Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 12 maggio 2012

Una montagna di poveri per fare un solo ricco

La crisi ha aumentato le diseguaglianze sociali e di reddito. Ma è ancora possibile un rinnovato intervento pubblico in economia? Recensione a "Nove su dieci"
L'attuale crisi economica è stata oggetto di molte analisi, a partire dal suo inizio, databile oramai quasi 5 anni fa. Diversi sono stati infatti i libri e i saggi che ne hanno evidenziato i differenti aspetti, dal nuovo ruolo assunto dai mercati finanziari agli effetti sull'economia reale, dall'adozione di politiche di contenimento del debito pubblico alle proposte per la ripresa economica. Minor attenzione ha invece avuto l'analisi degli effetti sulla distribuzione del reddito. Non che tale tema non sia stato al centro di riflessioni specifiche, ma fino ad oggi non mi sembra che esista in Italia una raccolta sistematica dei dati relativi al peggioramento della distribuzione del reddito, sia a livello «funzionale» (ripartizione tra redditi da lavoro, da impresa e rendita) che individuale (per decili della popolazione).

I numeri del declino italiano
A colmare questa lacuna provvede l'ultimo libro di Mario Pianta, dal titolo già di per sé assai esplicativo: Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa (Laterza, pp. 175, euro 12). Docente di Politica Economica all'Università di Urbino nonché collaboratore ed editorialista de «Il Manifesto» ed animatore della campagna «Sbilanciamoci!», Mario Pianta è un attento analista dei processi di innovazione e crescita in Italia ed in Europa. Nei due capitoli centrali del libro, fornisce una dettagliata analisi della concentrazione dei redditi in Italia e del peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione italiana negli ultimi dieci anni (capitolo 3), alla luce del declino dell'economia italiana, negli anni del Berlusconismo e della massima ascesa del pensiero neoliberista (capitolo 2).
Leggere uno dopo l'altro i diversi dati sulla ripartizione dei redditi in Italia (con una dinamica crescente delle rendita, soprattutto finanziaria, un livello dei profitti superiore alla media europea ed un calo della quota dei redditi reali da lavoro), e sulla disuguaglianza (il reddito di un «ricco» equivale a quello di 100 «poveri») fa impressione. Comparando la situazione italiana a quella europea (con particolare riferimento alle analisi di Piketty e Atkinson), si possono ricavare alcune indicazioni interessanti. Emerge infatti una correlazione negativa tra bassa crescita economica e elevata concentrazione e disuguaglianza nei redditi. Ed è proprio partendo da questa osservazione che Pianta passa in rassegna i fattori principali del declino italiano. «Tra il 1999 e il 2010, il Pil è cresciuto in totale di meno del 10% e il reddito per abitante del 4,5%: in dieci anni, l'Italia ha avuto lo sviluppo che la Cina registra in un solo anno». I consumi per abitanti sono saliti solo dell'1,3% nell'intero decennio. Contemporaneamente, la capacità di risparmio delle famiglie italiane si è praticamente dimezzata. Se tale dinamica ci mostra come la mancata crescita della domanda interna abbia negativamente inciso sulle potenzialità della crescita economica, dal lato dell'offerta si registra quello che Pianta definisce «Il miracolo italiano della produttività che diminuisce». A differenza di chi sostiene, anche all'interno dell'attuale governo, che tale esito negativo sia attribuibile alle rigidità del mercato del lavoro (e magari alla supposta pigrizia dei lavoratori) e alla burocrazia imperante, Pianta osserva che la struttura produttiva e tecnologica italiana non è adeguata a reggere la pressione competitiva internazionale, soprattutto per la presenza di due fattori che si alimentano a vicenda: imprese troppo piccole e carenza di investimenti in tecnologia e innovazione.

Se “il manifesto” chiude si apre un’altra ferita

Fonte: il manifesto | Autore: Paolo Ferrero
       
La possibile chiusura del manifesto rappresenta una gravissima e ulteriore ferita alla libertà di stampa in questo paese. I tagli del governo stanno portando alla chiusura le diverse testate della sinistra: prima Liberazione e adesso il manifesto. Proponiamo ai compagni e alle compagne del manifesto di costruire insieme tutte le iniziative di mobilitazione possibili per ottenere finanziamenti adeguati a garantire la libertà di stampa e la riapertura delle nostre testate.

Francia: il voto della finanza

di Mario Pianta

È la finanza che deve adattarsi alla democrazia, non viceversa: la vittoria di Hollande potrebbe forse mettere fine alla dittatura dei mercati

La democrazia vota contro l’austerità, e la finanza vota contro la democrazia. Dopo il successo della sinistra nelle elezioni in Gran Bretagna (locali), Francia (presidenziali), Grecia (politiche), Germania (Schleswig-Holstein) e Italia (molte città), la finanza ha finalmente paura. Paura che il programma del nuovo presidente socialista francese François Hollande sia realizzato in tutta Europa: vincoli alla finanza, tassa sulle transazioni finanziarie, rinegoziazione del “fiscal compact” che condanna l’Europa alla depressione. Un programma di buon senso, essenziale per uscire dalla crisi, ma che ha scatenato ieri mattina la corsa alle vendite nelle Borse in Asia e in Europa (poi ridimensionate), una scivolata dell’euro, l’impennata dei tassi d’interesse sul debito pubblico di Grecia (ora al 25%) e Italia (4 punti in più dei titoli tedeschi). Cadute e rimbalzi delle Borse mostrano la schizofrenia della finanza: ha bisogno della destra per la libertà di speculare, ma senza la fine dell’austerità non può tornare a fare profitti. Con Hollande potrebbe così trovare un compromesso, ma con la Grecia che si permette di dimissionare i partiti dell’austerità la speculazione è senza pietà, e il Fondo monetario minaccia di non versare gli aiuti se i tagli previsti non avranno un governo capace di realizzarli. Ora che la Bce ha messo al sicuro i bilanci delle grandi banche con mille miliardi di euro, la soluzione per il debito pubblico e per l’emergente collasso delle banche private spagnole passa per un braccio di ferro tra Hollande e Merkel, e sarà decisivo lo schieramento degli altri paesi. L’asse “Merkozy” potrebbe essere rimpiazzato da un’alleanza tra la Francia e i paesi debitori – a Madrid il conservatore Rajoy è ben contento del cambiamento di Parigi – che usi Bce, fondo “salvastati”, eurobond per risolvere il debito pubblico. Perfino a Berlino si fanno passi indietro: il ministro dell’economia Wolfgang Schäuble, un “falco”, ora ammette che i salari tedeschi devono aumentare per far da locomitiva alla ripresa europea: il sindacato chiede aumenti del 6,5%, le imprese offrono la metà. Cose impensabili fino a poco fa tornano possibili. Il vento è cambiato e la novità è semplice. E’ la finanza che deve adattarsi alla democrazia, gli eletti devono adattarsi agli elettori: la dittatura dei mercati potrebbe (forse) finire. In questa partita Roma starà con Parigi o con Berlino? Con il lavoro o con la finanza?


Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto dell'8 maggio 2012

Benecomunisti, che orrore

di Guido Viale - ilmanifesto -
Propongo di non usare mai più il termine "benecomunista": è orribile, ridicolo, equivoco e neogotico. Sembra il nome di una congregazione iniziatica fantasy. Poi, per evitare disquisizioni dotte ma superflue, chiamando magari in causa persino san Tommaso, propongo una distinzione netta tra il concetto di bene comune, senza ulteriori determinazioni, e quello di beni comuni; che può anche essere declinato al singolare come bene comune, ma solo se riferito a entità specifiche e circoscritte, anche se globali e diffuse: come lo sono per esempio l'acqua, l'atmosfera, l'informazione, i saperi, la scuola.
Bene comune rinvia a una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece al conflitto: contro l'appropriazione, o il tentativo di appropriarsi, di qualcosa che viene sottratto alla fruizione di una comunità di riferimento. Una comunità che non include mai tutti, perché si contrappone comunque a chi - singolo privato o articolazione dello Stato - da quel bene intende trarre vantaggi particolari, escludendone altri. In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta, sia nella rivendicazione che nell'esercizio di un diritto acquisito, forme di controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o ai relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della democrazia rappresentativa.
Per me il concetto di beni comuni ha relativamente poco a che fare anche con il "Comune" di cui scrivono Negri e Hardt. Quel "Comune" non è che l'ultima versione di una soggettivazione totalizzante del reale che ha attraversato una successione di figure: Classe Operaia, "operaio massa", "operaio sociale", "moltitudine", per approdare, per ora, al "Comune". È un'entità che "gioca con se stessa", producendo il proprio antagonista (la Classe Operaia "sviluppa" il Capitale; la moltitudine "crea" l'Impero, ecc.) per poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall'esito precostituito. Le lotte per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi e meno che mai predeterminati: anzi, il rischio a cui sono esposte - e insieme ad esse, coloro che se ne fanno protagonisti e l'umanità tutta - è di giorno in giorno maggiore.
In entrambe queste accezioni "comune" non è comunque la stessa cosa di "pubblico": soprattutto se per pubblico si intende "statuale". Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico, risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. In realtà sono le modalità di esercizio del potere su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo, dei vantaggi che può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipativa che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un apparato statale o di una sua articolazione. Il degrado e la rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica (dall'Iri a Finmeccanica, da Fs alle ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, dimostra in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel senso di statale, e comune.

