Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 8 dicembre 2012

Come la finanza ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia

di Giorgio Ruffolo , Stefano Sylos Labini - sbilanciamoci -

La crisi di oggi è la crisi dell’Età del capitalismo finanziario, nata con la liberalizzazione dei movimenti di capitali e l’ascesa della finanza. Un modello che ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia e messo nell’angolo la politica. Un’anticipazione dalle conclusioni del volume di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini “Il film della crisi. La mutazione del capitalismo” (Einaudi, 2012)

La tesi centrale di questo libro è che la crisi in cui sono immersi i Paesi occidentali nasce dalla rottura di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia. La fase successiva a questa rottura può essere definita come l’Età del Capitalismo Finanziario e costituisce la terza mutazione che il capitalismo ha attraversato dall’inizio del secolo precedente.
La prima fase è un’Età dei Torbidi che si è verificata tra l’inizio del secolo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale.
La seconda fase è costituita dalla cosiddetta Età dell’Oro: un’intesa tra capitalismo e democrazia fondata su due accordi fondamentali. Il primo comprendeva la libera circolazione delle merci a cui faceva da contrappeso il controllo politico dei movimenti dei capitali che assicurava un ampio spazio all’autonomia della politica economica dei governi e alle rivendicazioni dei lavoratori. Il secondo traeva ispirazione da una nuova teoria dell’impresa manageriale, che la rappresentava come una complessa realtà sociale focalizzata non solo sul profitto ma anche sull’impegno verso una serie di obiettivi sociali rendendo la grande impresa privata una vera e propria comunità.
La terza fase segna appunto una rottura dell’Età dell’Oro e si realizza attraverso la liberazione dei movimenti di capitale che permette di scatenare una vera e propria controffensiva capitalistica. Questa mossa, attuata all’inizio degli anni ‘80 dai leader degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, determina un mutamento fondamentale nei rapporti di forza tra capitalismo e democrazia e tra capitale e lavoro e apre la strada alla formidabile espansione del capitalismo finanziario nei Paesi occidentali.
La controffensiva capitalistica maturò in seguito ad una serie di eventi che influenzarono l’evoluzione dell’economia mondiale negli anni Settanta. Anzitutto le crisi petrolifere che si risolsero in una “stagflazione”, cioè in una combinazione di inflazione dei prezzi al consumo e di deflazione della domanda, e alimentarono massicci investimenti dei petrodollari nei mercati finanziari mondiali. Accanto ai due shock petroliferi, ebbero un peso rilevante la pressione esercitata dai sindacati dei lavoratori; la competizione sempre più intensa tra l’economia americana in declino e le economie europee in ascesa; nonché una serie di movimenti di opinione che cambiarono sostanzialmente le caratteristiche fondamentali del pensiero economico e che si concretizzarono dapprima nella rinascita di un nuovo liberismo economico e poi nel mutamento dell’ideologia politica. In tale ambito ebbe un peso significativo l’influenza esercitata dalle nuove tesi neoautoritarie della cosiddetta “Trilaterale”[1] .

Ma l’economia è democratica?

Luigi Ferrajoli  - controlacrisi -

1. La crisi, i mercati e il rapporto tra economia e politica

Io credo che il tema di questo intervento – il rapporto tra economia e politica e la dipendenza della seconda dalla prima – sia il tema di fondo del nostro tempo: un tema che è tutt’uno con il tema della crisi della sfera pubblica, del ruolo e ancor prima della natura della politica e perciò, in ultima analisi con il tema, al tempo stesso teorico e politico, della crisi della democrazia, non solo in Italia ma in Europa e più in generale a livello globale.
Il rapporto tra politica ed economia si è ribaltato. Non abbiamo più il governo pubblico e politico dell’economia, ma il governo privato ed economico della politica. Non sono più gli Stati, con le loro politiche, che controllano i mercati e il mondo degli affari, imponendo loro regole, limiti e vincoli, ma sono i mercati, cioè poche decine di migliaia di speculatori finanziari e qualche agenzia privata di rating, che controllano e governano gli Stati. Non sono più i governi e i parlamenti democraticamente eletti che regolano la vita economica e sociale in funzione degli interessi pubblici generali, ma sono le potenze incontrollate e anonime del capitale finanziario che impongono agli Stati politiche antidemocratiche e antisociali, a vantaggio degli interessi privati e speculativi della massimizzazione dei profitti. Le ragioni di questo ribaltamento sono molte e complesse. Non parlerò dei conflitti di interesse e delle molte forme di corruzione e condizionamento lobbistico attraverso cui l’economia condiziona la politica.
Questi condizionamenti ci sono come mostrano le cronache di questi giorni. Ma il ribaltamento dipende da due ragioni, una di ordine strutturale, l’altra di ordine culturale e ideologico.

