Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 15 dicembre 2012

L'altra Germania.

di Alessandro Bramucci - sbilanciamoci -

IG Metall, cambio di rotta per l’Europa

 
No ad austerità, sì a responsabilità comune sul debito, no a speculazione, sì a democrazia, con un’Unione politica e sociale accanto a quella monetaria. L’IG Metall entra nel dibattito europeo
L’IG Metall, il sindacato tedesco del settore metallurgico e automobilistico (Industriegewerkschaft Metall), il più importante del paese, offre le proprie risposte alla crisi europea nel rapporto “Cambio di rotta per la solidarietà europea” (disponibile in inglese), presentato la settimana scorsa in una conferenza internazionale a cui hanno partecipato molti sindacati europei e – a sorpresa – l’ex presidente del Brasile (ed ex metalmeccanico) Lula.
Il documento inizia con una ricostruzione della crisi mondiale e dei salvataggi delle banche che hanno portato alla crisi del debito sovrano europeo, presto trasformatasi in crisi di identità dell’Europa, con la messa in discussione dell’idea stessa di Unione e il ritorno di pericolosi nazionalismi. La crisi del debito ha evidenziato le carenze strutturali dell’Unione Europea, in particolare della sua capacità decisionale, spesso lasciata in mano a singoli stati membri. Due sfide attendono quindi l’UE, la gestione della crisi nel breve termine e una riforma democratica delle istituzioni europee verso una maggiore integrazione politica e sociale.
È chiaro nel testo il richiamo a un maggior coordinamento delle politiche economiche e sociali degli stati, così come il rifiuto delle politiche di austerità, che oggi colpiscono soprattutto giovani e lavoratori. L’IG Metall chiede un progetto industriale europeo, aperto ai cambiamenti “socio-ecologici”, che sia capace di rilanciare una crescita equilibrata, equa, ed ecologicamente sostenibile. Piuttosto che in investimenti finanziari speculativi, le imprese europee dovrebbero investire su efficienza, energie rinnovabili e uso ottimale delle risorse, tutti fattori che potrebbero rilanciare la crescita.
Particolare attenzione è dedicata alle politiche salariali e alle politiche fiscali. Tassi di interesse e tassi di cambio non sono più strumenti utilizzabili dalle politiche economiche nazionali. Con tassi uguali per tutti i paesi euro, sono emersi pericolosi squilibri commerciali che mettono in pericolo la moneta unica. Tali squilibri possono essere affrontati soltanto dando all’Europa maggior controllo in materia di tassazione (per evitare il dumping fiscale) e con un maggior coordinamento della contrattazione salariale tra i sindacati della zona euro. Il sindacato tedesco ribadisce che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro che in Germania hanno aumentato la precarietà e diminuito la capacità contrattuale dei lavoratori non possono diventare il paradigma da seguire per i restanti paesi dell’Euro. Proprio quelle politiche, in effetti, sono state alla radice dell’aumentata competitività dei beni tedeschi che ha prodotto grandi surplus commerciali, l’altra faccia della medaglia dei deficit nei paesi del sud Europa.
Con un netto cambio di rotta rispetto al dibattito della politica tedesca, l’IG Metall si schiera a favore della condivisione del debito sovrano dei paesi in difficoltà della zona euro, a condizione di un rigoroso controllo sulle politiche fiscali esercitato in modo democratico dal Parlamento europeo. In materia di finanza, sono richieste misure importanti: le banche devono tornare a svolgere il loro ruolo originario, servire l’economia reale con prodotti finanziari sicuri e trasparenti; va introdotta la tassa sulle transazioni finanziarie; ci vuole un sistema di supervisone bancaria che offra la protezione dei depositi e un’agenzia di rating pubblica e indipendente; è necessaria la separazione dell’attività bancaria tradizionale da quella speculativa.
Forte è il richiamo per un’Unione sociale e un’Unione politica. L’IG Metall propone un patto sociale al centro dell’Europa, con la difesa dei diritti del lavoro e sociali, e la lotta al precariato come priorità dell’Unione. Accanto alla tutela dei diritti, serve una convergenza dei salari, che superi le condizioni di lavoro a bassi salari, anche con l’introduzione del salario minimo nei settori più colpiti dal peggioramento delle condizioni di lavoro. Per influire sulle scelte economiche, l’IG Metall chiede una maggior partecipazione nella governance delle imprese di lavoratori e rappresentanti sindacali, facendo della co-determinazione alla tedesca (mitbestimmung) un pilastro dell’Europa sociale.
“La UE ha bisogno di un’Unione politica” – sostiene il documento – e la crisi dell’euro rappresenta un’occasione per migliorare i “difetti di nascita” dell’Unione Economica e Monetaria. Perno della nuova Europa dovranno essere nuove istituzioni, indipendenti dai governi nazionali ma democraticamente legittimate dai cittadini europei. Il Parlamento europeo dovrà essere eletto a livello transnazionale con una legge che uniformi le procedure a livello comunitario. La Commissione Europea potrà diventare un vero governo soltanto quando la carica di Presidente diventerà elettiva. L’Europa non può replicare il modello di stato federale sull’esempio della Germania, ma dovrà pensare a nuove istituzioni democratiche: “l’IG Metall sostiene la proposta di istituire una Convenzione europea che prepari le basi per un trattato sull’Unione politica e sociale, attraverso un grande dibattito e partecipazione democratica”.
Un cambio di rotta, quello proposto dal più importante sindacato tedesco, in linea con le proposte economiche e politiche dei movimenti europei riuniti all’incontro Firenze 10+10 il mese scorso, che potrebbe indirizzare bene il dibattito pre-elettorale in Germania, dove l’Spd ha posizioni molto più caute, in vista delle elezioni dell’autiunno 2013. Ma è una svolta che potrebbe essere di grande rilievo anche per il sindacato e le elezioni italiane.

Chi è Chávez

- Fonte - ilbecco.it    
di Luigi Vinci -

In questo momento il presidente venezuelano Hugo Rafael Chávez Frías è in cura a Cuba dopo aver subito il quarto intervento chirurgico contro una forma di tumore alla vescica il cui esito, purtroppo, è spesso infausto. In Occidente una comunicazione ostile e falsificante continua a sostenere che sulla malattia di Chávez c’è il segreto: in Venezuela la sua natura è pubblica. Chávez d’altra parte è bersaglio da sempre di una tale comunicazione. L’origine di essa è spagnola, esattamente nel quotidiano el País, “centro-sinistra” liberista, strettamente imparentato a la Repubblica, altrettanto orientata.
Tra le ragioni dell’accanimento spagnolo c’è il fastidio per le nazionalizzazioni operate dal governo venezuelano, che hanno colpito diversi capitalisti spagnoli, operanti in settori che il governo venezuelano, ritenendoli strategici, non vuole che rimangano nelle mani di imprenditori privati né che dipendano dalle dinamiche di mercato, ma vuole che siano al servizio dello sforzo dello stato di sviluppo economico programmato.
Gli aggettivi correntemente usati nei confronti di Chávez sono “populista” (per i liberisti, e per le parti politiche borghesi in generale, sono “populisti” non solo quelli veri ma anche tutti quelli che guardano alle richieste popolari anziché a quelle della grande borghesia e, in America latina, degli Stati Uniti) e “caudillo” (che fu il titolo ufficiale che il fascista spagnolo Franco adottò dopo aver sconfitto la Repubblica).
Come Chávez è diventato un rivoluzionario socialista - La sua, all’inizio, è parte di una storia di duecento anni condivisa da tanti altri giovani ufficiali latino-americani. Le forze armate dei paesi latino-americani sono state storicamente, quasi sempre, uno strumento di repressione antipopolare aperta e brutale, e questo perché in mano, negli alti ranghi, alle oligarchie economiche e politiche, a loro volta sorrette dagli Stati Uniti. Tuttavia le forze armate hanno anche rappresentato per molti giovani del popolo uno strumento di emancipazione individuale dalla miseria e dall’emarginazione, soprattutto quando questi giovani erano meticci, neri, discendenti di popolazioni native. Non mancano perciò nella storia latino-americana figure, anche di grande rilievo, di militari democratici, progressisti, rivoluzionari. Quello che diverrà il capo del Partito comunista del Brasile, Luís Carlos Prestes, fu inizialmente un capitano che, dopo essersi ribellato all’oligarchia, guidò, dal 1924 al 1927, una “lunga marcia” nell’interno brasiliano, quella cosiddetta dei tenenti, più lunga (24 mila chilometri!) di quella guidata da Mao in Cina. Chávez dunque all’inizio della sua vicenda era un giovane tenente colonnello dell’aviazione di sentimenti democratici e nazionalisti. Nel 1992 il governo venezuelano (normalmente in Venezuela si alternavano governi dell’oligarchia, a guida COPEI cioè sedicente democristiana o Acción Democrática cioè sedicente socialdemocratica, oppure governi militari di estrema destra, risultato di qualche golpe), che era in mano ad Acción Democrática, aumentò enormemente, convertito dal FMI al liberismo, i prezzi della benzina e di molti generi alimentari, determinando una rivolta popolare (che passerà alla storia come il “caracazo”), alla quale rispose con la repressione militare. Molte migliaia di manifestanti (a oggi non si sa il numero), furono uccise dalla polizia e dai soldati. Una parte delle forze armate, soldati, giovani ufficiali, i cadetti dell’accademia militare, rifiutò però di partecipare al massacro e si ribellò. Chávez fu il capo della rivolta, coadiuvato da altri tre tenenti colonnello. Si appellò al complesso delle forze armate perché cessassero la repressione e arrestassero il governo: la cosa non avvenne, la caserma dove era Chávez fu circondata, egli non volle resistere e si arrese. Radiato dall’esercito, processato, condannato a una pesante pena detentiva, due anni dopo un’ondata di manifestazioni popolari obbligherà il governo a liberarlo.
E’ in carcere che Chávez diventa marxista: per merito di una notevole figura, Jorje Giordani, figlio di un comunista italiano accorso in Spagna nel 1936 a difesa della Repubblica, e che lì prese moglie. La famiglia riparò fortunosamente, nel 1939, a Santo Domingo, dove nascerà Jorje, poi si trasferirà in Venezuela. Attualmente Giordani è Ministro dell’Industria e della Pianificazione. Egli introdusse Chávez in particolare alla lettura di Gramsci; lo portò, perciò, a una concezione assai evoluta e profondamente democratica del marxismo e del socialismo, per tanti aspetti sostanziali radicalmente alternativa al “socialismo reale” autoritario e burocratico sperimentato nell’Europa dell’Est. Alla lezione di Gramsci, come abbiamo visto in questi anni, Chávez rimarrà fedele.

