Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 14 maggio 2011
La situazione in Siria mette in crisi i grandi network panarabi.
Fonte: fabionews
La Siria, a differenza del Barehin e dello Yemen, non è governata da un "amico" dell'occidente...Visto che i network arabi sono in mano alle "petromonarchie" sunnite e filooccidentali anche in questi media (come nei nostri) l'informazione su questo paese è trattata diversamente. Diversamenete dalle redazioni dei nostri media abituati a mentire spudoratamente senza problemi ... nelle redazioni delle tv arabe questo ateggiamento viene denucniato dai giornalisti e sta portando autorevoli dimissioni...
Questi arabi si sono montatila testa e si illudono anch edi poter fare libera informazione in TV?!?!Ciao Fabio
Da megachip.info
La situazione in Siria mette in crisi i grandi network panarabiScritto da Contropiano Giovedì 12 Maggio Prima le dimissioni di un famoso editorialista e di un corrispondente da Al Jazeera, adesso le dimissioni di una conduttrice di punta da Al Arabya. Il modo con cui le televisioni satellitari di proprietà delle petromonarchie del Golfo “informano” sulla Siria stanno provocando una reazione tra i giornalisti “no embedded”. Un segnale interessante. L'emittente satellitare araba Al Arabiya ha comunicato ufficalmente la notizia delle dimissioni presentate da una sua conduttrice tra le più note. Si tratta di Zeina al Yaziji, giornalista di origine siriana entrata in polemica da circa un mese con la direzione della televisione per come vengono seguite le proteste in corso nel suo paese.
Da settimane, alcuni media arabi avevano preannunciato le sue dimissioni, anche se la Zaziji in questi giorni era comparsa regolarmente sugli schermi dell'emittente satellitare per condurre il telegiornale. Le dimissioni sono state presentate solo ieri sera dopo che, come ha spiegato la stessa Zaziji “ho tentato più volte di cambiare la linea editoriale della tv sugli eventi in corso in Siria senza riuscirci”.
La televisione satellitare Al Arabiya, di proprietà delle petromonarchie del Golfo, è infatti in prima linea nel sostenere gli oppositori di Assad e nel divulgare notizie, spesso non confermate, su quanto sta accadendo in Siria. Per lo stesso motivo nei giorni scorsi aveva rassegnato le dimissioni anche il direttore della redazione siriana della televisione concorrente – Al Jazeera - il giornalista Abdel Hamid Tawfiq.
Mentre a metà aprile dalla stessa Al Jazeera si era dimesso uno dei più famosi editorialisti, Ghassan Ben Jiddo, direttore dell'ufficio di corrispondenza da Beirut. Le accuse di Giddo verso Al Jazeera erano state esplicite: “E’ diventata una centrale operativa per l’incitamento”. Sulla televisione satellitare pesano le scelte politiche del suo proprietario, il monarca del Qatar”.
Fonte: Contropiano.
Tratto da http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_content&task=view&id=6463&Itemid=9.
La Siria, a differenza del Barehin e dello Yemen, non è governata da un "amico" dell'occidente...Visto che i network arabi sono in mano alle "petromonarchie" sunnite e filooccidentali anche in questi media (come nei nostri) l'informazione su questo paese è trattata diversamente. Diversamenete dalle redazioni dei nostri media abituati a mentire spudoratamente senza problemi ... nelle redazioni delle tv arabe questo ateggiamento viene denucniato dai giornalisti e sta portando autorevoli dimissioni...
Questi arabi si sono montatila testa e si illudono anch edi poter fare libera informazione in TV?!?!Ciao Fabio
Da megachip.info
La situazione in Siria mette in crisi i grandi network panarabiScritto da Contropiano Giovedì 12 Maggio Prima le dimissioni di un famoso editorialista e di un corrispondente da Al Jazeera, adesso le dimissioni di una conduttrice di punta da Al Arabya. Il modo con cui le televisioni satellitari di proprietà delle petromonarchie del Golfo “informano” sulla Siria stanno provocando una reazione tra i giornalisti “no embedded”. Un segnale interessante. L'emittente satellitare araba Al Arabiya ha comunicato ufficalmente la notizia delle dimissioni presentate da una sua conduttrice tra le più note. Si tratta di Zeina al Yaziji, giornalista di origine siriana entrata in polemica da circa un mese con la direzione della televisione per come vengono seguite le proteste in corso nel suo paese.
Da settimane, alcuni media arabi avevano preannunciato le sue dimissioni, anche se la Zaziji in questi giorni era comparsa regolarmente sugli schermi dell'emittente satellitare per condurre il telegiornale. Le dimissioni sono state presentate solo ieri sera dopo che, come ha spiegato la stessa Zaziji “ho tentato più volte di cambiare la linea editoriale della tv sugli eventi in corso in Siria senza riuscirci”.
La televisione satellitare Al Arabiya, di proprietà delle petromonarchie del Golfo, è infatti in prima linea nel sostenere gli oppositori di Assad e nel divulgare notizie, spesso non confermate, su quanto sta accadendo in Siria. Per lo stesso motivo nei giorni scorsi aveva rassegnato le dimissioni anche il direttore della redazione siriana della televisione concorrente – Al Jazeera - il giornalista Abdel Hamid Tawfiq.
Mentre a metà aprile dalla stessa Al Jazeera si era dimesso uno dei più famosi editorialisti, Ghassan Ben Jiddo, direttore dell'ufficio di corrispondenza da Beirut. Le accuse di Giddo verso Al Jazeera erano state esplicite: “E’ diventata una centrale operativa per l’incitamento”. Sulla televisione satellitare pesano le scelte politiche del suo proprietario, il monarca del Qatar”.
Fonte: Contropiano.
Tratto da http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_content&task=view&id=6463&Itemid=9.
venerdì 13 maggio 2011
Noam Chomsky: Un primo maggio senza lavoro.
Fonte: internazionale
In gran parte del mondo il 1 maggio è la festa dei lavoratori, legata alla lotta per la giornata lavorativa di otto ore condotta nell’ottocento dagli operai statunitensi. Ma il 1 maggio che è appena passato stimola cupe riflessioni.
