negli Stati Uniti una vera e propria scuola di pensiero capeggiata da James K. Galbraith, figlio di cotanto padre, John Kenneth Galbraith, studioso della Grande depressione e consulente economico di John F. Kennedy. Ne ha parlato recentemente Feredico Rampini, corrispondente dagli Stati Uniti per La Repubblica. La Teoria Moderna Monetaria, così si chiama questa scuola di pensiero, sostiene che non ci sono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno Stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta. E questo non solo è possibile, come già si vede con le politiche delle banche centrali americana, inglese, giapponese, e della stessa BCE, ma è soprattutto necessario. “La via della crescita passa attraverso un rilancio di spese pubbliche in deficit, da finanziare usando la liquidità della banca centrale. Non certo alzando le tasse: non ora”. Questa corrente di pensiero, perlaltro ascoltata da Obama, ha questo di, per così dire, “rivoluzionario”: non solo rifiuta il cretinismo della destra economica e la crociata contro la spesa pubblica sulla base dell’equivalenza tra il bilancio pubblico e quello di una famiglia che “non deve vivere al di sopra dei propri mezzi”. Ma critica anche quelle posizioni, certamente più intelligenti, alla Paul Krugman o alla Joseph Stiglitz che, pur sostenendo la necessità di espandere la spesa pubblica per uscire dalla crisi, continuano a pensare che a lungo andare il debito crea inflazione, soprattutto se finanziato stampando moneta, e quindi andrà ridotto appena possibile. Secondo Galbraith e gli economisti di questa scuola, invece, il pericolo dell’inflazione è inesistente. “L’inflazione è un pericolo vero solo quando ci si avvicina al pieno impiego, e una situazione del genere si verificò in modo generalizzato nella prima guerra mondiale”. L’aspetto più innovativo, rispetto alle politiche monetarie odierne e alla paranoia dell’inflazione, riguarda la proposta di erogare liquidità direttamente agli Stati, comprando senza limiti titoli di Stato emessi dai rispettivi governi, senza quindi passare dal sistema bancario che di questa liquidità fa sistematicamente un uso speculativo, generando una bolla finanziaria dietro l’altra. Gli Stati devono però attuare interventi volti a far aumentare la domanda interna con una più equa e sostenibile creazione della ricchezza. Esattamente l’opposto di quanto sta avvenendo oggi in Europa.

Wall Street Italia. Grecia: via a scambio di bond, pronti al peggio

di: WSI Pubblicato il 23 febbraio 2012
New York - Come previsto il parlamento greco ha approvato le misure che prevedono uno scambio di bond, comprese le clausole di azione collettiva. Ora bisogna prepararsi al peggio.

L'intesa prevede un taglio del 53,5% del valore delle obbligazioni emesse dallo Stato greco e lo scambio con titoli a scadenza piu' lunga con una cedola del 3% fino al 2014, 3,75% fino al 2020 e 4,3% dopo il 2020.

Lo swap dei titoli e' volontario, e permettera' di abbattere di 107 miliardi l'enorme massa di debito pubblico greco in mano ai privati.

Un deputato tedesco del partito conservatore ha fatto sapere a Reuters che l'approvazione del secondo pacchetto di aiuti da 130 miliardi di euro sara' vincolato all'impegno nei confronti del Fondo Monetario Internazionale.

Oltre alla perdita della sovranita' e ad anni di sacrifici e sofferenza, la popolazione greca perdera' anche le sue riserve di oro, [esattamente come fece l'esercito tedesco durante l'occupazione] per via di un emendamento alla costituzione ordinato da banchieri tecnocrati che non sono stati eletti e che cercheranno di venire incontro ai creditori - ovvero le banche europee insolventi - che vedranno svalutati i bond in loro possesso.

L'ammontare complessivo dei possedimenti greci e' pari a 111,6 tonnelletate. I lingotti verranno confiscati dall'oligarchia dei banchieri.

L'ammontare di possedimenti in oro paese per paese. Al valore attuale in totale i Piigs detengono riserve per $185 miliardi.

Tra tutti i PIIGS, che rischiano di fare la stessa fine di Atene, l'oro ammonta a 3.234 tonnellate. Ai prezzi attuali si parla di $185 miliardi.

Inoltre l'accordo che l'Eurogruppo ha siglato per erogare alla Grecia il nuovo pacchetto di aiuti non sembra sortire alcun effetto positivo sulla performance dei bond ellenici.
SWEET ITALY,BITTER SHORES
("Sweet Italy, LOVED shores "…V. Monti,poet,1754-1828)
The European Court for Human Rights has condemned Italy for its policy on the rejection of immigrants towards Lybia which occurred in 2009.

giovedì 23 febbraio 2012

L'Italia scopre, con notevole ritardo, il mercato mondiale.

di Pasquale Cicalese per Marx21.it
“Produzione di massa e vendite di massa erano, su base capitalistica, desiderabili da tempo immemorabile. Solo nella fase avanzata dell’accumulazione, però, quando la valorizzazione dell’enorme capitale all’interno diventa sempre più difficile, solo in questa fase l’estensione e la sicurezza di un mercato di sbocco più grande possibile diviene una questione di vita per il capitalismo. (…) Da tutto questo deriva che anche nell’area nazionale si fa avanti l’idea sempre più vincente della “grande azienda” nei confronti della “piccola e media azienda” Henryk Grossmann, “La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista”, Mimesis 2011, pag. 399.


Partiamo da un dato: a prezzi correnti, il pil mondiale è cresciuto dal 2000 al 2011 da 37 mila miliardi di dollari a 73 mila miliardi, mentre il commercio estero, complessivamente, è cresciuto nello stesso periodo di circa il 170%.



Nello stesso arco di tempo il pil italiano è cresciuto, cumulativamente, di appena il 4%, mentre a livello di commercio estero le quote nel mercato mondiale sono passati dal 4,1 al 2,9%, venendo a mancare un fattore di controtendenza alla crisi di primaria importanza.

Tali dati certificano in pieno la débacle della borghesia italiana, che negli anni Novanta strillava contro gli oligopoli pubblici presentandosi come il ceto che avrebbe portato l’Italia nel novero dei paesi industrializzati del mondo, a patto che si riformassero mercato del lavoro e delle pensioni.

Il ceto politico di quelli anni offriva loro il pacchetto Treu e la “nuova programmazione” nel Mezzogiorno del duo Ciampi-Barca, il cui pilastro era un’ondata di incentivi a fondo perduto per le “imprese” di questa zona del paese.

Contemporaneamente, il ceto universitario cantava le lodi delle piccole imprese alternativo all’assetto del dopoguerra, almeno fino agli anni Settanta, fondato su oligopoli pubblici.

Andò diversamente. A partire dal 1999, con l’entrata in vigore della moneta unica, il declino inarrestabile di questo ceto imprenditoriale diviene palese. La dirigenza italiana si trastullerà nel decennio 2000 sulla minaccia asiatica, incapace di analizzare le cause interne al crollo e soprattutto fortemente deficitaria nel capire come si andava strutturando il mercato mondiale.

Giulietto Chiesa APRITE GLI OCCHI

Follow the money: no money? Ai ai ai … no ministry!! Niente soldi? ... niente ministero!

