di Pasquale Cicalese - sinistrainrete -
Greenspan Put: così è stata qualificata l’asset inflation statunitense negli ultimi decenni. A partire dal crack borsistico di Wall Street del 1987, l’espansione illimitata di moneta da parte della Federal Reserve garantiva spettacolari aumenti di azioni (in tal modo le pensioni americane, legate ai corsi azionari, venivano corrisposte), obbligazioni e delle materie prime. Essendo il dollaro moneta internazionale, l’inondazione di liquidità monetaria provocava aumenti dell’inflazione mondiale. Del resto la Greenspan Put era in voga già negli anni sessanta, a tal punto che il Generale De Gaulle si batté per ripristinare il gold standard alternativo al gold exchange standard, basato sulla convertibilità del dollaro in oro.
Ad ogni sintomo di recessione americana o di sgonfiamento di bolle azionarie, Greenspan rispondeva con l’abbattimento dei tassi di interesse e dando liquidità illimitata alle investment-banks di Wall Street.
L’inflazione era contenuta principalmente grazie ad una trentennale gelata dei salari reali, mitigata con il keynesismo finanziario analizzato accuratamente da Riccardo Bellofiore, a cui si aggiungeva il keynesismo militare (guerre imperialiste). Insomma, burro e cannoni.
La Greenspan Put ha provocato, oltre che un aumento dell’asset inflation, l’esplosione di bolle speculative succedutesi negli ultimi venti anni: bolla dell’high tech, bolla immobiliare (mutui subprime), bolla obbligazionaria.
Con la crisi mondiale del 2007 il suo successore, Ben Bernanke, reitera la Greenspan Put dando al sistema finanziario americano la bellezza di 14 mila miliardi di dollari e portando a zero i tassi di interesse.
A livello contabile, l’esplosione del debito privato viene parzialmente mitigata dall’aumento vertiginoso del deficit e del debito federale, nel mentre alle banche di investimento viene riconosciuto il conteggio degli asset – soprattutto mutui subprime – a costo storico, non già a costo di mercato, dacché ciò avrebbe provocato un imponente svalutazione dei prestiti concessi. La polvere viene nascosta sotto il tappeto: il problema è che essa rimane, a tal punto che Mario Margiocco – uno dei maggiori specialisti italiani del mercato americano - quantifica in circa 5 mila miliardi di dollari i prestiti delle banche che prima o poi dovranno essere svalutati, continuando imperterrito il crollo dei prezzi immobiliari americani, senza contare poi i prestiti al consumo e quelli dati agli studenti.
L’asset inflation di Bernanke garantisce la piazza finanziaria di Wall Street, permettendo i pagamenti delle pensioni americane, ma da un punto di vista economico, l’effetto è deprimente, a tal punto che il governatore della Federal Reserve giudica oggi “frustrante” l’andamento dell’economia USA.
La regola contabile del costo storico, e non già di costo di mercato (mark to market), viene applicata anche al sistema finanziario europeo, principalmente alle banche tedesche e francesi, strapiene di titoli che nel 2009 nella vulgata economica venivano definiti “tossici”, a tal punto che il governatore della Bce Trichet concede a queste banche lo swap di liquidità avendo come collaterali tali titoli, gonfiando il bilancio della banca centrale europea di “carta straccia”.
L’asset inflation europea viene “inaugurata” da Trichet nel 2009 a beneficio delle banche tedesche e francesi, nel mentre ai paesi periferici viene “regalata” la “geniale” trovata dell’aumento dei tassi di interesse: ovviamente contraltare di tale politica è una rafforzata deflazione salariale in ambito europeo, imitando in tal modo la Greenspan Put.
Nel novembre del 2011 Trichet viene sostituito da Mario Draghi, che inizia il suo mandato con la diminuzione del tasso di sconto.
A dicembre, esattamente il 21 di quel mese, Draghi si “americanizza” e applica la Greenspan Put a tutto il sistema finanziario dell’eurozona, con l’immissione di liquidità alle banche di circa 500 miliardi di euro, aggiungendo inoltre che a fine febbraio 2012 reitererà tale espansione monetaria per circa 750 miliardi di euro.
Per Draghi tale politica dovrebbe favorire la liquidità del sistema economico e l’acquisto di titoli di stato per i prossimi tre anni: in realtà si favorisce il “carry trade”, vale a dire prestiti concessi all’1% e acquisto di asset (azioni, obbligazioni, etf sulle materie prime, ecc.) a tassi notevolmente superiori, permettendo, tale massa di profitti di “carta”, il “bilanciamento”, a livello del conto economico delle banche, con l’aumento esponenziale delle sofferenza bancarie, soprattutto spagnole e italiane.