L'anno perduto tra Berlusconi e Monti.

di Rossana Rossanda - sbilanciamoci -

È bastato che Silvio Berlusconi si riaffacciasse sugli schermi, col volto mal tirato in su – ci sono limiti, non fosse che d’età, al rifacimento dei tratti – perché l’Italia corresse a rifugiarsi sotto l’ala di Mario Monti. O l’uno o l’altro, tertium non datur. Non sono la stessa cosa, come suggerisce Alberto Burgio, anche se la rotta che indicano è sempre “a destra tutta”, ma da tempo gli italiani sembrano disabituati a pensare che la distinzione fra destra e sinistra abbia ancora senso. Oggi non ci sarebbe che “quella” rotta, indicata dalla prevalenza del finanzcapitalismo, come lo chiama Luciano Gallino, assai pudicamente corretta dal recente vertice europeo – ma la strizzatina d’occhio agli evasori fiscali, il primato agli interessi privati come metodo di governo e di vita, qualche battuta antieuropea e finto popolare – “lo spread? chi era costui? – un certo plebeismo considerato spiritoso si riconosce in Berlusconi come in Grillo e simili. Non hanno del tutto torto all’estero a vederci come una perpetua commedia dell’arte, Pulcinella o Arlecchino vincenti sulla stoltezza altrui. E quella metà della gente che non predilige la furbizia si rivolge a una figura che appare più frequentabile per costumi e decenza.


Stiamo perdendo troppo tempo. Tertium non datur perché non esiste una sinistra sufficientemente forte per darsi una politica convincente e diversa dal rigore. Eppure non è cadere dalla padella del cavaliere di industria nella brace del liberista tutto d’un pezzo. Sono ormai tante le voci degli esperti che avvertono: su questa strada l’Europa del sud sta cadendo in un buco sempre più profondo, in una crisi di società sempre meno agibile. Si ha un bel rosicchiare sulle spese pubbliche, anche con più energia ed equità di Monti, finché non ci sarà una svolta nell’economia l’impoverimento del novanta per cento della gente continuerà fino a limiti insostenibili. Già lo sono: la percentuale dei disoccupati nel continente, più che raddoppiata per i giovani in cerca di impiego, pesa come un macigno. Attorno ai quattro milioni dichiarati in Francia e più che presunti in Italia, con almeno altrettanti precari e lavoro al nero, specie di donne e stranieri, è meta delle forza di lavoro che vacilla o già si trova sotto il livello di povertà. La spugnosità dell’Italia degli anni ’70 e ’80 non esiste più, lo scarto fra redditi da lavoro e da patrimonio, mobiliare o immobiliare, svolazzante sui mercati mondiali, si è invertito a favore dei secondi e non c’è traccia della lucetta che Monti diceva di intravvedere già in fondo al tunnel. Gli indici di crescita dell’Europa, già assai bassi, non accennano che a diminuire e perfino il Fondo Monetario Internazionale avverte: attenti, se non crescete state andando nel baratro.
E non si tratta di piccoli raggiustamenti. Occorre mettere un freno alla caduta produttiva e conseguente impoverimento dei più per ricostituire una crescita – altro che lo schema argentino, il cui esile fiato sta finendo. In verità c’è dovunque un correggersi delle previsioni, anche la Cina cresce meno di alcuni anni fa, il volto economico del mondo è tutto un fremito di varianti. Ma non è pensabile di salvare l’Europa e la sua moneta attraverso alcune sagge manovre della Bce in presenza di un permanente calo delle merci da produrre e vendere fuori dal paese e dell’esercito salariato che le produce e le acquista: non occorre essere un economista per capirlo. Occorrerebbe tagliare qualche artiglio di più alla finanza, restaurare qualche controllo sul movimento di capitali (come ha spiegato Andrea Baranes), contrattare, possibilmente assieme agli altri paesi del sud in via di soffocamento, un ragionevole rinvio del debito, se non la sua quantificazione, e ristabilire un potere politico sulle politiche economiche. È insensato che l’Europa si sia privata di tutte le sue più importanti capacità produttive dell’acciaio (ed era un bene costruito con i soldi pubblici) per venderle al miliardario indiano Mittal, il quale adesso chiude alcuni altiforni conservando le produzioni di acciai ad alto valore aggiunto, senza che gli stati possano difendere i lavoratori messi per strada, la cui assistenza come disoccupati ricadrà su di loro. Il tutto in attesa che la mano invisibile del mercato, socialmente cieco, offra chissà quando e dove un impiego. Balorda l’idea che il continente potesse spogliarsi impunemente delle risorse strategiche – l’acciaio non è una merce optional. E chi rappresenta i lavoratori dell’acciaio o dell’automobile rimasti senza lavoro? Chi ha le possibilità di cambiarne le condizioni? Perfino la Germania comincia ad ansimare.

L’Unione bancaria? La Germania dice nein

14 dicembre 2012- Fonte: Pubblico - lavorincorsoasinistra -

Vladimiro Giacchè -
Nella prima mattinata di ieri, dopo mesi di negoziati e 14 ore filate di trattativa finale, i ministri delle finanze dell’Unione Europea hanno raggiunto un accordo che apre la strada alla vigilanza centralizzata della Bce sulle banche europee. Anche questo accordo, come molte delle più recenti decisioni dell’Unione Europea, può essere letto in modi molto diversi.
La lettura confortante è questa. L’Unione Europea ha fatto un passo avanti decisivo verso l’Unione Bancaria: regole comuni per tutte le banche europee e, soprattutto, meccanismi che possono consentire aiuti europei (e non più su base nazionale) alle banche in difficoltà. In questo modo si romperebbe il circolo vizioso tra crisi del debito pubblico e crisi bancarie, e soprattutto si invertirebbe quella balcanizzazione finanziaria dell’Europa che oggi rappresenta una delle principali minacce alla sopravvivenza stessa dell’euro: quel processo, cioè, per cui i sistemi finanziari si rinazionalizzano. Con alcuni grandi paesi (in particolare Germania e Francia) che riportano a casa i soldi che negli anni scorsi avevano investito negli altri paesi dell’area valutaria, e con le condizioni di credito che tornano a differenziarsi su base nazionale (per cui, ad es., oggi un’impresa che chiede un prestito in Italia lo ottiene a interessi più alti del 3-4% rispetto alla sua concorrente tedesca).
Purtroppo, però, le decisioni di ieri possono anche essere viste da una diversa angolatura. Molto meno gradevole. In concreto, cosa prevede l’accordo? Che ricadranno sotto la supervisione bancaria europea unicamente le banche che hanno attività superiori ai 30 miliardi di euro o i cui attivi comunque superino il 20% del prodotto interno lordo del loro paese. È passata la linea della Germania: sono mesi, infatti, che il ministro delle finanze tedesco Schäuble chiede che la sorveglianza europea valga soltanto per pochissime grandi banche. Non è una richiesta disinteressata. La Germania ha pochissime banche di grandi dimensioni (meno della Francia), e moltissime banche di piccole dimensioni: le Sparkassen (da sempre vicine alla Cdu), le Landesbanken e le Volksbanken. Molte sono in cattive acque. E, soprattutto, la qualità dei titoli e dei crediti che hanno in portafoglio è un gigantesco punto interrogativo. Il governo tedesco è riuscito a evitare che la vigilanza europea guardi nei libri di queste banche. Il motivo addotto per giustificare questa posizione, e cioè il fatto che le banche piccole non esprimerebbero rischi sistemici, è insussistente: Northern Rock non era una grande banca, ma l’o ndata di panico che il suo fallimento suscitò ebbe effetti sistemici; del resto, gli effetti sistemici del fallimento di molte banche di piccole e medie dimensioni è oggi ben chiaro in Spagna. Ma, si dirà, almeno il grande colosso bancario tedesco, la Deutsche Bank, con le sue attività di oltre 2.240 miliardi di euro, pari all’80% del prodotto interno lordo della Germania, potrà essere controllato da Bruxelles. Ed è quindi possibile che gli venga finalmente richiesto l’au – mento di capitale necessario per rendere meno esplosivi i rischi che ha assunto e che continua ad assumere. Ma è proprio così? In realtà, l’accordo prevede che la supervisione bancaria parta nel marzo 2014, ma tale scadenza non è ultimativa. Ed è facile prevedere che non sarà rispettata.
La verità, infatti, è che la Germania sta cercando di guadagnare tempo. Che oggi gioca a suo favore. I costi attuali di raccolta per le banche tedesche seguono da vicino ai rendimenti dei titoli di Stato tedeschi. Con i titoli di Stato negativi in termini reali (cioè tenendo conto dell’inflazione: ieri i decennali rendevano l’1,33 per cento), e nel caso dei titoli a due anni anche in termini nominali (-0,06 per cento il rendimento attuale), le banche tedesche possono rafforzare il loro capitale praticamente a costo zero, tentando di risolvere così i loro problemi.
Mentre si aggravano le condizioni delle banche dei paesi cosiddetti “periferici ”, alle prese con un costo di raccolta elevato (a causa della crisi del debito pubblico) e con i crediti inesigibili derivanti dalle pessime condizioni dell’economia (a causa delle manovre di austerity realizzate per risolvere la crisi del debito pubblico). Ovviamente, quando tutto questo sfocerà in vere e proprie crisi bancarie, i malcapitati dovranno anche sorbirsi le prediche di tedeschi e autorità europee sulla necessità di migliorare la gestione delle proprie banche.
Comunque vada, la decisione di ieri sollecita inevitabilmente qualche interrogativo. In particolare: perché l’integrazione europea procede sempre e soltanto secondo i ritmi e le (a)simmetrie dettati dalla Germania? Non sarebbe il caso di cambiare finalmente strada?

Ma l’economia è democratica?

Luigi Ferrajoli - sinistrainrete -

1. La crisi, i mercati e il rapporto tra economia e politica

Io credo che il tema di questo intervento – il rapporto tra economia e politica e la dipendenza della seconda dalla prima – sia il tema di fondo del nostro tempo: un tema che è tutt’uno con il tema della crisi della sfera pubblica, del ruolo e ancor prima della natura della politica e perciò, in ultima analisi con il tema, al tempo stesso teorico e politico, della crisi della democrazia, non solo in Italia ma in Europa e più in generale a livello globale.
Il rapporto tra politica ed economia si è ribaltato. Non abbiamo più il governo pubblico e politico dell’economia, ma il governo privato ed economico della politica. Non sono più gli Stati, con le loro politiche, che controllano i mercati e il mondo degli affari, imponendo loro regole, limiti e vincoli, ma sono i mercati, cioè poche decine di migliaia di speculatori finanziari e qualche agenzia privata di rating, che controllano e governano gli Stati. Non sono più i governi e i parlamenti democraticamente eletti che regolano la vita economica e sociale in funzione degli interessi pubblici generali, ma sono le potenze incontrollate e anonime del capitale finanziario che impongono agli Stati politiche antidemocratiche e antisociali, a vantaggio degli interessi privati e speculativi della massimizzazione dei profitti. Le ragioni di questo ribaltamento sono molte e complesse. Non parlerò dei conflitti di interesse e delle molte forme di corruzione e condizionamento lobbistico attraverso cui l’economia condiziona la politica.
Questi condizionamenti ci sono come mostrano le cronache di questi giorni. Ma il ribaltamento dipende da due ragioni, una di ordine strutturale, l’altra di ordine culturale e ideologico.