I redditi dei ministri - Segui i soldi
di Alessandro Robecchi - pubblicato in Il Manifesto -

“Follow the money”, segui i soldi. Ecco, appunto. Ieri l’hanno fatto parecchi italiani, accorsi sul sito del governo a curiosare nei portafogli dei ministri. Ora che tutti sanno, qualcuno dovrà chiedere al viceministro Michel Martone, un esperto del ramo, sotto quale soglia un membro del governo tecnico presieduto da Mario Monti possa considerarsi “sfigato”. Delusione, comunque: solo tre ministri sopra il milione – più o meno quello che Silvio B. buonanima spendeva in collanine – e dunque sollievo della popolazione. Il Guardasigilli Paola Severino è quasi fuori concorso: con 7 milioni all’anno guadagnati facendo l’avvocato non sarà poi così convinta che la giustizia non funziona. Corrado Passera, che tutti davano per vincente, si attesta alla misera metà, 3 milioni e mezzo. Non preoccupatevi, comunque: ha un bel gruzzoletto da parte. Terzo classificato, Piero Gnudi, un milione e sette, vergogna, e una Fiat Stilo (ancor più vergogna, se la Fiat non ci chiede qualche milione come a Corrado Formigli, a proposito: solidarietà). Poi, dannazione, si scende. Anzi, si precipita. Pochi ministri sopra i 300.000 euro (Terzi e Di Paola) e quasi tutti appena sopra o appena sotto i 200.000, con l’eccezione di Andrea Riccardi (Cooperazione) che arrivava nel 2010 a 120 mila euro, una miseria (ai prezzi correnti, ci paghi a malapena 10 redattori de il manifesto o 9 metalmeccanici, oppure lo 0,03 per cento di quel che incassa Marchionne in un anno, che però, pagando le tasse in Svizzera, gioca in un altro campionato). Insomma, diciamolo, a parte tre-quattro casi, non si può parlare di una vera oligarchia. Qualche sfizio, la casa a Parigi (Passera), un’Harley Davidson (Terzi), baite e pascoli sulle Alpi (Giarda). Sembra la foto della buona (?), cara (?), vecchia, alta borghesia della nazione, quella che non si costruisce vulcani finti in giardino e non ostenta troppo. Unica noterella stonata, se ancora vi appassionate a vecchie questioni come “rappresentanza” e “democrazia”, il fatto che secondo gli economisti più attenti alle diseguaglianze del Paese, appena il 5 per cento della popolazione ha un reddito (reale, non dichiarato) superiore ai 200.000 euro l’anno. Quindi, se il metodo fosse veramente “follow the money” potremmo dire di avere un eccellente governo tecnico rappresentativo di un italiano su venti.

I greci e noi. Assemblea di condominio.

Assemblea di condominio - notavtorino -
I greci e noi: siamo entrambi sulla stessa barca, una barca che assomiglia alla Concordia. O sullo stesso treno, quello che ad alta velocità contribuisce pesantemente alla creazione e alla crescita del debito pubblico nella rincorsa verso la bancarotta.
Dobbiamo evitare il naufragio, dobbiamo fermare quel treno. Lo abbiamo capito anche guardando le olimpiadi greche.

Abitiamo nello stesso condominio dei greci, siamo entrambi solo in affitto e quando il proprietario dell'intero palazzo decide di aumentare l'affitto a suo piacere non c'è nemmeno un sindacato inquilini a cui rivolgerci, dobbiamo fare tutti da soli.

In realtà il nostro caseggiato è stato svenduto ad una banda di affaristi e di speculatori ammanicati con le banche e anche il nostro nuovo amministratore prende ordini dalla proprietà: sono quaranta punti messi nero su bianco in una lettera spedita all'amministratore precedente che non se l'era sentita di farli rispettare e si era fatto da parte, avrà avuto le sue buone ragioni.

Il nuovo amministratore è stato eletto direttamente dalla proprietà in barba alle più elementari regole di democrazia condominiale. E noi zitti.

E' la proprietà che decide le ristrutturazioni degli alloggi, il rifacimento del tetto e della facciata, la messa a norma degli impianti e quant'altro: salvo poi scaricare sugli inquilini spese ordinarie e straordinarie senza neppure mostrarci le fatture. L'amministratore consulta il capo contabile responsabile dello sviluppo economico e anche delle infrastrutture e dei trasporti, il quale è ben felice di dare il consenso. La segretaria minaccia intanto di licenziare gli inquilini che protestano dicendo che dell'articolo diciotto se ne frega.

L'amministratore vola a Bruxelles, riferisce alla proprietà, torna e ci rassicura che lo fa per il nostro bene e i nostri figli. Poi distribuisce i compiti e assegna gli appalti.

Noi inquilini non ne possiamo più. In Grecia il 30% della popolazione è sotto la soglia di povertà, il 50% dei giovani è disoccupato: i nostri figli guardano al futuro e vedono la Grecia. Noi genitori, annoiati per anni con un lavoro che una volta era fisso guardiamo i nostri figli e siamo preoccupati più di loro.

Economic Dictatorship. The European Stability Mechanism (ESM)

By Rudo de Ruijter and Jozeph Muntenbergh
Global Research, Article by Rudo de Ruijter
Is the EU and the euro in crisis?

The EU is planning a new fundamental law, the Treaty for the establishment of the so called European Stability Mechanism. (ESM), the Debt Union. The draft for the ESM is now to be examined by the representatives in Parliament.

Art. 8 The founding capital is 700 billion euros.
Where does this amount come from? Who has calculated it and on which basis?

Art. 9.3 ESM Members hereby irrevocably and unconditionally undertake to pay on demand any capital call made on them ... to be paid within 7 days of receipt.

When the ESM calls, then things must go fast. Indeed, seven days, that means that with the usual delays in bank transfers we must fill in the check within four days. That is feasible. Just, maybe, what means unconditional and irrevocable? When a new parliament is elected that would not want these fund transfers anymore? They can’t decide that anymore?

Art. 10.1 The Board of Governors may decide to change the authorised capital stock and amend Article 8 .... accordingly.

The 700 billion are just the start? So, the ESM can demand more when they wish. Illimitably. And we are then obliged to pay -according to article 9 - irrevocably and unconditionally?

Art. 27.2 The ESM shall have full legal capacity to be a party to legal proceedings; and
GOING BACK TO FASCIST ERA
Continue the government attempts to abolish the ARTiCLE 18 in defence of workers rights

mercoledì 22 febbraio 2012

Se la Germania persegue i suoi interessi

di Roberto Romano - sbilanciamoci -
Dietro la rigidità tedesca sull'equilibrio di bilancio, c'è l'obiettivo di consolidare l'oligopolio della propria industria

Se la macroeconomia e il buon senso contraddicono le politiche europee, se una parte consistente degli economisti insiste su un diverso ruolo della BCE e dei bilanci pubblici, perché alcuni leader europei insistono su linee di politica economica estremiste? Soprattutto, perché la Germania impone a tutti gli stati europei l’equilibrio di bilancio (debito e indebitamento), con delle politiche deflattive senza precedenti, tanto da mettere a rischio l’euro, cioè una svalutazione (implicita) del marco pari al 40% del valore reale?

Forse dobbiamo vedere la realtà da un altro luogo. Se l’obiettivo della Germania e dell’area economica di suo interesse “industriale” puntasse a un nuovo equilibrio internazionale? La prima cosa da mettere a fuoco è la particolare struttura industriale tedesca, che riflette una struttura produttiva (soprattutto manifatturiera) sempre più multinazionale, che compensa gli elevati costi del lavoro con sofisticati fattori d’innovazione tecnologica continua e di organizzazione commerciale. Una struttura che ha beneficiato della svalutazione implicita del marco. Questa ha permesso alla Germania e alla sua area economica di riferimento di consolidare avanzi commerciali, pagati sostanzialmente dagli altri paesi europei.