Hollande presidente. Speranza per l'Europa

L'elezione di Hollande impensierisce i cantori dell'ortodossia economica e restituisce speranza alla sinistra europea. Il suo programma, pur moderato, può ridare forza a un'Europa diversa
François Hollande ce l’ha fatta: è il nuovo presidente della repubblica in “una Francia in agitazione, inquieta e divisa” (Izraelewicz, 2012). In queste note cerchiamo di analizzare gli aspetti economici del suo programma e di quello dell’altra figura emergente della sinistra, J.-L. Melenchon. Del resto la campagna elettorale si è concentrata in larga parte proprio sui temi dell’economia e del lavoro. Intanto la crisi europea, che sembrava miracolosamente sopita, tende a prendere nuovo vigore. In particolare, i dati recenti sull’economia spagnola appaiono terrificanti: in una situazione di recessione che si annuncia prolungata, ormai una persona su quattro è disoccupata, e lo è il 50% dei giovani; e qualcuno parla della necessità di una ricapitalizzazione delle banche per 100 miliardi di euro. In Grecia invece le ultime stime sull’andamento del Pil per il 2012 parlano di una sua diminuzione del 5%, dopo una caduta del 6,9% nell’anno precedente; il paese è al quinto anno consecutivo di recessione. Si prevede per quest’anno che la disoccupazione raggiunga il livello del 19%.
Le posizioni della stampa legata al mondo del business
Ovviamente non tutti, nelle scorse settimane, hanno auspicato la vittoria del candidato socialista in Francia. Ricordiamo ad esempio la posizione dell’Economist (Economist, 2012). Il settimanale britannico, dopo gli esiti del primo turno, ha previsto che in caso di vittoria di Hollande la stessa prosperità della Francia potrebbe essere a rischio. Per il giornale, l’uomo politico socialista mostra un atteggiamento anti-business e la risposta dei mercati potrebbe essere brutale, danneggiando anche i paesi vicini. Un uomo piuttosto pericoloso, avverte il settimanale economico, in particolare perché potrebbe contestare le riforme che l’Europa deve portare avanti per far sì che l’euro sopravviva. Le posizioni dell’Economist, certamente discutibili, nonché quelle piuttosto ostili del Wall Street Journal, rappresentano il pensiero di una parte maggioritaria degli ambienti finanziari internazionali.
Ma non tutto il mondo del business gli è nemico. Così, ad esempio, gli articolisti del Financial Times si dividono tra quelli dubbiosi e quelli che guardano invece con simpatia al rinnovamento della presidenza francese. Tra i benevoli, alcuni lo fanno anche perché sperano che nella pratica Hollande annacqui almeno un poco il suo programma. E’ lo stesso Financial Times a segnalare come mentre da una parte stanno ritardando gli investimenti in attesa dei risultati delle elezioni, dall’altra gli ambienti economici francesi mostrano una certa simpatia per i socialisti e sembrano pensare che alcune delle misure annunciate da Hollande non saranno poi realizzate (Barber, 2012).
Le idee sull’Europa
Nel programma di Hollande i dati che più hanno colpito l’immaginazione sono, da una parte, l’intenzione di ridiscutere il pacchetto delle misure di austerità approvato a livello europeo nel dicembre 2011, dall’altra l’introduzione di un’aliquota fiscale marginale del 75% sui redditi dei contribuenti più ricchi. Ma vediamo il suo programma e quello di Melenchon più nel dettaglio, facendo riferimento a una sintesi dei programmi dei candidati pubblicata dalla stampa (Le Monde, 2012).
Per quanto riguarda l’Europa, Hollande vuole rinegoziare il cosiddetto fiscal compact da poco approvato. Peraltro, non appare del tutto chiaro se “si limiterà” a chiedere che, accanto al patto di stabilità, venga inserito anche un accordo per la crescita o se domanderà anche un ripensamento delle misure di austerità già decise. Nelle ultime settimane, già la semplice possibilità che Hollande fosse il più votato al primo turno aveva contribuito a cambiare il clima in Europa; rispetto ai precedenti discorsi, concentrati sull’austerità, quasi all’improvviso sono tornati a prevalere quelli preoccupati di individuare misure per la crescita. D’altro canto, sembra che Angela Merkel sia stata sentita dire che lavorare con Hollande potrebbe essere un incubo. Anche se, a dire della stampa, Hollande e la Merkel starebbero già trattando in maniera riservata sulla questione.
Il politico socialista prevede anche una modifica del ruolo della Bce, affinché privilegi l’occupazione e la crescita, introduca euro-obbligazioni per mutualizzare il debito dei vari paesi, vari il federalismo budgetario e l’istituzione di un budget europeo, compreso un programma di investimenti rilevante, in cui abbia un ruolo forte anche la Banca europea per gli investimenti (Bei).
Più radicali di quelle di Hollande, su questo come su altri fronti, appaiono le misure previste da Melenchon, il cui successo al primo turno delle elezioni è stato meno clamoroso del previsto, anche se sulla scena politica del paese si è imposto comunque un nuovo protagonista. Si devono tra l’altro apprezzare in generale le sue posizioni, come sottolinea il direttore del Nouvel Observateur (Joffrin, 2012), perché rappresentano un sentimento di sincera indignazione contro le ingiustizie della mondializzazione e incarnano il sogno persistente di un mondo diverso, più giusto ed umano. Melenchon vorrebbe intanto una maggiore democrazia e una maggiore attenzione ai temi ambientali in seno alle istituzioni europee, meno poteri alla Commissione e maggiori al Parlamento; chiede poi una rifondazione della Bce, con la creazione, tra l’altro, di un fondo di sviluppo sociale, ecologico e solidale; infine, vorrebbe l’uscita dall’euro e dal trattato di Lisbona.
IL MANIFESTO WILL NEVER CLOSE DOWN !

venerdì 11 maggio 2012

Lotta di classe

di Rossana Rossanda  - sbilanciamoci
 -Gallino sul conflitto capitale/lavoro
Con un titolo provocatorio, parole che le ex sinistre italiane non hanno il coraggio di pronunciare, Luciano Gallino ha chiamato il suo ultimo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, pp. 212, euro 18). Quante volte sentiamo dire «la lotta di classe» non c'è più? Non esistono più le classi sociali? Non ci sono più una destra e una sinistra? Dov'è oggi l'operaio? A che servono i sindacati? Come si può pretendere oggi un posto fisso per la vita? E poi, che noia il posto fisso!». Eccetera. E da queste asseverazioni parte Gallino nel dare al suo lavoro la forma di un'ampia intervista alla sociologa Paola Borgna, definendole come sciocchezze, ideologia, falsa coscienza della società. Mai infatti il capitale ha messo al lavoro tanti milioni di persone come oggi con l'estensione dell'economia mondializzata. Mai come oggi l'innovazione tecnologica ha permesso di ridurre il lavoro degli uomini su ogni segmento del produre, aumentandone la produttività, non già per liberare il lavoratore dalla fatica ma per ridurne il costo al produttore. Mai la tecnologia della comunicazione gli ha permesso come ora di conoscere in tempo reale dove si trovano le forze di lavoro il cui costo è più basso. Mai come ora, organizzate in megafusioni e saltando da investimenti in produzione a quelli sulla finanza e viceversa, i mezzi di cui dispone gli permettono di spostarsi dove la forza di lavoro costa meno, lasciando a terra la manodopera di cui aveva bisogno per esempio in Europa, dove i lavoratori avevano conquistato da un secolo salari e diritti maggiori.
Si è allargato quindi, in quantità e qualità, il conflitto di interessi fra capitale e lavoro, i capitali concorrono (ma è più elegante dire «competono») nel ridurne il costo, mentre i vecchi e nuovi lavoratori, non ancora o non più organizzati, si fanno la guerra, concorrendo gli uni contro gli altri più o meno consapevolmente al ribasso, per conquistare un posto. Dunque le classi non solo ci sono ancora, ma l'offerta di manodopera e lo sventagliarsi delle retribuzioni, che trent'anni fa dispiegavano su scalini di circa trenta grandezze diverse (ed era già un bel salto), oggi avviene in grandezze da 1 a 300: in altre parole occorrono trecento anni di lavoro a una operia o cassiera dei supermercati per guadagnare quello che il suo direttore generale guadagna in un anno. Qualcuno ricorderà che negli anni Ottanta i padroni italiani sostenevano che il costo del lavoro era diventato una voce minima nell'insieme dei costi di bilancio, ma oggi è su di esso, sia pur calato in assoluto, che esercitano la maggiore pressione possibile. Nella lotta di classe sono cambiati l'attaccante e chi si difende; l'attaccante che, pur in inferiorità di mezzi, era il salariato oggi si difende sia dal padrone sia dallo stato, che legifera a favore del padrone - Monti ed Elsa Fornero ne sono figure da manuale. Adesso le parti sono invertite. All'attacco è il capitale e il lavoro è sotto botta.

Divisi e senza partito
Qualche anno fa, scendendo all'aeroporto di Roma, mi sorprese un grande pannello luminoso che riproduceva il famoso quadro di Pelizza da Volpedo, «Il quarto stato», dove operai e contadini, assieme a una donna con il bambino in braccio, marciano avanti senza paura, a rappresentare il proletariato emergente come figura politica, con i suoi sindacati e i suoi partiti. Soltanto che al posto delle facce affaticate e degli abiti modesti, giubba sulla spalla, c'erano una schiera di inappuntabili manager in giacca e cravatta che avanzavano sotto la scritta: «Capitalisti di tutto il mondo unitevi!»
Pareva una battuta, invece era già fatto. Mentre i proletari non solo sono arretrati, non solo non hanno più, in Italia e altrove, un partito che li rappresenta in parlamento, ma si sono divisi. Gli stessi metalmeccanici, le tute blu cui vanno le nostre simpatie e speranze, non sono collegati neanche a livello europeo, neanche quando dipendono dallo stesso padrone, e quindi sono esposti a essere battuti, su questo o quel punto, ora l'uno ora l'altro. La pressione per azzerare il contratto nazionale, l'indebolimento dell'articolo 18, l'allontanamento dell'articolo 81 della Costituzione, il moltiplicarsi degli «atipici» per dire il sempre più ampio precariato diminuisce anno per anno il peso contrattuale della forza di lavoro, specie europea, tendendo ad allinearla al modello degli Stati Uniti, a negoziato principalmente privato fra datore di lavoro e lavoratore. L'ideale del padronato è che il lavoro possa essere assunto e dimesso solo per il tempo che serve all'impresa e a alle condizioni più modeste possibile. Non ci siamo ancora del tutto, ma la tendenza è questa. Il volume di Gallino infilza una per volta, capitolo per capitolo, questa frammentazione del lavoro e della sua capacità di difesa, ribattendo alle domande di Paola Borgna, che si fa ogni tanto avvocato del diavolo cioè degli stereotipi dell'opinione dominante.
Dominio dell'economia
Con la stessa chiarezza lega le politiche di austerità alla loro natura di classe, mentre le istituzioni, il ceto politico tutto e la presidenza della Repubblica si affanna a descriverla come mera tecnica per rimettere i conti a posto, e indica nella flessibilità del lavoro il fine effettivo cui mira il padronato, che spera di mantenere a tempo indeterminato soltanto quella parte di manodopera che gli garantisce un certo know how, facendo ruotare tutto il resto nel minor tempo e con le minori garanzie possibili. Ma con questo viene meno la possibilità per il lavoratore dipendente di programmare la propria esistenza che viene meno, chiudendo il cerchio sotto il profilo della rappresentanza politica: più si dilata la distanza di reddito fra le classi più sale la sfiducia nella capacità e nella stessa volontà della sfera pubblica di fungere da compensatore o moderatore della tendenza sfavorevole alle classi subalterne. Più si è costretti a constatare che non siamo «nella stessa barca», nel senso che i più possono esserne sbattuti fuori a ogni momento, meno i partiti, specie quelli che si dicono di sinistra, appaiono credibili. Ma meno la sfera politica è credibile, più la cosiddetta «economia» diventa dominante.

