Fonte: controlacrisi
La rivista Polemos ha dedicato un intero numero al tema del lavoro. Il fascicolo è intitolato "Il lavoro in questione" ed ospita importanti contributi di filosofi e studiosi di livello internazionale e di giovani ricercatori che da tempo si dedicano a questo tema. Sul sito del Centro per la Riforma dello Stato (CRS) trovate quattro tra i principali contributi in vista di un seminario di approfondimento che si svolgera nella sede del CRS il 12 Maggio 2011 alle ore 15.30.
Vi proponiamo l'intervista a Mario Tronti.
Questo numero della rivista è dedicato al tema del lavoro. Abbiamo constatato che nei suoi interventi più recenti Lei ha menzionato spesso la necessità di ripartire dalla dimensione del lavoro, esplicitando l’urgenza politica di tale necessità. Come motiva questa urgenza? Ritiene che il lavoro oggi sia ancora un terreno di antagonismo e che sia possibile ripartire politicamente dal lavoro per produrre conflitto?
C’è un apparato ideologico oggi molto forte e consistente, che è cresciuto
nell’arco degli ultimi due-tre decenni, diciamo dagli anni ’80 in poi, e che ha riconfigurato il rapporto tra il lavoro e il resto del mondo, tra la società e la politica, le forme istituzionali e rappresentative, i sindacati, i partiti. Questa corrente di pensiero riconosce che sicuramente nel ’900 c’è stata una centralità del tema lavoro, ma afferma che adesso non esiste più, e che quindi il lavoro è diventato un tratto marginale. La cosa preoccupante è non tanto che tale apparato ideologico sia stato
agito dalle classi dominanti, ma il fatto che sia stato introiettato anche da parte di
quelle forze che dovrebbero essere alternative. Queste ultime, nell’orbita della sinistra, hanno assunto questo punto di vista ed hanno cominciato a interessarsi ad
altre contraddizioni che sarebbero presenti oggi. Non hanno escluso la contraddizione
del lavoro, ma hanno fatto un’operazione di questo tipo: hanno posto la
contraddizione del lavoro insieme ad altre contraddizioni più o meno sullo stesso
livello: la grande contraddizione ambientale, per esempio, che è considerata come
decisiva anche nella critica al capitalismo contemporaneo; la questione di genere
che è una contraddizione reale, emersa con grande forza negli ultimi decenni; e la
contraddizione dei diritti civili in base alla quale, essendoci stato un processo di
decollettivizzazione e individualizzazione della società, si ritiene prioritario ripartire dal mondo dei diritti individuali che vengono negati e messi in crisi. In questo modo la contraddizione del lavoro è scomparsa, perché non è una contraddizione che
può essere appiattita, e appena perde questa centralità viene meno.
Io, invece, penso che il punto di partenza non è quasi mai la soggettività propria,
ma l’oggettività del proprio avversario. La politica deve individuare prima il
suo “contro chi”. Il “contro chi” è la struttura fondamentale del capitalismo contemporaneo, come si presenta oggi, nelle forme mutate sicuramente rispetto al
Novecento classico. Ora, a parte capitale e lavoro, tutte le altre contraddizioni sono
riassorbibili dentro al sistema complessivo. Può esistere un capitalismo che intelligentemente si fa carico della questione ambientale. Non la vedo come una questione
di rottura al suo interno, insanabile, come a volte viene declinata. Quando
Obama, ad esempio, dice «energie rinnovabili», individua il fatto che, appunto, le
energie rinnovabili possono essere un fattore di rilancio dell’economia, il grande
business del futuro. La stessa cosa vale per i diritti. Oggi abbiamo una “sinistra dei
diritti” che si è sostituita a una sinistra che, una volta, chiamavamo “dei bisogni”
oppure “dei conflitti”. Tutti questi diritti è possibile che siano riassorbibili dentro
un ordine sistemico capitalista. Si può chiudere Guanatanamo e non fare più le
cose che faceva la Cia a Guanatanamo e il capitalismo americano può continuare
ad esistere tranquillamente. Altrettanto vale per i diritti civili delle minoranze.
Io parto sempre dall’idea che il capitalismo è la più grande forza inclusiva che
sia mai stata realizzata dalle classi dominanti. Non è vero che esclude, include, anzi
ha un’enorme capacità inclusiva. Il presidente nero alla Casa Bianca è l’ultima prova
di questa grande capacità di inclusione.
Da cosa deriva la priorità che lei accorda al lavoro, la sua inassimilabilità nei confronti del capitale? E soprattutto vale ancora oggi?
Dipende dal modo in cui il lavoro è stato pensato da Marx, sulla scia delle indicazioni
hegeliane e, soprattutto, giovani hegeliane. Hegel aveva capito che il lavoro
libero era la modernità, era un elemento fondamentale della soggettività moderna.
Marx partendo da questo dato ha affermato che non solo il lavoro è un elemento
della soggettività moderna, ma è un elemento incompatibile, in ultima istanza, con
la struttura del capitale.
Se noi mettiamo il lavoro direttamente in rapporto con il capitale – è questa
l’operazione che io ho cercato di fare con Operai e capitale –, quanto più cresce la
soggettività nel lavoro, tanto più entra in difficoltà l’oggettività del capitalismo.