Una decina d’anni fa alcuni militanti del movimento dei lavoratori italiano hanno coniato il termine precariato. Inizialmente si riferiva all’esistenza sempre più difficile di lavoratori “emarginati”: donne, giovani, migranti. Poi però il suo significato è stato esteso applicandolo alla precarietà della forza lavoro, quel “proletariato precario” che subisce i danni di tutti i programmi di flessibilizzazione e deregolamentazione che costituiscono l’attacco al lavoro in corso nel mondo.
In quel momento suscitava crescente preoccupazione perfino in Europa quella che lo storico del lavoro Ronaldo Munck, citando Ulrich Beck, chiama “la brasilianizzazione dell’occidente, cioè la diffusione di un’occupazione temporanea e incerta, e di una informalità senza regole in quelle società occidentali che erano i bastioni della piena occupazione”.
Mentre nel resto del mondo il 1 maggio si associa alla lotta dei lavoratori statunitensi per i loro diritti fondamentali, negli Stati Uniti quella solidarietà viene soppressa a favore di una festività sciovinista, il Loyalty day, istituito dal congresso nel 1958 “per riaffermare la lealtà verso gli Stati Uniti e per riconoscere la tradizione delle libertà americane”. In seguito il presidente Eisenhower decise che il Loyalty day era anche “la giornata della legalità”, celebrata ogni anno esponendo la bandiera nazionale e reiterando formule come “giustizia per tutti”. Nel calendario statunitense, una festa del lavoro c’è: è il Labor day, si celebra a settembre e in realtà festeggia il rientro al lavoro dopo vacanze molto più brevi di quelle di altri paesi industrializzati.
In gran parte del mondo il 1 maggio è la festa dei lavoratori, legata alla lotta per la giornata lavorativa di otto ore condotta nell’ottocento dagli operai statunitensi. Ma il 1 maggio che è appena passato stimola cupe riflessioni.
Una decina d’anni fa alcuni militanti del movimento dei lavoratori italiano hanno coniato il termine precariato. Inizialmente si riferiva all’esistenza sempre più difficile di lavoratori “emarginati”: donne, giovani, migranti. Poi però il suo significato è stato esteso applicandolo alla precarietà della forza lavoro, quel “proletariato precario” che subisce i danni di tutti i programmi di flessibilizzazione e deregolamentazione che costituiscono l’attacco al lavoro in corso nel mondo.
In quel momento suscitava crescente preoccupazione perfino in Europa quella che lo storico del lavoro Ronaldo Munck, citando Ulrich Beck, chiama “la brasilianizzazione dell’occidente, cioè la diffusione di un’occupazione temporanea e incerta, e di una informalità senza regole in quelle società occidentali che erano i bastioni della piena occupazione”.
Mentre nel resto del mondo il 1 maggio si associa alla lotta dei lavoratori statunitensi per i loro diritti fondamentali, negli Stati Uniti quella solidarietà viene soppressa a favore di una festività sciovinista, il Loyalty day, istituito dal congresso nel 1958 “per riaffermare la lealtà verso gli Stati Uniti e per riconoscere la tradizione delle libertà americane”. In seguito il presidente Eisenhower decise che il Loyalty day era anche “la giornata della legalità”, celebrata ogni anno esponendo la bandiera nazionale e reiterando formule come “giustizia per tutti”. Nel calendario statunitense, una festa del lavoro c’è: è il Labor day, si celebra a settembre e in realtà festeggia il rientro al lavoro dopo vacanze molto più brevi di quelle di altri paesi industrializzati.
BOOM TEDESCO DEFAULT GRECO
Fonte: controlacrisi
Nel primo trimestre dell'anno il PIL della Germania è cresciuto, la nazione è diventata il «motore della crescita» dei paesi industrializzati, non solo in Europa: lo ha detto oggi il neo ministro dell'Economia, Philipp Roesle. «L'ingresso nel 2011 è stato eccellente», ha continuato il ministro dicendo che ci troviamo di fronte ad uno sviluppo «vigoroso» della crescita. Da parte sua, il presidente della Banca centrale tedesca (Bundesbank), Jens Weidmann, ha rimarcato il fatto che l'economia del paese potrebbe entrare adesso in una fase di ripresa capace di «autosostenersi». «La buona forma dell'economia dimostra che adesso potrebbe seguire una ripresa in grado di autosostenersi». Peccato però che questa crescita della Germania avviene soprattutto ai danni degli altri paesi europei che subiscono la esportazioni della Germania. La Grecia ne è l'esempio principale.
Pubblichiamo a sostegno di questa tesi una interessantissima intervista di Emiliano Brancaccio uscita su liberazione un anno fa.
Intervista all'economista Brancaccio: «La Germania è la vera colpevole, ora decida se vuole un'altra crisi»
06/05/2010 14:41 ECONOMIA - INTERNAZIONALE
di Andrea Milluzzi (Liberazione del 06/05/2010)
Intervista ad Emiliano Brancaccio, docente economia politica Emiliano Brancaccio Università del Sannio
Mentre Atene e tutta la Grecia bruciano, le Borse di tutto il mondo
crollano, l’euro raggiunge un altro minimo storico (1,288 dollari) e
gli investitori si buttano alla caccia dei bund tedeschi, spinti dalla
paura di un contagio della crisi. Come se non bastasse, dopo Atene
anche Madrid e Lisbona rischiano grosso: l’agenzia di rating Moody’s
ha messo sotto controllo per tre mesi, con rischio di declassarlo, il
rating sul debito del Portogallo. Per risalire alle cause di tutto ciò
e per ipotizzare scenari futuri Liberazione ha intervistato Emiliano
Brancaccio, docente di economia politica all’Università del Sannio.
Pubblichiamo a sostegno di questa tesi una interessantissima intervista di Emiliano Brancaccio uscita su liberazione un anno fa.
Intervista all'economista Brancaccio: «La Germania è la vera colpevole, ora decida se vuole un'altra crisi»
06/05/2010 14:41 ECONOMIA - INTERNAZIONALE
di Andrea Milluzzi (Liberazione del 06/05/2010)
Intervista ad Emiliano Brancaccio, docente economia politica Emiliano Brancaccio Università del Sannio
Mentre Atene e tutta la Grecia bruciano, le Borse di tutto il mondo
crollano, l’euro raggiunge un altro minimo storico (1,288 dollari) e
gli investitori si buttano alla caccia dei bund tedeschi, spinti dalla
paura di un contagio della crisi. Come se non bastasse, dopo Atene
anche Madrid e Lisbona rischiano grosso: l’agenzia di rating Moody’s
ha messo sotto controllo per tre mesi, con rischio di declassarlo, il
rating sul debito del Portogallo. Per risalire alle cause di tutto ciò
e per ipotizzare scenari futuri Liberazione ha intervistato Emiliano
Brancaccio, docente di economia politica all’Università del Sannio.