La differenza fondamentale con la Fed (e con la Bank of England) è che quest’ultime monetizzano il debito sovrano, vale a dire acquistano sul mercato primario titoli di stato dei loro paesi, abbattendo i rendimenti.
La Bce pensa di operare indirettamente tramite le banche commerciali, ma l’azione sarà insufficiente, mantenendosi a livello elevato gli spread dei paesi periferici dell’eurozona, utili per rafforzare ulteriormente una micidiale deflazione salariale.
Una prima risultanza è possibile analizzarla: l’Occidente si converte tutto alla Greenspan Put, all’asset inflation, di cui il contraltare è una feroce deflazione salariale, una politica che ciarlatani economisti liberisti definiscono “austerità espansiva”.
Si capisce alla luce di questi eventi la famosa lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto scorso, scritta a quattro mani da Trichet e Draghi.
Ad inaugurarla è stato Bernanke, con risultati per l’economia americana, da un punto di vista della crescita, sostanzialmente deludenti, e non poteva essere altrimenti. In compenso i prezzi internazionali delle materie prime sono esplosi, compresi quelli agricoli, provocando, in ultima istanza, quella che è stata definita la “primavera araba”, a tutto vantaggio degli interessi USA.
L’asset inflation occidentale provocherà nei prossimi mesi una probabile risposta da parte dei paesi Brics.
Soffermiamoci sul paese guida: alla Bernanke Put la Banca centale cinese ha risposto in questi anni con la sterilizzazione monetaria e con la reflazione salariale. Cosa faranno ora?
Per capirlo è utile informare cosa è avvenuto il 25 dicembre del 2011, giorno sacro per l’Occidente, ma “normale” per gli orientali. Quattro giorni dopo la Draghi Put, cinesi e giapponesi trovano un accordo storico: il loro interscambio non avverrà più con il dollaro ma con le rispettive monete, yen e yuan. La mossa è micidiale per gli americani visto che l’interscambio Cina-Giappone è tra i più consistenti a livello mondiale. C’è da aggiungere, inoltre, che quello del 25 dicembre 2011 fa seguito ad analoghi accordi con Argentina, Brasile e Russia.
Oltre a ciò la dirigenza cinese intende allargare lo swap in yuan con altri paesi sudamericani e africani: ciò presuppone che le loro controparti si aspettino dai cinesi nei prossimi anni due cose, la rivalutazione dello yuan e un forte sviluppo dell’interscambio.
E’ possibile che la dirigenza cinese abbia assicurato i suoi interlocutori alla luce del dato della crescita cinese del 2011: 9,2%, aumento dell’import del 20,3% e rivalutazione dello yuan sul dollaro del 5,4%.
Ma c’è di più: del 9,2% di crescita del pil solo il 2,1% è dato da esportazioni nette (differenza tra export e import) contro il dato del 7,1% del 2004; tutto il resto è dato da investimenti e, bestemmia per gli occidentali, da consumi. Si sta realizzando in tal modo la profezia di Adam Smith: la potenza di quel paese è data dallo sviluppo del mercato interno. Nei prossimi anni la costruzione di 35 milioni di alloggi popolari, di 2 mila ospedali regionali, un nuovo assetto pensionistico e la reflazione salariale in corso faranno il resto.
L’accordo Cina-Giappone spiana la strada, inoltre, alla probabile costruzione di un’immensa area di libero scambio nel Pacifico con i paesi dell’Asean e sarebbe la risposta cinese all’accerchiamento militare americano nel mar cinese meridionale e lungo le rotte del petrolio del Golfo Persico.
A livello economico, tale accordo ridimensionerebbe notevolmente l’importanza dell’export cinese nei paesi occidentali, calato nel 2011 a circa il 28% del totale.
Cosa faranno gli occidentali? Con la Greenspan Put abbiamo assistito alla politica del burro (con il keynesimo finanziario, non più possibile) e cannoni.
La Bernanke Put e la Draghi Put non garantiscono più il burro, tutt’altro. Rimarranno agli occidentali i cannoni, interni ed esterni.
Ma a livello esterno sembra che la dirigenza occidentale sia immemore dello scacco iracheno e di quello afghano, nel mentre la partita egiziana è tutt’altro che risolta e il veto di Russia e Cina sulla Siria lascia intendere che questi paesi difficilmente asseconderanno l’imperialismo occidentale, il cui specchio economico-monetario è ben rappresentato dalla Draghi Put, seguito della trentennale Greenspan Put.