La prima ragione consiste in un’asimmetria intervenuta nelle dimensioni della politica e in quelle dell’economia e della finanza: l’asimmetria tra il carattere ancora sostanzialmente e inevitabilmente locale dei poteri statali e il carattere globale dei poteri economici e finanziari. La politica è tuttora ancorata ai confini degli Stati nazionali, in un duplice senso: nel senso che i poteri politici, soprattutto dei paesi più deboli, si esercitano soltanto all’interno dei territori statali e nel senso che gli orizzonti della politica sono a loro volta vincolati al consenso degli elettorati nazionali. Al contrario, i poteri economici e finanziari sono ormai poteri globali, che si esercitano al di fuori dei controlli politici, e senza i limiti e i vincoli apprestati dal diritto – dalle legislazioni e dalle costituzioni – che è tuttora un diritto prevalentemente statale. è insomma saltato – o si è quanto meno indebolito, ed è destinato a divenire sempre più debole – il nesso democrazia/popolo e poteri decisionali/regolazione giuridica. In assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, i poteri economici e finanziari, da Marchionne alla finanza speculativa, si sono sviluppati come poteri illimitati, sregolati e selvaggi, in grado di imporre le loro regole e i loro interessi alla politica.

Il secondo fattore del ribaltamento del rapporto tra politica ed economia è di carattere ideologico. Esso consiste nel sostegno prestato al primato dell’economia dall’ideologia liberista, basata su due potenti postulati: la concezione dei poteri economici come libertà fondamentali e delle leggi del mercato come leggi naturali. Le due raffigurazioni ideologiche sono tra loro connesse: la prima, ben più che rafforzata, è per così dire “verificata” dalla seconda, cioè dalla concezione della lex mercatoria come legge naturale, sopraordinata alla politica e al diritto come una sorta di necessità naturale, e della scienza economica come scienza a sua volta naturale, dotata della stessa oggettività empirica della fisica. Di qui il rifiuto come illegittimo e insieme irrealistico di qualunque intervento statale diretto a limitare l’autonomia degli operatori economici e finanziari e l’assunzione come tesi scientifiche o rilevazioni fattuali o proposte realistiche di una lunga serie di luoghi comuni largamente ideologici. Di qui la trasformazione della politica in tecnocrazia, cioè nella sapiente applicazione delle leggi dell’economia da parte di governi “tecnici” – non dimentichiamo il monito di Bobbio sull’antitesi e l’incompatibilità tra democrazia e tecnocrazia – i quali traggono legittimazione dai mercati, e solo ai mercati – e non già ai parlamenti, ai partiti, alle forze sociali, alla società – devono rispondere.

Di qui, soprattutto, il nesso tra l’impotenza della politica nei confronti dell’economia e la sua rinnovata onnipotenza nei confronti delle persone e a danno dei loro diritti costituzionalmente stabiliti. I due processi, il depotenziamento della politica e la decostituzionalizzazione delle nostre democrazie, sono tra loro connessi, l’uno come causa del secondo e il secondo come condizione necessaria del primo. Il sopravvento dell’economia sulla politica e l’abdicazione della seconda al ruolo di governo nei confronti della prima non sarebbero infatti possibili senza un simultaneo processo di liberazione della politica da limiti e da vincoli legali e costituzionali. è in questo duplice processo che risiede la crisi sistemica che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione al governo politico e democratico dell’economia del governo economico e ovviamente non democratico della politica, che a sua volta richiede la rimozione della costituzione dall’orizzonte dell’azione di governo onde consentirle l’aggressione all’intero sistema dei diritti fondamentali e delle loro garanzie: dai diritti sociali alla salute e all’istruzione ai diritti dei lavoratori, dal pluralismo dell’informazione alle molteplici separazioni e incompatibilità dirette a impedire concentrazioni di potere e conflitti di interesse.