L'armata Bundesbank
di Marco D'Eramo (il manifesto del 13/05/2011) Fonte: controlacrisi
Là dove 70 anni fa la possente Wehrmacht aveva fallito è riuscita oggi la discreta Bundesbank. Un tempo i principati si conquistavano con le armate, oggi bastano gli ultimatum dei creditori. I banchieri tedeschi impongono la loro dura legge con la stessa prussiana sicumera degli Junker guglielmini, i von Moltke e gli Hindenburg. Gli invisibili gnomi di Francoforte hanno piegato nazioni dove le divisioni tedesche non erano mai arrivate, come Irlanda e Portogallo. In altre, come la Grecia, hanno risvegliato duri ricordi.
Come chiamare altrimenti quel che sta avvenendo nel nostro continente? Siamo talmente presi a seguire le cabrate dell'imperialismo Nato, i tonneau dei Mirages di Nicolas Sarkozy, le picchiate dei Tornado di David Cameron, da perdere di vista il pugno d'acciaio con cui la Germania unificata di Angela Merkel impone le sue regole draconiane. Una volta, per abolire la costituzione di un paese e privarlo della sua sovranità bisognava invaderlo, occuparlo militarmente. Oggi Grecia, Irlanda e Portogallo sono state assoggettate dalle cambiali. Perché assoggettate? Perché qualunque governo gli elettori abbiano scelto, qualunque politica abbiano votato, devono comunque sottostare alle condizioni della Banca centrale europea, devono decurtarsi gli stipendi, dimezzare le pensioni, privarsi della sanità pubblica, chiudere scuole, biblioteche, ospedali. Come riferiva il Wall street Journal di ieri, gli stipendi della funzione pubblica in Grecia sono stati tagliati fino al 25%. E cosa possono fare i greci oltre che protestare invano? Qui sta la grande differenza con l'invasione armata: che questa volta i paesi occupati hanno abdicato alla propria sovranità senza fiatare. E contro chi vuoi resistere? Contro uno sportello di banca? In quale maquis ti puoi arruolare? Tra gli indomiti debitori morosi?
Là dove 70 anni fa la possente Wehrmacht aveva fallito è riuscita oggi la discreta Bundesbank. Un tempo i principati si conquistavano con le armate, oggi bastano gli ultimatum dei creditori. I banchieri tedeschi impongono la loro dura legge con la stessa prussiana sicumera degli Junker guglielmini, i von Moltke e gli Hindenburg. Gli invisibili gnomi di Francoforte hanno piegato nazioni dove le divisioni tedesche non erano mai arrivate, come Irlanda e Portogallo. In altre, come la Grecia, hanno risvegliato duri ricordi.
Come chiamare altrimenti quel che sta avvenendo nel nostro continente? Siamo talmente presi a seguire le cabrate dell'imperialismo Nato, i tonneau dei Mirages di Nicolas Sarkozy, le picchiate dei Tornado di David Cameron, da perdere di vista il pugno d'acciaio con cui la Germania unificata di Angela Merkel impone le sue regole draconiane. Una volta, per abolire la costituzione di un paese e privarlo della sua sovranità bisognava invaderlo, occuparlo militarmente. Oggi Grecia, Irlanda e Portogallo sono state assoggettate dalle cambiali. Perché assoggettate? Perché qualunque governo gli elettori abbiano scelto, qualunque politica abbiano votato, devono comunque sottostare alle condizioni della Banca centrale europea, devono decurtarsi gli stipendi, dimezzare le pensioni, privarsi della sanità pubblica, chiudere scuole, biblioteche, ospedali. Come riferiva il Wall street Journal di ieri, gli stipendi della funzione pubblica in Grecia sono stati tagliati fino al 25%. E cosa possono fare i greci oltre che protestare invano? Qui sta la grande differenza con l'invasione armata: che questa volta i paesi occupati hanno abdicato alla propria sovranità senza fiatare. E contro chi vuoi resistere? Contro uno sportello di banca? In quale maquis ti puoi arruolare? Tra gli indomiti debitori morosi?
giovedì 12 maggio 2011
Il vescovo di Tripoli: "Per colpire Gheddafi, si colpisce un popolo"
Fonte: lernesto
«Buttano le bombe come se fossero gioielli. Non c'è nessun criterio, c'è solo la volontà di farla finita». È quanto afferma ad AsiaNews mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, che parla di un accanimento della Nato con l'obiettivo di distruggere Gheddafi e la sua gente.
«Dicono che il rais non si vede da tanti giorni. Se lui non si fa vedere, che lo lascino in pace - osserva -. Per prenderlo non possono distruggere tutta la sua gente». Il presule conferma il ferimento di quattro bambini durante i bombardamenti Nato avvenuti nella notte fra lunedì e martedì sulla capitale libica.
«Le bombe hanno colpito edifici civili - spiega - alcune sono cadute proprio vicino a un ospedale». Secondo mons. Martinelli le bombe creano sempre di più disagio nella popolazione. «Per le strade - racconta - si vedono madri e bambini disperati, abbandonati a se stessi».
Il prelato critica chi definisce l'operazione di guerra contro la Libia, un'azione umanitaria per difendere la popolazione fatta con il benestare delle Nazioni unite. «L'Onu è stato creato per difendere i più deboli - sottolinea - per portare la pace, non la guerra».
Per il prelato, infine, l'Italia ha un'importante responsabilità nella crisi libica e «le bombe lanciate contro Tripoli sono un segno grave dell'accanimento contro questo popolo». «Se i grandi che hanno iniziato questa operazione non si fermano e non ascoltano gli appelli - aggiunge il vescovo - non resta che affidarci a Dio perchè dia loro senno e giudizio». (ANSA)
Europa, populismi sociali crescono.
di ANNA MARIA MERLO - IL MANIFESTO del 11 MAGGIO 2011 Fonte: controlacrisi
JEAN-YVES CAMUS «Il problema essenziale è l'evoluzione ideologica della destra di governo. Chi minaccia di più l'Italia oggi, Berlusconi o Fini?»
