Non c’è che dire! Un fine settimana degno di Walt Disney per l’infosfera globale: il principe sposa Cenerentola con un matrimonio da favola e l’orco cattivo muore. Sull’atmosfera fiabesca aleggia l’ectoplasma di papa Wojtytla: la circolarità di sentimenti ed emozioni prodottasi tra media broadcast e social network deve aver dato alla testa all’onorevole Biancofiore del PDL, che in preda ad una crisi mistica ha gridato al miracolo, causando lo sdegno imbarazzato del Vaticano. Dulcis in fundo una chicca dal sapore frodiano ce la regala la Fox annunciando in diretta la morte di Obama Bin Laden: a guardare il razzismo del suo linguaggio ed i veementi attacchi contro il presidente statunitense verrebbe da pensare più ad un lapsus che ad una gaffe.
Non manca il sarcasmo in rete di fronte alla morte del leader di Al Qaeda: c’è chi si chiede se finalmente sarà possibile portarsi il bagno schiuma in aereo o se l’incarnazione del male non abbia segretamente ceduto al fascino dell’Iphone 4 bianco o magari al vizio (tutt’altro che occidentale) di quattro amene chiacchiere sui social network. Attivata per sbaglio la geolocalizzazione dei tweet?
Dal sapore più amaro e retorico sono invece i tweet di coloro che si domandano se l’affermazione della categoria metafisica del terrore nel nostro immaginario non abbia effettivamente vinto visto il caro prezzo pagato per “sconfiggerlo”: nella lunga lista delle “casualties” prodottasi a cavallo delle due guerre scatenate per dare la caccia ad un singolo personaggio possiamo elencare centinaia di migliaia di vittime civili e le nostre libertà fondamentali. Mission accomplished?
Immancabili i fake e le voci che lanciano la teoria del complotto, mente molti account facenti riferimento alle rivoluzioni nord africane in corso hanno mostrato indifferenza per la dipartita del simbolo di una corrente politica scalzata e rifiutata dai movimenti della primavera araba.
Puntuali come la morte (per l’appunto) i crackers di turno che, sfruttando l’interesse e l’attenzione suscitate dal clamore della vicenda ed accostando false notizie e video alla morte dell’emiro saudita, sono riusciti a diffondere malware avente come obbiettivo l’accesso ai dati personali degli utenti. Era già avvenuto con il terremoto giapponese e con le vicende erotico/giudiziarie di Berlusconi. D’altra parte se l’anello debole della sicurezza informatica è l’uomo perché non sfruttarne le debolezze emotive per avere accesso al sistema? Il social engeneering oggi non può che passare anche per i social network.
Insomma: Osama is trending! Pellegrinaggio virtuale (che fa tanto Cogne) sui luoghi dell’accaduto tramite Flickr e Google Maps, a cui fanno da corredo migliaia di tweet e post su Facebook al secondo per uno spasmodico brulicare di voci assordante che fa impazzire i social network. C’è ne è per tutti i gusti e tutte le latitudini. Un aspetto rimarcato da molti quotidiani e network, evidentemente a corto di inventiva visto che ormai non dovrebbe essere più una novità per nessuno il fatto che la rete sia una sonda dello stato d’animo degli utenti, uno strumento con cui effettuare lo screening digitale dell’opinione pubblica e più in generale un termometro degli umori che attraversano la società. È già accaduto in passato (come durante il Cablegate, a ridosso del terremoto in Giappone e della barbara uccisione di Vittorio Arrgoni per arrivare fino al “Royal Wedding” di pochi giorni fa) e continuerà in futuro ogni qual volta si produrranno eventi, per un motivo o per un altro, in grado di scuotere l’attenzione pubblica mondiale.
L’ha detto prima Twitter!
La morte di Osama Bin Laden però ci regala anche un quadretto interessante tanto sulla complessità dell’articolazione del sistema mediale quanto sull’incrollabile fede dei cyber entusiati che non si lasciano sfuggire un’occasione per tessere le lodi dei social media e della loro potenza comunicativa. «Twitter l’ha detto prima degli altri!» è l’eco che rimbalza diffusamente tra blog, forum e profili on line. I devoti di San Biz Stone esultano per la velocità con cui la notizia del trapasso di Bin Laden è stata diffusa dal social network di Palo Alto, segno inequivocabile della manifesta e schiacciante supremazia dei nuovi media su quelli vecchi. Battuti anche i tempi di beatificazione di papa Wojtyla i cui fedeli tornano a casa dalla trasferta romana con un po’ di amaro in bocca.