Disoccupazione, quella vera.

di Aldo Carra -
I dati più recenti sulla disoccupazione sono drammatici, ma la situazione reale lo è ancora di più. Il tasso di disoccupazione totale a settembre 2012 è salito al 10,8 per cento, quello giovanile al 35,1 per cento, mentre ogni mese che passa si tocca un nuovo record storico. Nella crisi che attraversa i paesi sviluppati, l’aumento della disoccupazione non è solo un fenomeno italiano: nell’Europa a 27 essa ha raggiunto il 10,6 per cento e nell’area Euro è arrivata fino all’11,6. Stando a questi dati, in Italia ci sarebbe quindi una disoccupazione uguale a quella dell’Europa o addirittura inferiore a quella dell’area Euro.
È così? Così sembrerebbe, ma così invece non è, perché i dati ufficiali che misurano la disoccupazione non dicono tutto. E poiché non è giusto che una situazione drammatica e che tende ad aggravarsi sempre di più non venga rappresentata nella sua giusta dimensione, pensiamo sia indispensabile fare chiarezza sul modo in cui si misurano forze di lavoro e disoccupazione e avanzare proposte concrete perché vengano adottati nuovi criteri. Siamo sollecitati a farlo anche da un articolo di Andrea Fumagalli apparso di recente su il manifesto dal titolo “Disoccupazione al 19 per cento. Ecco come l’Istat nasconde i dati” e dalla replica del direttore della comunicazione dell’Istat, che al contrario sostiene che i dati ci sono e sono pubblici.
Partiamo subito da una premessa per evitare ogni fraintendimento: i dati ufficiali non sono certamente falsi e sono calcolati con i criteri dettati da Eurostat e doverosamente seguiti dall’Istat. Solo che è venuto il momento di dire che quei criteri non sono più adeguati e che debbono essere rivisti e che l’Italia, per le ragioni che diremo, è tra i paesi più interessati a questa revisione. Ma andiamo con ordine, ricollegandoci alle analisi in precedenza condotte su Rassegna, nelle quali abbiamo più volte sostenuto l’inadeguatezza della misurazione della disoccupazione. La definizione di disoccupazione adottata da Eurostat comprende le persone che hanno effettuato un’azione attiva di ricerca del lavoro nelle quattro settimane che precedono la rilevazione.
È chiaro che in un mercato del lavoro in cui i vecchi canali di collocamento non sono più ritenuti utili per trovare lavoro, in cui la maggior parte delle persone trova un’occupazione ricorrendo a canali di conoscenza, in cui le attività professionali meglio remunerate passano di padre in figlio, in cui, soprattutto, è così difficile trovare lavoro, quella definizione è fortemente restrittiva ed esclude tante persone che il lavoro lo cercano e lo vogliono, ma che in molti casi non sanno nemmeno quale azione attiva fare per trovarlo. Questo lo sanno anche gli istituti di statistica, che, oltre a misurare la cosiddetta popolazione attiva (occupati e disoccupati), da alcuni anni hanno cominciato a calcolare anche quanti tra la popolazione “inattiva” sono disponibili a lavorare, anche se non stanno cercando attivamente lavoro (nel 2011 erano 2 milioni e 897.000 più dei disoccupati dichiarati, che erano 2 milioni e 108.000), e anche quanti lo cercano, ma non sono temporaneamente disponibili a lavorare (nel 2011 erano 121.000).