Per il politologo francese la sinistra s'attarda sul «fascismo», mentre la novità è che l'Ue ultraliberista nega ogni altra identità e su questo la destra al potere si fa indirizzare ormai dall'estrema destra
PARIGI. La minaccia della presenza di Marine Le Pen al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi che avranno luogo tra un anno sta scombussolando la destra tradizionale in Francia, che rincorre l'estrema destra sul terreno delle politiche identitarie e anti-immigrazione. Il Fronte nazionale è radicato in Francia da tempo, ma adesso l'estrema destra è in crescita in molti altri paesi europei. Con un cocktail di populismo e xenofobia, paralizza la politica. C'è d'aver paura per il futuro dell'Europa? Lo chiediamo al politologo Jean-Yves Camus, politologo, esperto di estrema destra.
I diversi partiti di estrema destra che in questo periodo crescono nei vari paesi europei - l'ultimo esempio è il partito dei «Veri finlandesi» - hanno qualcosa in comune tra loro? È l'effetto della crisi economica?
JEAN-YVES CAMUS «Il problema essenziale è l'evoluzione ideologica della destra di governo. Chi minaccia di più l'Italia oggi, Berlusconi o Fini?»
Per il politologo francese la sinistra s'attarda sul «fascismo», mentre la novità è che l'Ue ultraliberista nega ogni altra identità e su questo la destra al potere si fa indirizzare ormai dall'estrema destra
PARIGI. La minaccia della presenza di Marine Le Pen al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi che avranno luogo tra un anno sta scombussolando la destra tradizionale in Francia, che rincorre l'estrema destra sul terreno delle politiche identitarie e anti-immigrazione. Il Fronte nazionale è radicato in Francia da tempo, ma adesso l'estrema destra è in crescita in molti altri paesi europei. Con un cocktail di populismo e xenofobia, paralizza la politica. C'è d'aver paura per il futuro dell'Europa? Lo chiediamo al politologo Jean-Yves Camus, politologo, esperto di estrema destra.
I diversi partiti di estrema destra che in questo periodo crescono nei vari paesi europei - l'ultimo esempio è il partito dei «Veri finlandesi» - hanno qualcosa in comune tra loro? È l'effetto della crisi economica?
mercoledì 11 maggio 2011
MARIO DRAGHI ALLA BCE, TUTTI APPLAUDONO NOI NO.
Fonte: controlacrisi
Angela Merkel apre alla candidatura di Mario Draghi alla guida della BCE: "Conosco Mario Draghi, è una persona molto interessante - ha detto alla stampa tedesca la Merkel - e di grande esperienza è molto vicino alle nostre opinioni sulla stabilità e solidità in materia di politica economica, la Germania potrebbe sostenerne la candidatura alla guida dell'Eurotower". E' proprio questo che ci preoccupa, questa assoluta vicinanza alle ricette liberiste che la BCE e la Germania stanno di fatto imponendo a tutta Europa e con particolare accanimento ai paesi periferici. Sicuramente PDL e PD si spelleranno le mani pensando di avere un italiano alla BCE, ma in realtà stiamo parlando di persone che non hanno interesse alcuno se non riaffermare la logica più fredda della tecnocrazia finanziaria, la storia di Draghi del resto parla chiaro, e nel futuro avremo un'altra voce che chiederà a tutti responsabilità, credibilità, affidabilità (che tradotto vuol dire finanziarie lacrime esangue). Tutte le uscite di Mario Draghi in questo ultimo anno sono servite per riconfermare il sostegno alla folle direzione intrapresa in sede Europea con l'approvazione dell'Euro Plus Pact, il più grande attacco al mondo del lavoro che la storia recente europea abbia mai visto. Un assetto istituzionale che premia la logica monetarista e trasferisce la crisi provocata alle finanze pubbliche senza mai intervenire contro la speculazione. Noi Mario Draghi non lo applaudiamo, perchè sta dall'altra parte della barricata.
Il teorema vegetariano.
Ovvero: quello che mangi ti salva o ti uccide. Fonte: vegetariani
Risposte in sintesi per falsi problemi
INTRODUZIONE
Questo manualetto vuole essere uno strumento di facile lettura per coloro che vogliono conoscere i principi basilari della cultura
vegetariana, rimandando il lettore a più approfondite analisi in
ordine alle tematiche affrontate di natura salutistica, antropologica, etica, ambientale, spirituale ecc. Un breve e sintetico compendio di
risposte alle più consuete domande che generalmente vengono rivolge
agli addetti ai lavori per superare visioni anacronistiche, ancorate a
pregiudizi e tradizioni inesatte e spesso dannose per il
raggiungimento del benessere integrale dell’individuo, mediante la
volontà di suscitare negli interessati un sano senso critico dei
fatti e capire che senza eliminare le cause e senza il cambiamento di
errati stili di vita non è possibile guarire da nessuna malattia. A
tale motivo l’AVA nel proseguire l’opera di diffusione del
Vegetarismo ed in particolare del Veganismo, sostenuta dal prof.
Armando D’Elia sul solco già tracciato da Aldo Capitini, da
Ferdinando Delor e dai grandi uomini di spiritualità e di scienza di
ogni tempo e paese, vuole dare alle persone interessate gli strumenti
per conservare o recuperare la salute fisica, l’equilibrio mentale e
la sfera morale, attraverso stili di vita ed abitudini alimentari
conformi alla nostra natura di esseri pacifici e fruttariani e
favorire lo sviluppo di una coscienza umana più giusta e solidale,
una mentalità di pace e di disponibilità verso il prossimo.