Greenspan Put: così è stata qualificata l’asset inflation statunitense negli ultimi decenni. A partire dal crack borsistico di Wall Street del 1987, l’espansione illimitata di moneta da parte della Federal Reserve garantiva spettacolari aumenti di azioni (in tal modo le pensioni americane, legate ai corsi azionari, venivano corrisposte), obbligazioni e delle materie prime. Essendo il dollaro moneta internazionale, l’inondazione di liquidità monetaria provocava aumenti dell’inflazione mondiale. Del resto la Greenspan Put era in voga già negli anni sessanta, a tal punto che il Generale De Gaulle si batté per ripristinare il gold standard alternativo al gold exchange standard, basato sulla convertibilità del dollaro in oro.
Ad ogni sintomo di recessione americana o di sgonfiamento di bolle azionarie, Greenspan rispondeva con l’abbattimento dei tassi di interesse e dando liquidità illimitata alle investment-banks di Wall Street.
L’inflazione era contenuta principalmente grazie ad una trentennale gelata dei salari reali, mitigata con il keynesismo finanziario analizzato accuratamente da Riccardo Bellofiore, a cui si aggiungeva il keynesismo militare (guerre imperialiste). Insomma, burro e cannoni.
La Greenspan Put ha provocato, oltre che un aumento dell’asset inflation, l’esplosione di bolle speculative succedutesi negli ultimi venti anni: bolla dell’high tech, bolla immobiliare (mutui subprime), bolla obbligazionaria.
Con la crisi mondiale del 2007 il suo successore, Ben Bernanke, reitera la Greenspan Put dando al sistema finanziario americano la bellezza di 14 mila miliardi di dollari e portando a zero i tassi di interesse.
A livello contabile, l’esplosione del debito privato viene parzialmente mitigata dall’aumento vertiginoso del deficit e del debito federale, nel mentre alle banche di investimento viene riconosciuto il conteggio degli asset – soprattutto mutui subprime – a costo storico, non già a costo di mercato, dacché ciò avrebbe provocato un imponente svalutazione dei prestiti concessi. La polvere viene nascosta sotto il tappeto: il problema è che essa rimane, a tal punto che Mario Margiocco – uno dei maggiori specialisti italiani del mercato americano - quantifica in circa 5 mila miliardi di dollari i prestiti delle banche che prima o poi dovranno essere svalutati, continuando imperterrito il crollo dei prezzi immobiliari americani, senza contare poi i prestiti al consumo e quelli dati agli studenti.
L’asset inflation di Bernanke garantisce la piazza finanziaria di Wall Street, permettendo i pagamenti delle pensioni americane, ma da un punto di vista economico, l’effetto è deprimente, a tal punto che il governatore della Federal Reserve giudica oggi “frustrante” l’andamento dell’economia USA.
La regola contabile del costo storico, e non già di costo di mercato (mark to market), viene applicata anche al sistema finanziario europeo, principalmente alle banche tedesche e francesi, strapiene di titoli che nel 2009 nella vulgata economica venivano definiti “tossici”, a tal punto che il governatore della Bce Trichet concede a queste banche lo swap di liquidità avendo come collaterali tali titoli, gonfiando il bilancio della banca centrale europea di “carta straccia”.
L’asset inflation europea viene “inaugurata” da Trichet nel 2009 a beneficio delle banche tedesche e francesi, nel mentre ai paesi periferici viene “regalata” la “geniale” trovata dell’aumento dei tassi di interesse: ovviamente contraltare di tale politica è una rafforzata deflazione salariale in ambito europeo, imitando in tal modo la Greenspan Put.
Nel novembre del 2011 Trichet viene sostituito da Mario Draghi, che inizia il suo mandato con la diminuzione del tasso di sconto.
A dicembre, esattamente il 21 di quel mese, Draghi si “americanizza” e applica la Greenspan Put a tutto il sistema finanziario dell’eurozona, con l’immissione di liquidità alle banche di circa 500 miliardi di euro, aggiungendo inoltre che a fine febbraio 2012 reitererà tale espansione monetaria per circa 750 miliardi di euro.
Per Draghi tale politica dovrebbe favorire la liquidità del sistema economico e l’acquisto di titoli di stato per i prossimi tre anni: in realtà si favorisce il “carry trade”, vale a dire prestiti concessi all’1% e acquisto di asset (azioni, obbligazioni, etf sulle materie prime, ecc.) a tassi notevolmente superiori, permettendo, tale massa di profitti di “carta”, il “bilanciamento”, a livello del conto economico delle banche, con l’aumento esponenziale delle sofferenza bancarie, soprattutto spagnole e italiane.