In qualche misure l’industria tedesca deve affrontare il problema della competitività internazionale, ma si rende conto che le politiche adottate non sono più sufficienti. In particolare, la popolazione tedesca non sarebbe mai disposta a sostenere politiche deflattive come quelle adottate dall’Italia o da altri paesi europei. La stessa industria tedesca le troverebbe insopportabili perché incrinerebbe le buone relazioni sindacali e reddituali delle proprie maestranze. In altre parole, le politiche deflattive colpirebbero la classe media tedesca, il vero cuore della società tedesca. Soprattutto l’industria tedesca non potrebbe mai rinunciare al cuore oligopolistico della propria industria, la quale ha maturato vantaggi in tutti i settori produttivi di scala, assecondati da una ricerca e sviluppo senza pari in Europa, capace anche di anticipare la domanda. Si pensi alla green economy.

Crisi dell'euro La grande svendita europea

Autore: Tom Bawden Charlie Cooper - dirittiglobali -
Per cercare di ridurre il loro debito, sempre più paesi europei ricorrono alla liquidazione di beni pubblici di ogni tipo. Ma l'eccesso di offerta rischia di far precipitare i prezzi.
Cos'hanno in comune il carnevale del martedì grasso in Portogallo, il sole della Grecia, il National Stud [allevamento di cavalli] irlandese e la lotteria nazionale spagnola?

Risposta: sono stati tutti venduti o cancellati dai governi europei nel disperato tentativo di risanare le finanze pubbliche dopo un decennio di stravizi. Un numero considerevole di paesi europei sta sostanzialmente vendendo i gioielli di famiglia, in una svendita continentale senza precedenti.

La Grecia è il principale banditore d'Europa, con circa 50 miliardi di risorse all'asta. Ma altri governi sono avviati sulla stessa strada.

La vendita del patrimonio statale è una scelta disperata. In circostanze favorevoli sarebbe un progetto ambizioso, ma le circostanze sono tutt'altro che favorevoli. Se tutti mettono all'asta i loro possedimenti contemporaneamente, il crollo dei prezzi è inevitabile. La Grecia, per esempio, finora è riuscita a incassare appena 180 milioni di euro, molto meno dei 50 miliardi previsti.

Gli acquirenti in teoria non mancano. La Cina è in cerca di opportunità di investimento in ogni angolo del globo, e i governi dei paesi mediorientali sono sempre pronti a spendere i proventi del petrolio.

A questo punto è difficile dire se dovremmo essere felici o preoccupati davanti a una vendita così massiccia. Da un lato bisogna accogliere qualsiasi soluzione in grado di tirare fuori l'Europa dalla crisi del debito, ma è anche vero che i gioielli di famiglia, una volta venduti, non torneranno mai indietro. Mentre le nostre economie vengono progressivamente surclassate da Cina e India, c'è il rischio concreto che il vecchio continente non ritorni mai più ai fasti del passato.

Irlanda - Foreste, servizi pubblici, una compagnia aerea, la National Stud

Lo stato irlandese ha messo in vendita un lungo campionario di risorse, tra cui una società energetica, la compagnia aerea Aer Lingus, la compagnia che gestisce il patrimonio forestale (Coillte) e la famosa National Stud (valore stimato: 1 miliardo di euro). Bord Gais, la società che gestisce l'erogazione di gas nell'isola, è stata valutata 2,5 miliardi di euro. La settimana scorsa il dipartimento dei trasporti ha confermato che esiste un "forte interesse" nella quota statale di Aer Lingus, del valore complessivo di 123 milioni di euro.

Portogallo - Infrastrutture energetiche

Lisbona è stata tra le prime capitali europee a mettere all'asta il proprio patrimonio, e per questo motivo ha avuto un discreto successo. La società elettrica nazionale ha accolto capitali cinesi e della Oman Oil, e lo stato ha incassato 592 milioni di euro. Un affare ben più lucrativo, attorno agli 8 miliardi di euro, è stata la vendita del 21 per cento delle azioni della compagnia energetica nazionale, Energias de Portugal, acquistate dalla cinese Three Gorges Corporation.

Un appello agli intellettuali europei. Salviamo la Grecia dai suoi salvatori.

di VICKY SKOUMBI, DIMITRIS VERGETIS, MICHEL SURYA* - ilmanifesto -

Nel momento in cui un giovane greco su due è disoccupato, 25.000 persone senza tetto vagano per le strade di Atene, il 30 per cento della popolazione è ormai sotto la soglia della povertà, migliaia di famiglie sono costrette a dare in affidamento i bambini perché non crepino di fame e di freddo e i nuovi poveri e i rifugiati si contendono l'immondizia nelle discariche pubbliche, i "salvatori" della Grecia, col pretesto che i Greci "non fanno abbastanza sforzi", impongono un nuovo piano di aiuti che raddoppia la dose letale già somministrata. Un piano che abolisce il diritto del lavoro e riduce i poveri alla miseria estrema, facendo contemporaneamente scomparire dal quadro le classi medie.

L'obiettivo non è il "salvataggio"della Grecia: su questo punto tutti gli economisti degni di questo nome concordano. Si tratta di guadagnare tempo per salvare i creditori, portando nel frattempo il Paese a un fallimento differito.Si tratta soprattutto di fare della Grecia il laboratorio di un cambiamento sociale che in un secondo momento verrà generalizzato a tutta l'Europa. Il modello sperimentato sulla pelle dei Greci è quello di una società senza servizi pubblici, in cui le scuole, gli ospedali e i dispensari cadono in rovina, la salute diventa privilegio dei ricchi e la parte più vulnerabile della popolazione è destinata a un'eliminazione programmata, mentre coloro che ancora lavorano sono condannati a forme estreme di impoverimento e di precarizzazione.

Ma perché questa offensiva neoliberista possa andare a segno, bisogna instaurare un regime che metta fra parentesi i diritti democratici più elementari. Su ingiunzione dei salvatori, vediamo quindi insediarsi in Europa dei governi di tecnocrati in spregio della sovranità popolare. Si tratta di una svolta nei regimi parlamentari, dove si vedono i "rappresentanti del popolo" dare carta bianca agli esperti e ai banchieri, abdicando dal loro supposto potere decisionale. Una sorta di colpo di stato parlamentare, che fa anche ricorso a un arsenale repressivo amplificato di fronte alle proteste popolari. Così, dal momento che i parlamentari avranno ratificato la Convenzione imposta dalla Troika (Ue, Bce, Fmi), diametralmente opposta al mandato che avevano ricevuto, un potere privo di legittimità democratica avrà ipotecato l'avvenire del Paese per 30 o 40 anni.

Parallelamente, l'Unione europea si appresta a istituire un conto bloccato dove verrà direttamente versato l'aiuto alla Grecia, perché venga impiegato unicamente al servizio del debito. Le entrate del Paese dovranno essere "in priorità assoluta" devolute al rimborso dei creditori e, se necessario, versate direttamente su questo conto gestito dalla Ue. La Convenzione stipula che ogni nuova obbligazione emessa in questo quadro sarà regolata dal diritto anglosassone, che implica garanzie materiali, mentre le vertenze verranno giudicate dai tribunali del Lussemburgo, avendo la Grecia rinunciato anticipatamente a qualsiasi diritto di ricorso contro sequestri e pignoramenti decisi dai creditori. Per completare il quadro, le privatizzazioni vengono affidate a una cassa gestita dalla Troika, dove saranno depositati i titoli di proprietà dei beni pubblici.. In altri termini, si tratta di un saccheggio generalizzato, caratteristica propria del capitalismo finanziario che si dà qui una bella consacrazione istituzionale.

Poiché venditori e compratori siederanno dalla stessa parte del tavolo, non vi è dubbio alcuno che questa impresa di privatizzazione sarà un vero festino per chi comprerà.