La prima ragione consiste in un’asimmetria intervenuta nelle dimensioni della politica e in quelle dell’economia e della finanza: l’asimmetria tra il carattere ancora sostanzialmente e inevitabilmente locale dei poteri statali e il carattere globale dei poteri economici e finanziari. La politica è tuttora ancorata ai confini degli Stati nazionali, in un duplice senso: nel senso che i poteri politici, soprattutto dei paesi più deboli, si esercitano soltanto all’interno dei territori statali e nel senso che gli orizzonti della politica sono a loro volta vincolati al consenso degli elettorati nazionali. Al contrario, i poteri economici e finanziari sono ormai poteri globali, che si esercitano al di fuori dei controlli politici, e senza i limiti e i vincoli apprestati dal diritto – dalle legislazioni e dalle costituzioni – che è tuttora un diritto prevalentemente statale. è insomma saltato – o si è quanto meno indebolito, ed è destinato a divenire sempre più debole – il nesso democrazia/popolo e poteri decisionali/regolazione giuridica. In assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, i poteri economici e finanziari, da Marchionne alla finanza speculativa, si sono sviluppati come poteri illimitati, sregolati e selvaggi, in grado di imporre le loro regole e i loro interessi alla politica.

Il secondo fattore del ribaltamento del rapporto tra politica ed economia è di carattere ideologico. Esso consiste nel sostegno prestato al primato dell’economia dall’ideologia liberista, basata su due potenti postulati: la concezione dei poteri economici come libertà fondamentali e delle leggi del mercato come leggi naturali. Le due raffigurazioni ideologiche sono tra loro connesse: la prima, ben più che rafforzata, è per così dire “verificata” dalla seconda, cioè dalla concezione della lex mercatoria come legge naturale, sopraordinata alla politica e al diritto come una sorta di necessità naturale, e della scienza economica come scienza a sua volta naturale, dotata della stessa oggettività empirica della fisica. Di qui il rifiuto come illegittimo e insieme irrealistico di qualunque intervento statale diretto a limitare l’autonomia degli operatori economici e finanziari e l’assunzione come tesi scientifiche o rilevazioni fattuali o proposte realistiche di una lunga serie di luoghi comuni largamente ideologici. Di qui la trasformazione della politica in tecnocrazia, cioè nella sapiente applicazione delle leggi dell’economia da parte di governi “tecnici” – non dimentichiamo il monito di Bobbio sull’antitesi e l’incompatibilità tra democrazia e tecnocrazia – i quali traggono legittimazione dai mercati, e solo ai mercati – e non già ai parlamenti, ai partiti, alle forze sociali, alla società – devono rispondere.

venerdì 14 dicembre 2012

La putrescenza del Capitalismo contemporaneo e la teoria del crollo.

Antonio Carlo - connessioni - sinistrainrete -

Parte prima: La putrescenza del Capitalismo contemporaneo


1) L’economia mondiale nel 2012. Disoccupazione, sovraproduzione e crisi della finanza pubblica


Il rimbalzino del 2010 è ormai un ricordo, nel 2011 le cose sono andate peggio1, ed a inizio 2012 la signora Lagarde n. 1 delle FMI dice: “nel 2012 molte delle cose che potevano andare storte sono andate storte”. Lucidità cartesiana si potrebbe dire, e nel 2012 la situazione peggiora ulteriormente. A metà anno, infatti, la Banca Mondiale rende note le sue stime per l’anno corrente: PIL mondiale + 2,5%, ma la crescita sarà concentrata essenzialmente nei paesi emergenti, + 5,1% contro il 6,1% del 2011 ed il 7,4% nel 2010. Leggermente migliori le previsioni del FMI, che però peggiorano nel corso dell’anno: ad ottobre, in concomitanza con l’assemblea annuale di Tokyo, il FMI prevede + 3,3% PIL mondiale, così suddiviso + 1,3% paesi ricchi, + 5,3% paesi emergenti; per l’Eurogruppo siamo a – 0,4% per il corrente anno e a + 0,2% per l’anno prossimo, ciò che qualche bello spirito potrebbe definire “ripresa”.

Ci si potrebbe obiettare, che comunque si cresce anche se di poco, ma allora non si capirebbe il coro da tragedia greca che accompagna questo sviluppo da quattro soldi2, che in realtà è una recessione strisciante e nascosta da cui non si vede via di uscita nel breve e nel medio periodo (nel lungo si sa saremo tutti morti), qualcosa cioè di molto simile ad una depressione. La verità, invece, è che i paesi ricchi sono fermi in tendenziale ristagno, e per stare fermi devono continuare ad indebitarsi a ritmo crescente, come vedremo tra breve, se fossero imprese private sarebbero fallite da tempo. Quanto ai paesi emergenti, che sono in netta flessione di crescita, per essi un ritmo del 5% o poco più, rapportato alla modestissima base di partenza (l’India ha un PIL procapite di poco superiore ai 1000 dollari, quello della Cina è più elevato ma enormemente inferiore a quello delle province più povere del sud Italia) è irrisorio3; la Cina, il colosso tra gli emergenti, dovrebbe crescere quest’anno del 7,5% (obiettivo del governo cinese fissato in marzo 2012), ma come vedremo l’indice PMI , che misura l’attività manifatturiera centrale per quel paese, si è collocato spesso sotto livello 50 che segna lo spartiacque tra sviluppo e ristagno o recessione4, in altre parole con 7,5% di crescita del PIL la Cina è in ristagno, ma gli altri paesi emergenti stanno peggio, l’India crescerà quest’anno sotto il 5% e l’anno prossimo rimbalzerà (si fa per dire) al 6%. Il mondo è fermo e non sa come ripartire, mentre tutte le contraddizioni che ho segnalato nei miei precedenti lavori si appesantiscono.


A) La sovraproduzione di forza lavoro (disoccupazione)


Nel corso dell’anno vengono diffusi i dati dell’OCSE e dell’ILO sulla disoccupazione: 205 milioni a livello mondiale (75 milioni giovani), 50 milioni in più rispetto alla fase pre-crisi, nell’OCSE siamo a 48 milioni, 15 in più rispetto al periodo pre-crisi5. Rispetto al picco della crisi (2009) solo una lieve limatura (allora era a 212 milioni), più formale che reale perché è cresciuto il numero degli scoraggiati che non cercano più lavoro e che formalmente non sono considerati disoccupati; solo in USA sono una cifra maggiore della lieve “limatura” realizzata6. A questi poi bisognerebbe aggiungere quelli che il lavoro non lo hanno mai cercato, pur essendo in età da lavoro: il tasso di attività media a livello mondiale si colloca intorno al 60%7 (così anche in USA e Giappone)8, nella UE siamo al 63,9%, in Italia al 56,9% (Eurostat): in sostanza a livello mondiale su 5 persone in età da lavoro ne sono occupate solo 3.

Ma non è tutto, accanto alla disoccupazione c’è il fenomeno della sottoccupazione, che l’ILO considerava il vero problema occupazionale dei paesi emergenti: nel suo rapporto del 1976 si rilevava che la disoccupazione nei paesi poveri era solo al 5% contro il 36% della sottoccupazione. Ma chi sono i sottoccupati? Nel rapporto ILO del 2005 si dice che sono persone che non hanno “a decent work”, ciò che concretamente significa che si lavora 12-14 ore al giorno per 1-2 dollari al giorno senza diritti sociali o sindacali, per cui se hai un infortunio sul lavoro il problema è solo tuo. Il disoccupato, invece, vive, nelle aree povere del mondo, di lavori occasionali, carità, piccola delinquenza, prostituzione etc., una situazione per certi versi migliore del sottoccupato o comunque non peggiore. Ma quanti sono i sottoccupati? Nel rapporto del 1976 erano stimati in 500 milioni ed in quelli del 2005 erano stimati in 1,2 miliardi pari al 58,7% della forza lavoro dei paesi emergenti e al 49,7% di quella mondiale.