Finta competizione, veri monopoli

Oligopoli, alleanze tacite, forme di collusione: la crescente concentrazione del potere economico-finanziario produce effetti deleteri sull'economia globale
Nei giorni neri delle borse hanno agito gruppi finanziari, grandi banche, fondi d’investimento. Si sono mossi attori come Goldman Sachs e Morgan Stanley. Ma in primo piano si sono udite le famose agenzie di rating emettere giudizi “inappellabili” su stati, società, istituti di credito: realtà di cui esse stesse sono spesso azioniste. Standard & Poor’s, ad esempio, fa parte del gruppo editoriale Mc Graw Hill (che pubblica fra l’altro Business Week); e a sua volta Moody’s è controllata da Warren Buffett, editore del Washington Post e presente in settori diversi direttamente o indirettamente. La grande speculazione possiede giornali, televisioni, agenzie di rating. E usando mezzi di comunicazione ultraveloci, come vedremo, può anticipare qualunque normale trader. Nessuno osa più sostenere che la borsa segue regole controllate, che gli scambi sono aperti a tutti e che il mercato finanziario trova i suoi naturali equilibri. Ma sarebbe necessario a questo punto rendere ancora più visibile il livello di concentrazione di tutte queste attività, con il loro intrecciarsi in una rete invisibile di partecipazioni incrociate. Tra le grandi società finanziarie, dominanti l’economia mondiale dopo la fine della società industriale, si è registrato un succedersi di fusioni e acquisizioni, di alleanze e cartelli. Il fenomeno, avviato negli ultimi vent’anni del novecento è continuato nel nuovo millennio attraversando crisi, riprese, accelerazioni. In uno dei momenti più critici degli ultimi dieci anni, l’incrudirsi della crisi globale è stato sventato con la nota operazione di salvataggio da parte dell’amministrazione Obama. Tale operazione era diretta a non peggiorare ulteriormente una situazione generatasi già a partire dalla deregulation reaganiana e aggravatasi con l’abolizione, negli anni ’90, della separazione tra funzioni bancarie tradizionali e operazioni d’”investimento”. Il sovrapporsi di quelle funzioni (cui oggi si vorrebbe porre rimedio) aveva favorito una maggior larghezza nel concedere prestiti per acquisti anche immobiliari nonostante la perdurante frenata dei salari. Si può incidentalmente ricordare che senza tale indebolimento dei redditi da lavoro la famosa crisi dei mutui non sarebbe esplosa in modo così devastante.
L’intervento di salvataggio, pur necessario nell’immediatezza per scongiurare il peggio, si era accompagnato a ulteriori processi di concentrazione. Ad esempio, aveva favorito l’acquisizione di banche in difficoltà da parte di grandi gruppi come J.P.Morgan, Bank of America o Goldman Sachs. Operazioni che sembravano riproporre scenari da classico capitale monopolistico, comprendendo anche la presenza pubblica nella finanza privata. D’altra parte, “fondersi per meglio competere” è un motivo ricorrente nell’ideologia e nella pratica dell’economia liberista. E nel suo realizzarsi sembra condurre la competizione a rovesciarsi nel proprio opposto.
Dopo alterne vicende tale rapporto apparentemente paradossale tra concorrenza e tendenze monopolistiche riprendeva con accelerato vigore. Dopo il 2010, a Wall Street e a Francoforte; nella City di Londra come a Milano Piazza Affari; e così nelle Borse di Parigi e Zurigo; ma anche di Tokyo e delle piazze d’oriente e del mondo intero, la competizione continuava a esprimersi in vari modi e dimensioni. E a rovesciarsi sotto innumerevoli forme. Anche portando vicino a una fusione tra le stesse Borse, come quella tra New York Stock Exchange Euronext e Deutsche Borse, che avrebbe portato fra l’altro a un’ulteriore concentrazione nel campo dei derivati: operazione bloccata almeno temporaneamente dall’Antitrust europeo.


MONTICIDI (MONTI related suicides)
“I have to finish my job”

giovedì 10 maggio 2012

La Germania spinge Atene: «Non vogliamo trattenervi»

il manifesto | Autore: Francesco Piccioni
           
La parola definitiva l’ha detta probabilmente Wolfgang Schaeuble, il ministro delle finanze tedesco: «se la Grecia decide di uscire dall’euro, non possiamo costringerla. Saranno loro a decidere se restare o no» nell’euro.
L’ipotesi smette di essere un caso di scuola e diventa un evento molto probabile, cui tutti – i paesi europei, gli «investitori internazionali» e gli stessi greci in primo luogo – devono prepararsi. Al punto che si può dire che la questione non è più vista come un «se», ma come un «quando» e soprattutto «come».
Giuridicamente, non esiste nessun meccanismo per cui i paesi dell’eurozona possano «buttar fuori» i reprobi, quelli che «non rispettano le regole». Ma l’articolo 50 del Trattato stabilisce che l’unico soggetto che può decidere è il singolo paese membro; senza però prevedere nessuna procedura particolare. Come se gli estensori del Trattato ritenessero un gesto del genere impossibile.
Il voto ellenico ha ovviamente fatto precipitare le incertezze, trasformandole in «fuga dal rischio». Persino l’erogazione delle prossima tranche di aiuti concessi dalla Ue – 5,2 miliardi, da consegnare oggi – è stata ieri messa in discussione da parte di alcuni paesi. Tra cui la Germania. Poi, in serata, è arrivato lo «sblocco». Ma molti osservatori hanno considerato questa voce solo un modo di aumentare la pressione sulle forze politiche greche affinché formino subito un «governo di unità nazionale per restare nell’euro», magari guidato da Venizelos (il nuovo segretario del Pasok, dopo l’abbandono di Papandreou). Che guarda caso ieri è stato l’unico ad avanzare una proposta simile. Ma sembra ormai impossibile evitare una seconda tornata elettorale a metà giugno, vista l’estrema frammentazione politica che impedisce la formazione di qualsiasi esecutivo.
L’intenzione tedesca è chiarissima. Ieri Joerg Asmussen, membro del direttorio della Bce, ha rispiegato che «non ci sono alternative al programma di risparmio; il governo greco ha perso fin troppo tempo nell’applicazione del programma di riforme». Accusa che, vista da qui, sembra abbastanza assurda. In due anni il paese si è impoverito a dismisura, i salari sono diminuiti del 25% solo nel 2011; e altrettanto si prevede accadrà quest’anno. Non c’è rimasto quasi nulla di «pubblico» da mettere sul mercato. Molti analisti riconoscono a questo punto che «un’economia in difficoltà non può convivere con una valuta forte». O si svaluta l’euro fino a poter essere sopportato anche dai greci, oppure deve essere Atene ad andarsene. Di propria volontà.
La domanda che perseguita tutti è: cosa accade, se Atene esce? Il caos a breve sembra garantito sia per i greci, ovviamente, che si ritroverebbero immediatamente ancora più poveri (tra il 40 e il 60%). Ma anche per l’Europa. I paesi «deboli» della periferia – Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda – diventerebbe immediatamente i prossimi bersagli della speculazione al ribasso (già ieri lo spread tra Btp e Bund tedesco è tornato sopra i 400 punti; quello dei Bonos spagnoli a 450), con effetti a catena sulla tenuta dell’intera costruzione europea. Del resto il voto di domenica ha punito ovunque – anche in Italia, e pesantemente – i partiti che sostengono «il rigore». Un segno inequivocabile dell’impossibilità di «mantenere la coesione sociale» con politiche di spremitura a senso unico delle popolazioni.
Ma nelle difficoltà sistemiche vengono fuori improvvisamente anche brandelli verità fin qui tenuti gelosamente nascosti. Come evidenziato ieri sul nostro giornale da Gabriele Pastrello, la Germania è l’unica a beneficiare della situazione attuale. Come? «Ai tassi attuali, e con lo spread vertiginosamente salito, Berlino sta ristrutturando il proprio debito pubblico gratuitamente, anzi, guadagnandoci qualcosa». In altri termini «il rigore» imposto agli altri permette alla Germania di abbassare il debito, aumentare le esportazioni e persino di concedere aumenti salariali interni. Una bestemmia, per chiunque altro.
Nel frattempo Alexis Tsipras, leader di Syriza, formazione di sisnistra radicale piazzzatasi al secondo posto nel voto greco, ha giudicato impossibile formare un governo sotto la prpria guida. Ora toccherà al socialista Venizelos, molto benvoluto dai mercati. Ma nessuno spera che sia lui, arrivato solo terzo domenica, a riuscire dove già il conservatore Samars aveva fallito. Comunque vada, i greci sono destinati a pagare la propria scelta. Devono solo scegliere tra pagare e soffrire senza possibilità di risorgere, o farlo per ripartire davvero.

La crisi e la sinistra

il manifesto | Autore: Alberto Burgio
Non bisogna rassegnarsi a una «pigrizia fatalistica», perché il pensiero critico in questa fase può giocare una partita cruciale. Per questo è necessario un soggetto politico unitario in grado di scontrarsi su un terreno culturale. Tutte le componenti della sinistra dovrebbero avviare una riflessione, a partire dalla sconfitta dell’ultimo ventennio
 