Queste due aree di popolazione classificate come inattive costituiscono, in realtà, un serbatoio di “forze di lavoro potenziali”, che sono più vicine alla condizione di disoccupati che a quella di inattivi: condizione, quest’ultima, che comprende pensionati, casalinghe e studenti. C’è poi addirittura una terza fascia di persone che lavorano part time, ma che vorrebbero lavorare di più (nel 2011 erano 451.000). Queste tre categorie di persone insieme ammontavano nel 2011 a tre milioni e mezzo. Poiché i disoccupati veri e propri erano due milioni e 100.000, ciò significa che l’area della disoccupazione intesa in maniera meno restrittiva superava i 5 milioni e mezzo di persone e oggi, nel 2012, è certamente sui 6 milioni. Includendo questa disoccupazione oggi trascurata tra i disoccupati (i sottoccupati part time si possono calcolare al 50 per cento) e tra le forze di lavoro, il tasso di disoccupazione da cui siamo partiti cambia notevolmente: nel 2011 quello ufficiale era pari all’8,4 per cento, con i nuovi criteri adottati risulta essere in realtà pari al 19 per cento. Una bella differenza, certo. Anche se si può obiettare che questo vale anche per gli altri paesi e che, quindi, il confronto non cambia.
Non è proprio così, ed è per questo che prima abbiamo detto che l’Italia è tra i paesi più interessati a modificare i criteri di calcolo della disoccupazione. Il perché è evidente nel grafico in pagina: con la misurazione attuale, il tasso di attività (rapporto forze di lavoro – occupati più disoccupati – e popolazione da 15 a 74 anni) è di gran lunga più basso di quello di tutti gli altri paesi. Come si spiega? Con il fatto che i fenomeni prima accennati sui canali di accesso al lavoro sono in Italia molto più accentuati che negli altri paesi (non a caso, siamo in coda nella graduatoria della mobilità sociale) e queste strozzature fanno sì che molte persone che vorrebbero lavorare, più che cercare attivamente lavoro, aspettano che si presenti l’occasione buona.
Non si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che in Italia i “disponibili a lavorare che non cercano lavoro” sono ben il 12 per cento rispetto alle forze di lavoro, mentre in Europa sono solo il 3,6 per cento, in Francia l’1,1 per cento, in Germania l’1,4 per cento, in Spagna il 4,2 per cento. È evidente perciò come in questa categoria si annidi, in Italia più che altrove, una vasta realtà di persone che non cercano lavoro perché scoraggiate dalle difficoltà a trovarlo: esse non possono certo essere considerate inattive. L’anomalia italiana non è, quindi, di avere meno popolazione attiva (cosa che non sarebbe spiegabile), ma di avere un mercato del lavoro più rigido e più scoraggiante. A riprova di ciò, basta guardare ancora il grafico, da cui emerge che considerando tra le forze di lavoro anche le tre categorie prima escluse e ricalcolando i tassi di attività, l’anomalia italiana si attenua fortemente: le persone che lavorano o sono disponibili a lavorare costituiscono una percentuale pressoché uguale a quella che si registra in Francia e molto più vicina a quella degli altri paesi.
L’attuale metodologia di calcolo dei disoccupati fornisce, insomma, un’immagine distorta soprattutto della realtà italiana ed è per questo che, secondo noi, l’Italia dovrebbe essere più interessata degli altri paesi a una revisione dei criteri di calcolo della disoccupazione, che includa le tre aree oggi escluse. Per questo pensiamo si possa formalizzare la seguente proposta: ricalcolare i tassi di disoccupazione inserendo le persone disposte a lavorare anche se non risulta stiano cercando attivamente lavoro. Così facendo, i confronti europei sarebbero quelli presenti nella tavola a fianco e i tassi di disoccupazione così risultanti darebbero una visione più corretta delle realtà dei diversi paesi europee.

