di Sergio Bologna. Fonte: controlacrisi
«Creare community, condividere conoscenze, progettare insieme, riconoscere che l’individualismo su cui è costruito tutto il sistema del vivere moderno è lo strumento più forte per ridurci in schiavitù» Esiste un territorio molto vasto della società civile italiana che in genere gli osservatori sociali e politici non frequentano: quello dell’associazionismo delle libere professioni. Un territorio con segni di urbanizzazione che risalgono ai primi anni del secolo scorso, quando la borghesia cercava di riorganizzarsi di fronte all’avanzare della grande impresa ed al parallelo montare di un’onda associativa tra il proletariato industriale e contadino. La grande impresa non fu accolta a braccia aperte, il suo potere emerse subito come un contraltare temibile delle rappresentanze politiche che la borghesia pensava di controllare, in particolare la borghesia professionale. Si temeva che la grande impresa stringesse un patto corporativo con il movimento operaio, che la sua forza di mercato soffocasse la piccola impresa. Quando i grandi gruppi industriali e finanziari cominciarono a controllare gli organi di stampa, condizionando sempre di più la politica, la borghesia delle professioni (avvocati, medici, notai) si accorse di essere già emarginata. Ma la grande impresa aveva prodotto qualcosa di più, aveva prodotto un diverso tipo di professioni, quelle tecniche – l’ingegnere era la più caratteristica – così diverse dalle professioni dette «liberali». Sia di qua che di là dell’Atlantico negli Anni Venti cominciarono a sorgere le Associazioni professionali, erano organismi privati ma chiedevano un riconoscimento pubblico, in virtù del ruolo sociale che medici, avvocati, architetti, notai, ingegneri svolgevano. La borghesia, ormai indebolita dal grande capitale, cercava tutele presso lo Stato. Nacquero così in Italia quegli Ordini professionali che l’Unione Europea, nella sua sindrome iperliberista, da alcuni anni vorrebbe sciogliere, equiparando gli studi professionali alle imprese. Sono 21 le professioni che in Italia sono riconosciute dallo Stato, e per ciascuna esistono delle regole di accesso alla professione. All’inizio tutte queste professioni venivano esercitate sotto forma di lavoro autonomo ed ancora oggi esse formano la parte più consistente delle professioni intellettuali esercitate con partita Iva. Alcune hanno forme di previdenza privata che tutelano la vecchiaia ma la crisi del lavoro di conoscenza negli ultimi anni le ha investite con grande violenza mettendo in difficoltà soprattutto i giovani che non si sentono più tutelati dagli Ordini. Alcune forme di accesso alla professione, come il praticantato obbligatorio dei giovani avvocati, sono diventate pratiche di sfruttamento, di diffusione di lavoro gratuito e sottopagato. Nelle grandi città, dove gli affitti sono andati alle stelle, questo produce un sistema insostenibile, costringendo molti giovani laureati a rinunciare. Ma non siamo ancora entrati nel territorio del lavoro autonomo di seconda generazione, che riguarda le centinaia di nuove professioni nate dal postfordismo, dall’esternalizzazione dei servizi e delle competenze, dall’informatica, dai nuovi stili di vita, insomma cose che i lettori di questo giornale conoscono benissimo. Anche queste professioni un poco alla volta hanno sentito il bisogno di organizzarsi e il modello al quale molte vorrebbero ispirarsi è proprio quello degli Ordini. Naturalmente non tutte sono composte da lavoratori autonomi, anzi, alcune sono composte da professionisti che lavorano nelle aziende, come quadri intermedi, come manager, responsabili di settore e altro. «Il problema non è così semplice – dicono i professionisti delle arti liberali. - Noi abbiamo delle competenze esclusive. Per essere un medico occorre aver seguito un preciso curriculum di studi. Per fare il consulente non c’è bisogno, può farlo chiunque, dunque non siete dei professionisti, siete dei freelancer, in sostanza dei mercenari». Hanno ragione ed infatti l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato (Acta) che è stata costituita a Milano qualche anno fa non è affatto d’accordo nel riprodurre il modello degli Ordini come forma associativa dei lavoratori autonomi di seconda generazione. Su questo giornale finora si è parlato soltanto di crisi di rappresentanza del lavoro autonomo con riferimento al modello sindacale, si è stati attenti a quel che può succedere dentro la Cgil o dentro le altre sigle confederali, si è parlato della poca sensibilità della sinistra in generale verso questi ceti, ma probabilmente è sfuggito quest’altro aspetto che è forse altrettanto se non più importante del primo. Non c’è da fare i conti solo con la storia e le ideologie e le correnti e i tormentoni degli ex