Ora, tutte le misure prese fino a ora non hanno fatto che accrescere il debito sovrano greco, che, con il soccorso dei salvatori che fanno prestiti a tassi di usura, è letteralmente esploso sfiorando il 170% di un Pil in caduta libera, mentre nel 2009 era ancora al 120%. C'è da scommettere che questa coorte di piani di salvataggio - ogni volta presentati come 'ultimi'- non ha altro scopo che indebolire sempre di più la posizione della Grecia, in modo che, privata di qualsiasi possibilità di proporre da parte sua i termini di una ristrutturazione, sia costretta a cedere tutto ai creditori, sotto il ricatto "austerità o catastrofe". L'aggravamento artificiale e coercitivo del problema del debito è stato utilizzato come un'arma per prendere d'assalto una società intera. E non è un caso che usiamo qui dei termini militare: si tratta propriamente di una guerra, condotta con i mezzi della finanza, della politica e del diritto, una guerra di classe contro un'intera società. E il bottino che la classe finanziaria conta di strappare al 'nemico' sono le conquiste sociali e i diritti democratici, ma, alla fine dei conti, è la stessa possibilità di una vita umana. La vita di coloro che agli occhi delle strategie di massimizzazione del profitto non producono o non consumano abbastanza non dev'essere più preservata.

E così la debolezza di un paese preso nella morsa fra speculazione senza limiti e piani di salvataggio devastanti diviene la porta d'entrata mascherata attraverso la quale fa irruzione un nuovo modello di società conforme alle esigenze del fondamentalismo neoliberista. Un modello destinato all'Europa intera e anche oltre. E' questa la vera questione in gioco. Ed è per questo che difendere il popolo greco non si riduce solo a un gesto di solidarietà o di umanità: in gioco ci sono l'avvenire della democrazia e le sorti del popolo europeo.

Dappertutto la "necessità imperiosa" di un'austerità dolorosa ma salutare ci viene presentata come il mezzo per sfuggire al destino greco, mentre vi conduce dritto. Di fronte a questo attacco in piena regola contro la società, di fronte alla distruzione delle ultime isole di democrazia, chiediamo ai nostri concittadini, ai nostri amici francesi e europei di prendere posizione con voce chiara e forte. Non bisogna lasciare il monopolio della parola agli esperti e ai politici. Il fatto che, su richiesta dei governanti tedeschi e francesi in particolare, alla Grecia siano ormai impedite le elezioni può lasciarci indifferenti? La stigmatizzazione e la denigrazione sistematica di un popolo europeo non meritano una presa di posizione? E' possibile non alzare la voce contro l'assassinio istituzionale del popolo greco? Possiamo rimanere in silenzio di fronte all'instaurazione a tappe forzate di un sistema che mette fuori legge l'idea stessa di solidarietà sociale?

Siamo a un punto di non ritorno. E' urgente condurre la battaglia di cifre e la guerra delle parole per contrastare la retorica ultra-liberista della paura e della disinformazione. E' urgente decostruire le lezioni di morale che occultano il processo reale in atto nella società. E diviene più che urgente demistificare l'insistenza razzista sulla "specificità greca" che pretende di fare del supposto carattere nazionale di un popolo (parassitismo e ostentazione a volontà) la causa prima di una crisi in realtà mondiale.
Ciò che conta oggi non sono le particolarità, reali o immaginari, ma il
comune: la sorte di un popolo che contagerà tutti gli altri.

Molte soluzioni tecniche sono state proposte per uscire dall'alternativa "o la distruzione della società o il fallimento" (che vuol dire, lo vediamo oggi, sia la distruzione sia il fallimento). Tutte vanno prese in considerazione come elementi di riflessione per la costruzione di un'altra Europa. Prima di tutto però bisogna denunciare il crimine, portare alla luce la situazione nella quale si trova il popolo greco a causa dei "piani d'aiuto" concepiti dagli speculatori e i creditori a proprio vantaggio.
Mentre nel mondo si tesse un movimento di sostegno e Internet ribolle di iniziative di solidarietà, gli intellettuali saranno gli ultimi ad alzare la loro voce per la Grecia? Senza attendere ancora, moltiplichiamo gli articoli, gli interventi, i dibattiti, le petizioni, le manifestazioni. Ogni iniziativa è la benvenuta, ogni iniziativa è urgente. Da parte nostra ecco che cosa proponiamo: andare velocemente verso la formazione di un comitato europeo di intellettuali e di artisti per la solidarietà con il popolo greco che resiste. Se non lo facciamo noi, chi lo farà? Se non adesso, quando?

*Rispettivamente redattrice e direttore della rivista Aletheia di Atene e direttore della rivista Lignes, Parigi.

Prime adesioni: Daniel Alvaro, Alain Badiou, Jean-Christophe Bailly, Etienne Balibar, Fernanda Bernardo, Barbara Cassin, Bruno Clement, Danièle Cohen-Levinas, Yannick Courtel, Claire Denis, Georges Didi-Hubermann, Ida Dominijanni, Roberto Esposito, Francesca Isidori, Pierre-Philippe Jandin, Jérome Lebre, Jean-Clet Martin, Jean-Luc Nancy, Jacques Ranciere, Judith Revel, Elisabeth Rigal, Jacob Rogozinski, Avital Ronell, Ugo Santiago, Beppe Sebaste, Michèle Sinapi, Enzo Traverso
THE STOCK EXCHANGE BOOM

martedì 21 febbraio 2012

“New Deal per la Ue o la Germania ci porterà al disastro”

di Nicolò Cavalli - linkiesta -
Per il professor Stuart Holland, il problema dell’Europa, oggi, è la Germania. La politica economica che impone all’eurozona sta facendo marciare il continente verso il disastro. E se non è giusto che Berlino si accolli il debito greco, non ha neppure il diritto di imporre la svendita di interi Paesi. In tedesco si usa la stessa parola (schuld) per “debito” e “colpa”, e psicologicamente creditori forti provano piacere nel punire debitori deboli. Ma l’austerità espansiva è una completa contraddizione in termini, e anche a livello teorico potrebbe funzionare solo in caso di piena occupazione e di libertà di svalutare la moneta. Serve dunque un New Deal europeo, e i governi devono strappare il potere dalle mani delle agenzie di rating.

Stuart Holland è professore presso la Faculdade de Economia dell’Università di Coimbra, in Portogallo, ed è stato membro del Parlamento inglese dal 1979 al 1989. Già consigliere di Delors negli anni Novanta, Holland ha scritto il capitolo sugli eurobond nel rapporto Delors del 1993 ed è l’autore «della proposta più semplice e più forte di uscita dalla crisi economica europea: il lancio di un New Deal per l’Europa» – queste le parole del professor Gioacchino Garofoli, che ha invitato Holland all’Università dell’Insubria per una serie di seminari che si stanno svolgendo in questi giorni. Linkiesta ha colto l’occasione di questa visita per una intervista sui percorsi di uscita dalla crisi dei debiti europea, che sembra lontana dalla sua risoluzione.

Professore, che cosa sta succedendo in Europa? La Grecia ha approvato pochi giorni fa un durissimo pacchetto di austerity in cambio di aiuti per 130 miliardi di euro, eppure tutt’oggi non è chiaro se effettivamente questo potrà evitare il default. Jimmy Reid, di Deutsche Bank, ha osservato che la crisi dei debiti sovrani è tutt’altro che terminata e che le cose potrebbero peggiorare ulteriormente.
È vero. Il problema dell’Europa oggi è la Germania e nasce dall’incapacità del suo primo ministro, Angela Merkel, di comprendere le dinamiche dell’integrazione economica europea e i rapporti di mutua dipendenza tra le economie dell’eurozona. Il surplus tedesco è esattamente l’inverso del deficit dei paesi come la Grecia, poiché oltre il 60% dell’export della Germania va verso altre economie dell’area euro. Concentrandosi sui tagli e sulle misure di austerità, la politica economica che la Germania impone all’eurozona è una politica di deflazione beggar-my-neighbour e non c’è modo di uscire dalla crisi seguendo questa strada: l’Europa sta marciando verso il disastro senza nemmeno rendersene conto.