In effetti la vulgata vuole che l’estromissione dal mondo terreno di Osama Bin Laden sia stata, per dirla con un termine 2.0 à la page, livebloggata da un programmatore pachistano che si trovava nelle vicinanze del luogo dove è accaduto il raid delle forze speciali statunitensi. Peccato si tratti di una panzana buona giusto per i convegni di “esperti di nuovi media” che ormai spuntano come funghi infestando le università.
Mario Todeschini ha ricostruito la dinamica con cui si è diffusa la notizia della morte di Bin Laden . Il giornalista ci ha spiegato bene come in realtà, Sohaib Athar, il blogger in questione, prontamente innalzato alla carica di eroe del citizen journalism per 36 ore, abbia semplicemente segnalato dal suo account la presenza di diversi elicotteri nel sobborgo di Abbotabad (il luogo dove è avvenuto il blitz delle forze speciali USA), senza avere in realtà la minima idea di quanto stava avvenendo. La sua popolarità è esplosa solo nel momento in cui è stata diffusa da diversi media la voce che proprio ad Abbotabad era in corso una grossa operazione dei corpi d’élite statunitense. Solo allora il nome del sobborgo pachistano in cui si svolgeva l’operazione è diventato un termine particolarmente ricercato su Twitter e solo allora i suoi tweet sono stati ricollegati a quanto stava avvenendo, permettendogli di avere i suoi 15000 followers di gloria. Ergo il buon Sohaib non ha realizzato alcuno scoop giornalistico.
Per la cronaca: a quanto pare il titolo di new-media-hero sembra essere ambito da tutti meno che dal povero programmatore pachistano. Con parecchie ore di sonno arretrato, sommerso da email e richieste di contatto su Skype è stato costretto a dichiarare che Bin Laden non l’aveva ucciso lui e che voleva solo essere lasciato in pace.
Media integrati…
Qualche tempo fa scrivevamo di come l’affabulazione della “Twitter Revolution” nella sua eccessiva semplificazione rendesse inintellegibili e depoliticizzasse agli occhi dei più le cause profonde delle rivolte e dei conflitti nord africani. A questo vanno senz’altro aggiunte le interessanti considerazioni di Ulisses Mejias il quale ha messo sotto accusa il noto sintagma in quanto sinonimo dell’ inestinguibile mitologia che continua a correlare acriticamente e strumentalmente la diffusione delle tecnologie digitali con l’espansione dei processi democratici.
Una mistificazione che sembra attraversare in maniera più edulcorata anche la vicenda “Bin Laden TANGO DOWN”, immediatamente rilanciata come espressione di un citizen journalism insorgente. Un equivoco indotto che ha il grave difetto di interpretare a senso unico ed in modo riduttivo le modalità di circolazione dell’informazione e che non permette di decifrare le dinamiche complesse su cui si struttura il sistema mediale.
Continuare a produrre un’analisi dei flussi di comunicazione e del loro precipitato politico a partire dalla dicotomia che vede contrapposti vecchi e nuovi media è indice di miopia. Affermare che oggi l’internet sociale abbia ormai un suo ruolo affermato all’interno del sistema informativo non può farci dimenticare quanto essa faccia parte di un sistema integrato di comunicazione (come ha ricordato in un suo recente intervento anche Manuel Castells) composto tanto da social network e televisioni, blog e carta stampata, fax e telefoni, forum e piazze. Forse può essere utile per rinfrescare la memoria la fotografia della bandiera di Al Jazeera che, nei primi giorni dell’insurrezione libica e immediatamente a ridosso di quella egiziana, garriva al vento sul quartier generale dei rivoltosi a Bengasi. Occorrono immagini più evocative per esplicitare il protagonismo dei network televisivi nella narrazione e nella costruzione dello spettacolo globale?
Non stiamo affatto assistendo alla fine tout court di vecchie gerarchie, ma semmai ad un rimpasto di poteri, ad una “riforma” del sistema d’informazione, all’interno del quale i vecchi attori continuano ad avere un ruolo fondamentale. Lo spiazzamento iniziale dei media broadcast, derivante dalla massificazione delle tecnologie digitali, sta lentamente lasciando il passo a nuove forme di collaborazione con gli attori emergenti. Risultato? Uno sfruttamento mutuale delle reciproche potenzialità comunicative.
Questo è esattamente quanto avvenuto per l’evento dell’anno subito trasformato in una celebrazione mediale globale . Vediamo come.