Tutto questo si misura nel rapporto salario-profitto: quanto più aumenta il salario
a danno del profitto, tanto più il profitto capitalistico entra direttamente in crisi.
L’operazione novecentesca, molto abile nel tentativo di includere il lavoro stesso
nel capitale, è stata quella di evitare il confronto diretto tra lavoro e capitale, di
stornarlo per altre vie, di evitare sempre quella conflittualità diretta, che teoricamente dovrebbe mettere in crisi la struttura del capitale. Dico “teoricamente” perché in mezzo c’è qualche cosa che non nasce automaticamente, spontaneamente.
Perché la soggettività-lavoro non è una soggettività che già c’è, è una soggettività
che va costruita, che va organizzata, che va fatta crescere, motivata. E quindi in
questo rapporto diretto lavoro-capitale c’è un elemento che deve intervenire, e che
è intervenuto sempre da parte capitalistica e molto meno da parte operaia, ed è la
politica. Il capitale ha sempre fatto in modo di far intervenire l’elemento politico al
fine di governare il rapporto diretto tra capitale e lavoro. Per esempio quando con
la grande crisi degli anni ’30 c’è stato l’immediato pericolo di un crollo del capitalismo – l’unico momento in cui veramente questo crollo è sembrato possibile –, la
soluzione che il capitale ha trovato, la grande risposta keynesiana-roosveltiana, non
a caso, ha introdotto un elemento politico nella struttura economica. Non solo il
New Deal, ma anche tutta la teoria keynesiana dello stato sociale. È stata una risposta
al fatto che era talmente cresciuta la forza d’impatto delle lotte che si erano sviluppate negli anni ’20-’30, in Europa come negli Stati Uniti, che il pericolo di un
confronto diretto tra operai e capitale era imminente. Allora questa uscita politica
dalla crisi è stata la risposta del capitale.
In Operai e capitale, Lei ricostruisce un duplice movimento, da un lato quello per cui la
classe operaia trasforma il capitalismo e lo costringe a mutare forma di dominio, dall’altro quello per cui il capitalismo si rafforza proprio traendo vantaggio dalle innovazioni e perfino dalle rivendicazioni introdotte dalla classe operaia. È questa seconda linea che ha prevalso?
Si, è successo questo, ha prevalso la seconda strada. Però la situazione è rimasta
notevolmente equilibrata per molti decenni, dopo questo intervento politico del
capitale nell’economia e nella società. Perché il compromesso keynesiano, che poi
era il compromesso dell’orientamento democratico, era un compromesso tra due
punti di forza che avevano pari potenza e che perciò hanno trovato punto di equilibrio.
Tutto questo è andato avanti nel corso dei cosiddetti Trenta gloriosi, gli anni
che vanno dal dopoguerra alla metà degli anni ’70, durante i quali l’equilibrio delle
forze in gioco è stato abbastanza evidente. Teniamo presente i fattori politici che
agivano. Intanto, c’era un movimento operaio organizzato a livello mondiale, c’era
una Seconda Internazionale, una Terza Internazionale, i grandi partiti di massa e
c’era l’Unione Sovietica, che non era un elemento di poco conto. L’esperimento
dell’Urss non va letto per quello che era, o meglio va letto per quello che era, ma
va letto anche per quello che rappresentava. Significava l’idea di avere dietro le
spalle qualcosa di grande, che forniva motivazione alle lotte e produceva capacità
di mobilitazione. Costituiva un apparato di credenze ideologiche che aveva un peso
indiscutibile: in altre parole, l’idea, non come si dice oggi che “un altro mondo è
possibile”, ma che un altro mondo già c’era. Che è diverso. Poi non era un altro
mondo, l’abbiamo capito dopo. Però allora lo sembrava, a tanti intellettuali ma
anche a livello collettivo, culturale.
La storia, che comincia dagli anni ’80 in poi è la storia di oggi, quando il movimento
operaio si è indebolito. Si è indebolito prima ancora che si assistesse al crollo
dell’Unione Sovietica, quel mondo “alternativo”, perché l’89 viene alla fine di un
percorso di indebolimento generale per cui non poteva che crollare tutto insieme.
A quel punto è scomparsa la contraddizione del lavoro. E molti hanno festeggiato.
Questo è il dramma.
Una volta venuto meno il sistema di mediazione che garantiva l’assenza di un contatto diretto tra lavoro e capitale – il compromesso fordista, keynesiano –, venuto meno anche il contrappeso della scissione dei due mondi, Unione Sovietica vs. Stati Uniti, e, infine, venuto meno quel complesso sistemico che in qualche modo garantiva al lavoro una sua inclusione all’interno del sistema, non le sembra paradossale che, nonostante questo, la contraddizione del lavoro sia ben lungi dal farsi palese? Come è possibile questa assenza? Quali sistemi sono stati messi in atto dal capitale per impedire che la contraddizione emergesse e ci fosse un contatto diretto tra capitale e lavoro?
C’è stata una lotta di classe fatta soltanto dall’altra parte, al contrario. Il passaggio
che avviene, dagli anni ’80 in poi, è un passaggio epocale, da non sottovalutare.