Lei sta dunque suggerendo che l’idea dell’austerità espansiva non può funzionare e che occorre investire di più per uscire dalla crisi?
Austerità espansiva è una completa contraddizione in termini. Coloro che propongono questa teoria si basano sull’ipotesi di Friedman circa il “crowding out”, ossia sull’idea che la spesa e gli investimenti pubblici inibiscono il settore privato. Tuttavia, ciò che i teorici contemporanei del “crowding out” non ammettono è che persino Friedman rilevava che tale ipotesi funziona solo nel caso di piena occupazione, condizione che siamo ben lungi dall’avere oggi. In più, non esiste una controparte privata in grado di equilibrare le riduzioni nella spesa e negli investimenti pubblici, poiché questi ultimi generano domanda nel settore privato e, inversamente, la riducono quando vengono tagliati.

Eppure se ne sente parlare spesso. Anz, le politiche europee sembrano ispirate proprio da questa idea.
Quando la Commissione Europea e Olli Rehn parlano di austerità espansiva, lo fanno riferendosi all’esperienza delle economie di Olanda, Danimarca e Svezia negli anni ’80 del XX secolo quando, nel contesto di una generale crescita economica a livello europeo, furono possibili tagli di spesa senza che questi inibissero la produzione di ricchezza. Ciò che però viene omesso è che questi Paesi combinarono i tagli con la svalutazione della propria moneta, aumentando in questo modo la propria competitività internazionale. Oggi, però, le economie dell’eurozona hanno perso la possibilità di svalutare la moneta e, con tutta l’Europa in recessione o in una situazione di bassa crescita, non c’è alcuna uscita dalla crisi attraverso la reciproca austerità. Questa è una risposta alla crisi di stampo pre-Keynesiano: sostiene infatti che l’austerità mette in moto dinamiche capaci di condurre alla crescita nel lungo periodo. Peccato che, citando lo stesso Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti e che, nella situazione attuale, tagliare, tagliare e tagliare ancora senza alcuna controparte in investimenti pubblici volti alla ripresa significa far morire il modello sociale europeo e gli impegni di coesione economica e sociale che costituivano i due pilastri della prima revisione del Trattato di Roma, il Single European Act del 1986.

Grecia: meglio fuori o dentro l’euro?

by keynesblog on 21 febbraio 2012 in Europa
L’Europa ha deciso di salvare la Grecia. Se così si può dire. Perché le misure di austerità imposte ad Atene potrebbero invece distruggerla definitivamente. Che però la Grecia debba rimanere nell’euro ne è convinto Paolo Guerrieri, professore ordinario di Economia Internazionale alla Sapienza Università di Roma, che sull’Unità scrive:

E’ dimostrabile, da un lato, che un default di Atene ordinato e in grado di mantenere la Grecia all’interno dell’area euro potrebbe essere in qualche modo gestibile; dall’altro, un fallimento seguito dall’uscita dall’euro e dal ritorno alla dracma è molto più probabile scatenerebbe sui mercati europei – al di là dei drammatici costi per l’economia greca – una serie di reazioni a catena con effetti di contagio diffusi e in larga misura difficili da prevedere e controllare. [...]

Ancora, se l’eurozona continua a rappresentare la maggiore fonte di rischio per una ripresa dell’economia mondiale che si mantiene fragile e anemica, è evidente che un disordinato fallimento della Grecia determinerebbe un drastico ridimensionamento del clima di fiducia sui mercati e finirebbe per rappresentare il detonatore di una nuova recessione dell’area dei Paesi più sviluppati.

Ma a questo punto della situazione, in cui i “salvataggi” sembrano invece condanne, si moltiplicano le voci di chi consiglia alla Grecia di abbandonare la moneta unica. Tra gli ultimi arrivati Joseph Stiglitz che, criticando l’austerità come un “salasso medioevale” consiglia un default non concordato che permetta alla Grecia di ricontrattare seriamente il proprio debito con le banche europee e liberarsi dell’Euro, visto come una camicia di forza simile al Gold Standard negli anni ’30.

Di simile avviso un articolo di Marshall Auerback sul blog eterodosso New Economic Prospectives che scrive:

Non c’è dubbio che con un default un sacco di dipendenti del settore pubblico saranno licenziati, le pensioni saranno a rischio, e la disoccupazione quasi certamente crescerà. Ma questo sicuramente accadrebbe anche con l’accordo di ora. Se il paese tornasse alla dracma, però, probabilmente avrebbe una moneta sostanzialmente più debole, che potrebbe in ultima analisi offrire al paese i mezzi per competere nell’economia globale. Con un tasso di cambio super-cheap, la Grecia potrebbe diventare una Mecca per case di riposo, ospedali di ricerca, colleges transeuropei di arti liberali, e magari nuove aziende di software a basso costo.

Non una grande prospettiva vista così, ma in fondo la Florida ha basato su questi settori molto del suo benessere. La Grecia a basso costo potrebbe diventare la Florida europea.

Anche Werner Sinn, dell’Istituto IFO, in una intervista allo Spiegel spinge verso una soluzione extra Euro per la Grecia:

Le merci greche dovrebbero diventare più economiche del 30% per poter raggiungere i livelli della Turchia. E questo è possibile solamente con l’uscita dalla moneta unica e la svalutazione. Senza svalutazione si dovrebbero rinegoziare milioni di listini prezzi e contratti di lavoro. Questo porterebbe alla radicalizzazione dei sindacati e il paese sull’orlo di una guerra civile. Molte aziende andrebbero verso il fallimento perché i loro guadagni e il loro fatturato crollerebbero mentre i loro debiti bancari resterebbero invariati. I debiti bancari possono essere abbattuti solo attraverso una svalutazione. L’idea di poter salvare la Grecia all’interno dell’Euro è un’illusione. E’ diventato politicamente inaccettabile deflazionare i prezzi attraverso un taglio dei salari, in modo da rendere il paese nuovamente competitivo.

I dubbi sono tutti legittimi e nessuno sembra avere una risposta in tasca.

Default. La popolazione europea è vittima di questa paura

di Zag in ListaSinistra
La popolazione europea è vittima di quella paura , di massa, ma anche individuale, che ci prende quando si è lasciati soli a combattere contro i potenti , più potenti all'apparenza che nella sostanza. Tutte le misure, ormai credo che non occorre più dimostrarla a chi vuol vedere e guardare con occhi disincantati.. sono, appunto come tu dici, più per salvare le banche che le popolazioni europee. I numeri parlano da soli. Ma i popoli hanno paura di prendere coscienza di ciò , e sperano che affossando gli altri paesi ci si possa salvare e farcela da soli.
Sintomatico è lo slogan che passa nel nostro paese.
Noi non siamo come la Grecia
In questa frase , in questa affermazione traspare tutta le nostre paure, il nostro egoismo, come a dire, loro sono appestati, ma noi ci salveremo perché non siamo come loro. Si spera che dando in pasto al mostro divoratore la vittima sacrificale il mostro possa saziarsi e farla franca. E se non lo fosse ci sarebbe un altro paese ( che non siamo noi, almeno si spera) da sacrificare, La Spagna, il Portogallo ecc ecc E lo dimostra anche come ci si è aggrappati al governo Monti chiudiamo gli occhi e anche il culo sperando che lui ci possa salvare e difendere da l'indifendibile. E lo stesso atteggiamento della popolazione tedesca, non siamo disposti a pagare debiti che un popolo fannullone ha contratto ( che è poi la leva su cui forzare la mano per una politica della Merkel) sta li a dimostrare che l'ideale di un popolo europeo si è infranto , forse per sempre. E il revanscismo e l'egoismo che si è scatenato, fra tutti i popoli a ricordare il passato che credevamo lo avessimo lasciato alle spalle ,gli eccidi dei nazisti, i debiti di guerra non pagati, la non riconoscenza per il credito che abbiamo dato alla germania perché potesse riunificarsi, oggi quei fantasmi ritornano tutti più violenti di prima. A questa barbarie umana ci ha condotto una politica non-politica . E chi ha governato in questi ultimi vent'anni in Europa, nei paesi europei.? Sia la destra xenofoba, razzista , nazionalista, sia quella liberal democratica, sia la socialdemocrazia , liberale, socialista umanista.
La bestialità e gli istinti più violenti ed egoisti sono ricomparsi nella popolazione europea. Come quando durante un naufragio si strappa dalle mani di un bambino o di una donna indifesa l'ultimo salvagente rimasto o lo si spinge giù in acqua pur di potersi accaparrare l'ultimo posto sulla scialuppa di salvataggio.
Il 18 Febbraio era stata indetta in tutti i paesi la giornata all'insegna di Siamo tutti Greci La partecipazione è stata assolutamente assente. Anche ad Atene nella piazza del Parlamento non vi era che pochissima gente, poca partecipazione, poca speranza, solo delusione, rabbia e rancore.
Si voleva lanciare un appello e un incoraggiamento al popolo greco. Non siete soli, noi siamo a voi fratelli , noi siamo a voi uniti, nella solidarietà. Il nostro concetto di democrazia deriva da voi , nasce da voi e con voi sta scomparendo.
Siamo soli
Zag(c)