Brian Stelter, sul New York Times, ha dettagliatamente circostanziato le modalità con cui la notizia è trapelata al di fuori della Casa Bianca. Un classico meccanismo top-to-down, partito da alcuni alti papaveri di Washington in contatto sia con le sale di comando politiche e militari dove in quelle ore si schiacciavano pulsanti rossi, sia con personaggi accreditati dell’establishment mediatico statunitense.
Con circa due ore di anticipo sul discorso di Obama, Dan Pfeiffer (direttore delle comunicazioni delle Casa Bianca) dal suo account Twitter (ed immaginiamo anche tramite altre comunicazioni private) mette in allerta i giornalisti dei maggiori network statunitensi (che a loro volta erano stati avvisati di tornare al lavoro da alcune mail provenienti dalle loro redazioni). Già allora era noto che il discorso presidenziale avrebbe avuto come tema la sicurezza nazionale .
Meno di un’ora dopo Keith Urbhan, capo di gabinetto dell’ex segretario alla difesa Donald Rumsfeld (una persona assolutamente interna all’élite di Washington e ben informata sui fatti) fa trapelare di essere venuto a conoscenza da una fonte attendibile dell’uccisione dello sceicco del terrore (si scoprirà poi che questa fonte è un non meglio specificato produttore televisivo).
A pochi minuti dalle 23 invece sono fonti anonime interne al Pentagono ed alla Casa Bianca a far circolare la notizia fra i reporters della capitale. Dopo altri quindici minuti, mentre su Facebook si moltiplicano con una velocità di dodici al secondo i post contenenti la parola “bin Laden”, sulle prime pagine dei siti web del New York Times e dell’Huffington Post troneggiano a caratteri cubitali titoli che con quaranta minuti di anticipo sul discorso di Obama informano la loro audience della morte di Osama.
La stessa CNN, interrompe i suoi programmi per dare la breaking news (riverberata immediatamente anche in rete) e fa registrare allo stesso tempo un enorme afflusso di contatti sul suo sito web (all’una di notte saranno 88 milioni, una cifra semplicemente spaventosa).
Tutti questi elementi miscelati tra loro creano in rete un’attesa spasmodica per le parole di Obama. Touchscreen, tastiere e mouse, si fanno bollenti facendo aumentare la frenesia di minuto in minuto. E in questo contesto accade un fatto senza precedenti: durante la trasmissione del discorso televisivo di Obama viene pubblicata una media di 4000 tweet al secondo che, a detta stessa di Twitter, è la più alta mai raggiunta nella storia del social network.
Ad Iphone spento e mente lucida dovrebbe quindi venire in soccorso di chiunque un minimo di razionalità tale da suggerire che quanto è accaduto non si configura affatto come un evento ad appannaggio di rete e social network. Semmai quella a cui abbiamo assistito e partecipato è stata una grande celebrazione della vittoria di tipo cross mediale, frutto dell’intreccio e della bifocalità articolata tra gli schermi di televisioni e smartphone. In questo senso è interessante un sondaggio stilato da Cnet che, pur non avendo valore statistico per via della limitatezza e della non scientificità del campione, mette bene in evidenza come televisione, radio e passaparola abbiano rappresentato per più della metà degli intervistati la fonte della notizia della morte di Bin Laden.
Da un recente articolo di Giovanni Boccia Artieri pubblicato su Apogeonline dove si spiega come la strategia crossmediale voluta da quelle vecchie ciabatte che sono gli Windsowr abbia caricato di attesa il “Royal Wedding”, emerge come la rete non sia da considerare esclusivamente come luogo di propagazione dei contenuti, ma anche uno spazio strategico nella preparazione e nella costruzione di un evento. In questo senso l’aspettativa che si viene a creare online è un elemento strategico per coinvolgere il pubblico e traghettarlo a forza fino al clou dello spettacolo (che sia questo il discorso di Obama o il goffo bacio scambiato tra i due rampolli reali).
Utilizzando altre parole (e nello specifico quelle di Eirck Schonfeld) Twitter non sostituisce affatto i vecchi canali di informazione ma è in grado sia di amplificarne la potenza (come è stato nel caso del discorso presidenziale) sia di incanalare la propria audience verso gli altri media compresi quelli “vecchi”. E questo è tanto più vero dal momento che, molte delle informazioni diffuse al momento dell’uccisione di Bin Laden erano nient’altro che un fedele riverbero delle parole pronunciate in televisione dagli ancorman delle varie CNN, ABC,CBS etc etc .