Risposte in sintesi per falsi problemi
INTRODUZIONE
Questo manualetto vuole essere uno strumento di facile lettura per coloro che vogliono conoscere i principi basilari della cultura
vegetariana, rimandando il lettore a più approfondite analisi in
ordine alle tematiche affrontate di natura salutistica, antropologica, etica, ambientale, spirituale ecc. Un breve e sintetico compendio di
risposte alle più consuete domande che generalmente vengono rivolge
agli addetti ai lavori per superare visioni anacronistiche, ancorate a
pregiudizi e tradizioni inesatte e spesso dannose per il
raggiungimento del benessere integrale dell’individuo, mediante la
volontà di suscitare negli interessati un sano senso critico dei
fatti e capire che senza eliminare le cause e senza il cambiamento di
errati stili di vita non è possibile guarire da nessuna malattia. A
tale motivo l’AVA nel proseguire l’opera di diffusione del
Vegetarismo ed in particolare del Veganismo, sostenuta dal prof.
Armando D’Elia sul solco già tracciato da Aldo Capitini, da
Ferdinando Delor e dai grandi uomini di spiritualità e di scienza di
ogni tempo e paese, vuole dare alle persone interessate gli strumenti
per conservare o recuperare la salute fisica, l’equilibrio mentale e
la sfera morale, attraverso stili di vita ed abitudini alimentari
conformi alla nostra natura di esseri pacifici e fruttariani e
favorire lo sviluppo di una coscienza umana più giusta e solidale,
una mentalità di pace e di disponibilità verso il prossimo.
martedì 10 maggio 2011
CRISI: GRECIA; TAJANI, GRAVISSIMO SE ATENE USCISSE DA EURO... PER LE BANCHE SOPRATTUTTO
Fonte: controlacrisi
«L'uscita della Grecia dall'euro sarebbe un danno gravissimo per la credibilità della moneta unica e per la nostra economia»: lo ha detto il vicepresidente della Commissione Ue, Antonio Tajani, in un'intervista televisiva. «Non credo che Atene voglia uscire dall'Eurozona e non credo che vi sia qualcuno che abbia l'intenzione di farla uscire. Credo invece che la situazione sia molto difficile, come in Portogallo ed in Irlanda, e che nell'interesse comune si debba fare di tutto perchè la Grecia esca da questo momento difficile. E che possa risanare i suoi conti e la sua economia, facendo anche dei duri sacrifici». Non capiamo perchè il popolo greco debba continuare a fare sacrifici in nome dell'Euro quando banchieri e speculatori fanno i loro porci comodi facendo profitto sul futuro di intere nazioni e di generazioni. Per il popolo greco l'uscita dalle grinfie di FMI BCE e Commissione europea si configura come una sorta di legittima difesa.
«L'uscita della Grecia dall'euro sarebbe un danno gravissimo per la credibilità della moneta unica e per la nostra economia»: lo ha detto il vicepresidente della Commissione Ue, Antonio Tajani, in un'intervista televisiva. «Non credo che Atene voglia uscire dall'Eurozona e non credo che vi sia qualcuno che abbia l'intenzione di farla uscire. Credo invece che la situazione sia molto difficile, come in Portogallo ed in Irlanda, e che nell'interesse comune si debba fare di tutto perchè la Grecia esca da questo momento difficile. E che possa risanare i suoi conti e la sua economia, facendo anche dei duri sacrifici». Non capiamo perchè il popolo greco debba continuare a fare sacrifici in nome dell'Euro quando banchieri e speculatori fanno i loro porci comodi facendo profitto sul futuro di intere nazioni e di generazioni. Per il popolo greco l'uscita dalle grinfie di FMI BCE e Commissione europea si configura come una sorta di legittima difesa.
IN GRECIA SI SCIOPERA DI MERCOLEDI' E SI BLOCCA IL PAESE. PRENDERE ESEMPIO
Fonte: controlacrisi
In Grecia continua la prolungata ed eroica resistenza da parte dei sindacati e della sinistra di classe contro l'austerity. Domani 11 maggio il paese si fermerà a causa dello sciopero generale indetto dall'Adedy, che raggruppa i lavoratori del settore pubblico, e la Gsee, cui sono iscritti gli impiegati nel settore privato. Lo sciopero è indetto contro le nuove misure di austerità economica del governo socialista di George Papandreou. Le scelte del governo greco assieme all'esempio spagnolo e portoghese dimostrano ancora una volta che per far pagare la crisi alle classi popolari non c'è di meglio che un governo di centro sinistra. Lo sciopero di domani è il decimo dall'11 marzo scorso, da quando la Grecia si è legato il cappio al collo del meccanismo di sostegno europeo di BCE FMI e Commissione. Nel corso della giornata è prevista una serie di proteste in tutto il Paese. Alle 11.00 locali Adedy e Gsee hanno in programma una manifestazione nella piazza centrale di Pedino tu Areos, ad Atene, mentre i lavoratori del Pame, il sindacato vicino al Partito Comunista, si raduneranno in un'altra piazza della capitale, piazza Omonoias. Sicuramente non sarà una giornata facile visto quello che sta accadendo in queste ore sulle borse finanziarie.
I sindacati chiedono un nuovo sistema retributivo nel settore pubblico, senza tagli agli stipendi, e rivendicano la restituzione della tredicesima e della quattordicesima mensilità. Inoltre non accettano nuovi ribaltamenti dei rapporti di lavoro nel settore privato e nemmeno cambiamenti per quanto riguarda i limiti di età pensionabile e chiedono dal governo di sostenere gli Enti previdenziali in difficoltà economiche.
Queste richieste sono incompatibili con il memorandum sottoscritto fino ad ora, e lo sono ancora di più con il prossimo che dovrà essere firmato se, come riporta la stampa, il debito greco dovrà essere ristrutturato con un nuovo ricorso al meccanismo del fondo salva stati di ben 60 miliardi di euro. Queste voci sono state smentite dal governo Greco, resta tuttavia evidente che la Grecia è di fronte ad un bivio che l'Ecofin dovrà affrontare il 16 maggio prossimo.