Meno finanza per tutti

 - finansol -

Se c’è una cosa che ha insegnato la crisi finanziaria è che staremmo tutti meglio con meno finanza.
Dall’agosto del 1971 – quando ha inizio il regime di “cambi flessibili”, che scardinano il sistema creato a Bretton Woodssi sono susseguite decine di crisi finanziarie, alcune di eccezionale gravità, che hanno messo a repentaglio la sicurezza di interi paesi e i diritti acquisiti di milioni di persone. Nel frattempo la finanza ha assunto dimensioni difficili perfino da immaginare, arrivando a condizionare pesantemente le politiche degli stati. Ogni anno vengono scambiati titoli per 1.500.000 miliardi di dollari, pari a circa 4.100 miliardi di dollari al giorno, circa il doppio del Pil italiano prodotto in un anno.
E pensare che nel 1970 tali transazioni si aggiravano tra i 10 e i 20 miliardi di dollari. Oltre il 90% di esse sono di natura speculativa e questo ha accresciuto enormemente la volatilità dei mercati e la possibilità di nuove crisi, arrivando a intaccare l’economia reale. L’illusione che il denaro potesse creare magicamente altro denaro, senza produrre nulla, ha messo alla prova la creatività degli ingegneri finanziari, che ogni giorno mettono a punto nuovi complessi strumenti, talvolta incomprensibili perfino a chi li ha creati. Si possono benissimo comprare e vendere milioni di titoli senza nemmeno possederne uno, scommettendo sulle continue differenze di valore.
Se la finanza nasce come luogo dove chi ha bisogno di capitali può rifornirsi da chi ne ha in eccesso, oggi essa è per lo più una piazza di scommesse. Ma i beni sottostanti sono sempre quelli: azioni, ossia porzioni di aziende, obbligazioni, ossia prestiti ad imprese o a stati, per attività alle quali lavorano persone in carne ed ossa. E quando un titolo scende non ci perde solo l’investitore, ma anche i lavoratori e i consumatori, poiché gli azionisti/investitori faranno di tutto per far riguadagnare valore alle azioni in portafoglio, tagliando costi del personale, spese per la ricerca, servizi al consumatore, misure antinquinamento, oppure intensificando lo sfruttamento del suolo e dell’ambiente, tutte azioni finalizzate a far lievitare i profitti. Ma ciò avviene anche quando il titolo non scende, semplicemente per mostrare un bilancio in attivo alla comunità degli investitori, che per legge deve essere pubblicato ogni trimestre.
Il risultato è una continua erosione dei diritti dei lavoratori e un aumento dell’attività predatoria dell’azienda, a scapito di tutti. Trent’anni di finanza selvaggia hanno aumentato la disuguaglianza, creando nuove classi di privilegiati, capaci di maneggiare le leve delle speculazione finanziaria ma del tutto irresponsabili circa le ricadute sociali delle loro azioni. La crisi in corso ha già aumentato il debito dei paesi Ocse di 20 punti percentuali, che a loro volta produrranno oneri per interessi che ricadranno sulla collettività. Ma sarebbe interessante fare una stima dei costi economici e sociali dell’ascesa della finanza a partire dagli anni 70, nonché i costi politici in termini di crisi della rappresentanza a della sovranità. Vedremmo che forse non è valsa la pena e a guadagnarci sono stati davvero pochi. Vedremmo che mai come oggi urge una nuova regolamentazione, che restringa il raggio di azione della finanza.
E sulla quale, a quanto pare, nessuno ha voglia di lavorare. E allora dovremmo chiederci cosa potremmo fare come risparmiatori e come società civile, per non dare sostegno un sistema ormai degenerato. Sulle colonne del Corriere delle Sera il bravo Massimo Mucchetti si poneva degli interrogativi cruciali, parlando dei famigerati hedge funds (fondi di investimento speculativi). Era il 14 maggio scorso, dopo i primi violenti attacchi speculativi all’euro: “È troppo chiedere che i soggetti regolati (perché usano i soldi degli altri) (in primis le banche, ndr) possano finanziare questi soggetti speculativi solo a patto che impegnino quote di patrimonio proporzionali alla leva che questi stessi soggetti speculativi usano e ne diano conto a loro volta al mercato? E’ sbagliato pretendere che chi specula depositi prima la posta? O esigere che la libertà di manovra dei fondi sovrani sia subordinata all’osservanza di obblighi minimi di trasparenza? L’ opacità di certi operatori, avvertono i magistrati, può servire a riciclare il denaro caldo delle mafie e dell’ evasione fiscale, ma anche – e sarebbe una beffa già vista – a usare i soldi delle banche centrali contro le ‘loro’ monete. Un tal giro di vite comporterebbe, alla fine, meno finanza? Se fosse, sarebbe forse un dramma? E per chi?
DEAD IN THE “SECURITY” POLICE CELL
POLICE VERSUS DOCTORS
 
 

L’Europa si farà se avrà una politica

- rifondazione -
121213giacchedi Vladimiro Giacchè
Banche «troppo grandi per fallire», attività a forte rischio, bonus milionari, scandali (uno per tutti: la manipolazione del Libor, uno dei tassi d’interesse più usati del mondo). Siamo tornati al punto di partenza di questa crisi, che anche in Europa – come ha ammesso un editoriale del «Financial Times» – «è stata causata più da eccessi di debito privato, particolarmente nel settore bancario, che dalla prodigalità del settore pubblico».
Ma con un’importante differenza rispetto alla situazione pre-crisi. Il modello di sviluppo basato sulla finanza e sul debito, dopo oltre 30 anni di onorato servizio, si è irrimediabilmente rotto nel 2007/8.
È stato mantenuto in vita grazie a trasferimenti di denaro pubblico che non hanno precedenti nella storia. Ma si è rotto. E tenerlo in piedi, oltre a essere ingiusto, sta diventando sempre più costoso. Un buon esempio sono i finanziamenti europei d’emergenza alle banche spagnole con la contropartita di misure di austerità durissime per i cittadini spagnoli. Ma il problema è più generale, e riguarda anche paesi come gli Stati Uniti, in cui le banche, lungi dall’essere in crisi, stanno macinando utili. Come ha osservato Sebastian Mallaby, «la struttura della finanza moderna –grandi istituzioni che prendono a prestito a poco prezzo perché i soldi li mette chi paga le tasse – è un abominio che deve finire» (Mallaby 2012). E in effetti, negli Usa come in Europa, riemerge la proposta di porre limiti dimensionali e funzionali alle grandi banche. E se invece il problema consistesse nell’as - setto proprietario delle grandi banche? Perché mai dovrebbe essere escluso in linea di principio che le grandi banche possano essere public utilities in mano pubblica? In fondo, il modo più sicuro per non soggiacere alla logica del breve termine, alla dittatura delle trimestrali, è avere un proprietario a cui interessa lo sviluppo di lungo termine e non il profitto di breve. Quanto all’obiezione secondo cui in questo modo gli utili sarebbero bassi, è facile rispondere rinviando alle cifre stratosferiche che i contribuenti di Europa e Stati Uniti hanno dovuto sborsare per salvare dal fallimento questi campioni di profittabilità.
Queste considerazioni sul sistema bancario sono il modo migliore per introdurre un ragionamento finale sulle prospettive della
crisi europea. È un dato di fatto che la cosiddetta crisi del debito sovrano in Europa è stata accompagnata, sin dall’inizio, dal problema delle grandi banche dei paesi centrali dell ’Europa che si erano esposte sui paesi periferici. In particolare l’incancrenirsi della situazione in Grecia, che sarebbe stata agevolmente gestibile se affrontata con tempestività, deve molto agli stop and go derivanti dall’esigenza di Germania e Francia di tutelare gli interessi delle proprie grandi banche private. Per questo motivo non si è effettuata una ristrutturazione del debito se non quando gran parte dei crediti delle banche erano stati trasferiti in capo alla Bce. Il risultato è stato l’abbandono della Grecia alle dinamiche “spontanee ”dei mercati finanziari, che hanno provocato un tale innalzamento degli interessi sul debito da rendere praticamente inutile (oltreché ingiusta) qualsivoglia manovra correttiva di bilancio. Un risultato atroce, ma coerente con uno dei postulati di fondo, dei pilastri ideologici che sorreggono questa Europa: cioè l’idea che bisogna «lasciar fare ai mercati » .
È lo stesso assioma che vediamo in opera nell ’ostinato rifiuto di fare intervenire la Banca Centrale Europea a difesa dei titoli di Stato dei paesi in difficoltà. Un rifiuto che soltanto in presenza di un’emergenza assoluta è diventato meno categorico, e comunque ha lasciato il posto a condizioni tali da rendere meno probabile e meno efficace quell ’intervento.
Si tratta dello stesso assioma che vediamo in opera nelle misure proposte agli Stati in difficoltà, le quali infallibilmente prevedono la drastica riduzione del ruolo dello Stato e più in generale dell’intervento pubblico nell ’economia: si tratti di grandi utilities o di municipalizzate locali, si tratti di imprese di interesse strategico o di aziende che necessitano di molto tempo per mettere a frutto gli investimenti effettuati. A questo vanno contrapposte non soltanto la difesa del settore pubblico dell’economia, ma, più in generale, l’esigenza storica di un rilancio della pianificazione dello sviluppo economico contro le inefficienze e la distruttività delle mere dinamiche di mercato.
Ma l’assioma del «lasciar fare ai mercati» è, ancora una volta, lo stesso assioma che abbiamo visto e vediamo in opera nell’idea di competitività fondata sul dumping sociale e fiscale all’interno dell’Unione. Un’idea – e una pratica – che, applicata oggi a paesi in crisi che si pensa di far tornare “competitivi ” a colpi di deflazione salariale, sta comportando un crollo della domanda, dell’occupa - zione e degli investimenti e un impoverimento generalizzato del continente. A un certo punto ci si accorgerà che non esistono mercati esteri in grado di sopperire al crollo della domanda interna così determinato e che anche quei mercati sono meglio serviti da chi investe in tecnologia rispetto a chi si avvale dell’allungamento dell’orario di lavoro e del taglio delle buste paga e dei diritti quali leva per competere.
Se questo è vero, oggi all’Europa non serve principalmente un’unione politica. Il puro e semplice superamento dell’asimmetria tra l’istituzione dell’Unione monetaria e l’as - senza di un’Unione politica, di per sé sola, non può rappresentare una risposta all’impasse attuale delle politiche europee. Non può perché, dietro la stessa assenza di unione politica, vi è l’impossibilità – sulla base dei Trattati attuali – di una politica economica comune; impossibilità la quale a sua volta, come abbiamo visto, rinvia a precisi presupposti sociali che informano la costruzione europea quale si è storicamente determinata. Se non si cambiano questi presupposti, anche un eventuale passo avanti verso l’unione politica non sarebbe un passo nella giusta direzione, e anzi potrebbe costituire un’ulteriore pericolosa fuga in avanti. Il problema, insomma, non è il fatto che ci sia troppo poca Europa, ma che l’Europa che abbiamo è minata da un difetto strutturale. Oggi, nel momento in cui i difetti di fabbrica della costruzione europea sembrano segnarne la fine, travolgendo con sé decenni di conquiste sociali e la stessa democrazia, è più che mai importante comprendere che una ripresa del progetto europeo può avvenire soltanto su basi radicalmente diverse. Non più l’Europa del dumping fiscale, ma un’Europa che stabilisca aliquote e regole fiscali uniformi su tutto il territorio europeo. Non più l’Europa del dumping sociale e della deflazione salariale generalizzata, ma un’Europa che stabilisca minimi salariali europei e uno “standard retributivo europeo ”. Se questo non avverrà, non avremo semplicemente un’Europa peggiore. Assisteremo al naufragio catastrofico del progetto europeo.
Estratto dal libro «Titanic Europa» di Vladimiro Giacchè, Aliberti editore da oggi in libreria.
Pubblico - 13.12.12

giovedì 13 dicembre 2012

Il secondo default della Grecia

Fonte: il manifesto | Autore: Guido Viale - controlacrisi -   
Concentrata sulle dimissioni di Monti e sulla ridiscesa in camposanto (ovviamente in senso metaforico) di Berlusconi, la stampa nazionale ha dato poco rilievo a una notizia che invece ne meritava assai di più. Per la seconda volta nel giro di un anno o poco più lo Stato greco è fallito: cioè ha ristrutturato il suo debito con una manovra che altrove si chiama default, e che consiste nella decisione di rimborsare solo in minima parte un debito in scadenza; una specie di "concordato preventivo". Tutto su indicazione della Troika (Bce, Fmi e Commissione europea), del Governo tedesco e di tutti gli altri Stati che in questi tre anni hanno imposto alla Grecia, alla sua economia e alla sua popolazione, di andare i malora.