Un’operazione ben architettata dallo staff di comunicazione di Obama? Un aiuto involontario giunto dal tweet di Urbahn Keith? Una strategia di comunicazione dell’amministrazione americana indirizzata a costruire un determinato rapporto di fiducia e vicinanza rispetto alla popolazione?
O forse più semplicemente un evento prodottosi a cavallo di quella che ormai è una commistione consolidata tra diversi sistemi di comunicazione che tendono a compenetrarsi progressivamente. Sta di fatto che il risultato è stato quello di una celebrazione mediale della morte del nemico, alla cui costruzione ha partecipato chiunque, attraverso le conversazioni che penetravano capillarmente, fuso orario dopo fuso orario, rimbalzando nella quotidianità di milioni di persone, dal piccolo al grande schermo, dai social network ai luoghi lavorativi, dalle televisioni alle chiacchiere nei bar.
E questo senza dimenticare che anche gli “stantii” quotidiani statunitensi (tanto quelli locali quanto quelli internazionali) hanno giocato un ruolo significativo traendone a loro volta un certo beneficio: prime pagine cambiate all’ultimo minuto e tirature raddoppiate. Era dai tempi della guerra del golfo che il Times non fermava le rotative.
Alla faccia della crisi degli “old media”.
.. e diversi palcoscenici
Più che blaterare scemenze sullo spodestamento della vecchie aristocrazie massmediatiche, oltre a rimarcare quella che è la strutturazione integrata del sistema informativo globale, ci pare piuttosto utile provare ad esaminare le funzioni politiche di tale spettacolo e come potrebbero essere agite.
Come sempre la lettura che si può fare non va a senso unico se anche Fox News, la voce del partito Repubblicano e del Tea Party, ha immediatamente provato a far passare l’evento come il frutto maturo della politica bushista.
È chiaro però che, se è vero che il nascondiglio in cui si rifugiava Bin Laden era tenuto sotto stretta sorveglianza da agosto, non è privo di senso interrogarsi sulle dinamiche temporali da cui è scaturita l’azione dei Navy Seals statunitensi.
Questo non significa ovviamente alimentare le sempiterne teorie del complotto o gli entusiasmi delle evergreen signore Fletcher in fregola di dietrologia (specialmente di fronte ad un evento come questo in cui è presumibilmente coinvolto tutto il battaglione dei servizi segreti statunitensi e mediorientali), ma significa piuttosto osservare il contesto che fa da sfondo all’eliminazione della nemesi dell’occidente, tenendo sempre presente il vecchio adagio clausewitizano che impone di chiederci quali sono gli scopi politici dell’utilizzo dello strumento militare.
Due brevi spunti di riflessione allora
Primo, è impossibile non notare come l’eliminazione di Bin Laden si concretizzi a pochi giorni dall’avvio della campagna elettorale per le elezioni di novembre 2012. Se pure a detta di molti commentatori la partita finale si giocherà sul nodo della disastrata situazione economica statunitense, è innegabile che per l’indebolito Obama, uscito mal concio dal banco di prova delle elezioni di midterm, fiaccato nella credibilità delle numerose promesse non mantenute e costretto infine a mostrare il suo certificato di nascita per provare le sue origini a stelle e strisce, l’aver messo a segno un colpo di questo calibro rappresenta un bel rilancio propagandistico di quel “Yes We Can!” che aveva segnato la sua elezione. Un “Yes We Can! già pronunciato bello forte nei discorsi istituzionali delle cene di gala del day after. Un “Yes We can!” a cui si affianca il nuovo emblematico slogan “It beguns with Us” per rigalvanizzare quella massa di volontari che nel 2008 fecero la fortuna dell’astro nascente dell’Illinois.
Secondo non si può dimenticare il quadro della rivoluzione araba che non ha usato il discorso dell’islamismo radicale come narrazione e pratica per accendere la scintilla e proseguire nello sviluppo di movimenti insurrezionali, che ovunque si sono mostrati indifferenti o decisamente ostili all’ideologia salafita individuata come nemica. A questo si aggiunga che, proprio nel giorno in cui Zuckerberg e Obama davano il via alla campagna elettorale nella sede centrale di Facebook inscenando un siparietto carico di significati, il Times eleggeva come uomo più influente del mondo Wael Ghoneim (il dirigente di Goolge rapito in Egitto dagli sgherri di Mubarak prima della caduta del regime). Non è difficile capire di conseguenza che, con la liquidazione di Bin Laden trasmessa in mondovisione, Obama si sia candidato di diritto di fronte alle masse arabe come uomo del rinnovamento della immagine statunitense nel mondo. Un rilancio che era uno degli obbiettivi del suo primo mandato e che potrebbe essere operato anche grazie all’esercizio di un soft-power yankee mediato dai grandi social media e dalla loro rappresentazione (e questo a maggior ragione nel momento in cui ormai gli uomini del capitalismo 2.0 sono attori di primissimo piano del gotha politico washingtoniano).
