Una cronologia ragionata della situazione economica a livello globale, dalla bolla dei subprime negli Stati Uniti d'America al Fondo "Salva Stati" varato dall'Unione europea. Tutti i pezzi di un puzzle che ci aiuta a capire perché l'Italia oggi rischia davveroDi Alessandro Volpi* - 7 maggio 2012
Può essere utile, alla luce delle ultime vicende, provare a tracciare una breve sintesi della storia della crisi in atto. Una cronologia costruita su alcuni elementi evidenti, che ci permetta di capire come tale crisi si sia sviluppata e suggerisca qualche suggestione in merito al futuro prossimo venturo.
La gran parte degli osservatori ha individuato la data d’inizio della crisi nel luglio del 2007, in occasione dell’esplosione della bolla dei subprime; un’esplosione dettata dalla turboingegneria della finanza che aveva iniettato nelle vene dell’economia mondiale robuste dosi di steroidi speculativi, attraverso gli arnesi della distribuzione artificiale del rischio, l’allagamento di liquidità dei mercati operato da banche centrali e da intermediari creditizi, le costanti spinte rialziste dei meccanismi al di fuori degli “operatori tradizionali”.
La paura generata dallo sboom -tanto fragoroso perché di fatto amplificato dalla pressoché assoluta opacità dei percorsi finanziari generata proprio dalla distribuzione del rischio- ha “costretto” (mi scuso per la semplificazione brutale) il governo degli Stati Uniti d'America ad intervenire, prima con il Piano Paulson e poi con l’azione di Geithner. In maniera quasi parossale, negli Usa, divenuti l’epicentro della crisi, sia i repubblicani del tardo Bush sia i nuovi democrat di Obama hanno riportato in vita l’intervento pubblico come panacea per restituire fiducia a mercati in via di smobilitazione e per scongiurare il panico. Si sono succeduti così una serie di interventi, caratterizzati da metodologie molto diverse e un po’ confuse, dal piano di ripulitura degli asset tossici in pancia alle grandi banche retail, alle “nazionalizzazioni” delle stesse banche e delle big three, fino all’ultima versione del Troubled Asset Relief Program (Tarp). Quest’ultimo percorso ha spostato in maniera significativa il baricentro dell’azione del governo degli Stati Uniti dalle politiche monetarie convenzionali, operate attraverso i tassi d’interesse, a quelle non convenzionali come il quantitative easing, la creazione indotta di carta moneta volta in primis a finanziare i T bond, i titoli del Tesoro Usa che venivano così collocati a tassi a medio e lungo termine decisamente bassi.
L’effetto più evidente di questa strategia è stato quello di trasferire una parte significativa del debito privato, soprattutto di quello bancario, in direzione del debito federale, che è esploso passando rapidamente dal 60 ad oltre l’80% del Pil. Ciò ha comportato un primo -sensibile- ampliamento dell’offerta di titoli di debito sovrano, in parte frenata nei suoi effetti svalutativi dagli acquisti cinesi denominati in dollari. Tuttavia, il contestuale ricorso al mercato del debito da parte di Usa, Germania, Inghilterra, Francia e Italia ha scatenato una vera e propria concorrenza in materia di titoli di Stato, che ha fatto esplodere il fenomeno degli spread, per cui ha smesso di funzionare l’effetto-ombrello dell’euro come moneta unica in grado di garantire tassi di interesse allineati per i vari paesi dell’eurozona. In tale quadro, è esploso il "caso della Grecia" e il contagio si è diffuso rapidamente anche a realtà con caratteristiche differenti, con minor debito pubblico e una maggiore dose di fragilità nel settore privato.
L’arrivo della crisi del debito in Europa ha trovato il Vecchio Continente impreparato, e soprattutto fin troppo abbarbicato a uno schema concepito nei primi anni Novanta -quando i grandi pericoli erano l’inflazione, il monopolio mondiale del dollaro e l’insostenibile disomogeneità fra i vari Stati membri della Comunità europea-. Mentre negli Stati Uniti d'America, di fronte alla crisi, sono state terremotate molte adesioni ideologiche consolidate e con Quantitative easing e nuove regole -si pensi al Frank Dodd Act che ha provato a modificare il profilo del sistema bancario- ha preso forma un nuovo tipo di paradigma dell’economia pubblica, in Europa non si è materializzato il coraggio di mettere in dubbio i dogmi di Maastricht.
Si è continuato a considerare l’inflazione il male supremo –trascurando che nel frattempo in giro per il mondo c’erano 13mila miliardi di dollari in più-, si è continuato a limitare l’azione della Bce al lending of last resort (prestatore di ultima istanza) per le banche e si è pensato, a fatica, di creare veicoli finanziari nuovi che agissero sterilizzando in ogni modo il pericolo di svalutazione dell’euro. Non sono state neppure modificate le regole finanziarie, e si è anzi posto in essere il paradossale meccanismo di "Basilea 3", imponendo requisiti patrimoniali pesanti ma calcolandoli favorendo il trading a discapito del credito produttivo, senza limitare in alcun modo le vendite allo scoperto e lo strumentario dei contratti derivati e delle assicurazioni.