Si ha più che mai, di questi tempi, l’impressione che avesse ragione Antonio Gramsci nell’indicare nella «concezione fatalistica e meccanica della storia» un preciso sintomo di scarsa autonomia intellettuale. Oggi, di fronte alla drammaticità della crisi e alle preoccupazioni che essa genera, la «pigrizia fatalistica» (sempre Gramsci) domina. Prevale la tendenza a credere che quanto accade sia effetto di forze superiori e incoercibili, il verdetto di un destino avverso. E che, per contro, solo un destino benigno (o «un dio») possa salvarci. Contro questo atteggiamento rinunciatario, figlio di una propensione al pensiero magico dura a morire, il pensiero critico può (deve) giocare una partita cruciale. Non è difficile mostrare come le sorti della sinistra, non solo in Italia, dipendano in larga misura dalla capacità di compiere e diffondere una corretta lettura delle cause della crisi in tutte le sue dimensioni (economica e sociale, politica, «intellettuale e morale»). Se sarà in grado di sradicare il diffuso fatalismo e la rassegnazione che ne consegue, la sinistra svolgerà un ruolo nella prossima fase del conflitto, che si annuncia, già dal prossimo autunno, di estrema asprezza. Altrimenti, contribuirà validamente alla propria sostanziale estinzione.
Questa crisi ha una specificità, che tende a passare inosservata. Come tutte le crisi sistemiche del capitalismo (effetto dell’interazione tra crisi da sproporzione, da tesaurizzazione e di realizzazione), essa si verifica, e semina disoccupazione e miseria, senza che sia avvenuta alcuna catastrofe. Al contrario: il mondo – a cominciare dalle metropoli capitalistiche – è in crisi nel momento in cui è sommerso dalle merci che produce «in eccesso». La povertà dilaga mentre la ricchezza sovrabbonda, grazie a un impetuoso sviluppo tecnologico e alla conseguente forte crescita della produttività del capitale (se mai la si potesse misurare). Senonché – come Giovanni Mazzetti non si stanca da anni di segnalare – nessuno o quasi sembra accorgersi e chieder conto di questa lampante contraddizione: la crisi appare, appunto, come una maledizione, una punizione divina, o come lo scherzo di un destino «cinico e baro».
Marx aveva ragione
Come stiano le cose in realtà, chi ha letto Marx e non lo abbia gettato alle ortiche lo sa, e questa contraddizione è in grado di spiegarla senza troppe difficoltà rovesciando la premessa, con un apparente paradosso. La crisi c’è non già nonostante la ricchezza, bensì per causa sua, data la forma sociale in cui essa oggi è prodotta. Adottando questa prospettiva emerge con chiarezza la radice strutturale (economica) della crisi e la sua dinamica politica. Gli Stati e i governi presidiano il modo di produzione capitalistico (e il sistema di rapporti sociali che su di esso si basa) proteggendone la funzione essenziale: la produzione di profitti e rendite. Questa difesa (attuata oggi principalmente per mezzo dello strumento finanziario) ha luogo, come sempre, tramite la regolazione dell’impiego delle forze produttive sociali (capitale, saperi e lavoro vivo), che non deve eccedere la capacità del capitale di valorizzarsi. Qui emerge il carattere irriducibilmente anti-sociale della funzione oggi svolta dal capitale privato.
Il fatto che esso si valorizzi in funzione inversa alla propria composizione organica (cioè tanto più, quanto meno il capitale costante contribuisce ad ogni unità di prodotto) fa sì che l’aumento della produttività (che per la società è un valore, poiché riduce il lavoro necessario) sia invece per il capitale un costo improduttivo e una minaccia (in quanto determina la riduzione del saggio di profitto). Da qui (a conferma della fondatezza della teoria marxiana del valore) la risposta distruttiva al forte aumento della produttività verificatosi nell’ultimo trentennio, messa in atto attraverso la delocalizzazione produttiva e la finanziarizzazione dell’economia (l’evasione del capitale dal circuito della produzione), nelle quali, com’è ormai a tutti evidente, risiede la radice immediata della crisi esplosa nel 2007-08, e la base macroeconomica della disoccupazione strutturale di massa.

Hollande taglia i super stipendi


Hollande taglia i super stipendi La prima misura colpisce l'Eliseo

La prima misura colpisce l'Eliseo

Il presidente della Repubblica guadagnerà il 30% in meno come tutti i ministri. Nelle aziende controllate dallo Stato i manager non potranno guadagnare più di venti volte del dipendente meno pagato

 di GIAMPIERO MARTINOTTI
(09 maggio 2012)

Προαπαιτούμενα ελπίδας

Την περασμένη Κυριακή, η παράταξη του Μνημονίου ηττήθηκε κατά κράτος. Την Δευτέρα που ακολούθησε άρχισε να προδιαγράφεται μια δεύτερη ήττα: η ήττα της Αντι-μνημονιακής παράταξης. Έτσι είναι. Στον καιρό της Κρίσης είναι πολύ εύκολο να έχουμε μόνο ηττημένους. Τόσο στον πολιτικό όσο και στον οικονομικό στίβο. (Αυτή δεν ήταν άλλωστε η μοίρα των λαών την δεκαετία του 1930, η οποία ακολούθησε μετά το 2008 της εποχής εκείνης; Μετά το 1929; Τότε δεν ηττήθηκαν μαζί τόσο οι συντηρητικοί-μεν-φιλελεύθεροι-δε αστοί όσο και η Αριστερά;)

Η ήττα της παράταξης του Μνημονίου οφείλεται σε κάτι πολύ απλό: Η λογική του Μνημονίου δεν μπορούσε σε καμία των περιπτώσεων (όσο χρηστή και αποτελεσματική να ήταν η διακυβέρνηση των δύο μνημονιακών κυβερνήσεων που είχαμε) να πετύχει τον βασικό στόχο του Μνημονίου: την αποτροπή – μέσω τεράστιων δανείων και αυστηρής λιτότητας – της πτώχευσης του δημοσίου και της περαιτέρω βύθισης της πραγματικής οικονομίας στην όλο και επιταχυνόμενη Ύφεση. (Πόσο δε μάλιστα που η εν λόγω διακυβέρνηση κάθε άλλο παρά αποτελεσματική ήταν!)

Η ήττα της Αντιμνημονιακής παράταξης θα έρθει (εκτός κι αν μεσολαβήσει μια αλλαγή στάσης από τον Σύριζα) λόγω μιας άλλης εξ ίσου στυγνής πραγματικότητας: Η Ελλάδα μπορεί να βγει από αυτή την Κρίση με τις δικές της δυνάμεις όσο μπορούσε το Ohio, ανεξάρτητα και αυτόνομα από την υπόλοιπη Αμερική, να βγει από την Μεγάλη Ύφεση το 1931. Σε καμία των περιπτώσεων! Μας αρέσει δεν μας αρέσει, η τύχη της Ελλάδας είναι αναπόσπαστα δεμένη με εκείνη της υπόλοιπης ευρωζώνης. Όσο βαυκαλιζόμαστε ότι μπορούμε να διαχωρίσουμε την πορεία μας από την Ευρώπη και, με τις δικές μας δυνάμεις, να πορευτούμε σε ένα καλύτερο αύριο, δημιουργούμε τις συνθήκες μιας συντριπτικής ήττας της ελπίδας ότι η Αντιμνημονιακή ψήφος θα βγει σε καλό.

Εδώ λοιπόν έγκειται η ουσία της υπόθεσης: Από την μία ο σεβασμός των όρων του Μνημονίου όχι μόνο δεν ενδείκνυται αλλά είναι ανέφικτος (ακόμα κι όλοι να συμφωνούσαμε σε αυτούς τους όρους – ακόμα κι οι αναρχικοί των Εξαρχείων). Από την άλλη, η εγχώρια χρηματοδότηση των αναπτυξιακών και μεταρρυθμιστικών πολιτικών που είναι προαπαιτούμενο για την ανατροπή της Κρίσης είναι αδύνατη. Άρα, τί κάνουμε; Αν έχω δίκιο, η λύση είναι μία (αν και όχι απλή): Επαναδιαπραγμάτευση εντός του ευρώ. Πως γίνεται αυτό, σας ακούω να ρωτάτε (με δίκαιη απορία), όταν η κα Μέρκελ δεν θέλει να ακούσει κουβέντα; Γιατί να μας ακούσουν; Γιατί να μας αποτείνουν καν τον λόγο; Εύλογο το ερώτημα (το οποίο ετίθετο στον κ. Σαμαρά από τον Μάιο του 2010, όταν υποσχόταν κι εκείνος την επαναδιαπραγμάτευση, χωρίς να δίνει απάντηση).

Η μόνη σοβαρή απάντηση είναι ότι θα μας πάρουν στα σοβαρά μόνον αν θέσουμε την επανδιαπραγμάτευση ως προϋπόθεση για να δεχθούμε την νέα δόση από το EFSF. Από εκεί που μας φοβερίζουν ότι δεν θα μας την δώσουν, να ανακοινώσουμε ήρεμα και νωχελικά (χωρίς να προβούμε σε καμία καταγγελία) ότι επιλέγουμε να μην την πάρουμε όσο το «πρόγραμμα» παραβαίνει τους κανόνες της λογικής και επιμένει σε νέα μέτρα που θα γκρεμίσουν ότι έχει μείνει όρθιο στην κοινωνική οικονομία της χώρας (π.χ. νέες μειώσεις κατώτατων μισθών και συντάξεων).

Βέβαια, για να το πούμε αυτό το «ευχαριστούμε, δεν θα πάρουμε», χωρίς η ρήση μας να αποτελεί μπλόφα, είναι απαραίτητο πρώτα να έχουμε κάνει (εντός των ερχόμενων εβδομάδων) ό,τι απαιτείται ώστε το ελληνικό δημόσιο να μπορεί να «αντέξει» στο επόμενο διάστημα (π.χ. έως τον Δεκέμβριο) χωρίς δανεικά, μέσω της εξάλειψης του πρωτογενούς ελλείμματος, τουλάχιστον έως το τέλος του χρόνου. Είναι κάτι τέτοιο εφικτό; Ναι, είναι (α) με μια από-πάνω-προς-τα-κάτω συμπίεση μισθών και συντάξεων που αφήνει ανέπαφα τα χαμηλά εισοδήματα και (β) με την δυνατότητα προ-πληρωμής ΦΠΑ και φόρου εισοδήματος με μεγάλες εκπτώσεις εκ μέρους των φορολογουμένων (αντί για την απίστευτα ανόητη πρόταση της «κινητοποίησης των καταθέσων» που φέρεται να εξήγγειλε μέλος του Σύριζα, σπέρνοντας τον πανικό στους μικρο-καταθέτες).

Στόχος τέτοιων διαπραγματευτικών κινήσεων δεν μπορεί να είναι η αυτόνομη, μαρκοπρόθεσμη ανάπτυξη της χώρας. Στόχος είναι να κρατηθεί η Ελλάδα βραχυπρόθεσμα ζωντανή έως ότου η Ευρώπη, υπό την επιρροή της αλλαγής σκηνικού που επέφερε η νίκη Hollande (καθώς και η καθίζηση των Μνημονικακών κομμάτων στην Ελλάδα), αλλάξει ρώτα. Θα μου πείτε: Κι αν δεν αλλάξει; Σας απαντώ: Δεν υπάρχει πιθανότητα να μην αλλάξει! Ποτέ δεν είναι, βέβαια, σίγουρο ποια θα είναι η νέα ρώτα. Όμως ένα είναι σίγουρο: η σημερινή ρώτα (που συνθλίβει χώρες όπως η Ελλάδα, η Πορτογαλία και η Ισπανία) δεν μπορεί να παραμείνει ως έχει. Το ζητούμενο είναι να επιβιώσουμε έως τότε, έως ότου το ευρωπαϊκό τοπίο αρχίσει να ξεκαθαρίζει, όσο γίνεται με λιγότερα θύματα. Αυτό είναι το ζητούμενο για την νέα κυβέρνηση. Αυτό είναι το θέμα που θα ήθελα να δω τους πολιτικούς μας αρχηγούς να συζητήσουν στο Προεδρικό Μέγαρο όταν θα έρθει, πολύ σύντομα, η στιγμή της υπό τον κ. Παπούλια σύσκεψης των πολιτικών αρχηγών. Πρέπει, αντί να βγουν εκτός θέματος και να προσπαθούν να κερδίσουν την μάχη των εντυπώσεων, να συζητήσουν ήρεμα και υπεύθυνα (α) το πως θα ετοιμαστεί η χώρα ώστε να «αντέξει» όσο η άρνησή μας να πάρουμε την επόμενη δόση πυροδοτήσει μια Μεγάλη Ευρωπαϊκή Διαπραγμάτευση, καθώς και (β) ποια θα είναι η δική μας, η ελληνική, τοποθέτηση στην διάρκεια αυτής της διαπραγμάτευσης.