Insomma… lo spettacolo continua.
Non manca il sarcasmo in rete di fronte alla morte del leader di Al Qaeda: c’è chi si chiede se finalmente sarà possibile portarsi il bagno schiuma in aereo o se l’incarnazione del male non abbia segretamente ceduto al fascino dell’Iphone 4 bianco o magari al vizio (tutt’altro che occidentale) di quattro amene chiacchiere sui social network. Attivata per sbaglio la geolocalizzazione dei tweet?
Dal sapore più amaro e retorico sono invece i tweet di coloro che si domandano se l’affermazione della categoria metafisica del terrore nel nostro immaginario non abbia effettivamente vinto visto il caro prezzo pagato per “sconfiggerlo”: nella lunga lista delle “casualties” prodottasi a cavallo delle due guerre scatenate per dare la caccia ad un singolo personaggio possiamo elencare centinaia di migliaia di vittime civili e le nostre libertà fondamentali. Mission accomplished?
Immancabili i fake e le voci che lanciano la teoria del complotto, mente molti account facenti riferimento alle rivoluzioni nord africane in corso hanno mostrato indifferenza per la dipartita del simbolo di una corrente politica scalzata e rifiutata dai movimenti della primavera araba.
Puntuali come la morte (per l’appunto) i crackers di turno che, sfruttando l’interesse e l’attenzione suscitate dal clamore della vicenda ed accostando false notizie e video alla morte dell’emiro saudita, sono riusciti a diffondere malware avente come obbiettivo l’accesso ai dati personali degli utenti. Era già avvenuto con il terremoto giapponese e con le vicende erotico/giudiziarie di Berlusconi. D’altra parte se l’anello debole della sicurezza informatica è l’uomo perché non sfruttarne le debolezze emotive per avere accesso al sistema? Il social engeneering oggi non può che passare anche per i social network.
Insomma: Osama is trending! Pellegrinaggio virtuale (che fa tanto Cogne) sui luoghi dell’accaduto tramite Flickr e Google Maps, a cui fanno da corredo migliaia di tweet e post su Facebook al secondo per uno spasmodico brulicare di voci assordante che fa impazzire i social network. C’è ne è per tutti i gusti e tutte le latitudini. Un aspetto rimarcato da molti quotidiani e network, evidentemente a corto di inventiva visto che ormai non dovrebbe essere più una novità per nessuno il fatto che la rete sia una sonda dello stato d’animo degli utenti, uno strumento con cui effettuare lo screening digitale dell’opinione pubblica e più in generale un termometro degli umori che attraversano la società. È già accaduto in passato (come durante il Cablegate, a ridosso del terremoto in Giappone e della barbara uccisione di Vittorio Arrgoni per arrivare fino al “Royal Wedding” di pochi giorni fa) e continuerà in futuro ogni qual volta si produrranno eventi, per un motivo o per un altro, in grado di scuotere l’attenzione pubblica mondiale.
L’ha detto prima Twitter!
La morte di Osama Bin Laden però ci regala anche un quadretto interessante tanto sulla complessità dell’articolazione del sistema mediale quanto sull’incrollabile fede dei cyber entusiati che non si lasciano sfuggire un’occasione per tessere le lodi dei social media e della loro potenza comunicativa. «Twitter l’ha detto prima degli altri!» è l’eco che rimbalza diffusamente tra blog, forum e profili on line. I devoti di San Biz Stone esultano per la velocità con cui la notizia del trapasso di Bin Laden è stata diffusa dal social network di Palo Alto, segno inequivocabile della manifesta e schiacciante supremazia dei nuovi media su quelli vecchi. Battuti anche i tempi di beatificazione di papa Wojtyla i cui fedeli tornano a casa dalla trasferta romana con un po’ di amaro in bocca.
In effetti la vulgata vuole che l’estromissione dal mondo terreno di Osama Bin Laden sia stata, per dirla con un termine 2.0 à la page, livebloggata da un programmatore pachistano che si trovava nelle vicinanze del luogo dove è accaduto il raid delle forze speciali statunitensi. Peccato si tratti di una panzana buona giusto per i convegni di “esperti di nuovi media” che ormai spuntano come funghi infestando le università.