Usa, il movimento Occupy e i black bloc

di Enrico Piovesana - latonellatana -
All’interno del composito movimento di protesta americano Occupy Wall Street è iniziato un interessante dibattito sui black bloc e la violenza politica. Un dibattito destinato a montare in vista delle grandi manifestazioni di protesta previste a Chicago a maggio contro il G8 e il vertice Nato, dove la presenza dei black bloc è data per scontata.

Il sasso nello stagno è stato un falso videomessaggio di Anonymous caricato il 22 gennaio su YouTube, dal titolo “Avvertimento di Occupy e Anonymous ai Black Bloc”: una provocazione che ha comunque sortito l’effetto di dar fuoco alle polveri della discussione.
Il video defintiva “inaccetabile”, “penoso”, “idiota” e “pericoloso” il “vandalismo dei black bloc”, e proseguiva con toni molti duri. “Siete codardi perché vi nascondete dietro le insegne del movimento Occupy usando i manifestanti come scudi”. “Molti di voi sono agenti provocatori, e anche chi non lo è, agisce demonizzando il nostro movimento agli occhi dell’opinione pubblica, sottraendoci sostegno, sia finanziario che ideologico. Ma soprattutto, le vostre azioni giustificano la brutalità della polizia, privando il movimento della sua superiorità morale e fornendo munuzioni ai media”. “Considerate questo come un atto di diplomazia – proseguiva il video – prima che iniziamo a scorprire i vostri culi per tutta la rete e a rovinare le vostre vite private. Scegliete: abbandonate le vostre tattiche patetiche e controproducenti e unitevi a noi, oppure fatevi da parte, altrimenti rischiate la collera della moltitudine”. “I black bloc sono un cancro che va estirpato”.

Queste ultime parole del video (cui Anonymous, o chi per loro, ha succssivamente risposto con un altro videomessaggio contro i “tentativi di divisione del movimento”) tornano il 6 febbraio nel titolo di un editoriale, “Il cancro di Occupy”, pubblicato su Truthdig a firma di Chris Hedges: intelettuale di sinistra, scrittore di successo e giornalista premio Pulitzer (è stato corrispondete di guerra per il New York Times e il Christian Science Monitor).
“Gli anarchici black bloc che abbiamo visto in azione a Oakland – scrive Hedges – sono il cancro del movimento Occupy. La loro presenza è un dono del cielo per gli apparati statali di sicurezza e sorveglianza”. “I black detestano la sinistra organizzata e cercano, abbastanza coscientemente, di privarci dei nostri strumenti di forza. Per loro il nemico non sono i capitalisti delle multinazionali, ma i loro collaboratori nei sindacati, nel movimento dei lavoratori, tra gli intellettuali radicali, gli attivisti ambientalisti e i movimenti come gli Zapatisti”.
“Poiché gli anarchici black bloc non credono nell’organizzazione, di fatto si oppongono a tutti i movimenit organizzati”. “I black bloc dicono che attaccano la polizia, ma ciò che realmente fanno è distruggere il movimento Occupy, come dice l’ambeintalista Derrick Jensen, secondo il quale se veramente il loro obiettivo fosse la polizia agirebbero separati dal movimento, invece di usare di fatto gli altri manifestanti come scudi umani”.
“Marciare compatti, tutti vestiti di nero e a volto coperto, diventando parte di un blocco anonimo, serve loro per superare temporanemante sentimenti di alienzazione, inadeguatezza, impotenza e solitudine. Provano un senso di cameratismo che consente alla rabbia di scantanersi contro qualisasi obiettivo: la stessa malattia che affligge i poliziotti che attaccano i dimostranti pacifici, o i soldati in guerra, trasformando esserei umani in bestie”.

The Draghi Put

di Pasquale Cicalese - sinistrainrete -
Greenspan Put: così è stata qualificata l’asset inflation statunitense negli ultimi decenni. A partire dal crack borsistico di Wall Street del 1987, l’espansione illimitata di moneta da parte della Federal Reserve garantiva spettacolari aumenti di azioni (in tal modo le pensioni americane, legate ai corsi azionari, venivano corrisposte), obbligazioni e delle materie prime. Essendo il dollaro moneta internazionale, l’inondazione di liquidità monetaria provocava aumenti dell’inflazione mondiale. Del resto la Greenspan Put era in voga già negli anni sessanta, a tal punto che il Generale De Gaulle si batté per ripristinare il gold standard alternativo al gold exchange standard, basato sulla convertibilità del dollaro in oro.

Ad ogni sintomo di recessione americana o di sgonfiamento di bolle azionarie, Greenspan rispondeva con l’abbattimento dei tassi di interesse e dando liquidità illimitata alle investment-banks di Wall Street.

L’inflazione era contenuta principalmente grazie ad una trentennale gelata dei salari reali, mitigata con il keynesismo finanziario analizzato accuratamente da Riccardo Bellofiore, a cui si aggiungeva il keynesismo militare (guerre imperialiste). Insomma, burro e cannoni.

La Greenspan Put ha provocato, oltre che un aumento dell’asset inflation, l’esplosione di bolle speculative succedutesi negli ultimi venti anni: bolla dell’high tech, bolla immobiliare (mutui subprime), bolla obbligazionaria.

Con la crisi mondiale del 2007 il suo successore, Ben Bernanke, reitera la Greenspan Put dando al sistema finanziario americano la bellezza di 14 mila miliardi di dollari e portando a zero i tassi di interesse.

A livello contabile, l’esplosione del debito privato viene parzialmente mitigata dall’aumento vertiginoso del deficit e del debito federale, nel mentre alle banche di investimento viene riconosciuto il conteggio degli asset – soprattutto mutui subprime – a costo storico, non già a costo di mercato, dacché ciò avrebbe provocato un imponente svalutazione dei prestiti concessi. La polvere viene nascosta sotto il tappeto: il problema è che essa rimane, a tal punto che Mario Margiocco – uno dei maggiori specialisti italiani del mercato americano - quantifica in circa 5 mila miliardi di dollari i prestiti delle banche che prima o poi dovranno essere svalutati, continuando imperterrito il crollo dei prezzi immobiliari americani, senza contare poi i prestiti al consumo e quelli dati agli studenti.