In Grecia continua la prolungata ed eroica resistenza da parte dei sindacati e della sinistra di classe contro l'austerity. Domani 11 maggio il paese si fermerà a causa dello sciopero generale indetto dall'Adedy, che raggruppa i lavoratori del settore pubblico, e la Gsee, cui sono iscritti gli impiegati nel settore privato. Lo sciopero è indetto contro le nuove misure di austerità economica del governo socialista di George Papandreou. Le scelte del governo greco assieme all'esempio spagnolo e portoghese dimostrano ancora una volta che per far pagare la crisi alle classi popolari non c'è di meglio che un governo di centro sinistra. Lo sciopero di domani è il decimo dall'11 marzo scorso, da quando la Grecia si è legato il cappio al collo del meccanismo di sostegno europeo di BCE FMI e Commissione. Nel corso della giornata è prevista una serie di proteste in tutto il Paese. Alle 11.00 locali Adedy e Gsee hanno in programma una manifestazione nella piazza centrale di Pedino tu Areos, ad Atene, mentre i lavoratori del Pame, il sindacato vicino al Partito Comunista, si raduneranno in un'altra piazza della capitale, piazza Omonoias. Sicuramente non sarà una giornata facile visto quello che sta accadendo in queste ore sulle borse finanziarie.
I sindacati chiedono un nuovo sistema retributivo nel settore pubblico, senza tagli agli stipendi, e rivendicano la restituzione della tredicesima e della quattordicesima mensilità. Inoltre non accettano nuovi ribaltamenti dei rapporti di lavoro nel settore privato e nemmeno cambiamenti per quanto riguarda i limiti di età pensionabile e chiedono dal governo di sostenere gli Enti previdenziali in difficoltà economiche.
Queste richieste sono incompatibili con il memorandum sottoscritto fino ad ora, e lo sono ancora di più con il prossimo che dovrà essere firmato se, come riporta la stampa, il debito greco dovrà essere ristrutturato con un nuovo ricorso al meccanismo del fondo salva stati di ben 60 miliardi di euro. Queste voci sono state smentite dal governo Greco, resta tuttavia evidente che la Grecia è di fronte ad un bivio che l'Ecofin dovrà affrontare il 16 maggio prossimo.
IL LAVORO AL “TRAMONTO DELLA POLITICA”. Intervista a Mario Tronti*
Fonte: controlacrisi
La rivista Polemos ha dedicato un intero numero al tema del lavoro. Il fascicolo è intitolato "Il lavoro in questione" ed ospita importanti contributi di filosofi e studiosi di livello internazionale e di giovani ricercatori che da tempo si dedicano a questo tema. Sul sito del Centro per la Riforma dello Stato (CRS) trovate quattro tra i principali contributi in vista di un seminario di approfondimento che si svolgera nella sede del CRS il 12 Maggio 2011 alle ore 15.30.
Vi proponiamo l'intervista a Mario Tronti.
Questo numero della rivista è dedicato al tema del lavoro. Abbiamo constatato che nei suoi interventi più recenti Lei ha menzionato spesso la necessità di ripartire dalla dimensione del lavoro, esplicitando l’urgenza politica di tale necessità. Come motiva questa urgenza? Ritiene che il lavoro oggi sia ancora un terreno di antagonismo e che sia possibile ripartire politicamente dal lavoro per produrre conflitto?
C’è un apparato ideologico oggi molto forte e consistente, che è cresciuto
nell’arco degli ultimi due-tre decenni, diciamo dagli anni ’80 in poi, e che ha riconfigurato il rapporto tra il lavoro e il resto del mondo, tra la società e la politica, le forme istituzionali e rappresentative, i sindacati, i partiti. Questa corrente di pensiero riconosce che sicuramente nel ’900 c’è stata una centralità del tema lavoro, ma afferma che adesso non esiste più, e che quindi il lavoro è diventato un tratto marginale. La cosa preoccupante è non tanto che tale apparato ideologico sia stato
agito dalle classi dominanti, ma il fatto che sia stato introiettato anche da parte di
quelle forze che dovrebbero essere alternative. Queste ultime, nell’orbita della sinistra, hanno assunto questo punto di vista ed hanno cominciato a interessarsi ad
altre contraddizioni che sarebbero presenti oggi. Non hanno escluso la contraddizione
del lavoro, ma hanno fatto un’operazione di questo tipo: hanno posto la
contraddizione del lavoro insieme ad altre contraddizioni più o meno sullo stesso
livello: la grande contraddizione ambientale, per esempio, che è considerata come
decisiva anche nella critica al capitalismo contemporaneo; la questione di genere
che è una contraddizione reale, emersa con grande forza negli ultimi decenni; e la
contraddizione dei diritti civili in base alla quale, essendoci stato un processo di
decollettivizzazione e individualizzazione della società, si ritiene prioritario ripartire dal mondo dei diritti individuali che vengono negati e messi in crisi. In questo modo la contraddizione del lavoro è scomparsa, perché non è una contraddizione che
può essere appiattita, e appena perde questa centralità viene meno.
La rivista Polemos ha dedicato un intero numero al tema del lavoro. Il fascicolo è intitolato "Il lavoro in questione" ed ospita importanti contributi di filosofi e studiosi di livello internazionale e di giovani ricercatori che da tempo si dedicano a questo tema. Sul sito del Centro per la Riforma dello Stato (CRS) trovate quattro tra i principali contributi in vista di un seminario di approfondimento che si svolgera nella sede del CRS il 12 Maggio 2011 alle ore 15.30.
Vi proponiamo l'intervista a Mario Tronti.
Questo numero della rivista è dedicato al tema del lavoro. Abbiamo constatato che nei suoi interventi più recenti Lei ha menzionato spesso la necessità di ripartire dalla dimensione del lavoro, esplicitando l’urgenza politica di tale necessità. Come motiva questa urgenza? Ritiene che il lavoro oggi sia ancora un terreno di antagonismo e che sia possibile ripartire politicamente dal lavoro per produrre conflitto?