Mario Todeschini ha ricostruito la dinamica con cui si è diffusa la notizia della morte di Bin Laden . Il giornalista ci ha spiegato bene come in realtà, Sohaib Athar, il blogger in questione, prontamente innalzato alla carica di eroe del citizen journalism per 36 ore, abbia semplicemente segnalato dal suo account la presenza di diversi elicotteri nel sobborgo di Abbotabad (il luogo dove è avvenuto il blitz delle forze speciali USA), senza avere in realtà la minima idea di quanto stava avvenendo. La sua popolarità è esplosa solo nel momento in cui è stata diffusa da diversi media la voce che proprio ad Abbotabad era in corso una grossa operazione dei corpi d’élite statunitense. Solo allora il nome del sobborgo pachistano in cui si svolgeva l’operazione è diventato un termine particolarmente ricercato su Twitter e solo allora i suoi tweet sono stati ricollegati a quanto stava avvenendo, permettendogli di avere i suoi 15000 followers di gloria. Ergo il buon Sohaib non ha realizzato alcuno scoop giornalistico.
Per la cronaca: a quanto pare il titolo di new-media-hero sembra essere ambito da tutti meno che dal povero programmatore pachistano. Con parecchie ore di sonno arretrato, sommerso da email e richieste di contatto su Skype è stato costretto a dichiarare che Bin Laden non l’aveva ucciso lui e che voleva solo essere lasciato in pace.
Media integrati…
Qualche tempo fa scrivevamo di come l’affabulazione della “Twitter Revolution” nella sua eccessiva semplificazione rendesse inintellegibili e depoliticizzasse agli occhi dei più le cause profonde delle rivolte e dei conflitti nord africani. A questo vanno senz’altro aggiunte le interessanti considerazioni di Ulisses Mejias il quale ha messo sotto accusa il noto sintagma in quanto sinonimo dell’ inestinguibile mitologia che continua a correlare acriticamente e strumentalmente la diffusione delle tecnologie digitali con l’espansione dei processi democratici.
Una mistificazione che sembra attraversare in maniera più edulcorata anche la vicenda “Bin Laden TANGO DOWN”, immediatamente rilanciata come espressione di un citizen journalism insorgente. Un equivoco indotto che ha il grave difetto di interpretare a senso unico ed in modo riduttivo le modalità di circolazione dell’informazione e che non permette di decifrare le dinamiche complesse su cui si struttura il sistema mediale.
Continuare a produrre un’analisi dei flussi di comunicazione e del loro precipitato politico a partire dalla dicotomia che vede contrapposti vecchi e nuovi media è indice di miopia. Affermare che oggi l’internet sociale abbia ormai un suo ruolo affermato all’interno del sistema informativo non può farci dimenticare quanto essa faccia parte di un sistema integrato di comunicazione (come ha ricordato in un suo recente intervento anche Manuel Castells) composto tanto da social network e televisioni, blog e carta stampata, fax e telefoni, forum e piazze. Forse può essere utile per rinfrescare la memoria la fotografia della bandiera di Al Jazeera che, nei primi giorni dell’insurrezione libica e immediatamente a ridosso di quella egiziana, garriva al vento sul quartier generale dei rivoltosi a Bengasi. Occorrono immagini più evocative per esplicitare il protagonismo dei network televisivi nella narrazione e nella costruzione dello spettacolo globale?
Non stiamo affatto assistendo alla fine tout court di vecchie gerarchie, ma semmai ad un rimpasto di poteri, ad una “riforma” del sistema d’informazione, all’interno del quale i vecchi attori continuano ad avere un ruolo fondamentale. Lo spiazzamento iniziale dei media broadcast, derivante dalla massificazione delle tecnologie digitali, sta lentamente lasciando il passo a nuove forme di collaborazione con gli attori emergenti. Risultato? Uno sfruttamento mutuale delle reciproche potenzialità comunicative.
Questo è esattamente quanto avvenuto per l’evento dell’anno subito trasformato in una celebrazione mediale globale . Vediamo come.
Brian Stelter, sul New York Times, ha dettagliatamente circostanziato le modalità con cui la notizia è trapelata al di fuori della Casa Bianca. Un classico meccanismo top-to-down, partito da alcuni alti papaveri di Washington in contatto sia con le sale di comando politiche e militari dove in quelle ore si schiacciavano pulsanti rossi, sia con personaggi accreditati dell’establishment mediatico statunitense.