comunisti, c’è da fare i conti con le ideologie borghesi del «professionalismo». Secondo alcuni storici e sociologi, il pensiero del professionalismo avrebbe avuto ruolo costituente nella definizione della middle class americana di fine Ottocento, avrebbe costituito la spina dorsale della sua identità come «classe unica». Avrebbe creato costumi di pensiero duri a morire e ce ne accorgiamo bene ancora oggi. In fin dei conti un confronto serio con questa ideologia non è mai stato fatto, perché la si è considerata retaggio dell’Ottocento. In realtà essa si è incistata nell’opinione comune e là rimane senza che nessuno vada a stanarla ed a chiedersi in che misura c’entra ancora con la modernità. Da questo punto di vista il secondo capitolo del nostro libro Vita da freelance – quello intitolato Da gentiluomini a mercenari e che avrebbe dovuto essere il titolo del libro se l’editore non avesse prestato orecchio ai suoi «commerciali» – assume un ruolo fondamentale nel discorso. Durante un secolo l’idea di professione ha subito notevoli cambiamenti dovuti alle trasformazioni produttive e della società in generale e ciò significa che una componenteimportante del ceto medio ha cambiato atteggiamento per quanto riguarda il rapporto identità-lavoro. Pierre Bourdieu diceva che i membri delle professioni liberali si sentono appartenenti a uno specifico genere umano. Ma l’aura che circondava la professione liberale è svanita poco a poco. Se l’ideologia del professionalismo aveva tuttavia ragioni molto solide per affermarsi, non si capisce perché le nuove professioni dovrebbero farla propria e dovrebbero stabilire controlli all’accesso, codici etici e quant’altro. Una bella domanda è quella che si sono fatti redattori e lettori della Harvard Business Review: il business è una professione o no? Deve rispettare un codice etico o no? Io sono d’accordo con quelli che sostengono che il business non è una professione e pertanto parlare di codici etici è un modo semmai per mascherare il fatto che nel mercato le regole non valgono. Così come sono d’accordo nel considerarmi un mercenario quando lavoro per conto terzi. Noi siamo merce lavoro, diceva il vecchio Marx, scambiamo le nostre conoscenze con salari, onorari, stipendi, parcelle ecc.. Per questo considero il lavoro gratuito, in qualunque circostanza, un crimine. Il problema dell’etica si colloca in un’altra sfera, non esiste in quanto tale. Esiste la visione che l’individuo ha di questa società, la sua disponibilità o meno a volerla cambiare, i sacrifici che è disposto a fare per questo, i rischi che è disposto a correre, il lavoro gratuito che è disposto ad investirci, i soldi di tasca sua che è disposto a spenderci. Ma tutto questo fa parte di una visione politica, l’etica professionale c’entra assai poco o comunque vi è largamente subordinata. Un’altra ragione per rifiutare l’associazionismo tradizionale delle professioni è che esso divide, segmenta, esclude, compartimenta mentre oggi una parte consistente del nuovo lavoro postfordista, che non rientra nella fattispecie del lavoro subordinato, ha bisogno di organizzazioni trasversali di difesa dei suoi interessi, che si confrontino con obbiettivi di lotta comuni. È necessaria quindi una vera e propria campagna contro l’individualismo che attanaglia troppi lavoratori delle nuove professioni. Creare community, creare coalizione, condividere conoscenze, progettare insieme, riconoscere che l’individualismo su cui è costruito tutto il sistema del vivere moderno è lo strumento più forte per ridurci in schiavitù. Le tecnologie mobili di comunicazione tendono a creare di noi delle monadi autosufficienti. Il web è l’ambiente di lavoro dei nuovi professionisti della conoscenza, lo riconoscono come proprio tanto quanto gli operai siderurgici riconoscevano come propria la sala delle colate. La campagna contro l’individualismo si deve oggi spostare in gran parte sul versante del web, è proprio là dentro che si costruisce un nuovo tipo di androide ed è là dentro che noi dobbiamo riaffermare l’uomo come essere sociale. Nel discorso del professionalismo, per esempio, tematiche di questo genere sono assenti. Non ci si chiede che cosa voglia dire il web come ambiente di lavoro e costruzione di rapporti umani e professionali. E non c’è discorso, a mio avviso, sul lavoro postfordista di conoscenza oggi che possa evitare di partire dalla Rete e arrivare alla Rete. «We are the workforce of the future» è uno degli slogan dei freelancers americani. È probabile che la soluzione ai problemi della rappresentanza, se ancora si può usare questo termine, la si trovi più facilmente nella Rete che altrove, il professionalismo borghese e il modello sindacale operaio sono ambedue figli del fordismo.
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