Ποια τοποθέτηση πρέπει να επιλέξουμε στον ευρωπαϊκό πεδίο; Επιτρέψτε μου να σας πω τι θα πρότεινα ως ελληνική θέση (όσοι έχετε διαβάσει τις προτάσεις μου εδώ στο protagon δεν θα ξαφνιαστείτε): Να παρουσιάσουμε στην Ευρώπη μια πρόταση επίλυσης που να ηχεί ρεαλιστική όχι μόνο για την Ελλάδα αλλά και για την Ισπανία που καταρρέει σήμερα, για την Ιρλανδία, για την Πορτογαλία, για την Γαλλία της οποίας η σειρά έρχεται κλπ – έτσι ώστε να δημιουργήσουμε ερείσματα μεταξύ της πλειοψηφίας των ευρωπαίων που, πλέον (κι ευτυχώς) κατανοούν πως αυτό που επιβλήθηκε στην Ελλάδα, πρώτον, δεν έχει πιθανότητες επιτυχίας και, δεύτερον, δηλητηριάζει (καθώς επεκτείνεται σε) ολόκληρη την Ευρώπη. Βασικές αρχές αυτής της συνολικής λύσης πρέπει να είναι:

(1) Να μην πληρώνει τον λογαριασμό ο γερμανός φορολογούμενος αλλά το κατά Μάαστριχτ δημόσιο χρέος να μετατραπεί σε ευρωπαϊκό χρέος (από την ΕΚΤ) το οποίο θα αποπληρώνουν τα κράτη-μέλη με επιτόκια που θα εξασφαλίσει για αυτά η ΕΚΤ

(2) Να σταματήσουν οι εθνικές κυβερνήσεις να ασχολούνται με τις τράπεζες οι οποίες περνούν σε ευρωπαϊκό έλεγχο (δηλαδή να τις αναλάβει ως προς την επανακεφαλαιοποίηση, έλεγχο και διοίκηση – τουλάχιστον όσες δεχθούν σημαντικά ευρωπαϊκά κεφάλαια – το EFSF)

(3) Να συνεργαστεί η ΕΚΤ με την Ευρωπαϊκή Τράπεζα Επενδύσεων (εκδίδοντας ομόλογα και η μία και η άλλη) στην εκπόνηση ενός Ευρωπαϊκού Νιου Ντηλ (επενδυτικό πρόγραμμα για την ανάπτυξη και την εξισορρόπιση της ενδοε-ευρωπαϊκής ανταγωνιστικότητας)

(4) Δέσμευση των χωρών-μελών, στον βαθμό που ισχύσουν τα πιο πάνω (και εξευρωπαϊστεί μεγάλο μέρος του χρέους, οι επενδύσεις και το τραπεζικό σύστημα), να ισοσκελίζουν μόνιμα τον προϋπολογισμό τους.

Επίλογος
Η παράταξη του Μνημονίου ηττήθηκε λοιπόν. Ο Σύριζα ανεδείχθη στον μεγάλο κερδισμένο της περασμένης Κυριακής. Η επιτυχία αυτή σήμερα κινδυνεύει καθώς ο Σύριζα βρίσκεται εκατοστά από το να κάνει το μεγαλύτερο δώρο στους φιλο-Μνημονιακούς του αντιπάλους προσπαθώντας να κρατά ικανοποιημένους τόσο τις συνιστώσες που κρίνουν ότι η λύση θα δοθεί μέσα στο ευρώ όσο και στις συνιστώσες (και τις λοιπές πολιτικές δυνάμεις εκτός του Σύριζα) που προκρίνουν την έξοδο από το ευρώ. Ο Αλέξης Τσίπρας πρέπει να αποφασίσει με ποιον από τους δύο θα πάει. Και με τους δύο δεν γίνεται. Αν προσπαθήσει να πετύχει την ενότητα της Αριστεράς μη ξεκαθαρίζοντας την θέση του επ΄αυτού, ο Σύριζα να χάσει το τραίνο της ιστορίας, η Αριστερά θα καταβαραθρωθεί (άλλη μια φορά) και η χώρα θα πέσει θύμα ενός θηριώδους λάθους (το οποίο θα προστεθεί στο κτηνώδες λάθος του Μνημονίου).
Μπορεί να έχω άδικο όταν φωνάζω, όπου σταθώ κι όπου βρεθώ, ότι «λύση εκτός του ευρώ» θα φέρει μια μεταμοντέρνα δεκαετία του ’30 στην Ευρώπη και στον κόσμο. Μπορεί συνάδελφοί μου, όπως ο Λαπαβίτσας ή ο Ρουμπίνι, να έχουν δίκιο όταν λένε ότι το μέλλον της χώρας προδιαγράφεται λαμπρότερο εκτός του ευρώ. Όμως, αυτό που είναι σίγουρο είναι ότι η ηγεσία του Σύριζα πρέπει να αποφασίσει ποια από τις δύο σχολές σκέψεις έχει δίκιο και ποια όχι. Μένουν ώρες, ούτε καν μέρες, για να το πράξει. Η Ιστορία μπορεί να είναι διατεθειμένη να περιμένει μια δεύτερη εκλογική αναμέτρηση τον Ιούνιο, ώστε να ξεκαθαρίσεουν τα πράγματα. Ολιγωρία όμως όσον αφορά το αν η λύση θα γίνει μέσα από ενδο-ευρωζωνική διαπραγμάτευση ή μέσα από μια «ηρωική» έξοδο, δεν θα ανεχθεί.

Παράρτημα: Τα πέντε σημεία της πρότασης του Σύριζα
Καθώς ο κερδισμένος των εκλογών ήταν ο Σύριζα και, δεδομένου ότι στο προηγούμενο άρθρο μου (λίγο πριν τις εκλογές) υποστήριξα την ουσιαστική στήριξη του Σύριζα, νομίζω ότι δικαιούμαι να ρίξω μια κριτική ματιά στα πέντε σημεία που προέθεσε ο κ. Τρίπρας ως ελάχιστο πλαίσιο συμφωνίας με τα άλλα κόμματα για σχηματισμό κυβέρνησης. Τα παίρνω ένα-ένα, προσθέτω σύντομο σχόλιο στο καθένα και, τέλος, λαμβάνω το θάρρος να τα ξανα-γράψω όπως θα τα ήθελα:

1. Άμεση ακύρωση εφαρμογής των μέτρων του Μνημονίου και ειδικότερα εκείνων για μειώσεις μισθών και συντάξεων που προγραμματίζονται για τους επόμενους μήνες

Σχόλιο: Δεν υπήρχε κανείς λόγος να ζητηθεί από κανέναν να στείλει ακυρωτικά γράμματα στις Βρυξέλλες. Όπως το EFSF την τελευταία στιγμή ανακοινώνει ότι τελικά θα εκταμιεύσει λιγότερα χρήματα από τα συμφωνημένα (με την Αθήνα) εκ μέρους της Ελλάδας, έτσι κι η νέα ελληνική κυβέρνηση δεσμεύεται να κινηθεί κατά το δοκούν αρνούμενη να μειώσει μισθούς και συντάξεις στα επίπεδα που είχε συμφωνήσει με την τρόικα η κυβέρνηση Παπαδήμου.

Εναλλακτική διατύπωση: Η νέα κυβέρνηση θα εφαρμόζει πολιτικές μισθών και συντάξεων ανάλογα με το πρωτογενές πλεόνασμα της χώρας, το οποίο θα παραχθεί μέσα από μια από-πάνω-προς-τα-κάτω συμπίεση για όσο χρόνο χρειάζεται ώστε να βρεθεί η Συνολική Λύση στην Κρίση που η ΕΕ υποσχέθηκε από τον Μάρτιο του 2011 χωρίς να την έχει εκπονήσει.

2. Ακύρωση των νόμων που καταργούν τα εργασιακά δικαιώματα και τις συλλογικές συμβάσεις

Σχόλιο: Συμφωνώ απολύτως. Μόνο που θα το διατύπωνα διαφορετικά, με τρόπο που να αναδεικνύει το σημαντικό πρόβλημα στην αγορά εργασίας το οποίο προκύπτει από το πολύ μεγάλο εργασιακό κόστος σε σχέση με τον μισθολογικό κόστος (λόγω μη ανταποδοτικών εισφορών)

Εναλλακτική διατύπωση: Η νέα κυβέρνηση θα ακυρώσει μέτρα τα οποία, λανθασμένα, λαμβάνουν ως δεδομένο ότι η προσφορά εργασίας είναι αντιστρόφως ανάλογη του μισθού αλλά, παράλληλα, θα λάβει υπ’ όψη τις στρεβλώσεις που δημιουργούν οι υψηλές, και άνευ ανταποδοτικότητας στους εργαζόμενους, εισφορές.

3. Καθιέρωση της απλής αναλογικής στον εκλογικό νόμο και κατάργηση του νόμου περί ευθύνης υπουργών

Σχόλιο: Προφανώς και συμφωνώ. Οι 50 βουλευτές που πήρε ως μπόνους η ΝΔ σε αυτές τις εκλογές αποτελούν παραβίαση βασικών δημοκρατικών αρχών. Όμως δεν τα έθετα αυτό τον όρο σε αυτή την χρονική στιγμή. Θα ανέφερα την θέση αυτή αλλά όχι ως όρο συνεργασίας. Σήμερα, προέχουν άλλα ζητήματα.