C’è un apparato ideologico oggi molto forte e consistente, che è cresciuto
nell’arco degli ultimi due-tre decenni, diciamo dagli anni ’80 in poi, e che ha riconfigurato il rapporto tra il lavoro e il resto del mondo, tra la società e la politica, le forme istituzionali e rappresentative, i sindacati, i partiti. Questa corrente di pensiero riconosce che sicuramente nel ’900 c’è stata una centralità del tema lavoro, ma afferma che adesso non esiste più, e che quindi il lavoro è diventato un tratto marginale. La cosa preoccupante è non tanto che tale apparato ideologico sia stato
agito dalle classi dominanti, ma il fatto che sia stato introiettato anche da parte di
quelle forze che dovrebbero essere alternative. Queste ultime, nell’orbita della sinistra, hanno assunto questo punto di vista ed hanno cominciato a interessarsi ad
altre contraddizioni che sarebbero presenti oggi. Non hanno escluso la contraddizione
del lavoro, ma hanno fatto un’operazione di questo tipo: hanno posto la
contraddizione del lavoro insieme ad altre contraddizioni più o meno sullo stesso
livello: la grande contraddizione ambientale, per esempio, che è considerata come
decisiva anche nella critica al capitalismo contemporaneo; la questione di genere
che è una contraddizione reale, emersa con grande forza negli ultimi decenni; e la
contraddizione dei diritti civili in base alla quale, essendoci stato un processo di
decollettivizzazione e individualizzazione della società, si ritiene prioritario ripartire dal mondo dei diritti individuali che vengono negati e messi in crisi. In questo modo la contraddizione del lavoro è scomparsa, perché non è una contraddizione che
può essere appiattita, e appena perde questa centralità viene meno.
lunedì 9 maggio 2011
ISTVAN MESZARÓS: I doveri futuri.Crisi del capitale e transizione al socialismo.
Fonte: proteo
Domanda: “In “Beyond the capital” lei analizza il continuo aggravarsi della crisi capitalista e parla di una possibile fine del genere umano. Questa crisi economica globale può segnare un cambiamento qualitativo verso questa direzione?”
Mészáros: “L’attuale crisi è sicuramente molto grave e in un certo senso differente da quelle scoppiate anni fa. Possiamo dire che ha mantenuto la stessa struttura che abbiamo sperimentato sin dalla fine degli anni ’60 o agli inizi dei ’70, ma è diversa nel senso che ora la crisi è davvero globale. Io sono sempre stato convinto che quanto successe durante il Maggio parigino del 1968 sia stato l’inizio della crisi strutturale.
Domanda: “In “Beyond the capital” lei analizza il continuo aggravarsi della crisi capitalista e parla di una possibile fine del genere umano. Questa crisi economica globale può segnare un cambiamento qualitativo verso questa direzione?”
Mészáros: “L’attuale crisi è sicuramente molto grave e in un certo senso differente da quelle scoppiate anni fa. Possiamo dire che ha mantenuto la stessa struttura che abbiamo sperimentato sin dalla fine degli anni ’60 o agli inizi dei ’70, ma è diversa nel senso che ora la crisi è davvero globale. Io sono sempre stato convinto che quanto successe durante il Maggio parigino del 1968 sia stato l’inizio della crisi strutturale.
Alla fine del 1967 - in una conversazione con il mio amico Lucien Goldman, che in questi giorni continua a credere, come Markuse, che “il capitalismo organizzato” risolverà i problemi delle “crisi capitaliste” - io dissi che la fase peggiore della crisi deve ancora venire, è davanti a noi. Il cosiddetto “capitalismo organizzato” non ha mai risolto le crisi. Al contrario, affermavo al tempo, la crisi che stiamo per vivere sarà molto più grave di quella che ha provocato la Grande Depressione tra il 1929 e il 1933, poiché il suo carattere è davvero mondiale”.
Come Goldman Sachs Ha Creato la Crisi Alimentare*
di Frederick Kaufman Fonte: sinistrainrete
Non prendetevela con gli appetiti americani, l'aumento dei prezzi del petrolio o le colture geneticamente modificate per il rincaro dei prodotti alimentari. Wall Street è il colpevole.La domanda e l'offerta sicuramente c'entrano. Ma c'è un altro motivo per cui i beni alimentari in tutto il mondo sono diventati così costosi: l'avidità di Wall Street.
Non prendetevela con gli appetiti americani, l'aumento dei prezzi del petrolio o le colture geneticamente modificate per il rincaro dei prodotti alimentari. Wall Street è il colpevole.La domanda e l'offerta sicuramente c'entrano. Ma c'è un altro motivo per cui i beni alimentari in tutto il mondo sono diventati così costosi: l'avidità di Wall Street.
Ci sono volute le menti brillanti di Goldman Sachs per realizzare la semplice verità che nulla è più prezioso del nostro pane quotidiano. E dove c'è un valore, ci sono soldi da fare. Nel 1991, i banchieri di Goldman, guidati dal loro lungimirante presidente Gary Cohn, hanno avviato un nuovo tipo di prodotto di investimento, un derivato con 24 materie prime sottostanti, dai metalli preziosi all'energia, caffè, cacao, bestiame, mais, maiale, soia e grano. Hanno pesato il valore di investimento di ciascun elemento, miscelato e riunito le parti in somme, poi ridotto quello che era un insieme complesso di cose reali in una formula matematica che può essere espressa come un fenomeno unico, conosciuto ormai come il Goldman Sachs Commodity Index (GSCI).
domenica 8 maggio 2011
L'internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro.
di Piero Bevilacqua. Fonte: eddyburg
Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica...
Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica, avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA, e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati? Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressocché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima. Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. .Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.
E allora? Com' è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico?
Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica...
Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica, avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA, e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati? Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressocché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima. Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. .Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.
E allora? Com' è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico?
Osama is trending! (o era Obama?)
Fonte: sinistrainrete
Non c’è che dire! Un fine settimana degno di Walt Disney per l’infosfera globale: il principe sposa Cenerentola con un matrimonio da favola e l’orco cattivo muore. Sull’atmosfera fiabesca aleggia l’ectoplasma di papa Wojtytla: la circolarità di sentimenti ed emozioni prodottasi tra media broadcast e social network deve aver dato alla testa all’onorevole Biancofiore del PDL, che in preda ad una crisi mistica ha gridato al miracolo, causando lo sdegno imbarazzato del Vaticano. Dulcis in fundo una chicca dal sapore frodiano ce la regala la Fox annunciando in diretta la morte di Obama Bin Laden: a guardare il razzismo del suo linguaggio ed i veementi attacchi contro il presidente statunitense verrebbe da pensare più ad un lapsus che ad una gaffe.
Non manca il sarcasmo in rete di fronte alla morte del leader di Al Qaeda: c’è chi si chiede se finalmente sarà possibile portarsi il bagno schiuma in aereo o se l’incarnazione del male non abbia segretamente ceduto al fascino dell’Iphone 4 bianco o magari al vizio (tutt’altro che occidentale) di quattro amene chiacchiere sui social network. Attivata per sbaglio la geolocalizzazione dei tweet?