Politiche d’austerity e ristrutturazione del debito in Grecia

di Andrea Fumagalli - sinistrainrete -
L’imposizione di nuove misure draconiane per la riduzione del debito in Grecia da parte della troika economica europea sta assumendo delle forme paradossali.

Per la Grecia si tratta della quinto intervento di tagli in 18 mesi. La ricetta è contenuta in un documento di 51 pagine frutto di settimane di trattative. L’obiettivo immediato è quello della riduzione della spesa pubblica di 3,3 miliardi di euro solo nel 2012: per farlo si dovranno tagliare le pensioni supplementari del 15%, gli stipendi minimi del 22% e quelli dei giovani neoassunti tra i 18 e i 25 anni del 32%, con un blocco per almeno tre anni. Questa sforbiciata si porterà dietro, a cascata, una riduzione di tutti gli altri salari e, probabilmente anche del sussidio di disoccupazione, che attualmente è fissato in 461 euro (lo stipendio minimo invece è di 751 euro, lordi).

Questi nuovi provvedimenti tendono a peggiorare in primo luogo le condizioni salariali e del mercato del lavoro, mentre le precedenti hanno privilegiato soprattutto interventi sulle entrate fiscali e sulla spesa pubblica. Di fatto, le cinque leggi d’austerity greche come le analoghe italiane, spagnoli e portoghesi seguono un medesimo canovaccio: aumento delle entrate fiscali e riduzione della spesa pubblica, il tutto condito da provvedimenti volti alla riduzione del costo del lavoro e al disciplinamento del mercato del lavoro. Per aumento delle entrate fiscali si intende esclusivamente l’aumento dell’Iva (portata al 23% sia in Grecia che in Italia) e delle accise e delle tariffe dei beni di largo consumo la cui domanda, risultando rigida al prezzo, è difficilmente contraibile (dalla benzina ai prodotti energetici, al tabacco, così come nel XIX secolo si interveniva con la tassa sul sale e sul macinato): interventi che, avendo natura regressiva, incidono in modo pesante sui redditi medio bassi. Si tratta di provvedimenti imposti anche ad altri paesi europei (come l’Italia e Spagna) che, in seguito all’aumento dell’Iva, porteranno ad un aumento del livello dei prezzi europei, imponendo così nuovi vincoli restrittivi alla politica monetaria europea.

Fintanto che l’art. 105 del Trattato di Maastricht, che impone l’obbligo per la Bce di rispettare il limite del 2% annuo per il tasso d’inflazione, non verrà modificato o allentato, il probabile esito di tali manovre sarà indirettamente di controllare l’inflazione non più tramite un aumento dei tassi d’interesse ma tramite una riduzione dei costi di produzione, ovvero del lavoro. E a tal fine, non è un caso che in Grecia, come in Italia e in Spagna si attuano provvedimenti diretti (Grecia) o riforme del mercato del lavoro (Italia e Spagna) con tale obiettivo.
ARCHIMEDE BUOYANCY
A body immersed in fluid...

lunedì 20 febbraio 2012

Se la troika avesse almeno visto Zorba il greco.

di Matteo Nucci - ilriformista -
Dopo i Turchi, l’invasore a cui i Greci hanno opposto la più fiera resistenza è stato Hitler. Giorni fa la bandiera tedesca bruciava assieme alle svastiche. Solo folklore, solo populismo?

«Che guerra è mai questa?» ha chiesto a un tratto Panagiotis, pensionato di settantacinque anni, seduto a uno dei caffè di Emanuel Benaki, la stretta via che sale verso Exarhia, il quartiere anarchico di Atene. Era luglio. Davanti a noi, un uomo di mezza età camminava lentamente. Faceva un movimento innaturale con un lungo bastone. Vestito di tutto punto, come un intellettuale d’altri tempi, andava avanti un passo alla volta, con il bastone inforcava le cicche spente in terra e le infilava con nonchalance dentro una bustina. Si procurava tabacco e nascondeva la vergogna in un movimento che aveva cercato di rivestire di improbabile normalità. «Che guerra è mai questa?» Con Panagiotis stavo parlando di Papoutsis, l’allora Ministro dell’Ordine Pubblico, principale “indiziato” dopo le giornate di battaglia che avevano distrutto Atene. Ma osservando la dignità scalfita dell’uomo che raccoglieva scarti di tabacco, Panagiotis parlava di guerra e non di battaglia e si riferiva a ben altro rispetto al fuoco della piazza, tanto che non mi veniva da dire nulla.
Pensavo a quel che raccontava mio nonno, passeggiando nella Roma dei primi anni Settanta, quando cercava di evocare in me bambino le immagini del dopoguerra: la fame, la povertà, e le cicche raccolte in terra, da lui e suo fratello, entrambi fumatori. Panagiotis continuava a guardare l’uomo con i suoi occhi quasi decolorati, ricoperti com’erano da una specie di patina acquosa. Poi gli ho chiesto: «Ma quanto durerà?» e lui ha alzato la mano nell’aria senza neppure sbuffare.
I gesti sono tutto in Grecia. Quando si deve dire “no”, si chiudono gli occhi, si alza il capo verso l’alto e si sospira. Allo straniero inconsapevole pare un segno di sospensione del giudizio. Ma basta leggere Omero per scoprire che è lo stesso cenno che fa Zeus. Si porta appresso il dolore di negare qualcosa, tanto che il “no” linguistico, in greco, è curiosamente più lungo che ovunque, un sospiro bisillabico: «òchi». Il gesto di Panagiotis però era tutta un’altra cosa, e non starò qui a descriverlo. Perché quel che importa di quel gesto è la difficoltà di interpretarlo per chi non conosca la Grecia. È stato allora che ho capito due cose: la guerra sarà lunga e chiunque la stia combattendo contro i Greci ne uscirà sconfitto.
Certo, si potrebbe sostenere che non si tratti affatto di una guerra, che questi anni di pressanti raccomandazioni e inviti a procedere al risanamento eccetera, siano passati all’insegna di una sorta di solidarietà con un Paese che naviga a vista e che non trova il modo di risollevarsi. Può darsi. Ma comunque stiano le cose, la questione rimane la stessa. Come non si può combattere contro un nemico che non si conosce, così non si può aiutare un amico che non si conosce. E in questi anni, l’Europa, i commentatori autorevoli, la cosiddetta troika (Fmi, Bce, Ue), hanno manifestato costantemente una completa ignoranza delle cose greche. Si ha l’impressione che gli uomini deputati a decidere delle sorti di questo piccolo Paese così straordinariamente importante per l’Europa (senonaltro perché è qui che nacque il nome, il concetto, l’idea stessa di Europa) siano del tutto all’oscuro circa la storia della Grecia come del carattere dei Greci.

E decrebbero felici e contenti

di Maurizio Pallante e Andrea Bertaglio ilfattoquotidiano
Sommando il debito pubblico ai debiti delle famiglie e delle imprese, in tutti i paesi industrializzati l’indebitamento complessivo supera il 200 per cento del prodotto interno lordo. Perché? A partire da questa domanda cruciale, che tuttavia nessuno ha mai posto, si sviluppano i contributi all’analisi della crisi in corso e le proposte per ridurne le conseguenze devastanti, riuniti nel volume collettivo Crisi economica, debiti pubblici e decrescita felice, pubblicato dalle Edizioni per la decrescita felice, a giorni in libreria.
L’indebitamento complessivo dei paesi industrializzati, rispondono gli autori del volume, è necessario per assorbire la produzione crescente di merci che altrimenti rimarrebbero invendute. In altre parole la crescita della domanda, che pure è stata costante, non è in grado di assorbire la crescita dell’offerta perché la concorrenza internazionale impone alle aziende di investire continuamente in innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività, che consentono cioè di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di occupati.