Se quella ristrutturazione fosse stata fatta tre anni fa, allo stesso costo, l'economia greca sarebbe ancora in piedi e l'euro e l'Unione europea non ne avrebbero subito i contraccolpi che hanno spinto l'intero continente (Germania compresa: anche lì la crisi è alle porte) verso il cosiddetto double dip : cioè una ricaduta nella crisi molto peggiore della prima. Ma chi sono i responsabili di questa situazione? Sapientoni come Trichet, Draghi e Monti che vivono solo di spread e denaro e non sanno niente del sangue che scorre nelle vene e nei corpi della gente che governano; o, meglio, che amministrano. Nessuno di loro aveva previsto la crisi: né la prima né la seconda. E Monti, dopo il primo memorandum della Troika che aveva messo la Grecia alle corde, sosteneva che quel paese aveva finalmente imboccato la strada della ripresa. Così, diventato Presidente del Consiglio, ha lavorato e ancora lavora per fare imboccare all'Italia la stessa strada; sostenendo, naturalmente, che sta salvando il paese. Ma è molto interessante il meccanismo di questo secondo default della Grecia. Il governo greco ha ricomprato una grande quantità di propri titoli di debito (ormai considerati carta straccia) pagandoli meno di un terzo del loro valore di emissione. Per farlo ha utilizzato fondi concessi dall'Esfs (il cosiddetto "fondo salvastati") che a sua volta li ha avuti in prestito dalla Bce. Questi fondi sono garantiti da tutti gli Stati dell'eurozona, i cui debiti pubblici sono così aumentati in misura proporzionale ai rispettivi Pil. E fin qui, niente di male: solidarietà, si potrebbe dire. Ma a chi sono finiti i fondi con cui il governo greco ha ricomprato quei titoli? In parte alle banche greche, sull'orlo del fallimento per le operazioni speculative che hanno messo in atto negli anni passati.

Per questo il Governo greco si appresta a sostenerle con un'altra tranche di un nuovo prestito concesso dalla Troika, utilizzando anche in questo caso fondi dell'Esfs. Con questa operazione, da un lato le banche ci perdono, perché rivendono a 10 quello che avevano comprato a 30 (ma che in realtà non valeva più niente). Dall'altro vengono ricompensate con denaro fresco, che non saranno mai più in grado di restituire (pronte, magari, a utilizzarlo in nuove operazioni speculative). Ma in parte a rivendere al governo greco quei titoli sono stati degli hedge fund (fondi speculativi) che li hanno comprati da chi ancora li deteneva per niente, o quasi, sicuri di poterli rivendere a un prezzo molto più alto, anche se inferiore al loro valore nominale, una volta che la Troika avesse imposto al Governo greco di ricomprarli. Si tratta di quegli stessi hedge fund che con le loro manovre governano come vogliono i cosiddetti "mercati", per lo più con operazioni "allo scoperto": cioè vendendo titoli che non hanno ancora o comprandoli senza avere il denaro per pagarli, giocando sulle oscillazioni degli spread che essi stessi provocano con queste operazioni. In sostanza il circuito è questo: il governo Monti, e prima di lui quello Berlusconi, mettono alla fame pensionati, lavoratori, studenti e disoccupati per ridurre la spesa pubblica e pagare gli interessi sul debito.

La Bce da un lato finanzia a costo zero le banche che comprano quel debito, ricavandone lauti interessi; dall'altro finanzia, sempre a costo zero, l'Esfs, il quale finanzia il governo greco, il quale ricompra i propri titoli a un prezzo che fa guadagnare somme astronomiche agli speculatori che li hanno acquistati a pochi euro. Per la proprietà transitiva della finanza, quello che Monti - e il Monti che verrà dopo di lui, e il Berlusconi che è venuto prima di lui - sottrae a lavoratori, disoccupati e pensionati finisce, dopo un giro tortuoso, nelle tasche degli speculatori che lo usano per mettere alle corde il paese. Si tratta di un meccanismo ben collaudato. L'Argentina, che ha appena varato una legge che vieta qualsiasi forma di speculazione, cioè di impiego di danaro che non sia il finanziamento di imprese produttive o di famiglie, è di nuovo sull'orlo del default , nonostante che la sua economia abbia ripreso a "girare", anche grazie alla rivolta popolare contro le politiche recessive adottate in passato. Perché? Perché è stata messa in mora - e rischia il sequestro di fondi e beni delle sue imprese, per esempio conti correnti per finanziare il normale commercio internazionale, o navi e aerei, con il loro carico, che sbarchino o atterrino all'estero da un tribunale degli Stati Uniti. Questo ha dato ragione a una serie di hedge fund che hanno rivendicato, e intendono ottenere, il pagamento integrale, al loro valore originario più gli interessi, dei titoli del debito argentino (i cosiddetti Tango bond) in loro possesso: titoli che hanno ricomprato a costo quasi zero da risparmiatori che non avevano accettato, perdendo così l'intero valore del loro investimento, una transazione proposta anni fa dal governo dell'Argentina.

Se ne ricava che senza una ristrutturazione del nostro debito pubblico, fatta prima che questa ci venga imposta, come alla Grecia, solo come misura per salvare banche in crisi e ingrassare speculatori d'assalto, l'Italia non potrà adottare autonomamente alcuna vera politica: né economica, né industriale, né sociale, né culturale e nemmeno civile (saremo sempre ostaggio anche del Vaticano, che di finanza, alta e bassa, se ne intende parecchio). E meno che mai si potrà promuovere un programma di conversione ecologica, necessario per ristabilire nel mondo giustizia sociale e sostenibilità ambientale. È questa la discriminante fondamentale tra chi si è aggregato al carro del centrosinistra, che è anche quello di Monti, e chi capisce che un mondo diverso può nascere solo da una netta contrapposizione di tutti i paesi dell'Europa mediterranea alle norme e ai vincoli con cui la finanza internazionale ha imbrigliato e sta condannando a morte l'economia e la convivenza civile di un intero continente.

Un arancione che non disdegna il rosso

13 dicembre 2012- Fonte: http://www.claudiograssi.org

Bruno Steri, Claudio Grassi - L’impressione è quella di un buon inizio, di un’iniziativa politica destinata a crescere; la speranza è che si concretizzi nel poco tempo che ci separa dalle elezioni politiche un “effetto palla di neve”. Come già al teatro Vittoria quindici giorni fa con la prima uscita ufficiale di “Cambiare si può”, anche all’Eliseo con il lancio del Movimento Arancione va prendendo corpo l’offerta di un’opzione politico-elettorale rivolta a quanti non intendono rassegnarsi a scegliere tra centro-sinistra e Beppe Grillo, a rinunciare all’esistenza anche nel nostro Paese di una “sinistra-sinistra”.
Nel teatro, questa volta, il colore proposto è l’arancione. Un colore che, negli anni scorsi, non sempre in Europa (specie in quella dell’Est) ha dato buona prova di sé: avendo costituito l’identità cromatica di “rivoluzioni di velluto” ampiamente organizzate e finanziate da servizi e fondazioni statunitensi. Ma qui all’Eliseo il colore si associa ad un immaginario in tutto diverso. “Toga rossa? Direi toga anarchica”, racconta con un aneddoto Luigi De Magistris, per intendere una magistratura che svolge il suo lavoro in modo indipendente, senza alcun compromesso coi “poteri forti”. Un arancione che non disdegna il rosso, come precisa il sindaco di Napoli, e che pensa che i comunisti siano da preferire alla mafia, così come Cuba al Guatemala, Paese in cui è oggi auto confinato, suo malgrado, Antonio Ingroia. A pensarci bene, non è poi così sorprendente che il tentativo di rilanciare una sinistra degna di questo nome sia intrapreso anche da un ex magistrato. Siamo in Italia non in Svezia, nel Paese che è culla di mafia, camorra e ndrangheta, un Paese che da sempre è laboratorio privilegiato della “borghesia criminale”; e dove il potere ha sperimentato la coesistenza tra uno spazio pubblico entro cui esercitare un’egemonia democratica e ambiti segreti nella cui ombra organizzare stragi di Stato. Il classico turista inglese che passasse per l’Italia non si meraviglierebbe dunque se all’impresa di risollevare le magnifiche sorti e progressive della sinistra contribuisse un ex magistrato.
Così, non è certo un caso che la manifestazione arancione si svolga proprio il12 dicembre, anniversario delle stragi (ricordate la canzone? “(…) un anno è già passato/dal giorno delle bombe, delle stragi di Stato”). Quella stagione, la stagione degli “anni di piombo” – periodo sistematicamente rimosso dai salotti televisivi, dai paludati resoconti della storia ufficiale – permane come un marchio indelebile, una ferita profonda nella carne della sinistra italiana. E’ la nostra storia, abitata con ricorrente puntualità dal sovversivismo delle classi dirigenti. Per questo, in una sala riempita in ogni angolo dalla sinistra-sinistra, risuonano naturali parole d’ordine come l’antifascismo o la desecretazione di tutti i passaggi salienti delle indagini sullo stragismo. Stato-ombra, poteri deviati, mafia, manovalanza fascista, corruzione, degrado della qualità della politica e delle istituzioni: contro un tale intrico la sinistra è naturalmente schierata “senza se e senza ma”, una sinistra nel cui dna si congiungono idealmente l’impegno sociale e quella “questione morale” (fortemente “politica”) che Enrico Berlinguer profeticamente aveva evocato. Su tale sfondo politico e culturale va collocata la scelta netta – dichiarata dallo stesso De Magistris, così come da Sonia Alfano, la presidente della Commissione speciale antimafia del Parlamento Europeo – al fianco dei magistrati palermitani, in aperta opposizione a chi ha inteso coinvolgere la Corte Costituzionale nell’espressione di un giudizio che contrappone pericolosamente il potere giudiziario alla prima carica della Repubblica.
Nel momento in cui il sistema economico vigente, il capitalismo reale, permanendo in una crisi strutturale da cui non sa uscire, si affida alle “competenze” della tecnocrazia, sacrificando sempre di più i “lacci e lacciuoli” delle istanze democratiche, la sinistra ha il compito di riconsegnare ai soggetti sociali la propria capacità di protagonismo: di ridare la parola alle istanze della democrazia partecipata. E di configurare una direzione di marcia antitetica a quella prospettata 13 mesi fa e poi percorsa dal governo diMario Monti: “il peggior governo, il governo più pesantemente classista dal secondo dopoguerra del secolo scorso in poi”, come ha sentenziato dal palco dell’Eliseo l’economista Massimo Pivetti, un tecnico che non si presta a seguire la corrente prevalente, il mainstream del pensiero unico tecnocratico. Anche qui, il discrimine è la chiarezza, la pulizia concettuale (oltreché morale): le politiche di austerità non sono solo ingiuste, sono anche fallimentari dal punto di vista economico. L’argomentazione non è così nuova, eppure attende di trovare un soggetto politico che la impugni senza tentennamenti: tagliando la spesa sociale e aumentando il carico fiscale (in particolare a danno delle classi meno abbienti) non si risolve il problema del debito pubblico, al contrario si alimenta la spirale recessiva, con effetti negativi sullo stesso rapporto tra debito e Pil. Questo è il nodo gordiano da recidere: chi vorrebbe temperare, mantenendo tuttavia la logica di fondo e i suoi vincoli, vende fumo o, se si preferisce, spaccia parole che sono destinate a non corrispondere ai fatti. Forse al teatro Vittoria e all’Eliseo quel soggetto che nel nostro Paese la gente di sinistra attende viene a prendere forma. C’è poco tempo: ma per tante e tanti sarebbe ora che arancione e rosso provassero a fondersi

Ingroia: “Caro Bersani, farete piazza pulita delle leggi ad personam?”