C’è stata una grande trasformazione del capitalismo che è questa sorta di Proteo,
capace di trasformarsi e di migliorarsi perché ha sempre bisogno di avere una forza
propria di molto superiore a quella del suo avversario. Proprio sulla base di quel
compromesso che si era realizzato durante i Trenta gloriosi e per smontare quel
compromesso, cioè per spezzare quell’equilibrio delle forze, è stata immessa una
dinamica trasformatrice della struttura capitalista. Ha giocato molto a suo favore il
grande sviluppo tecnologico che è stato introdotto nel processo lavorativo. Si è
cercato di rendere sempre meno strategica la presenza del lavoro dentro la produzione stessa, con la sostituzione del lavoro vivo per mezzo della macchina. Questa
era una cosa che era già implicita in tutta la fase fordista-taylorista, ma che dopo ha
avuto uno sviluppo eccezionale, con vari tentativi che tendevano, ad esempio, a
smontare quel processo lavorativo che teneva ancora insieme tra loro i singoli operai.
Ci si è accorti che la catena di montaggio era un elemento politico, perché teneva
insieme, faceva classe: gli operai, l’uno dietro l’altro, formavano una collettività.
Smontare la catena di montaggio e trovare altre forme per il processo lavorativo
che scomponevano la filiera è stata un’operazione geniale perché ha distrutto proprio
il collettivo, “l’operaio collettivo”.
Ecco, sono tutti processi reali che sono stati funzionali alla trasformazione capitalistica e molto meno funzionali ad un processo di crescita antagonistica della
classe operaia. A proposito di antagonismo, il problema è sempre quello, che il
lavoro ha una soggettività potenziale che, per passare all’atto, in termini aristotelici,
ha bisogno di un altro tipo di soggettività, cioè di una soggettività politica e di una
forma di organizzazione politica. Qui c’è la disputa eterna che ha percorso anche la
storia del movimento operaio tra l’ala spontaneista, l’ala luxemburghiana e l’ala,
diciamo, leninista. Io mi sono sempre riconosciuto in quest’ultima perché penso
che la forma organizzata sia un elemento imprescindibile per i conflitti sociali e
che l’elemento della coscienza nella lotta non sia innato nella figura operaia, ma
che sia un elemento che va immesso dall’esterno.
Perché la soggettività politica non può nascere nella realtà lavorativa e deve in qualche modo essere introdotta dall’esterno?
Il lavoro non è politico, perché è immerso in una struttura materiale – anche
quando è lavoro immateriale – che è economica. Il lavoratore produce merci, così
come la merce produce denaro, così come il denaro produce il capitale. Siamo
dentro un percorso economico. Il lavoro è una categoria economica che, però, ha
una potenzialità politica che non ha nessun’altra categoria. Il lavoro ha una potenzialità politica, perché minaccia il capitale dall’interno, perché è una parte interna del capitale. Il lavoro è un pezzo di capitale, è, come diceva Marx, capitale variabile.
Poiché è una parte interna, se si arriva alla consapevolezza politica di sottrarre
questa parte interna al capitale, si arriva a mettere quest’ultimo di fronte alla sua
contraddizione mortale. Ma, ripeto, il lavoro in sé non ha immediatamente una sua
attualità politica, ha solo una potenzialità.
Qui dobbiamo distinguere tra classe operaia e movimento operaio. La classe
operaia sono gli operai effettivamente esistenti, in carne ed ossa, i singoli operai
diventati classe attraverso la coscienza. Il movimento operaio è una cosa diversa,
cioè è la classe operaia più le sue organizzazioni e non solo le sue organizzazioni,
ma anche la sua teoria. Il movimento operaio è stata questa grande soggettività
politica moderna, che ha fatto la seguente operazione: ha preso la classe operaia,
l’ha dotata di un apparato teorico, quindi di una cultura operaia, che è quella marxista,
e di una forma organizzata. La concentrazione operaia ha favorito la capacità
di autonoma organizzazione, la socializzazione, la cooperazione. Non a caso
un’altra trovata del capitale dagli anni ’80 in poi, è stata quella di smontare le grandi
concentrazioni operaie, di diffondere la produzione a livelli aziendali, perché
capiva che la concentrazione operaia era pericolosa. Oggi siamo di fronte a una
classe operaia non concentrata, ma individualizzata e diffusa nella catena delle medie
e piccole industrie.
La figura dell’operaio si distingue dal borghese, perché è una figura antiindividualista:
essere operaio vuol dire essere insieme ad altri, non può nascere un individualismo
operaio. Quando nasce l’individualismo operaio, come accade oggi, è il
momento della sconfitta, e d’altra parte, è lo stesso padronato che cerca di farlo
nascere. Tutta la riforma dei contratti negli ultimi anni è consistita in questo, nel
soddisfare l’ideale del padrone ad avere un rapporto diretto con il singolo operaio,
invece che con la collettività organizzata. Questo è uno strumento di indebolimento
delle difese operaie e di smantellamento del movimento operaio.