Con circa due ore di anticipo sul discorso di Obama, Dan Pfeiffer (direttore delle comunicazioni delle Casa Bianca) dal suo account Twitter (ed immaginiamo anche tramite altre comunicazioni private) mette in allerta i giornalisti dei maggiori network statunitensi (che a loro volta erano stati avvisati di tornare al lavoro da alcune mail provenienti dalle loro redazioni). Già allora era noto che il discorso presidenziale avrebbe avuto come tema la sicurezza nazionale .
Meno di un’ora dopo Keith Urbhan, capo di gabinetto dell’ex segretario alla difesa Donald Rumsfeld (una persona assolutamente interna all’élite di Washington e ben informata sui fatti) fa trapelare di essere venuto a conoscenza da una fonte attendibile dell’uccisione dello sceicco del terrore (si scoprirà poi che questa fonte è un non meglio specificato produttore televisivo).
A pochi minuti dalle 23 invece sono fonti anonime interne al Pentagono ed alla Casa Bianca a far circolare la notizia fra i reporters della capitale. Dopo altri quindici minuti, mentre su Facebook si moltiplicano con una velocità di dodici al secondo i post contenenti la parola “bin Laden”, sulle prime pagine dei siti web del New York Times e dell’Huffington Post troneggiano a caratteri cubitali titoli che con quaranta minuti di anticipo sul discorso di Obama informano la loro audience della morte di Osama.
La stessa CNN, interrompe i suoi programmi per dare la breaking news (riverberata immediatamente anche in rete) e fa registrare allo stesso tempo un enorme afflusso di contatti sul suo sito web (all’una di notte saranno 88 milioni, una cifra semplicemente spaventosa).
Tutti questi elementi miscelati tra loro creano in rete un’attesa spasmodica per le parole di Obama. Touchscreen, tastiere e mouse, si fanno bollenti facendo aumentare la frenesia di minuto in minuto. E in questo contesto accade un fatto senza precedenti: durante la trasmissione del discorso televisivo di Obama viene pubblicata una media di 4000 tweet al secondo che, a detta stessa di Twitter, è la più alta mai raggiunta nella storia del social network.
Ad Iphone spento e mente lucida dovrebbe quindi venire in soccorso di chiunque un minimo di razionalità tale da suggerire che quanto è accaduto non si configura affatto come un evento ad appannaggio di rete e social network. Semmai quella a cui abbiamo assistito e partecipato è stata una grande celebrazione della vittoria di tipo cross mediale, frutto dell’intreccio e della bifocalità articolata tra gli schermi di televisioni e smartphone. In questo senso è interessante un sondaggio stilato da Cnet che, pur non avendo valore statistico per via della limitatezza e della non scientificità del campione, mette bene in evidenza come televisione, radio e passaparola abbiano rappresentato per più della metà degli intervistati la fonte della notizia della morte di Bin Laden.
Da un recente articolo di Giovanni Boccia Artieri pubblicato su Apogeonline dove si spiega come la strategia crossmediale voluta da quelle vecchie ciabatte che sono gli Windsowr abbia caricato di attesa il “Royal Wedding”, emerge come la rete non sia da considerare esclusivamente come luogo di propagazione dei contenuti, ma anche uno spazio strategico nella preparazione e nella costruzione di un evento. In questo senso l’aspettativa che si viene a creare online è un elemento strategico per coinvolgere il pubblico e traghettarlo a forza fino al clou dello spettacolo (che sia questo il discorso di Obama o il goffo bacio scambiato tra i due rampolli reali).
Utilizzando altre parole (e nello specifico quelle di Eirck Schonfeld) Twitter non sostituisce affatto i vecchi canali di informazione ma è in grado sia di amplificarne la potenza (come è stato nel caso del discorso presidenziale) sia di incanalare la propria audience verso gli altri media compresi quelli “vecchi”. E questo è tanto più vero dal momento che, molte delle informazioni diffuse al momento dell’uccisione di Bin Laden erano nient’altro che un fedele riverbero delle parole pronunciate in televisione dagli ancorman delle varie CNN, ABC,CBS etc etc .
Un’operazione ben architettata dallo staff di comunicazione di Obama? Un aiuto involontario giunto dal tweet di Urbahn Keith? Una strategia di comunicazione dell’amministrazione americana indirizzata a costruire un determinato rapporto di fiducia e vicinanza rispetto alla popolazione?