Queste incertezze e queste contraddizioni hanno alimentato i focolai e il contagio, nell’ipotesi diffusa che non esistessero né i mezzi e neppure la volontà per coprire le eventuali insolvenze di Stati non più capaci di onorare il loro debito o di approvvigionare le loro banche. In tale clima la Germania ha rapidamente capito che la crisi europea poteva essere un formidabile veicolo per il suo ulteriore sviluppo. La tensione sui debiti sovrani infatti da un lato rendeva i titoli tedeschi un vero e proprio bene rifugio che trovava compratori addirittura con tassi negativi, al netto dell’inflazione, dall’altro favoriva un parziale indebolimento dell’euro che spingeva ancora di più le esportazioni tedesche.
Alla luce di tutto ciò, e a fronte delle esigenze elettorali di frau Merkel, per quali motivi la Germania avrebbe dovuto sostenere ipotesi di eurobond? Forse per “europeizzare" il debito dei singoli Stati creando titoli che potevano fare concorrenza ai propri bund? E perché consentire un allentamento del patto di stabilità che avrebbe spinto la debolezza dell’euro oltre la soglia del rapporto costi-benefici tra maggiore inflazione e maggiori esportazioni? Neppure a parlare poi di una modifica della natura della Bce come prestatore di ultima istanza per gli Stati.
La “germanizzazione” delle politiche europee si è così tradotta nella creazione di un Fondo "Salva Stati" temporaneo prima e poi dell’European Stability Mechanism che avrebbero dovuto di fatto garantire il collocamento dei titoli dei Paesi rischiosi sul mercato secondario o, nel caso di fallimento di quest’azione, sostenere i piani di rientro di tali Paesi, proteggendoli dai rialzi dei tassi.
Fin dall’inizio tuttavia è emerso che la dotazione di tali strumenti non costituiva un firewall in grado di proteggere l’intera massa di debito a rischio in Europa; massa nella quale è finito progressivamente anche lo stock di debito italiano.
Del resto un Paese con 1.900 miliardi di debito, di cui 1.600 negoziabili, e con un "roll over" di circa 350 miliardi annui non poteva non finire nell’occhio del ciclone.
La tempesta è arrivata in estate, nel luglio del 2011, quando il collocamento del debito italiano ha iniziato a diventare faticosissimo ed estremamente costoso. A quel punto, per evitare il tracollo dell’intera area euro, la Bce ha iniziato a comprare titoli di Stato italiani sul mercato secondario, pagandoli molto e di fatto peggiorando i propri asset (ha dovuto liquidare i propri titoli migliori per trovare la liquidità necessaria per acquistare quelli italiani). In questo senso nel giro di pochi mesi la qualità del portafoglio della Bce è scaduta e il suo bilancio si è oltremodo appesantito suscitando le ire tedesche, principale contributore della Bce oltre che del Fondo "Salva Stati".
In pratica nell’autunno il debito pubblico italiano era sostenuto pressoché interamente, nelle sue nuove emissioni, dalla Bce, mentre sui quotidiani del nostro Paese uscivano appelli alla sottoscrizione patriottica del debito sovrano. Neppure questa condotta è stata sufficiente a calmare le tensioni, e si è giunti persino alla situazione di vera emergenza, nella quale i rendimenti dei titoli a breve del debito italiano erano più alti di quelli a medio termine; un indicatore per cui i mercati ritenevano possibile un default almeno parziale del debito italiano, non più interamente rimborsabile. In un simile clima, avanzava la colossale ristrutturazione del debito greco che, per la prima volta nella storia, ha di fatto significato una decurtazione del 75% del valore reale delle obbligazioni di pressoché tutti i detentori di bond ellenici.
Per evitare la tragedia finale la Bce ha messo in cantiere due operazioni di liquidità pronta cassa all’1% per gli istituti di credito in grado di presentare collaterali accettabili. Con tale liquidità le banche hanno potuto rifinanziarsi ed hanno comprato stock di titoli appena emessi, consentendo un raffreddamento degli spread e il rapido rallentamento degli acquisti sul secondario operati dalla Fed
Lo stato del Paese, della nazione direbbero gli anglosassoni d’Oltreoceano, deve essere valutato all’interno di questo scenario e può essere sintetizzato in alcuni punti essenziali:
1) la tenuta dei conti del Paese è affidata a una manovra pesantissima, dall’effetto cumulato di 82,4 miliardi in larghissima parte poggiata su aumento del carico fiscale, destinato ad avvicinarsi al 45,3%, e da tagli che continuano ad essere lineari. Una manovra che peraltro sconta una incredibile confusione in materia di certezza di diritto e di scadenze;
2) il sistema bancario è in gravissimo affanno ed è imbottito di titoli di Stato italiani, e quindi a bassa patrimonializzazione; ciò ha ridotto in maniera marcatissima l’accesso al credito o lo ha subordinato a condizioni insostenibili;
3) permane l’incapacità di intaccare il debito primario -che ancora nel 2011 è cresciuto al 123% del Pil e sembra, secondo le stime del Def ministeriale, destinato a non ridursi per effetto del combinato disposto di aumento interessi e costo del sostegno europeo che vanificano persino un consistente avanzo primario, assai superiore al 5%;
4) sta scomparendo la spesa in investimenti, che nel 2011 è stata nel nostro Paese pari a 55 miliardi di euro, a fronte di una spesa corrente di oltre 750 miliardi di cui 84 in conto interessi, poco meno della spesa sanitaria, pari a 112 miliardi.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa
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