13 dicembre 2012- Fonte: micromega online - lavorincorsoasinistra -

di Antonio Ingroia -
Caro Pierluigi Bersani,
leggo su tutti i giornali, da mesi ormai, la Sua probabile vittoria come premier candidato dal centrosinistra alle prossime, ormai imminenti, elezioni politiche, e non posso sinceramente che augurarglielo ed augurarmelo, specie a fronte del profilarsi all’orizzonte dell’ennesima candidatura di una vecchia e nefasta conoscenza degli italiani, Silvio Berlusconi, artefice del disastro economico-finanziario, politico-istituzionale e etico-morale in cui è precipitato il Paese in questi ultimi anni. Un sisma che ha divorato dall’interno l’economia, ma anche l’anima del Paese. Un Paese che rischia di restare per sempre senza anima e senza futuro, futuro che pertanto potrebbe essere fra qualche mese nelle Sue mani. Cosa che, da una parte, mi rasserena per i rischi che pesano sull’altro piatto della bilancia, ma che, dall’altra parte, non mi tranquillizzano del tutto.
E sa perché, pur avendo stima della Sua persona e pur essendo certo della Sua buona fede, non mi sento né tranquillo né tranquillizzato? Perché, al contrario, di molti italiani, ho esercitato in questi anni di rimozione, il vizio della memoria. Che non è solo un vizio, è anche un gusto. Il gusto della memoria, che ti consente di sentire la storia, di apprezzarla, di farne un’esperienza ed una ricchezza. Ebbene, esercitare il gusto della memoria mi consente di sentire anche il retrogusto amaro della delusione. La delusione delle tante occasioni mancate, le tante occasioni che altre coalizioni di governo di centrosinistra hanno perduto negli anni passati, appena giunte alla prova del fuoco. Quando si trattava di cambiare l’Italia, di imprimere una svolta ad un Paese, a volte stanco e sfiduciato, ma ugualmente pronto, generosamente, a credere nel cambiamento. Una fiducia nel cambiamento troppe volte frustrata anche dall’incapacità che, per ragioni che sarebbe inutile esaminare qui ed ora, il centrosinistra ha dimostrato in passato proprio su questo terreno cruciale, quello del suo dna quale forza di progresso.
Io sono un cittadino ed un magistrato. Non rappresento nessuno se non me stesso, ma ho la fortuna di portare con me, in Italia come in Guatemala, un bagaglio di valori, idee e principi, che ritengo di condividere con molti italiani, i tanti “partigiani della Costituzione” che per fortuna affollano ancora ogni angolo del nostro territorio nazionale. E che, sconsiderati o appassionati che siano, credono ancora nella possibilità di cambiare in meglio il nostro Paese.
E quindi mi rivolgo a Lei, con l’umiltà ma anche con l’autorità che mi deriva da questo duplice ruolo di cittadino “partigiano della Costituzione” e di magistrato che discende da una generazione di uomini di Stato che hanno dato un contributo, anche di sangue, alla lotta contro i poteri criminali, per la giustizia e l’eguaglianza di tutti gli italiani, e quindi alla crescita della democrazia. E’ solo in virtù di questo che mi permetto di porLe anche alcune questioni ed interrogativi a cui spero vorrà rispondere, non a me, ma agli italiani indecisi ancora se votarLa come futuro premier.
Perché dico che l’Italia sta diventando un Paese senz’anima? Perché l’anima del Paese è la sua Costituzione, specie in un caso come il nostro, dove la carta dei principi fondamentali è densa di così tanti valori promotori di “diritti progressisti”. E questa Carta dei Valori e dei Principi troppe volte è stata sfregiata, mortificata, umiliata. I cittadini sono più poveri di diritti, a partire dal principio dei principi, a fondamento di tutti gli altri in uno Stato democratico, il principio di eguaglianza, che necessita di essere ripristinato, formalmente e sostanzialmente. E per ripristinarlo occorrono alcuni provvedimenti urgenti, che dovrebbero essere i primi da approvare da una coalizione governativa che voglia davvero cambiare le cose. A cominciare dalle leggi ad personam, che a decine sono state approvate negli ultimi anni. Un’intollerabile legislazione di privilegio che ha creato praterie di impunità per i potenti, ma soprattutto ha mortificato il principio di eguaglianza dei cittadini.
Le chiedo, la maggioranza da Lei guidata vorrà abrogare, tutte, senza esclusione alcuna, le leggi ad personam fino ad oggi approvate? Ed ancora, per parlare ancora del diritto penale, materia che mi è più congeniale per la mia passata esperienza, nel diritto anglosassone c’è un reato molto grave, l’ostruzione della giustizia, ampiamente praticata, e con successo, nel nostro Paese. Perché non introdurla anche in Italia, con pene altrettanto severe, così ampliando la figura attualmente vigente, ma inadeguata, dell’intralcio alla giustizia?
E perché non punire, finalmente, il mercato dei voti fra candidati in campagna elettorale e mafie e lobby illegali di ogni tipo e genere? Cominciando col sanzionare seriamente lo scambio elettorale politico-mafioso, oggi solo apparentemente punito dall’attuale formulazione dell’art.416-ter del codice penale, che invece è garanzia di impunità? E perché ancora ignorare l’incriminazione dell’autoriciclaggio che consente ai colletti bianchi riciclatori di professione di farla franca?
Ho fatto solo degli esempi minimi, ma c’è da affrontare il tema più importante del nostro Paese dentro una crisi profonda, etica ed economica. Due aspetti niente affatto indipendenti. Un Paese senza un’etica e senz’anima, come ho detto prima, un Paese senza passione, non può uscire dalla crisi dove si trova. Una crisi che perciò rischia di divenire un coma irreversibile, che non può essere curato da un medico dalle ottime cognizioni tecniche ma che, privo di passione per la giustizia e l’eguaglianza, può essere disposto, come l’attuale Premier Monti, a salvare una parte dell’organismo lasciando andare in cancrena gli organi ritenuti “meno nobili”, i deboli ed i senza diritto che in Italia oggi sono sempre più poveri e meno tutelati.
Bisogna cambiare pagina. E se si vuole la crescita dell’economia bisogna attaccare, alle radici e senza tregua, l’economia dell’illegalità, perché il “sistema Italia” è strangolato da mafie e corruzione, la vera palla al piede, la zavorra che impedisce alla nostra economia di crescere. Che respinge gli investitori esteri, che penalizza gli operatori economici puliti, che priva i lavoratori dei loro diritti. Solo se il prossimo Governo, caro Bersani, riuscirà davvero ad uscire dalla logica della convivenza col sistema politico-economico della illegalità, si potrà imprimere una spinta per la crescita.
Premiare l’economia della legalità e confiscare i patrimoni illeciti, tutti ed in fretta. I patrimoni della mafia e dei colletti bianchi suoi complici. E le ricchezze dei corrotti. Restituire il maltolto all’Italia della legalità. Non attraverso belle dichiarazioni di principio, ma attraverso provvedimenti concreti che ripristinino ciò che è stato distrutto negli anni della rottamazione berlusconiana del diritto penale e che costruiscano un diritto propulsivo dei diritti e della crescita economica nella legalità. Anche e non solo attraverso aggiornati strumenti operativi e legislativi dentro nuovi testi unici normativi, antiriciclaggio e antimafia.
Insomma, c’è molto da fare e si può fare. Si può cambiare l’Italia. Si possono creare le premesse per un autentico rinnovo della classe dirigente, recidendone i legami col sistema criminale integrato delle mafie e della corruzione che ha schiavizzato e sfruttato il Paese. Occorre una nuova Liberazione. La liberazione dalle cricche, dalle caste e dalle mafie. Lo potrà e lo vorrà fare davvero la compagine governativa che vuole guidare, caro Bersani, al contrario di quanto non si sia fatto in passato?