4. Δημόσιος έλεγχος στο τραπεζικό σύστημα που έχει λάβει έως σήμερα 200 δισ. από την κυβέρνηση και άμεση δημοσιοποίηση της έκθεσης της Black Rock για την κατάσταση των τραπεζών

Σχόλιο: Η διαφωνία μου εδώ είναι κάθετη. Δημόσιος έλεγχος από ένα πτωχευμένο δημόσιο το οποίο παράλληλα θέλει να διαπραγματευτεί στην Ευρώπη (κάτι που, όπως έγραψα παραπάνω, έχει ελπίδες μόνο εφόσον αρνηθούμε κι άλλες δόσεις) δεν γίνεται. Τελεία και παύλα. Εκτός κι αν ο Σύριζα σκέφτεται σοβαρά την επιστροφή στην δραχμή και την δήμευση των καταθέσεων – κάτι που δεν θέλω καν να το σκεφτώ (γιατί αν το σκεφτώ θα πρέπει να ζητήσω συγγνώμη για το προηγούμενο άρθρο μου).
Εναλλακτική διατύπωση: Η νέα κυβέρνηση ζητά από το EFSF την απ’ ευθείας επανακεφαλαιοποίηση των τραπεζών (με κεφάλαια του EFSF) και με κοινές μετοχές που θα = περάσουν στο ίδιο το EFSF, με νέες διοικήσεις να διορίζονται απ’ ευθείας από την ΕΕ, το EFSF και την ΕΒΑ (European Banking Authority) – βλ εδώ για την άποψη αυτή.

5. Δημιουργία επιτροπής λογιστικού ελέγχου (ΕΛΕ), διερεύνηση του επαχθούς χρέους, μορατόριουμ στην αποπληρωμή του και διεκδίκηση δίκαιης και βιώσιμης ευρωπαϊκής λύσης

Σχόλιο: Δεν σας κρύβω ότι ένιωσα βαθιά στενοχώρια όταν διάβασα αυτές τις γραμμές. Εξ αρχής είχα δηλώσει ότι καμία ΕΛΕ δεν μπορεί να απαντήσει τα ίδια της τα ερωτήματα. Τώρα μάλιστα που, μετά το Μνημίνιο 2-PSI, το χρέος έχει ουσιασιστικά μετακυλίσει στους ώμους της τρόικα, σχεδόν κανείς από τους αρχικούς μας δανειστές δεν εξακολουθεί να παραμένει δανειστής μας. Άρα, ποιος ο λόγος, πέραν του να χαιδευτούν κάποια αυτιά κάποιων συνιστωσών; Αφήστε που η «κενότητα» της πρόταση για ΕΛΕ έρχεται να επισκιάσει την σημαντική φράση «διεκδίκηση δίκαιης και βιώσιμης ευρωπαϊκής λύσης» (που βέβαια δεν μου αρέσει καθόλου, καθώς μου θυμίζει την «δίκαιη και βιώσιμη λύση του... Κυπριακού»).
Εναλλακτική διατύπωση: Η νέα κυβέρνηση θα θέσει στην επόμενη Σύνοδο Κορυφής ζήτημα εκπόνησης ενιαίας λύσης για την κρίση στο Ευρώ που να μην προσποιείται πως η «ελληνική κρίση», η «ιρλανδική κρίση», η «ισπανική κρίση» κλπ μπορούν να μελετηθούν, να κατανοηθούν και να επιλυθούν ως εάν να ήταν ανεξάρτητες η μία από την άλλη.

WORLD'S SHAME

More than 1600 Palestinian prisoners are on hunger strike. Ten have been hospitalized; two have been characterized as "near death." The prisoners are protesting "administrative detention" - detention without charge - solitary confinement, and denial of family visits.

mercoledì 9 maggio 2012

Riflessioni operaie sul manifesto italiano per un nuovo soggetto politico

di Karlo Raveli
Quanta energia critica si disperde di nuovo in questo tentativo di ridar vitalità sociale a un congegno parlamentare partitocratico in fase sempre più senile, e probabilmente terminale!
Ma è possibile che si creda ancora di poter scoprire un nuovo soggetto politico – nel senso di regime – valido per riformare questo tipo di istituzioni? Quando ammetteremo che il regime parlamentare del vecchio stato-nazione novecentesco non serve ormai a nient’altro che mantenere in piedi un’ossatura istituzionale capitalista globale, soprattutto metropolitana, proprio quando i principali valori su cui fa perno – la cosiddetta democrazia, in primo luogo, e persino lo stesso lavorismo cristiano-capitalista – si stanno svuotando di quei fondamenti etici e ideologici alienanti che si pretendeva assoluti e da riprodurre all’infinito?Non c’è più possibilità di una speranza organizzata, come la chiamava Sandro Medici su Il Manifesto, all’interno dei meccanismi politici dell’attuale regime. E anche se si pensasse di averla di nuovo trovata, per un altro tentativo di palazzo, il vecchio stato-nazione novecentesco riuscirebbe sempre ad annullarla con la sua pesantezza, e assorbirla nelle sue inerzie, come ormai avrebbe dovuto insegnarci la storia degli ultimi decenni. Ma soprattutto la nuova fase di centralizzazione del comando istituzionale liberista.
La politica nel regime, e del regime, ciò che stolti – e interessati – si ostinano a chiamare democrazia, non riesce nemmeno più a esercitare quel ruolo di corpo intermedio di cui si parla, ormai totalmente neutralizzata dal potere economico, soprattutto attraverso il controllo finanziario e mediatico globale.
Ma i nostri Donchisciotte insistono, come Medici e tutti gli altri quando affermano la necessità di “riannodare il filo spezzato tra politica e società, e forse costruire una soggettività nuova che si proponga di aprire promettenti prospettive”.

Promettenti per chi e per cosa?
Forse per tentare di reintegrare nei meccanismi di regime quell’altro soggetto politico sempre più reale e importante, nel suo processo di formazione globale, internazionale, che come Occupy WS degli Stati Uniti ha già fissato la nuova scadenza di visibilizzazione, estensione e accumulazione politica per il prossimo 12 di maggio, dopo il successo del mayday?
Com’è possibile pensare che si possano integrare, per esempio in una rinnovata forma-partito, le moltitudini attive che hanno capito che non si tratta più di cambiare regimi politici ma il proprio sistema che li produce?
Tanto più che, se analizziamo le componenti reali di questo movimento tuttavia in costruzione ed espressione incipienti, nei termini classici della politica occidentale, un’altra cosa va sottolineata: è la prima volta nella storia del capitalismo che si assiste alla possibilità di un processo di ricomposizione politica reale della classe antagonista al Capitale. E non stiamo trattando di classi statali o nazionali di lavoratori/impiegati stabili del capitale e dello stato: il processo è globale, a partire dall’emergenza tunisina che si è subito estesa, e sembra proprio lasciar dietro di sé tutte le ideologie lavoriste e di sinistra, nelle metropoli.
Se da un lato non funzionano ormai più – e finalmente! – le tradizionali categorie sociologiche come la rifritta classe lavoratrice novecentesca, con le sue temporanee eccellenze di crescita politica (lavoratore professionale d’inizio secolo, quello del ’17-18, o il lavoratore-massa dei ’60-70) o le maccheroniche “classi medie” occidentali della seconda metà del secolo XX (ed ora cinesi, come cominciano a pretendere alcuni!) che racchiudono in generale vere frazioni capitalizzate dei settori di lavoratori più garantiti, dall’altro lato i nuclei più avanzati del movimento riscoprono una a una tutte le contraddizioni chiave del sistema. E quindi cresce il potenziale protagonista di ogni settore della classe, oltre le sue frazioni stabilmente impiegate, lavoratrici. Precari, migranti e disoccupati in prima fila.

Grecia, il premier incaricato Tsipras: rimanderò al mittente il piano di salvataggio. No austerità e leggi contro lavoratori. Controllo dello Stato sulle banche.

Fonte: controlacrisi.org | Autore: A. F.        
Appena incaricato dal Presidente greco per provare a formare il nuovo governo, il leader di Syriza, la coalizione della sinistra di alternativa che ha vinto il secondo posto, non perde tempo e afferma di voler rimandare al mittente (Troika) il piano di salvataggio concordato con il precedente governo. Piano di salvataggio che sta mandando al macero l'intero Paese, sprofondato nella povertà solo per accontentare i ricatti di Fmi, Bce e Ue.

Tsipras ha annunciato che rifiuterà tutte le misure di austerità "imposte" dalla Ue e dal Fondo Monetario Internazionale, nel caso dovesse riuscire a formare il nuovo governo. "Il verdetto delle elezioni ha chiaramente annullato l'accordo sul prestito e sugli impegni con Ue e Fmi", ha detto Tsipiras in un messaggio televisivo.

Dunque, la Coalizione delle Sinistre greche (Syriza) vuole formare un governo di coalizione delle forze di sinistra del Paese per ottenere prima di tutto l'annullamento del Memorandum firmato dai precedenti governi greci con i creditori internazionali e l'abolizione di tutte le leggi contro i lavoratori varate dagli stessi esecutivi. Alexis Tsipras (foto) ha aggiunto inoltre che il suo partito, se riuscirà a formare un nuovo governo, chiederà il controllo dello Stato sulle banche che hanno ottenuto di recente oltre 200 miliardi di euro ma sono ancora guidate dalle stesse persone che hanno trascinato la Grecia nella situazione attuale. Tsipras ha concluso affermando che «la crisi economica non è un problema che riguarda esclusivamente la Grecia ma è un problema europeo che deve essere risolto in ambito europeo».

P.S.: Syriza, come il Front de Gauche, fa parte del Partito della Sinistra Europea, come Rifondazione Comunista o la Linke.

SCHAEUBLE: CATASTROFICO SE GRECIA RINEGOZIASSE AIUTI

Fonte: controlacrisi.org    
Le dichiarazioni di Alexis Tsipras, leader della Coalizione delle Sinistre radicali (Syriza), fanno tremare la Germania, che pensava di procedere indisturbata con il suo piano 'tutta austerità' ai danni dei Paesi periferici. Secondo il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble l'ipotesi che la Grecia voglia rinegoziare i termini del pacchetto di aiuti ricevuto dall'Europa rischia di causare una «incertezza catastrofica». Quello che non ha capito il ministro tedesco è che la Grecia si trova già nella catastrofe proprio a causa delle politiche economiche imposte dalla Troika (Fmi, Bce e Ue), di cui la Germania è principale sostenitrice.

Serve una scossa a sinistra

di Claudio Grassi

A conclusione delle consultazioni elettorali che hanno coinvolto Francia, Grecia e Italia, possiamo cercare di fare alcune valutazioni.
Sul primo turno delle elezioni francesi ci eravamo già dilungati nel post precedente. In particolare sul successo del Front de Gauche di Melenchon che, con un risultato superiore all’11%, ha portato la sinistra comunista e di alternativa ad un consenso che non si vedeva dagli anni ’80.