Esso è stato l’ultima grande forma della soggettività politica: la fine del movimento
operaio ha coinciso con la fine della politica, con il ‘tramonto della politica’.
Cosa c’è oggi al posto della politica tramontata?
C’è il deserto. Io oggi parlerei esplicitamente di fine del movimento operaio,
questa grande soggettività che sicuramente sta dietro le nostre spalle. Credo che sia
stata un’esperienza irripetibile. Il problema non è ricostruire il movimento operaio,
ma farsene eredi. Farsi eredi della storia operaia significa anche farsi eredi della
lunga, lunghissima storia delle classi subalterne, di tutte le rivolte, da quella di Spartaco, alle guerre dei contadini nella Germania di Thomas Müntzer, passando per le
sette eretiche medievali, fino alle emergenze sovversive interne alle rivoluzioni
borghesi – penso alla Rivoluzione Inglese, ai Livellatori, alla stessa Rivoluzione
Francese, al ’48. Questa è la nostra storia.
Quella che oggi si chiama sinistra può essere credibilmente sinistra soltanto se
dichiara apertamente di essere l’erede legittima del movimento operaio, della sua
lunga storia, che è nata con la rivoluzione industriale: una storia autonoma dentro
la modernità, di esperienze, di cultura, di socialità di organizzazione. Bisogna che la
sinistra la rivendichi come la propria storia e da qui riparta per costruire qualcos’altro.
La classe operaia ha operato una rottura nella storia delle classi subalterne
perché, per la prima volta, non si è più sentita classe subalterna, non ha più giocato
nella storia come classe dominata, ma come una classe dirigente e anche come
classe potenzialmente dominante. Dobbiamo capire in che modo c’è una potenzialità
nella fine della classe operaia, nel senso che la fine della classe operaia ci ridà in
mano un orizzonte di lavoro ampio, più esteso e più vasto, visto che non c’è più la
classe ristretta, ma c’è una struttura diffusa del lavoro che dovrebbe innanzitutto
essere indagata. Un esempio è dato dall’emergere di figure come quella del lavoratore
autonomo di prima, seconda, terza generazione che ha una sua specificità poiché
incarna una forma per cui il lavoratore è nello stesso tempo padrone, cioè padrone
di se stesso, sfruttatore di se stesso. Queste situazioni meritano di essere
analizzate e comprese attentamente.
Nella fine del movimento operaio e nel tentativo di raccogliere l’eredità di quest’ultimo, cosa accade di nuovo e come muta la politica?
Per me la politica è essenzialmente conflitto e il criterio del politico è quello
dell’amico-nemico schmittianamente inteso. Metto in conto la possibilità che questo
criterio del politico possa essere superato e potrei affidarmi alla creatività di
altre forme della politica. Discuto molto con l’orizzonte del femminismo, soprattutto
con quello italiano, con il pensiero della differenza. Loro mi rimproverano
sempre questo accanimento sul criterio amico-nemico del conflitto, e ripropongono
una concezione della politica come aggregazione, come rapporto di scambio.
Forse questo potrebbe valere anche per il lavoro, nella misura in cui bisognerebbe
ritessere le fila di questa struttura del lavoro diffusa e recuperare una forza maggiore
perfino di quella che aveva la classe operaia. I lavoratori, in quanto lavoratori,
sono una struttura sociale collettiva dentro cui riconoscersi, che, se messa insieme
e organizzata politicamente, può esprimere un’altra idea di società, di mondo e
forse, mettiamo in conto anche questo, un’altra idea di politica.
Abbandonare l’orizzonte del conflitto, della contrapposizione, non rischia di essere un’opzione politica fallimentare nei confronti del capitale?
Bisognerebbe avere la capacità di una trasformazione rivoluzionaria nei tempi lunghi. La rivoluzione non è più pensata come un salto immediato, ma come un processo. Qui ritorniamo all’universo di una politica che non è soltanto quella schmittiana, ma ad un’idea della politica moderna più articolata, quella machiavelliana.
Mi riferisco all’idea che bisogna stare nella contingenza, nella congiuntura e nello stesso tempo bisogna essere liberi dalla contingenza e dalla congiuntura. Bisogna
stare dentro e fuori contemporaneamente, anzi “dentro e contro”, come si diceva una volta. Questa mi sembra proprio la dimensione globale e orizzontale che il lavoro può esercitare. Che cos’è questo modello alternativo di società se non un rovesciamento del rapporto capitale-lavoro? Io non credo che sia possibile un compromesso, un equilibrio tra le due potenze. Un modello sociale alternativo è l’idea che il lavoro comanda e l’impresa ubbidisce, cioè un rovesciamento che ponga fine allo sfruttamento.
La sinistra dovrebbe riuscire a narrare questo modello, a farlo emergere, a farlo vedere. Le cose bisogna farle vedere, non si vedono da sole, perché Marx ci ha insegnato che c’è la realtà e c’è l’apparenza, il reale e l’ideologico, si tratta di squarciare il velo ideologico, narrare il reale. Narrare il reale lo può fare soltanto la sinistra politica. Torniamo sempre al dunque, finché non ci sarà una sinistra politica, non ci sarà nessuna possibilità di liberazione del lavoro. Questo è il punto essenziale della cosa.