mercoledì 12 dicembre 2012

Primum stare insieme, deinde imparare a starci bene

12 dicembre 2012- Fonte: lavorincorsoasinistra -

di Ferruccio Nobili -
E’ nato in questi ultimi giorni “Cambiare si può”, quarto polo che vuole unire la sinistra anticapitalista, antiliberista e alternativa al centrosinistra e che si propone di essere lo strumento con il quale il popolo tornerà a prendersi direttamente la titolarità delle scelte che lo riguardano. Progetto tanto necessario quanto ambizioso e difficile. E non tanto per l’obiettivo ed il profilo politico (negli scorsi anni partiti, movimenti, associazioni e iniziative varie sono nate, e alcune pure morte, con i medesimi obiettivi) quanto per la difficoltà di tenere insieme gruppi e gruppetti che vorrebbero ognuno dare le sue regole, ognuno proporre i suoi “paletti” e magari ognuno decidere chi può entrare e chi no, e come. Oggettivamente gli uomini e le donne che si sono ritrovate lo scorso 1 dicembre al Teatro Vittoria sono tra di loro simili ma diverse e provenienti da storie parallele o confliggenti e molti sono convinti di avere le carte in regola per poter dettare agli altri comportamenti e modalità (anche se ai miei occhi circa la metà della assemblea del Vittoria era composta da militanti di Rifondazione e del PdCI romano). Come stare insieme quindi è il problema, ma stare insieme è la necessità, la opportunità. Chi sembra dover pagare queste battaglie integraliste dei molti “giustizialisti” della politica (e non solo) che si ritrovano nel Cartello, sono ovviamente le forze organizzate e tra loro i partiti. Che poi oramai (o per ora) si riducono al Partito della Rifondazione Comunista, il mio partito. Molti dei nuovi protagonisti (che in realtà spesso sono sulla breccia da prima dello psiconano) hanno tuonato dal palco del Teatro Vittoria contro i partiti tutti, riecheggiando nei toni e nei contenuti i proclami grilleschi. Non che i partiti tutti, e nello specifico anche Rifondazione, non abbiano da essere criticati profondamente perché ripropongono al loro interno anacronistiche “mediazioni” per determinare i gruppi dirigenti (che spesso risultano immobili e inadeguati) o perché non sono riusciti a distinguersi dagli “altri” (il voto in Sicilia dice che tu sei percepito “dentro” il sistema), ma anche perché fatalmente dalle loro fila non si sono intraviste neanche lontanamente che so, uno “scatto” in avanti organizzativo, una proposta convincente e/o sconvolgente o almeno un personaggio carismatico. Sarebbe falso e ingeneroso non dire che sforzi in quelle direzioni si sono tentati, ma sono stati o inefficaci o non convincenti o, in alcuni casi, frustrati all’interno prima ancora di nascere; non che non ci siano compagne e compagni brave o preparate, ma nessuna personalità è salita sulla scena emozionando. Insomma la critica/autocritica al ruolo che i partiti di sinistra hanno avuto nel ventennio berlusconiano è certamente necessaria e urgente, ma credo che i partiti, così come li definisce la nostra Costituzione, siano insostituibile pilastro del sistema democratico. Ma oggi la priorità è far decollare “Cambiare si può”, far nascere quindi una “novità” sul terreno politico che torni a dare speranza ed entusiasmo a quel popolo della sinistra che non vota o che si tura il naso per votare il meno peggio, e che abbia come obiettivo la progressiva “abolizione dello stato di cose presenti”. A sinistra tutti hanno invidiato Syriza. Ecco, Syriza è nata così. Uno sforzo per tenere insieme esperienze diverse unite dal comune obiettivo. E se per farlo i partiti, il mio Partito, dovessero accettare anche critiche parzialmente ingenerose o “passi indietro” parzialmente ingiusti credo che questo sia il momento di farlo. Sono infatti convinto che la crisi internazionale ed il Governo Monti siano stati “costituenti”. Nulla sarà come prima. E’ necessario quindi che sia presente sulla scena politica una vera alternativa. Il Fiscal compact, il pareggio di bilancio, la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro e gli altri impegni che l’Europa dei mercati chiede, renderanno identiche le politiche dei prossimi Governi sia che a vincere le prossime elezioni sia Bersani o Berlusconi o lo stesso Monti. Serve costruire rapidamente e convincentemente una alternativa al pensiero unico. E serve farlo ora, anche se probabilmente non è oggi che questa alternativa diventerà governo. Ma sono convinto che il tempo nel quale questa alternativa potrà candidarsi credibilmente a cambiare questo Paese non sia troppo lontano. Quanto il popolo, che pure lo voterà, reggerà il Governo Bersani con dentro SeL quando nella prossima manovra finanziaria sarà costretto a mettere ancora le mani in tasca ai cittadini per pagare i 45 mld del Fiscal Compact in regime di pareggio di bilancio e di crisi economica e depressione e calo delle entrate? Quanto reggerà la prossima giunta comunale di Roma, che probabilmente sarà guidata dal PD con SeL, quando per chiudere il bilancio, pagare il debito di 17 mld di Euro (lasciati in buona parte da Veltroni e aumentati da Alemanno) e pagare gli stipendi ai dipendenti sarà costretta a proporre di vendere ACEA e altre proprietà mobiliari e immobiliari pubbliche, quando sarà costretta ad aumentare l’IRPEF, a tagliare servizi a concedere concessioni edificatorie ai palazzinari per incassare gli oneri concessori? Io credo che tra un anno torneremo a votare perché sarà lo stesso popolo del PD e di SeL a chiederlo dalle nostre piazze. E per allora dovremmo essere pronti. Per quel momento dobbiamo lavorare adesso. Per offrire una sponda credibile a quel popolo. Per evitare che dalle politiche economiche subalterne ai grandi poteri ed alla grande finanza si passi a nuovi salvatori della Patria con vecchie ricette populiste reazionarie e/o autoritarie.
Abbiamo una grossa responsabilità che dobbiamo esercitare tutta in questi pochi mesi che ci separano dai prossimi appuntamenti elettorali. Dobbiamo mettere in campo il cambiamento ora, perché sia spendibile quando il Re sarà nudo. Ecco quello che secondo me dovremmo fare. Primum stare insieme e nel tempo imparare a starci bene. Se serve, facendo tutti i passi indietro che questo adesso necessiterà. Dobbiamo tornare ad investire nel nostro futuro e nel futuro di questo paese. Dobbiamo essere generosi perché le grandi storie sono necessarie per costruire il futuro e non temono momenti di difficoltà e di sacrificio. Dobbiamo essere tenaci perché le grandi storie hanno tanta “tela” e sapranno “filare”, anche se per riprendere la tessitura bisogna aspettare e contaminarsi.

Una lettura geopolitica della Crisi

 

Fonte. Megachip. - fabionews -
Un possibile percorso interpretativo della crisi, normalmente trascurato dalla principale corrente dei media, potrebbe passare anche attraverso una lettura delle dinamiche che intercorrono tra blocchi geopolitici.

Osservando una sorta di foto panoramica coglieremo meglio quegli elementi che nelle immagini troppo di dettaglio della crisi tendono a sfuggire.

Seguiamo questa ipotesi:

  1. Con il peggiorare della situazione spagnola e francese (ma è di oggi l’attacco al Belgio, all’Olanda e all’Austria) è ormai chiaro che la crisi di sfiducia dei mercati è sistemica: è nei confronti dell’Euro – Europa e non nei confronti di uno o due paesi.
  2. Chi sono i “mercati”? Di essi si possono dare due descrizioni. La prima è quella tecnica, ovvero la sommatoria di singole azioni di investimento prese in base alle informazioni disponibili. I mercati sono storicamente affetti da sindrome gregaria, per cui se una massa critica (quantità) o qualificata (qualità) si muove in una direzione, tutto il mercato la segue. Ciò adombra una seconda descrizione possibile ovvero quella dell’interesse strategico che una parte dotata di impatto quantitativo e qualitativo potrebbe avere, trascinando con sé il resto del mercato. I mercati, di per loro, non hanno interesse strategico: si muovono nel breve termine. Alcuni operatori di mercato però (banche e fondi anglosassoni) potrebbero avere interessi strategici e soprattutto essere in grado di perseguirli sistematicamente (rating, vendite alla scoperto, calo degli indici, rialzo dello spread, punizioni selettive, operazioni sui CDS, manovrare non solo i mercati ma - data l’importanza che questi hanno - l’intera vicenda sociale e politica di una o più nazioni. Tali comportamenti non solo perseguono un vantaggio a lungo periodo di tipo geostrategico ma garantiscono anche di far molti soldi nel mentre lo si persegue, una prospettiva decisamente invitante ).
  3. Quale potrebbe essere l’interesse strategico che muove alcuni operatori di mercato ? Decisamente lo smembramento e il depotenziamento europeo. Colpire l’Europa significa: 1) eliminare il concorrente forse più temibile per la diarchia USA – UK, tenuto conto che con la Cina c’è poco da fare; 2) riaprirsi la via del dominio incondizionato del territorio europeo secondo l’intramontabile principio del “divide et impera”; 3) eliminare una terza forza (USA – ( EU ) – Cina) riducendo la multipolarità a bipolarità, una riduzione di complessità. Male che vada si sono comunque fatti un mucchio di soldi e il dettato pragmatista è salvo.
  4. Su cosa contano i mercati ? Sulla oggettiva precarietà della costruzione europea al bivio tra il disfacimento e un improbabile rilancio strategico verso progetti federali. Sulla distanza tra opinioni pubbliche e poteri politici che rende appunto “improbabile” un rilancio dell’iniziativa strategica europeista proprio nel momento di maggior crisi, dove si innalzano non solo gli spread ma anche la paura, l’ottica a breve, la difesa del difendibile ad ogni costo, la rinascenza dell’egoismo nazionale. Sulla oggettiva asimmetria tra Germania e resto d’Europa, una asimmetria strutturale che fa divergere gli interessi, ma più che altro la scelta del come far fronte ad un attacco del genere. È pensabile che tutta Europa pur di mettere a sedere in breve tempo la c.d. “speculazione” , concorderebbe facilmente e velocemente sulla possibilità di far stampare euro in BCE per riacquistare debito, magari a tassi politici (un 2% ad esempio ) ma per la Germania questo è semplicemente inaccettabile. Infine sia la Germania, sia la Francia, sia a breve la Spagna e un po’ dopo la Grecia avranno appuntamenti elettorali (nonché ovviamente l’Italia ) e questi condizioneranno in chiave “breve termine” e “nazionale” le ottiche politiche. Ciò potrebbe spiegare anche il: perché adesso ?

A ben vedere e se volessimo seguire l’ipotesi “complotto anglosassone” si presenta anche un obiettivo intermedio: poter premere per disaggregare l’Europa in due, tutti da una parte e l’area tedesca dall’altra (area tedesca = da un minimo della sola Germania, ad un massimo di Olanda, Austria, Slovacchia ? Finlandia ? Estonia ? con particolare attrazione nei confronti dell’ex Europa dell’Est).

L’euro rimarrebbe all’interno di una zona che avrebbe la Francia e l’Italia come poli principali, si svaluterebbe, perderebbe il suo potenziale di moneta internazionale concorrente del dollaro (diventerebbe, per quanto rilevante, una moneta “regionale”).

Debito pubblico ...

QUANTO A CRIMINI DEUTSCHE BANK NON SI FA MANCARE NULLA
FONTE: COMIDAD

Nella Storia vi sono spesso corsi e ricorsi, che hanno perς la brutta abitudine di presentarsi in ordine sparso, senza quella linearitΰ che consentirebbe di prevedere e di regolarsi di conseguenza. Ci si aspettava infatti un 25 luglio del berlusconismo, invece ci θ arrivato tra capo e collo direttamente un altro 8 settembre, cioθ un collasso istituzionale che ha consegnato la sostanza e la forma della funzione di governo a poteri stranieri. Appena tre settimane fa la multinazionale Deutsche Bank si disfaceva di sette miliardi di euro di titoli del debito pubblico italiano, innescando una spirale internazionale di vendite. Oggi la stabilitΰ del debito italiano dipende dagli acquisti di titoli da parte della Banca Centrale Europea, che detiene giΰ ventidue miliardi di BTP. In una situazione analoga si trovano Paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e l'Irlanda, anch'essi messi in ginocchio dalle vendite di titoli dei rispettivi debiti da parte di Deutsche Bank, ed ora anch'essi sotto la tutela pelosa della BCE.(1)

Il debito pubblico fu un'invenzione britannica di qualche secolo fa, motivata ufficialmente con l'opportunitΰ per lo Stato di prendere a prestito il denaro che gli occorreva, piuttosto che procurarselo con altre tasse. In realtΰ il debito pubblico fu creato perchι serviva alle banche per potere investire una parte considerevole dei loro liquidi in titoli di Stato; titoli che permettessero alle banche sia di lucrare interessi sicuri, sia di servire da garanzia patrimoniale in caso di necessitΰ. Negli ultimi anni il debito pubblico degli Stati si θ gonfiato a dismisura, poichι i governi avevano bisogno di fondi per soccorrere le banche entrate in crisi per lo scoppio della "bolla" (leggi: truffa legalizzata) dei titoli derivati. Le banche ingrate possono oggi ricattare i governi che si sono tanto indebitati a causa loro, e pensano di cogliere l'occasione per sostituire la cartaccia dei titoli con i patrimoni immobiliari pubblici. Oggi in Europa il Paese che si θ piω indebitato per salvare le banche θ proprio la Germania, ed i guai arriveranno anche lμ; ma le multinazionali come la Deutsche Bank cominciano prendendo di mira i Paesi piω deboli, usando il governo tedesco come castigamatti.