O forse più semplicemente un evento prodottosi a cavallo di quella che ormai è una commistione consolidata tra diversi sistemi di comunicazione che tendono a compenetrarsi progressivamente. Sta di fatto che il risultato è stato quello di una celebrazione mediale della morte del nemico, alla cui costruzione ha partecipato chiunque, attraverso le conversazioni che penetravano capillarmente, fuso orario dopo fuso orario, rimbalzando nella quotidianità di milioni di persone, dal piccolo al grande schermo, dai social network ai luoghi lavorativi, dalle televisioni alle chiacchiere nei bar.
E questo senza dimenticare che anche gli “stantii” quotidiani statunitensi (tanto quelli locali quanto quelli internazionali) hanno giocato un ruolo significativo traendone a loro volta un certo beneficio: prime pagine cambiate all’ultimo minuto e tirature raddoppiate. Era dai tempi della guerra del golfo che il Times non fermava le rotative.
Alla faccia della crisi degli “old media”.
.. e diversi palcoscenici
Più che blaterare scemenze sullo spodestamento della vecchie aristocrazie massmediatiche, oltre a rimarcare quella che è la strutturazione integrata del sistema informativo globale, ci pare piuttosto utile provare ad esaminare le funzioni politiche di tale spettacolo e come potrebbero essere agite.
Come sempre la lettura che si può fare non va a senso unico se anche Fox News, la voce del partito Repubblicano e del Tea Party, ha immediatamente provato a far passare l’evento come il frutto maturo della politica bushista.
È chiaro però che, se è vero che il nascondiglio in cui si rifugiava Bin Laden era tenuto sotto stretta sorveglianza da agosto, non è privo di senso interrogarsi sulle dinamiche temporali da cui è scaturita l’azione dei Navy Seals statunitensi.
Questo non significa ovviamente alimentare le sempiterne teorie del complotto o gli entusiasmi delle evergreen signore Fletcher in fregola di dietrologia (specialmente di fronte ad un evento come questo in cui è presumibilmente coinvolto tutto il battaglione dei servizi segreti statunitensi e mediorientali), ma significa piuttosto osservare il contesto che fa da sfondo all’eliminazione della nemesi dell’occidente, tenendo sempre presente il vecchio adagio clausewitizano che impone di chiederci quali sono gli scopi politici dell’utilizzo dello strumento militare.
Due brevi spunti di riflessione allora
Primo, è impossibile non notare come l’eliminazione di Bin Laden si concretizzi a pochi giorni dall’avvio della campagna elettorale per le elezioni di novembre 2012. Se pure a detta di molti commentatori la partita finale si giocherà sul nodo della disastrata situazione economica statunitense, è innegabile che per l’indebolito Obama, uscito mal concio dal banco di prova delle elezioni di midterm, fiaccato nella credibilità delle numerose promesse non mantenute e costretto infine a mostrare il suo certificato di nascita per provare le sue origini a stelle e strisce, l’aver messo a segno un colpo di questo calibro rappresenta un bel rilancio propagandistico di quel “Yes We Can!” che aveva segnato la sua elezione. Un “Yes We Can! già pronunciato bello forte nei discorsi istituzionali delle cene di gala del day after. Un “Yes We can!” a cui si affianca il nuovo emblematico slogan “It beguns with Us” per rigalvanizzare quella massa di volontari che nel 2008 fecero la fortuna dell’astro nascente dell’Illinois.
Secondo non si può dimenticare il quadro della rivoluzione araba che non ha usato il discorso dell’islamismo radicale come narrazione e pratica per accendere la scintilla e proseguire nello sviluppo di movimenti insurrezionali, che ovunque si sono mostrati indifferenti o decisamente ostili all’ideologia salafita individuata come nemica. A questo si aggiunga che, proprio nel giorno in cui Zuckerberg e Obama davano il via alla campagna elettorale nella sede centrale di Facebook inscenando un siparietto carico di significati, il Times eleggeva come uomo più influente del mondo Wael Ghoneim (il dirigente di Goolge rapito in Egitto dagli sgherri di Mubarak prima della caduta del regime). Non è difficile capire di conseguenza che, con la liquidazione di Bin Laden trasmessa in mondovisione, Obama si sia candidato di diritto di fronte alle masse arabe come uomo del rinnovamento della immagine statunitense nel mondo. Un rilancio che era uno degli obbiettivi del suo primo mandato e che potrebbe essere operato anche grazie all’esercizio di un soft-power yankee mediato dai grandi social media e dalla loro rappresentazione (e questo a maggior ragione nel momento in cui ormai gli uomini del capitalismo 2.0 sono attori di primissimo piano del gotha politico washingtoniano).
Insomma… lo spettacolo continua.
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