Dal sapore più amaro e retorico sono invece i tweet di coloro che si domandano se l’affermazione della categoria metafisica del terrore nel nostro immaginario non abbia effettivamente vinto visto il caro prezzo pagato per “sconfiggerlo”: nella lunga lista delle “casualties” prodottasi a cavallo delle due guerre scatenate per dare la caccia ad un singolo personaggio possiamo elencare centinaia di migliaia di vittime civili e le nostre libertà fondamentali. Mission accomplished?
Non manca il sarcasmo in rete di fronte alla morte del leader di Al Qaeda: c’è chi si chiede se finalmente sarà possibile portarsi il bagno schiuma in aereo o se l’incarnazione del male non abbia segretamente ceduto al fascino dell’Iphone 4 bianco o magari al vizio (tutt’altro che occidentale) di quattro amene chiacchiere sui social network. Attivata per sbaglio la geolocalizzazione dei tweet?
Dal sapore più amaro e retorico sono invece i tweet di coloro che si domandano se l’affermazione della categoria metafisica del terrore nel nostro immaginario non abbia effettivamente vinto visto il caro prezzo pagato per “sconfiggerlo”: nella lunga lista delle “casualties” prodottasi a cavallo delle due guerre scatenate per dare la caccia ad un singolo personaggio possiamo elencare centinaia di migliaia di vittime civili e le nostre libertà fondamentali. Mission accomplished?
DOPO L’ONDA E IL MOVIMENTO 2010
Gli orizzonti dei freelance alla prova della politica
di Roberto Ciccarelli. Fonte: controlacrisi
A differenza degli Stati Uniti, nei paesi Ue la crisi economica si è manifestata sotto forma di riduzione del bilancio pubblico e di dismissione dello stato sociale. Nel prossimo triennio i tagli annunciati dal Documento di economia e finanza pubblica rafforzeranno nel nostro Paese il trasferimento del reddito e ricchezza dal basso in alto, la riduzione dei salari reali e produrrà un tasso di disoccupazione che resterà molto elevato per anni (oggi è al 13%,ma supera il 20% se calcoliamo le figure del lavoro intermittente, atipico e autonomo). La crescita sempre più tangibile di abissali disuguaglianze ha letteralmente travolto il lavoro della conoscenza che negli ultimi dici anni è cresciuto anche grazie al fondo sociale europeo destinato alla formazione e oggi vive in un'economia fondata sul debito, sulle differenze di classe e di ceto e sulla rottura della solidarietà tra le generazioni.
Eppure le statistiche sulla disoccupazione giovanile (al 30% tra i 15-24enni), il crollo delle iscrizioni nell'università del 3+2 targata Gelmini, l'alto tasso di abbandono degli studi, la distruzione della scuola e dell'università di massa sfiorano solo la superficie della nuova questione sociale che coinvolge tutti i precari del lavoro intellettuale, i freelance del lavoro autonomo di seconda generazione, e non solo la borghesia delle professioni liberali.
di Roberto Ciccarelli. Fonte: controlacrisi
A differenza degli Stati Uniti, nei paesi Ue la crisi economica si è manifestata sotto forma di riduzione del bilancio pubblico e di dismissione dello stato sociale. Nel prossimo triennio i tagli annunciati dal Documento di economia e finanza pubblica rafforzeranno nel nostro Paese il trasferimento del reddito e ricchezza dal basso in alto, la riduzione dei salari reali e produrrà un tasso di disoccupazione che resterà molto elevato per anni (oggi è al 13%,ma supera il 20% se calcoliamo le figure del lavoro intermittente, atipico e autonomo). La crescita sempre più tangibile di abissali disuguaglianze ha letteralmente travolto il lavoro della conoscenza che negli ultimi dici anni è cresciuto anche grazie al fondo sociale europeo destinato alla formazione e oggi vive in un'economia fondata sul debito, sulle differenze di classe e di ceto e sulla rottura della solidarietà tra le generazioni.
Eppure le statistiche sulla disoccupazione giovanile (al 30% tra i 15-24enni), il crollo delle iscrizioni nell'università del 3+2 targata Gelmini, l'alto tasso di abbandono degli studi, la distruzione della scuola e dell'università di massa sfiorano solo la superficie della nuova questione sociale che coinvolge tutti i precari del lavoro intellettuale, i freelance del lavoro autonomo di seconda generazione, e non solo la borghesia delle professioni liberali.
PRECARI E AUTONOMI: È TEMPO DI COALIZIONE
Da gentlemen a mercenari.
di Sergio Bologna. Fonte: controlacrisi
«Creare community, condividere conoscenze, progettare insieme, riconoscere che l’individualismo su cui è costruito tutto il sistema del vivere moderno è lo strumento più forte per ridurci in schiavitù» Esiste un territorio molto vasto della società civile italiana che in genere gli osservatori sociali e politici non frequentano: quello dell’associazionismo delle libere professioni. Un territorio con segni di urbanizzazione che risalgono ai primi anni del secolo scorso, quando la borghesia cercava di riorganizzarsi di fronte all’avanzare della grande impresa ed al parallelo montare di un’onda associativa tra il proletariato industriale e contadino. La grande impresa non fu accolta a braccia aperte, il suo potere emerse subito come un contraltare temibile delle rappresentanze politiche che la borghesia pensava di controllare, in particolare la borghesia professionale. Si temeva che la grande impresa stringesse un patto corporativo con il movimento operaio, che la sua forza di mercato soffocasse la piccola impresa. Quando i grandi gruppi industriali e finanziari cominciarono a controllare gli organi di stampa, condizionando sempre di più la politica, la borghesia delle professioni (avvocati, medici, notai) si accorse di essere già emarginata. Ma la grande impresa aveva prodotto qualcosa di più, aveva prodotto un diverso tipo di professioni, quelle tecniche – l’ingegnere era la più caratteristica – così diverse dalle professioni dette «liberali». Sia di qua che di là dell’Atlantico negli Anni Venti cominciarono a sorgere le Associazioni professionali, erano organismi privati ma chiedevano un riconoscimento pubblico, in virtù del ruolo sociale che medici, avvocati, architetti, notai, ingegneri svolgevano.
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