La rivista Polemos ha dedicato un intero numero al tema del lavoro. Il fascicolo è intitolato "Il lavoro in questione" ed ospita importanti contributi di filosofi e studiosi di livello internazionale e di giovani ricercatori che da tempo si dedicano a questo tema. Sul sito del Centro per la Riforma dello Stato (CRS) trovate quattro tra i principali contributi in vista di un seminario di approfondimento che si svolgera nella sede del CRS il 12 Maggio 2011 alle ore 15.30.
Vi proponiamo l'intervista a Mario Tronti.
Questo numero della rivista è dedicato al tema del lavoro. Abbiamo constatato che nei suoi interventi più recenti Lei ha menzionato spesso la necessità di ripartire dalla dimensione del lavoro, esplicitando l’urgenza politica di tale necessità. Come motiva questa urgenza? Ritiene che il lavoro oggi sia ancora un terreno di antagonismo e che sia possibile ripartire politicamente dal lavoro per produrre conflitto?
C’è un apparato ideologico oggi molto forte e consistente, che è cresciuto
nell’arco degli ultimi due-tre decenni, diciamo dagli anni ’80 in poi, e che ha riconfigurato il rapporto tra il lavoro e il resto del mondo, tra la società e la politica, le forme istituzionali e rappresentative, i sindacati, i partiti. Questa corrente di pensiero riconosce che sicuramente nel ’900 c’è stata una centralità del tema lavoro, ma afferma che adesso non esiste più, e che quindi il lavoro è diventato un tratto marginale. La cosa preoccupante è non tanto che tale apparato ideologico sia stato
agito dalle classi dominanti, ma il fatto che sia stato introiettato anche da parte di
quelle forze che dovrebbero essere alternative. Queste ultime, nell’orbita della sinistra, hanno assunto questo punto di vista ed hanno cominciato a interessarsi ad
altre contraddizioni che sarebbero presenti oggi. Non hanno escluso la contraddizione
del lavoro, ma hanno fatto un’operazione di questo tipo: hanno posto la
contraddizione del lavoro insieme ad altre contraddizioni più o meno sullo stesso
livello: la grande contraddizione ambientale, per esempio, che è considerata come
decisiva anche nella critica al capitalismo contemporaneo; la questione di genere
che è una contraddizione reale, emersa con grande forza negli ultimi decenni; e la
contraddizione dei diritti civili in base alla quale, essendoci stato un processo di
decollettivizzazione e individualizzazione della società, si ritiene prioritario ripartire dal mondo dei diritti individuali che vengono negati e messi in crisi. In questo modo la contraddizione del lavoro è scomparsa, perché non è una contraddizione che
può essere appiattita, e appena perde questa centralità viene meno.
Io, invece, penso che il punto di partenza non è quasi mai la soggettività propria,
ma l’oggettività del proprio avversario. La politica deve individuare prima il
suo “contro chi”. Il “contro chi” è la struttura fondamentale del capitalismo contemporaneo, come si presenta oggi, nelle forme mutate sicuramente rispetto al
Novecento classico. Ora, a parte capitale e lavoro, tutte le altre contraddizioni sono
riassorbibili dentro al sistema complessivo. Può esistere un capitalismo che intelligentemente si fa carico della questione ambientale. Non la vedo come una questione
di rottura al suo interno, insanabile, come a volte viene declinata. Quando
Obama, ad esempio, dice «energie rinnovabili», individua il fatto che, appunto, le
energie rinnovabili possono essere un fattore di rilancio dell’economia, il grande
business del futuro. La stessa cosa vale per i diritti. Oggi abbiamo una “sinistra dei
diritti” che si è sostituita a una sinistra che, una volta, chiamavamo “dei bisogni”
oppure “dei conflitti”. Tutti questi diritti è possibile che siano riassorbibili dentro
un ordine sistemico capitalista. Si può chiudere Guanatanamo e non fare più le
cose che faceva la Cia a Guanatanamo e il capitalismo americano può continuare
ad esistere tranquillamente. Altrettanto vale per i diritti civili delle minoranze.
Io parto sempre dall’idea che il capitalismo è la più grande forza inclusiva che
sia mai stata realizzata dalle classi dominanti. Non è vero che esclude, include, anzi
ha un’enorme capacità inclusiva. Il presidente nero alla Casa Bianca è l’ultima prova
di questa grande capacità di inclusione.
Da cosa deriva la priorità che lei accorda al lavoro, la sua inassimilabilità nei confronti del capitale? E soprattutto vale ancora oggi?
Dipende dal modo in cui il lavoro è stato pensato da Marx, sulla scia delle indicazioni
hegeliane e, soprattutto, giovani hegeliane. Hegel aveva capito che il lavoro
libero era la modernità, era un elemento fondamentale della soggettività moderna.
Marx partendo da questo dato ha affermato che non solo il lavoro è un elemento
della soggettività moderna, ma è un elemento incompatibile, in ultima istanza, con
la struttura del capitale.
Se noi mettiamo il lavoro direttamente in rapporto con il capitale – è questa
l’operazione che io ho cercato di fare con Operai e capitale –, quanto più cresce la
soggettività nel lavoro, tanto più entra in difficoltà l’oggettività del capitalismo.