Il secondo turno in Francia
Il secondo turno, con la vittoria di Hollande, colloca la Francia su una posizione molto diversa rispetto a quella sostenuta da Sarkozy, in particolare nel rapporto con la Germania della Merkel e con le scelte della Bce. Rossana Rossanda in un editoriale de Il Manifesto ha espresso apprezzamento per il programma avanzato dal nuovo Presidente francese. Il programma con cui ha raccolto i consensi va sicuramente in una direzione diversa da quella del suo predecessore. Tuttavia penso che la cautela sia d’obbligo. Dopo la disfatta di Zapatero (anche lui si era presentato con un programma di discontinuità, e per diverso tempo venne considerato un riferimento anche da settori importanti della sinistra italiana), è opportuno vedere la politica che concretamente viene praticata e dare giudizi su quella, per evitare di passare da eccessivi entusiasmi a repentine delusioni. Vedremo anche come andranno le elezioni legislative che si svolgeranno tra un mese. Il loro risultato ovviamente influirà sia sulle scelte di Hollande sia del governo francese.
Le elezioni in Grecia
Il paese che ha dovuto subire in questi anni la folle politica della Bce e dell’asse Merkel-Sarkozy ha negato il consenso ai partiti che le ha messe in pratica. Il Pasok e Nuova Democrazia hanno più che dimezzato i loro consensi. L’astensionismo ha superato il 40 % e hanno incrementato i voti tutte le forze che hanno contestato le politiche imposte alla Grecia dalla Unione Europea.
Anche qui, seppure con percentuali meno rilevanti rispetto la Francia, ottiene un importante 8 per cento ed entra in Parlamento una formazione di estrema destra neonazista. Le parole d’ordine con cui hanno raccolto i loro consensi sono raccapriccianti, caratterizzate da un razzismo e un fascismo dichiarati.
Ottimo risultato delle sinistra di alternativa e comunista
Ma il vero vincitore delle elezioni greche è stata la sinistra che coerentemente si è opposta alle politiche del Governo e della Bce, in particolare Syriza, aggregazione di varie forze di sinistra, aderente alla Sinistra Europea, che passa dal 5 al 16 per cento. Un incremento eccezionale prodotto dalla capacità di tenere assieme una opposizione netta al Governo con un atteggiamento di apertura verso i movimenti e di unità verso le altre forze della sinistra. Se a questo importante risultato aggiungiamo il 6 per cento di Sinistra Democratica e il 9 per cento dei Comunisti Greci (KKE), vediamo che il dato supera il 30 per cento. Un dato che fa dire al leggendario partigiano Glezo che mai, nel suo Paese, si era raggiunto un consenso così alto e che ciò deve indurre queste forze ad una convergenza unitaria. Ce lo auguriamo anche noi, pur sapendo che ci sono differenze significative. Essendovi una alta probabilità di un nuovo voto a breve, sarebbe un segnale importante che questi tre partiti si presentassero con un programma comune alle elezioni.
Il terremoto italiano
Non mi sembra esagerato usare questo termine per sintetizzare quanto avvenuto in questa tornata amministrativa in Italia.
Il crollo di Pdl e Lega
Siamo di fronte ad uno sfaldamento di quello che è stato negli ultimi 20 anni il blocco di centro destra. Pdl e Lega dimezzano i loro consensi. La contemporanea uscita di scena dei due leader carismatici – Berlusconi e Bossi – rende tutt’altro che improbabile una riorganizzazione totale dello schieramento. Nella analisi come sempre acuta di Stefano Folli su Il Sole 24 Ore si ipotizza e si auspica un impegno diretto di una figura come Monti alla guida di questo schieramento, preso atto – e questo è un altro dato che emerge da queste elezioni – della incapacità del Terzo Polo di coprire questo spazio.
9th MAY 1945
I would really like it if somebody, communist or not
would remember the 10 millions soldiers from the read army who diedand contributed to the reduction of American casualties to only 505 thousand

martedì 8 maggio 2012

Bravi europei, ribellatevi! (parola di Nobel dell’Economia)

di Laura Eudati        - controlacrisi -
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Gli europei si ribellano, e fanno bene. Così il premio Nobel per l’economia Paul Krugman commenta i risultati delle elezioni in Francia e in Grecia sulle colonne del New York Times. Krugman da tempo critica ferocemente l’austerity decisa dall’asse Merkel-Sarkozy, affermando con convinzione che i tagli portano soltanto alla recessione. Oggi torna a ripeterlo. Ecco la sua analisi, tradotta in italiano.
«I francesi si stanno ribellano. I greci, anche. Era ora. Entrambi i Paesi hanno convocato domenica delle elezioni che in realtà sono state un referendum sull’attuale strategia economica europea, e gli elettori di entrambi i Paesi hanno mostrato pollice verso. Non è affatto chiaro quando questi voti porteranno al cambiamento reale delle politiche, ma il tempo della strategia della crescita attraverso l’austerità è chiaramente agli sgoccioli – e questa è una buona cosa.

Naturalmente non avete sentito dire nulla del genere dai soliti sospetti durante la campagna elettorale. In realtà è risultato quasi divertente vedere gli apostoli dell’ortodossia mentre tentavano di dipingere il cauto e gentile Hollande come una minaccia. «E’ piuttosto pericoloso», dichiarava l’Economist, osservando che «davvero crede nella necessità di creare una società più giusta». Quelle horreur!

Ciò che conta è che la vittoria di Hollande segna la fine di “Merkozy”, l’asse franco-tedesco che ha messo in atto il regime di austerità degli ultimi due anni. Sarebbe davvero un «pericoloso» sviluppo se quella strategia stesse funzionando, o se avesse una ragionevole possibilità di funzionare. Ma questo non sta accadendo. Gli elettori d’Europa hanno dimostrato di essere più saggi delle migliori e delle più brillanti menti del Continente.
Cosa c’è di sbagliato nel prescrivere tagli alla spesa come rimedio ai malanni dell’Europa? Una delle risposte è che la bolla della fiducia non esiste – ovvero, la certezza secondo la quale abbassando radicalmente la spesa pubblica avrebbe in qualche modo incoraggiato i consumatori e le aziende a spendere di più è stata incredibilmente confutata dall’esperienza dell’ultimo biennio. Dunque i tagli alla spesa in una economia depressa semplicemente rende la depressione ancora più profonda.
Inoltre pare che non vi sia alcun tornaconto, seppur piccolo, agli sforzi. Consideriamo il caso dell’Irlanda, che è stata un soldato ubbidiente durante questa crisi, imponendo una austerità molto aspra nel tentativo di riguadagnare i favori dei mercati azionari. Secondo l’ortodossia prevalente, questa mossa dovrebbe funzionare. E la voglia di crederci è così forte che gli esponenti delle élite europee continuano a proclamare che l’austerità irlandese è servita, e che l’economia irlandese ha cominciato a risalire.
Ma non è vero. E nonostante non lo verrete mai a sapere dai media, il costo del denaro in Irlanda è molto più alto che in Spagna o in Italia, per non parlare della Germania. Dunque quali sono le alternative?

L'Italia e la crisi del debito


di Alessandro Volpi* - altreconomia -

Una cronologia ragionata della situazione economica a livello globale, dalla bolla dei subprime negli Stati Uniti d'America al Fondo "Salva Stati" varato dall'Unione europea. Tutti i pezzi di un puzzle che ci aiuta a capire perché l'Italia oggi rischia davveroDi Alessandro Volpi* - 7 maggio 2012

Può essere utile, alla luce delle ultime vicende, provare a tracciare una breve sintesi della storia della crisi in atto. Una cronologia costruita su alcuni elementi evidenti, che ci permetta di capire come tale crisi si sia sviluppata e suggerisca qualche suggestione in merito al futuro prossimo venturo.
La gran parte degli osservatori ha individuato la data d’inizio della crisi nel luglio del 2007, in occasione dell’esplosione della bolla dei subprime; un’esplosione dettata dalla turboingegneria della finanza che aveva iniettato nelle vene dell’economia mondiale robuste dosi di steroidi speculativi, attraverso gli arnesi della distribuzione artificiale del rischio, l’allagamento di liquidità dei mercati operato da banche centrali e da intermediari creditizi, le costanti spinte rialziste dei meccanismi al di fuori degli “operatori tradizionali”.
La paura generata dallo sboom -tanto fragoroso perché di fatto amplificato dalla pressoché assoluta opacità dei percorsi finanziari generata proprio dalla distribuzione del rischio- ha “costretto” (mi scuso per la semplificazione brutale) il governo degli Stati Uniti d'America ad intervenire, prima con il Piano Paulson e poi con l’azione di Geithner. In maniera quasi parossale, negli Usa, divenuti l’epicentro della crisi, sia i repubblicani del tardo Bush sia i nuovi democrat di Obama hanno riportato in vita l’intervento pubblico come panacea per restituire fiducia a mercati in via di smobilitazione e per scongiurare il panico. Si sono succeduti così una serie di interventi, caratterizzati da metodologie molto diverse e un po’ confuse, dal piano di ripulitura degli asset tossici in pancia alle grandi banche retail, alle “nazionalizzazioni” delle stesse banche e delle big three, fino all’ultima versione del Troubled Asset Relief Program (Tarp). Quest’ultimo percorso ha spostato in maniera significativa il baricentro dell’azione del governo degli Stati Uniti dalle politiche monetarie convenzionali, operate attraverso i tassi d’interesse, a quelle non convenzionali come il quantitative easing, la creazione indotta di carta moneta volta in primis a finanziare i T bond, i titoli del Tesoro Usa che venivano così collocati a tassi a medio e lungo termine decisamente bassi.

L’effetto più evidente di questa strategia è stato quello di trasferire una parte significativa del debito privato, soprattutto di quello bancario, in direzione del debito federale, che è esploso passando rapidamente dal 60 ad oltre l’80% del Pil. Ciò ha comportato un primo -sensibile- ampliamento dell’offerta di titoli di debito sovrano, in parte frenata nei suoi effetti svalutativi dagli acquisti cinesi denominati in dollari. Tuttavia, il contestuale ricorso al mercato del debito da parte di Usa, Germania, Inghilterra, Francia e Italia ha scatenato una vera e propria concorrenza in materia di titoli di Stato, che ha fatto esplodere il fenomeno degli spread, per cui ha smesso di funzionare l’effetto-ombrello dell’euro come moneta unica in grado di garantire tassi di interesse allineati per i vari paesi dell’eurozona. In tale quadro, è esploso il "caso della Grecia" e il contagio si è diffuso rapidamente anche a realtà con caratteristiche differenti, con minor debito pubblico e una maggiore dose di fragilità nel settore privato.