Ma se si riduce il numero degli occupati, si riduce il numero delle persone provviste di reddito, per cui la crescita del debito è diventata indispensabile per sostenere la domanda. Il meccanismo della crescita e l’incremento della competitività sono la causa della crisi in corso. Tutti i tentativi di rilanciare la crescita e di incrementare la produttività non solo non possono consentire di superare la crisi, ma se riuscissero, contribuirebbero ad aggravarla. Questa crisi, si sostiene nel libro, non è una crisi congiunturale, ma una crisi di sistema che gli strumenti tradizionali della politica economica non sono in grado di affrontare perché se si vuole rilanciare la crescita, come viene ripetuto con la ripetitività di un mantra, non si possono non aumentare i debiti pubblici; se si vuole ridurre il debito pubblico si deprime la domanda e la crisi si aggrava. Ciò che occorre è trovare il denaro per gli investimenti senza accrescere i debiti pubblici.

Intervista a Gallino: tutti gli esuberi del finanzcapitalismo

di Giuliano Battiston - sbilanciamoci -
Pubblichiamo l'intervista a Luciano Gallino apparsa nello speciale sulla Fiom “Democrazia al lavoro”, a cura del manifesto e di Sbilanciamoci, scaricabile da questo sito (vedi link qui sotto)

Nel suo ultimo libro, Finanzcapitalismo, analizza la trasformazione del passato capitalismo produttivo nell’attuale capitalismo dei mercati finanziari. Una trasformazione durante la quale come nuovo criterio guida dell’azione economica viene adottata la massimizzazione del valore per l’azionista. In che termini questo paradigma ha dato vita a una nuova concezione dell’impresa, favorendone quell’irresponsabilità da lei già criticata ne L’impresa irresponsabile?

La concezione dell’impresa è stata trasformata con grande rapidità, non solo sul piano teorico ma anche nella pratica della gestione e del governo delle imprese, soprattutto dopo gli anni Ottanta del Novecento, quando si è passati da una concezione che potremmo definire istituzionale dell’impresa – per cui essa è o dovrebbe essere un insieme di complessi rapporti sociali tra proprietari, dirigenti, dipendenti, fornitori, comunità locali – a una concezione prevalentemente contrattualistica. Secondo quest’ultima concezione, l’impresa viene intesa come un fascio, un insieme di contratti – stipulati con tutti gli attori che concorrono a vario titolo alla produzione – che hanno una precisa data di scadenza e che possono essere, quali più quali meno, rescissi in ogni momento. Si tratta di una delle manifestazioni della flessibilità che il capitale richiede, anzitutto per se stesso, affinché possa sempre arrivare là dove i rendimenti sono maggiori: dal momento che l’impresa non è nient’altro che un fascio di contratti, se una determinata parte contraente non soddisfa più certe esigenze di rendimento, quel contratto può essere eliminato e sostituito con un altro. Questo vuol dire inoltre che le imprese, perlomeno la maggior parte di esse, non hanno più alcun interesse ad essere localizzate in un determinato luogo, città o paese, e che la componente finanziaria diventa predominante anche nell’organizzazione, perché ciò che conta è il rendimento collegato al contratto.

Il passaggio a una concezione contrattualistica si accompagna dunque alla progressiva finanziarizzazione delle imprese industriali. Quali sono le conseguenze di questo passaggio sulle condizioni del lavoro?

Dato che l’ideologia neoliberale, e la teoria economica in cui essa si esprime, hanno codificato l’idea che il capitale deve essere altamente mobile e flessibile per poter ottenere il rendimento maggiore – un processo che è tipico delle transazioni finanziarie, delle borse e di altri luoghi in cui si scambiano capitali – come conseguenza anche il lavoro deve essere flessibile, oltre che le reti di fornitura e altri aspetti. In altri termini, la mobilità e la flessibilità del capitale comportano la flessibilità del lavoro: se il rendimento di un determinato impianto o di un insieme di servizi, meglio ancora se una certa unità produttiva, che di per sé può andare benissimo, sembra rendere un po’ meno in termini comparati rispetto ad un’altra che opera nello stesso paese o altrove nel mondo, quell’unità viene semplicemente chiusa, i lavoratori licenziati, dismessi, spinti al prepensionamento o lasciati al margine, sulla strada. Ciò è avvenuto in modo vistoso in diversi paesi, inclusa l’Italia, dove molti stabilimenti che sembravano funzionare piuttosto bene hanno ricevuto improvvisamente l’annuncio, da una lontana direzione, che avrebbero dovuto chiudere. Quando il capitale deve essere spostato altrove, i lavoratori diventano – come si usa dire – degli esuberi, visto che anche l’impianto deve essere chiuso o trasferito altrove. La chiusura degli stabilimenti rappresenta un caso estremo, ma ad esso si accompagnano le fortissime pressioni esercitate sui salari, con la funzione principale di massimizzare il rendimento del capitale, prima ancora che per incrementare la produzione.

Il debito della Germania. L’Allemagne doit payer à la Grèce ses obligations qui sont impayées longtemps !!!

L’Allemagne doit payer à la Grèce ses obligations qui sont impayées longtemps !!!
Fonte: jesuisgrec
Signez la demande ici : http://www.greece.org/blogs/wwii/?page_id=448

En octobre 1940, la Grèce est entraînée dans la Seconde Guerre mondiale suite à l’invasion de son territoire par Mussolini. Pour sauver Mussolini d’une défaite humiliante, Hitler a envahi la Grèce en 1941.

La Grèce est pillée et dévastée pas les Allemands comme aucun autre pays sous leur occupation militaire. La Croix Rouge Internationale a jugé qu’entre 1941 et 1943, au moins 300,000 grecs sont morts de la faim- un résultat direct du pillage de la Grèce par les Allemands. Mussolini s’est plaint à son ministre des affaires étrangères, le Conte Ciano « Les Allemands ont pris des Grecs même leurs lacets de souliers ».

L’Allemagne et l’Italie, en plus de faire la Grèce payer des sommes exorbitantes en dépenses d’occupation, ont obtenu de la Grèce par la force un prêt (un prêt d’occupation) de $3.5 billion. Hitler lui-même a reconnu la nature légale de ce prêt et a donné des ordres pour le commencement du remboursement du prêt. Après la fin de la guerre, la Grèce est accordée $7.1 billion à la Conférence de Paris en 1946, des $14.0 billion demandées, pour les réparations en dommages résultant de la guerre.

L’Italie a remboursé la Grèce de sa part du prêt d’occupation, l’Italie et la Bulgarie ont payé la Grèce les réparations en dommages de guerre, et l’Allemagne a payé les réparations en dommages de guerre à la Pologne en 1956 et à l’ex-Yougoslavie en 1971.

Nous demandons du gouvernement Allemand à honorer ses obligations à la Grèce, qui sont longtemps impayées, en s’acquittant du prêt d’occupation obtenu par la force, et en payant les réparations en dommages de guerre proportionnellement aux dommages matériaux, aux atrocités et au pillage commis par les machines guerrières Allemandes.

SIgnez tous la demande :

http://www.greece.org/blogs/wwii/?page_id=448

Nous vous remercions infiniment!

30 janvier 2012 01:10

Τον Οκτώβριο του 1940, η Ελλάδα υποχρεώθηκε να μπεί στο Δεύτερο Παγκόσμιο Πόλεμο . Ο Χίτλερ, εισέβαλε στην Ελλάδα (1941). Η Ελλάδα λεηλατήθηκε και ερειπώθηκε όσο καμία άλλη χώρα. Σύμφωνα με τον Διεθνή Ερυθρό Σταυρό, τουλάχιστον 300.000 Έλληνες πέθαναν από την πείνα-άμεσο αποτέλεσμα της Γερμανικής λεηλασίας.

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