Tutto questo si misura nel rapporto salario-profitto: quanto più aumenta il salario
a danno del profitto, tanto più il profitto capitalistico entra direttamente in crisi.
L’operazione novecentesca, molto abile nel tentativo di includere il lavoro stesso
nel capitale, è stata quella di evitare il confronto diretto tra lavoro e capitale, di
stornarlo per altre vie, di evitare sempre quella conflittualità diretta, che teoricamente dovrebbe mettere in crisi la struttura del capitale. Dico “teoricamente” perché in mezzo c’è qualche cosa che non nasce automaticamente, spontaneamente.
Perché la soggettività-lavoro non è una soggettività che già c’è, è una soggettività
che va costruita, che va organizzata, che va fatta crescere, motivata. E quindi in
questo rapporto diretto lavoro-capitale c’è un elemento che deve intervenire, e che
è intervenuto sempre da parte capitalistica e molto meno da parte operaia, ed è la
politica. Il capitale ha sempre fatto in modo di far intervenire l’elemento politico al
fine di governare il rapporto diretto tra capitale e lavoro. Per esempio quando con
la grande crisi degli anni ’30 c’è stato l’immediato pericolo di un crollo del capitalismo – l’unico momento in cui veramente questo crollo è sembrato possibile –, la
soluzione che il capitale ha trovato, la grande risposta keynesiana-roosveltiana, non
a caso, ha introdotto un elemento politico nella struttura economica. Non solo il
New Deal, ma anche tutta la teoria keynesiana dello stato sociale. È stata una risposta
al fatto che era talmente cresciuta la forza d’impatto delle lotte che si erano sviluppate negli anni ’20-’30, in Europa come negli Stati Uniti, che il pericolo di un
confronto diretto tra operai e capitale era imminente. Allora questa uscita politica
dalla crisi è stata la risposta del capitale.
In Operai e capitale, Lei ricostruisce un duplice movimento, da un lato quello per cui la
classe operaia trasforma il capitalismo e lo costringe a mutare forma di dominio, dall’altro quello per cui il capitalismo si rafforza proprio traendo vantaggio dalle innovazioni e perfino dalle rivendicazioni introdotte dalla classe operaia. È questa seconda linea che ha prevalso?
Si, è successo questo, ha prevalso la seconda strada. Però la situazione è rimasta
notevolmente equilibrata per molti decenni, dopo questo intervento politico del
capitale nell’economia e nella società. Perché il compromesso keynesiano, che poi
era il compromesso dell’orientamento democratico, era un compromesso tra due
punti di forza che avevano pari potenza e che perciò hanno trovato punto di equilibrio.
Tutto questo è andato avanti nel corso dei cosiddetti Trenta gloriosi, gli anni
che vanno dal dopoguerra alla metà degli anni ’70, durante i quali l’equilibrio delle
forze in gioco è stato abbastanza evidente. Teniamo presente i fattori politici che
agivano. Intanto, c’era un movimento operaio organizzato a livello mondiale, c’era
una Seconda Internazionale, una Terza Internazionale, i grandi partiti di massa e
c’era l’Unione Sovietica, che non era un elemento di poco conto. L’esperimento
dell’Urss non va letto per quello che era, o meglio va letto per quello che era, ma
va letto anche per quello che rappresentava. Significava l’idea di avere dietro le
spalle qualcosa di grande, che forniva motivazione alle lotte e produceva capacità
di mobilitazione. Costituiva un apparato di credenze ideologiche che aveva un peso
indiscutibile: in altre parole, l’idea, non come si dice oggi che “un altro mondo è
possibile”, ma che un altro mondo già c’era. Che è diverso. Poi non era un altro
mondo, l’abbiamo capito dopo. Però allora lo sembrava, a tanti intellettuali ma
anche a livello collettivo, culturale.
La storia, che comincia dagli anni ’80 in poi è la storia di oggi, quando il movimento
operaio si è indebolito. Si è indebolito prima ancora che si assistesse al crollo
dell’Unione Sovietica, quel mondo “alternativo”, perché l’89 viene alla fine di un
percorso di indebolimento generale per cui non poteva che crollare tutto insieme.
A quel punto è scomparsa la contraddizione del lavoro. E molti hanno festeggiato.
Questo è il dramma.
Una volta venuto meno il sistema di mediazione che garantiva l’assenza di un contatto diretto tra lavoro e capitale – il compromesso fordista, keynesiano –, venuto meno anche il contrappeso della scissione dei due mondi, Unione Sovietica vs. Stati Uniti, e, infine, venuto meno quel complesso sistemico che in qualche modo garantiva al lavoro una sua inclusione all’interno del sistema, non le sembra paradossale che, nonostante questo, la contraddizione del lavoro sia ben lungi dal farsi palese? Come è possibile questa assenza? Quali sistemi sono stati messi in atto dal capitale per impedire che la contraddizione emergesse e ci fosse un contatto diretto tra capitale e lavoro?
C’è stata una lotta di classe fatta soltanto dall’altra parte, al contrario. Il passaggio
che avviene, dagli anni ’80 in poi, è un passaggio epocale, da non sottovalutare.