La Francia chiama

Rossana Rossanda - ilmanifesto -
François Hollande, socialista, è il nuovo presidente di Francia. Ed è la prima grossa spina nel fianco dell'Europa liberista. Della quale rifiuta le politiche di rigore e quindi il trattato intergovernativo sulla regola d'oro. Lo ha ripetuto instancabilmente, ancora domenica a mezzanotte, davanti alla folla stipata sulla piazza della Bastiglia, una folla mai vista, inattesa, che si è raccolta in tutte le piazze dell'esagono, prima di tutto in quella del suo collegio nella Corrèze, poi nel piccolo aeroporto di Brive, poi all'arrivo nell'aeroporto del Bourget e di là un corteo improvvisato di moto, auto, biciclette ad accompagnarlo - corteo allegro fitto e pericoloso - fino a Parigi, dove il servizio d'ordine ha stentato a fargli strada fino al palco sulla Bastiglia.
La gente lo aspettava dalle otto, appena la vittoria era stata annunciata, zeppa di giovani e giovanissimi, di inattese bandiere di altri paesi, di gente felice. Felice era anche lui, Hollande, ma - ha subito aggiunto - «felici sì, euforici no, molte difficoltà ci attendono. Dovremo batterci, sia io che voi».
Non si può dire che abbia seminato illusioni. È il primo presidente socialista dopo Mitterrand, ma nel 1981 la situazione era meno grave di oggi. Ha ribadito, martellandoli, gli impegni cui non potrà sottrarsi. Due prioritari: più uguaglianza nei mezzi (dunque più lavoro, priorità alla grande disoccupazione giovanile, più potere d'acquisto con aumento subito del salario minimo) e nei diritti (fine di ogni discriminazione degli immigrati). E più giustizia redistributiva. Fine dei tagli nei servizi sociali, sessantamila nuovi impieghi fra sanità e scuola. E tutto questo pagato come? Non solo con i risparmi, ma con la crescita e tassando gli alti redditi fino al 75 per cento - cagnara dell'opposizione, ignara che Roosevelt era arrivato all'83. Tira un'aria di new deal, la destra e i moderati di Le Monde mettono le mani avanti.
Rossana Rossanda È vero, ma Hollande, differentemente da Sarkozy, è un economista; uscito dalla Ena ai primi posti, sa che cosa è un bilancio, non straparla. Sa che la Francia ha un debito pubblico maggiore del nostro, anche se di minori proporzioni rispetto al Pil, ma sa anche che il rigore unilaterale non porta da nessuna parte, se non alla catastrofe economica della Spagna e a quella anche politica di una Grecia spaccata in quattro. Sa che di crescita si parla ormai un po' dappertutto, ma le ricette sono opposte: Hollande precisa che la sua si fa con l'aumento degli occupati, l'incremento delle tecnologie, e la tassazione degli alti redditi. Non crede affatto che si cresca tassando duramente pensioni, salari, servizi sociali ed enti locali, che riducono sia il potere d'acquisto dei più deboli sia le entrate pubbliche, e non è affatto persuaso - come Monti e la sinistra italiana - che i ricchi non devono essere disturbati perché investano nella produzione. Essi investono nella finanza «ed è la finanza - ha detto - il mio nemico». Pareva, al trio Merkel Sarkozy Monti e alla stampa al loro seguito, che dovesse venire giù il mondo. Ma i mercati sono più innervositi dalla Grecia che dalla svolta francese.
ELECTIONS? REVOLUTION!
“ARE WE STILL FOOLING AROUND WITH LITTLE CROSSES?

Col fiatto sospeso.

fabrizio salvatori
Borse e titoli sovrani in fibrillazione. La Grecia verso lo sganciamento
Mercati azionari e dei titoli sovrani in fibrillazione all’indomani delle elezioni in Grecia e in Francia. La borsa di Atene è a picco e le banche stanno letteralmente affondando sotto i colpi della speculazione. I vertici tedeschi parlano senza veli di sganciamento della Grecia dall’euro. “Ora è possibile isolare l'Eurozona dagli sviluppi in Grecia”, dice Lars Feld, un membro del consiglio dei consulenti economici del cancelliere Angela Merkel. Nel vecchio continente dopo un avvio al cardiopalma con gli spread lanciati oltre i 400 punti e l'euro malandato l'allarme sembra essere rientrato, ma solo temporaneamente.
A preoccupare i mercati è la forte instabilità del quadro ellenico. Non a caso è arrivato già da questa mattina l’incarico del presidente a formare il nuovo governo direttamente a Nea Dimokratia, che insieme al Pasok non sono riusciti a raggiungere la maggioranza numerica. Secondo il conto del ministero dell'Interno, insieme avrebbero collezionato 149 seggi sui 300 del Parlamento, un numero insufficiente per poter formare una coalizione di governo. Ora, nell'attesa di vedere la reazione dei mercati, i bookmaker puntano sull'addio alla moneta unica.
A fronte di tale scenario Unione europea e Fondo monetario internazionale potrebbero essere costretti a sospendere gli aiuti ad Atene, sottolinea Stephane Deo della UBS. "Presto il governo non sarà in grado di pagare i dipendenti pubblici e le pensioni e questo alimenterà forti tensioni sui mercati finanziari", ha sottolineato. Gli economisti di Berenberg Bank, invece, ritengono ci sia "un 40% di rischio che la Grecia esca dall'euro quest'anno".
Ma per quanto si voglia addossare alla Grecia tutti i mali di questa fase, non si può non mettere nel conto che è tutto il quadro europeo che sta andando in crisi dopo la vittoria di Francois Hollande che sancisce il tramonto definitivo della politica di “Merkozy”, imperniata soprattutto sul rigore e sulle misure di austerity. La vera sconfitta in questo scenario è proprio il cancelliere tedesco Angela Merkel che, orfana del suo caro alleato Sarkozy, sarà costretta a rivedere le proprie decisioni. A rischio è lo stesso Fiscal Compact: nel periodo delle elezioni elettorali, Hollande aveva infatti affermato che, se l’Europa non imboccherà la strada della crescita, non firmerà la ratifica del patto fiscale, ovvero l'accordo tra gli stati membri dell'Unione Europea per garantire il rispetto della disciplina fiscale.
Che margini ha la Merkel considerato che il mini test delle elezioni tenutesi nello Stato settentrionale dello Schleswig-Holstein, ha segnalato che partito della cancelliera potrà continuare a governare ma con una maggioranza ridotta al lumicino?
Angela Merkel opterà per un messaggio forte nel caso la Grecia non rispettasse gli impegni presi per ottenere il prestito UE, oppure prudenzialmente si vedrà costretta ad abbassare i toni per non dover poi giustificare ai suoi elettori centinaia di miliardi di euro andati in fumo?

lunedì 7 maggio 2012

Grecia a sinistra!

Grecia a sinistra!
SINISTRAGRECA1













di Fabio Amato
Ricordo come solo tre anni fa, alla vigilia delle elezioni politiche che portarono al governo il socialista europeo Papandreu, i compagni del Synaspismos e di Syriza, la coalizione della sinistra radicale che fa parte come noi del Partito della Sinistra Europea, fossero impegnati in una battaglia all’ultimo voto per poter rientrare in Parlamento. I sondaggi, molto, ma molto tendenziosi, mettevano in dubbio persino la possibilità di accedere al Parlamento, di non arrivare allo sbarramento del 3 %. Presero il 4, 6, entrarono e tirarono un sospiro di sollievo.
Era uno dei momenti più delicati della leadership di Alexis Tsipras, il giovane presidente del Syanspismos, attaccato dai media che spalleggiavano chi dentro il suo partito voleva andare al governo con il Pasok, coloro i quali poi diedero vita ad una scissione e formare sinistra democratica, in nome del governo e del rapporto con il Pasok. La determinazione con cui Syriza ha mantenuto una linea di autonomia dai governi social liberisti e dal Pasok ha oggi dato i suoi frutti. Syriza ha quadruplicato il suo consenso ed è diventato il secondo partito del paese con il 16,8. Chi aveva promesso come Papandreu più giustizia sociale e poi invece applicato senza remore i piani capestro di ristrutturazioni imposti dalla troika e dall’Ue è oggi uscito di scena e il suo partito, il Pasok, raccoglie un risultato disastroso e meritato.
C’è da riflettere anche in Italia sul voto greco. La crisi rimette in discussione tutto. Il suo precipitare può scardinare equilibri politici che sembravano eterni. Nel 2009 i partiti del bipolarismo greco avevano più dell’80% dei consensi. Oggi superano insieme di poco il 30. Se si sommano i voti delle formazioni della sinistra radicale sono la maggioranza relativa in Grecia. Il popolo greco ha chiaramente sanzionato i governi di grande coalizione e i sostenitori dei piani di macelleria sociale voluti dall’Unione Europea e imposti dalla dittatura dei mercati.
Pur aumentando in termini percentuali, il KKE raccoglie un risultato al di sotto delle aspettative. Sicuramente tra i partiti in prima linea nelle lotte contro le politiche dell’austerità e della troika, paga il prezzo di un ostinato isolamento, e di un settarismo che crediamo dopo queste elezioni è bene sia superato.
Syriza è una federazione di forze. Mette insieme oltre al synaspismos, altre forze della sinistra comunista e anticapitalista greca. Ha insistito fino all’ultimo per costruire una lista unitaria, ma ricevendo risposte negative. E’ stata premiata per essere stata in tutte le lotte, per la capacità di parlare e di stare con i movimenti, per la sua radicalità e autonomia. E’ stata premiata per il suo lavoro sociale, che nei quartieri popolari di Atene e della Grecia , dove la crisi crea disperazione povertà, contende ai neonazisti il territorio e la costruzione di reti sociali di solidarietà.
Insieme alla uscita di scena di Sarkozy, questo voto rappresenta un colpo all’asse dell’austerità franco tedesco e ai suoi alleati. Il che non significa automaticamente cambi di direzione. Sappiamo quanto dura sarà la battaglia per cambiare gli orientamenti liberisti di questa Europa, costruita dalla grande coalizione socialista, popolare e liberale europea, che tenterà di continuare nella stessa direzione di marcia.
Tenterà di farlo in Grecia riproponendo un governo di grandi intese cercando magari di trovare qualche deputato mancante . Tenterà di farlo anche in Francia, magari diluendo la rinegoziazione del Fiscal compact ad una integrazione come dice Bersani , o ad una rimodulazione estetica. Per questo la lotta per cambiare questa Europa non è che all’inizio. Se i governanti europei continueranno loro malgrado a seguire le ricette liberiste, pensando di salvarsi temperandole, verranno travolti dalla rabbia sociale e , come accaduto in Grecia, potranno facilmente perdere quello che ora raccolgono. L’esperienza di Papandreu sia di monito a Hollande.
Il miglior antidoto alla crescita dell’estrema destra è costruire una credibile proposta di sinistra, di classe e antisistemica per uscire dalla crisi. Non è nell’ammiccare ai partiti complici delle politiche che distruggono stato sociale e diritti nel nome del mercato e della stabilità finanziaria. Costruire una sinistra di alternativa è il compito che abbiamo anche in Italia.

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