Ecco perchι si insiste tanto sulla privatizzazione dei beni demaniali, ed anche sulla "liberalizzazione" dei servizi pubblici locali, dato che ogni azienda municipalizzata dispone di un notevole patrimonio in edifici e terreni. Il significato, neppure tanto recondito, del chimerico vincolo di pareggio di bilancio imposto dal duo Merkel-Sarkozy, sul piano pratico consiste appunto nel costringere gli Stati a cedere i propri patrimoni immobiliari alle multinazionali creditrici. In Italia, come altrove, l'opinione pubblica perς θ stata con

vinta dai media che il debito pubblico serva a pagare gli stipendi e le pensioni degli statali, perciς risulta agevole agli stessi media lanciare ora un’offensiva ulteriore di psicoguerra nel senso del "colpanostrismo": ben ci sta, perchι non abbiamo saputo autogovernarci, abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, perciς adesso ben venga la tutela e la guida tedesca. In realtΰ in Germania la Deutsche Bank fa molta piω paura che in Italia.

Inchieste giornalistiche della emittente tedesca pubblica Ard TV hanno documentato che il governo Merkel prende ordini direttamente da questa multinazionale del credito. Si θ scoperto che il ministro delle Finanze tedesco, Schauble, ha gestito la crisi finanziaria greca in base ai documenti-direttiva elaborati negli uffici della Deutsche Bank, e ciς mentre la stragrande maggioranza dei media e dei commentatori ufficiali ci raccontava invece che la Merkel risultava condizionata dal timore dei risultati delle elezioni amministrative in Assia o in Westfalia.(2)

"La partita da vincere è contro il ricatto dei mercati". Intervista a Vladimiro Giacché

Autore: fabio sebastiani - controlacrisi
          
Nel giro di pochi giorni nella politica italiana c’è stato un cambio di passo notevole. Qual è la tua opinione, da economista?
Silvio Berlusconi, come al solito, ha fatto saltare il tavolo E l’altro ha reagito, rilanciando. Il premier sta cercando di rendere evidente la sua indispensabilità. Certo, c’è la possibilità che rientri nell’agone politico. E questo sarebbe sicuramente un tradimento della cosiddetta veste tecnica. Probabilmente avrebbe una funzionae aggregante mentre l’altro cercherebbe di aggregare sulla destra. Berlusconi vuole diventare indispensabile per gli scenari del dopo voto, per cercare di condizionare ancora il quadro politico.
Come giudichi la reazione dei mercati?
Il dato generale dei mercati era abbastanza prevedibile. Tutto questo è aggravato dal fatto che c’è un momentaneo sollievo per la situazione della Grecia, mentre la Francia è ai rendimenti dei suoi titoli più bassi della storia dell’euro. Comunque, al di là di questo, era prevedibile. E’ anche un po’ una lezione, ovvero un antipasto di quello che succederà in tempo di elezioni. E quindi per la politica sarà molto importante la reazione che sarà in grado di produrre a questa situazione. Cioè, sarà molto importante vedere quello che farà Bersani e il Centrosinistra, perché è difficilmente accettabile un tipo di pressione così forte da parte dei mercati. L’opinione comune è che lo spread lo si deve accettare come la pioggia. Non è come la pioggia perché ci sono degli interessi ben precisi dietro. C’è un elemento più di fondo.
Cioè, vuoi dire che in questo momento non è centrale la competizione politica ma quella della politica rispetto allo strapotere dei mercati?
Di fronte alla corsa dello spread e degli interessi sui titoli, probabilmente saranno tutti posti di rientrare entro certi parametri, rispondendo colpo su colpo. Ma il punto è se fai politica o no. Questo è un tema molto importante perché se si accetta il principio dello stormir di fronde e tu regoli le tue azioni per evitare che questo succeda poi si crea davvero una situazione molto imbarazzante con un avvitamento verso il basso di pil e deficit. E’ molto importante che oggi ci sia stata questa avvisaglia perché così possiamo prendere le misure ed avere sott’occhio un elemento di chiarezza sul nostro grado di ricattabilità.
Tra i provvedimenti che stanno saltando a causa della crisi c’è quello della Tobin tax, anche se era in sedicesimo.
Non è utile la Tobin tax, e alla fine è quasi nulla. E credo sia stata usata in Germina come specchietto delle allodole per votare la Merkel. Invece, un altro tema è il dato sulla produzione industriale. E questo non ha a che fare con Berlusconi ma con Monti. Chi opera sui mercati sa benissimo che il tuo debito è insostenibile per una pluralità di ragioni tra cui l’indice sulla produzione industriale. Il vero problema dello spread è la bilancia commerciale. E questo dato del meno 6% lo mette ben in evidenza.
A sinistra si comincia a prendere in considerazione l’ipotesi di un “piano b” fuori dall’euro.
La vera alternativa non è la costruzione di un euro B. Per noi in realtà i problemi sono di molteplice natura. L’altra cosa che non bisogna dimenticare, infatti, è che siamo subfornitori della Germania e questo mal si concilia con un’altra area con caratteristiche lontane dall’Europa centrale. Il problema secondo me è un altro, e poco giocato da un punto di vista negoziale dai governi: è vero che chi ha beneficiato dell’euro è la Germania, e quindi è insensato politicamente far pagare il peso dell’aggiustamento per rendere più stabile l’area soltanto ai paesi più deboli.

I populisti dello spread hanno già vinto le elezioni

Fonte: micromega | Autore: giorgio cremaschi
        Il ruolo dello spread nelle prossime elezioni come in tutto ciò che resta della nostra democrazia è potentemente riemerso. Lo aveva già annunciato Giorgio Napolitano dichiarando di attendere i mercati. Gli hanno fatto eco i mass media e gli attori, da Fiorello a Littizzetto. Così lunedì mattina le banche e i fondi, soprattutto quelli italiani, hanno unito l’utile con il dilettevole. Hanno venduto titolidi stato che avevano acquistato a prezzo più basso realizzando un discreto utile. E hanno fatto risalire lo spread chiarendo a tutti coloro che si candidano alle elezioni chi comanda davvero.
Berlusconi è stato solo un utile idiota di questa operazione di regime. Tutti in Italia sanno che non solo non ha alcuna possibilità di vincere, ma che il suo ritorno in campo è il segno di una crisi della destra e dei suoi penosi gruppi dirigenti che è destinata a durare. Quel vero politico cinico e spregiudicato quale è Mario Monti, ha usato la disperazione del populista di Arcore per mettere sull’avviso tutti e in primo luogo Bersani ed il centro sinistra.
Io sono lo spread, ha fatto sapere il nuovo Re Sole, la politica italiana deve inchinarsi a me e alla mia agenda, il modo si vedrà. Subito il can can di regime si è scatenato.
Il problema non è solo Berlusconi, ma anche l’inaffidabilità del centro sinistra che ha al proprio interno chi, udite udite, osa mettere in dubbio qualche parte dell’operato del governo. I telegiornali si sono diffusi nell’intervistare i nuovi leader della indignazione civile, i broker della Borsa, trovando pensosa conferma di queste preoccupazioni. A cui il centro sinistra ha risposto o con balbetti, o con la fiera affermazione di Bersani sul Wall Street Journal: noi siamo con Monti, che non ha bisogno di candidarsi perché manterremo tutti i suoi impegni e magari lo faremo Presidente della Repubblica.
Così lo spread ha già vinto le elezioni prima dello scioglimento delle Camere. Chi oserà più, stando al governo, non dico mettere in discussione il fiscal compact o il pareggio di bilancio, ma la controriforma delle pensioni e del lavoro o l’Imu? Ma andiamo, sappiamo tutti che a questo punto le elezioni diventano soprattutto una bolla mediatica di chiacchiere nelle quali diventa difficile anche promettere, e per questo tornerà in scena il vecchio spettacolo di berlusconiani e anti berlusconiani.
Se si volesse fare diversamente si dovrebbe avere il coraggio di sfidare apertamente lo spread e di predisporre misure atte a neutralizzarne i contraccolpi. Così come, se si mettono le tasse ai ricchi ci si deve preparare alla loro fuga all’estero e agire di conseguenza, così se si vuole fare qualcosa di diverso da Monti bisogna dare per scontata la vendetta dello spread e attrezzarsi contro la speculazione e la finanza. Altrimenti è quest’ultima che governa, con Monti.
Non è lo stanchissimo populismo di Berlusconi a farmi paura, ma quello dello spread, la lotta di classe dall’alto del grande capitale che fa appello al popolo per difendere il governo delle banche. Il palazzo politico e lo stesso Vaticano si sono già prostrati. E non credo che Grillo possa rappresentare una reale alternativa, per la semplice ragione che i voti li prende contro i ladri di galline della casta politica e non contro i signori dello spread.
La sinistra alternativa si sta precipitosamente e disperatamente organizzando, ma non so se c’è il tempo per superare anni di ritardi nelle scelte e nei programmi. Così siamo politicamente molto più indietro della Spagna o della Grecia, ma come la Grecia andremo a votare sotto la dittatura dello spread.
L’unico vantaggio che abbiamo è che queste elezioni già segnate sono vicine e passeranno presto. Poi ci sarà la lotta contro il potere dei signori dello spread che dovremo organizzare, e che sarà sempre più forte man mano che l’avanzare della crisi di quel potere mostrerà l’inutile ferocia.
Per definire una agenda politica ed economica alternativa a quella che ci domina, noi che abbiamo organizzato il primo No Monti Day e che già sappiamo ce ne vorranno altri ci incontriamo a Roma il 15 dicembre.

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