C’è stata una grande trasformazione del capitalismo che è questa sorta di Proteo,
capace di trasformarsi e di migliorarsi perché ha sempre bisogno di avere una forza
propria di molto superiore a quella del suo avversario. Proprio sulla base di quel
compromesso che si era realizzato durante i Trenta gloriosi e per smontare quel
compromesso, cioè per spezzare quell’equilibrio delle forze, è stata immessa una
dinamica trasformatrice della struttura capitalista. Ha giocato molto a suo favore il
grande sviluppo tecnologico che è stato introdotto nel processo lavorativo. Si è
cercato di rendere sempre meno strategica la presenza del lavoro dentro la produzione stessa, con la sostituzione del lavoro vivo per mezzo della macchina. Questa
era una cosa che era già implicita in tutta la fase fordista-taylorista, ma che dopo ha
avuto uno sviluppo eccezionale, con vari tentativi che tendevano, ad esempio, a
smontare quel processo lavorativo che teneva ancora insieme tra loro i singoli operai.
Ci si è accorti che la catena di montaggio era un elemento politico, perché teneva
insieme, faceva classe: gli operai, l’uno dietro l’altro, formavano una collettività.
Smontare la catena di montaggio e trovare altre forme per il processo lavorativo
che scomponevano la filiera è stata un’operazione geniale perché ha distrutto proprio
il collettivo, “l’operaio collettivo”.
Ecco, sono tutti processi reali che sono stati funzionali alla trasformazione capitalistica e molto meno funzionali ad un processo di crescita antagonistica della
classe operaia. A proposito di antagonismo, il problema è sempre quello, che il
lavoro ha una soggettività potenziale che, per passare all’atto, in termini aristotelici,
ha bisogno di un altro tipo di soggettività, cioè di una soggettività politica e di una
forma di organizzazione politica. Qui c’è la disputa eterna che ha percorso anche la
storia del movimento operaio tra l’ala spontaneista, l’ala luxemburghiana e l’ala,
diciamo, leninista. Io mi sono sempre riconosciuto in quest’ultima perché penso
che la forma organizzata sia un elemento imprescindibile per i conflitti sociali e
che l’elemento della coscienza nella lotta non sia innato nella figura operaia, ma
che sia un elemento che va immesso dall’esterno.
Perché la soggettività politica non può nascere nella realtà lavorativa e deve in qualche modo essere introdotta dall’esterno?
Il lavoro non è politico, perché è immerso in una struttura materiale – anche
quando è lavoro immateriale – che è economica. Il lavoratore produce merci, così
come la merce produce denaro, così come il denaro produce il capitale. Siamo
dentro un percorso economico. Il lavoro è una categoria economica che, però, ha
una potenzialità politica che non ha nessun’altra categoria. Il lavoro ha una potenzialità politica, perché minaccia il capitale dall’interno, perché è una parte interna del capitale. Il lavoro è un pezzo di capitale, è, come diceva Marx, capitale variabile.
Poiché è una parte interna, se si arriva alla consapevolezza politica di sottrarre
questa parte interna al capitale, si arriva a mettere quest’ultimo di fronte alla sua
contraddizione mortale. Ma, ripeto, il lavoro in sé non ha immediatamente una sua
attualità politica, ha solo una potenzialità.
Qui dobbiamo distinguere tra classe operaia e movimento operaio. La classe
operaia sono gli operai effettivamente esistenti, in carne ed ossa, i singoli operai
diventati classe attraverso la coscienza. Il movimento operaio è una cosa diversa,
cioè è la classe operaia più le sue organizzazioni e non solo le sue organizzazioni,
ma anche la sua teoria. Il movimento operaio è stata questa grande soggettività
politica moderna, che ha fatto la seguente operazione: ha preso la classe operaia,
l’ha dotata di un apparato teorico, quindi di una cultura operaia, che è quella marxista,
e di una forma organizzata. La concentrazione operaia ha favorito la capacità
di autonoma organizzazione, la socializzazione, la cooperazione. Non a caso
un’altra trovata del capitale dagli anni ’80 in poi, è stata quella di smontare le grandi
concentrazioni operaie, di diffondere la produzione a livelli aziendali, perché
capiva che la concentrazione operaia era pericolosa. Oggi siamo di fronte a una
classe operaia non concentrata, ma individualizzata e diffusa nella catena delle medie
e piccole industrie.
La figura dell’operaio si distingue dal borghese, perché è una figura antiindividualista:
essere operaio vuol dire essere insieme ad altri, non può nascere un individualismo
operaio. Quando nasce l’individualismo operaio, come accade oggi, è il
momento della sconfitta, e d’altra parte, è lo stesso padronato che cerca di farlo
nascere. Tutta la riforma dei contratti negli ultimi anni è consistita in questo, nel
soddisfare l’ideale del padrone ad avere un rapporto diretto con il singolo operaio,
invece che con la collettività organizzata. Questo è uno strumento di indebolimento
delle difese operaie e di smantellamento del movimento operaio.
Esso è stato l’ultima grande forma della soggettività politica: la fine del movimento
operaio ha coinciso con la fine della politica, con il ‘tramonto della politica’.