La differenza fondamentale con la Fed (e con la Bank of England) è che quest’ultime monetizzano il debito sovrano, vale a dire acquistano sul mercato primario titoli di stato dei loro paesi, abbattendo i rendimenti.
La Bce pensa di operare indirettamente tramite le banche commerciali, ma l’azione sarà insufficiente, mantenendosi a livello elevato gli spread dei paesi periferici dell’eurozona, utili per rafforzare ulteriormente una micidiale deflazione salariale.
Una prima risultanza è possibile analizzarla: l’Occidente si converte tutto alla Greenspan Put, all’asset inflation, di cui il contraltare è una feroce deflazione salariale, una politica che ciarlatani economisti liberisti definiscono “austerità espansiva”.
Si capisce alla luce di questi eventi la famosa lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto scorso, scritta a quattro mani da Trichet e Draghi.
Ad inaugurarla è stato Bernanke, con risultati per l’economia americana, da un punto di vista della crescita, sostanzialmente deludenti, e non poteva essere altrimenti. In compenso i prezzi internazionali delle materie prime sono esplosi, compresi quelli agricoli, provocando, in ultima istanza, quella che è stata definita la “primavera araba”, a tutto vantaggio degli interessi USA.
L’asset inflation occidentale provocherà nei prossimi mesi una probabile risposta da parte dei paesi Brics.
Soffermiamoci sul paese guida: alla Bernanke Put la Banca centale cinese ha risposto in questi anni con la sterilizzazione monetaria e con la reflazione salariale. Cosa faranno ora?
Per capirlo è utile informare cosa è avvenuto il 25 dicembre del 2011, giorno sacro per l’Occidente, ma “normale” per gli orientali. Quattro giorni dopo la Draghi Put, cinesi e giapponesi trovano un accordo storico: il loro interscambio non avverrà più con il dollaro ma con le rispettive monete, yen e yuan. La mossa è micidiale per gli americani visto che l’interscambio Cina-Giappone è tra i più consistenti a livello mondiale. C’è da aggiungere, inoltre, che quello del 25 dicembre 2011 fa seguito ad analoghi accordi con Argentina, Brasile e Russia.
Oltre a ciò la dirigenza cinese intende allargare lo swap in yuan con altri paesi sudamericani e africani: ciò presuppone che le loro controparti si aspettino dai cinesi nei prossimi anni due cose, la rivalutazione dello yuan e un forte sviluppo dell’interscambio.
E’ possibile che la dirigenza cinese abbia assicurato i suoi interlocutori alla luce del dato della crescita cinese del 2011: 9,2%, aumento dell’import del 20,3% e rivalutazione dello yuan sul dollaro del 5,4%.
Ma c’è di più: del 9,2% di crescita del pil solo il 2,1% è dato da esportazioni nette (differenza tra export e import) contro il dato del 7,1% del 2004; tutto il resto è dato da investimenti e, bestemmia per gli occidentali, da consumi. Si sta realizzando in tal modo la profezia di Adam Smith: la potenza di quel paese è data dallo sviluppo del mercato interno. Nei prossimi anni la costruzione di 35 milioni di alloggi popolari, di 2 mila ospedali regionali, un nuovo assetto pensionistico e la reflazione salariale in corso faranno il resto.
L’accordo Cina-Giappone spiana la strada, inoltre, alla probabile costruzione di un’immensa area di libero scambio nel Pacifico con i paesi dell’Asean e sarebbe la risposta cinese all’accerchiamento militare americano nel mar cinese meridionale e lungo le rotte del petrolio del Golfo Persico.
A livello economico, tale accordo ridimensionerebbe notevolmente l’importanza dell’export cinese nei paesi occidentali, calato nel 2011 a circa il 28% del totale.
Cosa faranno gli occidentali? Con la Greenspan Put abbiamo assistito alla politica del burro (con il keynesimo finanziario, non più possibile) e cannoni.
La Bernanke Put e la Draghi Put non garantiscono più il burro, tutt’altro. Rimarranno agli occidentali i cannoni, interni ed esterni.
Ma a livello esterno sembra che la dirigenza occidentale sia immemore dello scacco iracheno e di quello afghano, nel mentre la partita egiziana è tutt’altro che risolta e il veto di Russia e Cina sulla Siria lascia intendere che questi paesi difficilmente asseconderanno l’imperialismo occidentale, il cui specchio economico-monetario è ben rappresentato dalla Draghi Put, seguito della trentennale Greenspan Put.
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