Cosa c’è oggi al posto della politica tramontata?
C’è il deserto. Io oggi parlerei esplicitamente di fine del movimento operaio,
questa grande soggettività che sicuramente sta dietro le nostre spalle. Credo che sia
stata un’esperienza irripetibile. Il problema non è ricostruire il movimento operaio,
ma farsene eredi. Farsi eredi della storia operaia significa anche farsi eredi della
lunga, lunghissima storia delle classi subalterne, di tutte le rivolte, da quella di Spartaco, alle guerre dei contadini nella Germania di Thomas Müntzer, passando per le
sette eretiche medievali, fino alle emergenze sovversive interne alle rivoluzioni
borghesi – penso alla Rivoluzione Inglese, ai Livellatori, alla stessa Rivoluzione
Francese, al ’48. Questa è la nostra storia.
Quella che oggi si chiama sinistra può essere credibilmente sinistra soltanto se
dichiara apertamente di essere l’erede legittima del movimento operaio, della sua
lunga storia, che è nata con la rivoluzione industriale: una storia autonoma dentro
la modernità, di esperienze, di cultura, di socialità di organizzazione. Bisogna che la
sinistra la rivendichi come la propria storia e da qui riparta per costruire qualcos’altro.
La classe operaia ha operato una rottura nella storia delle classi subalterne
perché, per la prima volta, non si è più sentita classe subalterna, non ha più giocato
nella storia come classe dominata, ma come una classe dirigente e anche come
classe potenzialmente dominante. Dobbiamo capire in che modo c’è una potenzialità
nella fine della classe operaia, nel senso che la fine della classe operaia ci ridà in
mano un orizzonte di lavoro ampio, più esteso e più vasto, visto che non c’è più la
classe ristretta, ma c’è una struttura diffusa del lavoro che dovrebbe innanzitutto
essere indagata. Un esempio è dato dall’emergere di figure come quella del lavoratore
autonomo di prima, seconda, terza generazione che ha una sua specificità poiché
incarna una forma per cui il lavoratore è nello stesso tempo padrone, cioè padrone
di se stesso, sfruttatore di se stesso. Queste situazioni meritano di essere
analizzate e comprese attentamente.
Nella fine del movimento operaio e nel tentativo di raccogliere l’eredità di quest’ultimo, cosa accade di nuovo e come muta la politica?
Per me la politica è essenzialmente conflitto e il criterio del politico è quello
dell’amico-nemico schmittianamente inteso. Metto in conto la possibilità che questo
criterio del politico possa essere superato e potrei affidarmi alla creatività di
altre forme della politica. Discuto molto con l’orizzonte del femminismo, soprattutto
con quello italiano, con il pensiero della differenza. Loro mi rimproverano
sempre questo accanimento sul criterio amico-nemico del conflitto, e ripropongono
una concezione della politica come aggregazione, come rapporto di scambio.
Forse questo potrebbe valere anche per il lavoro, nella misura in cui bisognerebbe
ritessere le fila di questa struttura del lavoro diffusa e recuperare una forza maggiore
perfino di quella che aveva la classe operaia. I lavoratori, in quanto lavoratori,
sono una struttura sociale collettiva dentro cui riconoscersi, che, se messa insieme
e organizzata politicamente, può esprimere un’altra idea di società, di mondo e
forse, mettiamo in conto anche questo, un’altra idea di politica.
Abbandonare l’orizzonte del conflitto, della contrapposizione, non rischia di essere un’opzione politica fallimentare nei confronti del capitale?
Bisognerebbe avere la capacità di una trasformazione rivoluzionaria nei tempi lunghi. La rivoluzione non è più pensata come un salto immediato, ma come un processo. Qui ritorniamo all’universo di una politica che non è soltanto quella schmittiana, ma ad un’idea della politica moderna più articolata, quella machiavelliana.
Mi riferisco all’idea che bisogna stare nella contingenza, nella congiuntura e nello stesso tempo bisogna essere liberi dalla contingenza e dalla congiuntura. Bisogna
stare dentro e fuori contemporaneamente, anzi “dentro e contro”, come si diceva una volta. Questa mi sembra proprio la dimensione globale e orizzontale che il lavoro può esercitare. Che cos’è questo modello alternativo di società se non un rovesciamento del rapporto capitale-lavoro? Io non credo che sia possibile un compromesso, un equilibrio tra le due potenze. Un modello sociale alternativo è l’idea che il lavoro comanda e l’impresa ubbidisce, cioè un rovesciamento che ponga fine allo sfruttamento.
La sinistra dovrebbe riuscire a narrare questo modello, a farlo emergere, a farlo vedere. Le cose bisogna farle vedere, non si vedono da sole, perché Marx ci ha insegnato che c’è la realtà e c’è l’apparenza, il reale e l’ideologico, si tratta di squarciare il velo ideologico, narrare il reale. Narrare il reale lo può fare soltanto la sinistra politica. Torniamo sempre al dunque, finché non ci sarà una sinistra politica, non ci sarà nessuna possibilità di liberazione del lavoro. Questo è il punto essenziale della cosa.
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