Ma con l’anti-berlusconismo non ci fregate più.

 

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Di Matteo Pucciarelli - micromega -
No, no, e ancora no. Stavolta non ci dobbiamo cascare. Stavolta ci dobbiamo porre l’impegno morale di ignorare (e semmai combattere) chi di professione gridava alla difesa delle democrazia, poi dopo amorevolmente calpestata per far posto ai “tecnici” grazie all’unione contronatura tra Pd-Pdl-Udc. Tutto in nome del dio spread.
È una cosa psicologica, probabilmente. Le mignotte, i cucù, le bugie, i cortigiani, le corna, il sesso malato, Mediaset, conflitti di interessi, la cricca, Dell’Utri, la mafia, gli appalti, le barzellette, Feltri e Sechi che sfondano quotidianamente il muro del buonsenso, Cicchitto, le gaffe, i video delle gaffe, «il ruolo di kapò», Ghedini fuori dal tribunale di Milano. E poi, speculari: i post-it, le raccolte firme, le manifestazioni, i popoli viola, il Fatto Quotidiano comprato a mo’ di dichiarazione partigiana, post indignati, i libri su di lui, gli anatemi su di lui, la vergogna per lui, Valigia Blu, mille bolle blu, Se non ora quando? e le scrittrici radical-chic sul palco, Santoro e Bella Ciao.
No, no, e ancora no. Basta col giochino dei soldatini blu e dei soldatini rossi. C’è stato un anno, il 2012, che ci ha spiegato diverse cose. E ci ha detto che al di là di lui, che al di là della sua presenza ingombrante e della sua proverbiale ignoranza, c’è stato un governo sostenuto da centrosinistra e centrodestra che in un perfetto clima civile e sobrio ha fatto fuori l’articolo 18, ha varato l’ennesima riforma delle pensioni lasciando senza lavoro e senza pensione decine di migliaia di persone, ha tolto solo a chi ha sempre pagato, non ha fatto nulla per i giovani, non ha toccato i grandi patrimoni e i privilegi della Chiesa, ha tagliato il pubblico e non ha tagliato le spese militari. Un governo col bon ton, ma neo-liberista e classista, che ha inserito l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione. Tradotto, altri tagli indiscriminati. E dove, se non nel pubblico?
Intanto il debito pubblico nel 2012 è aumentato (magia), la disoccupazione è aumentata (magia), il pil si è inabissato (magia), l’inflazione è aumentata (magia), i salari sono scesi (magia). E a protestare chi è rimasto?
Allora no, no, e ancora no. La scelta non può essere ancora una volta tra quelli per e quelli contro il signor B. E il voto utile, oggi, non è più tra soldatini rossi e soldatini blu. La sfida è tra chi ha intenzione di non discostarsi dalle politiche del rigore a senso unico impartite da Bce e Fmi e chi invece crede che non può essere il neo-liberismo, lo stesso che ha causato la crisi, a rappresentare la soluzione.
Berlusconi? Chi se ne frega. Quel nome non riesco nemmeno più a pronunciarlo. Il tempo del facile sdegno, quando bastava essere minimamente educati per sembrare rivoluzionari, lasciamolo nel cassetto dei ricordi. Parliamo di politica. E di chi dovrà pagare cosa, nei prossimi cinque anni.
PS. Quando c’era Berlusconi si ragionava così. Poi dopo invece….
Matteo Pucciarelli
(06-12-2012)

venerdì 7 dicembre 2012

LA CATASTROFE SOCIALE E LA SOLLEVAZIONE

- sollevazione -


Capitalismo casinò e struttura sociale
Quali sono le forze antagoniste?

Di Moreno Pasquinelli

Il mio articolo del 22 ottobre Perché questo mortorio sociale?, assieme all’encomio di molti, ha suscitato la perplessità di alcuni. Mi hanno tuttavia inquietato, più ancora che le critiche, alcuni malintesi apprezzamenti: “Bravo Pasquinelli, finalmente hai capito che la sollevazione di cui voi del Mpl tanto cianciate non è affatto all’ordine del giorno. Invece di prepararci allo sfracello, dedichiamoci ad una lunga a tranquilla attività di apostolato. Non c’è alcuna catastrofe in vista e di tempo davanti a noi ne abbiamo abbastanza.”

In effetti, dopo aver sottolineato che la sostanziale pace sociale dipende (anche) dal fatto che la maggioranza degli italiani gode ancora di un relativo e residuo benessere, scrivevo:
«Non dobbiamo nemmeno temere di dire cose antipatiche, o sconvenienti a tanti militanti antagonisti: il panico della catastrofe imminente, lungi dal risvegliare le masse dalla loro apatia, non solo rafforza la loro inerzia, a malapena nasconde la loro intima speranza che il sistema guarisca, che tutto ritorni come prima. Di qui alla fiducia che il salvatore della patria Mario Monti ce la faccia, il passo è breve».
Questo passaggio è forse la causa del qui pro quo, per cui avrei cambiato opinione riguardo a due punti cruciali del ragionamento che vado da tempo svolgendo: che la catastrofe sociale è ineluttabile, e che il suo approssimarsi getta le premesse di una sollevazione popolare.

Metodo e politica rivoluzionaria

Qui si confondono due processi, che sì sono concatenati, ma che in sede di analisi vanno tenuti distinti: la catastrofe sociale e la sollevazione. La prima ha a che fare con la crisi sistemica e il suo decorso, è quindi determinata anzitutto da cause oggettive, che prescindono dalla coscienza e dalla psicologia delle masse; mentre la sollevazione dipende anzitutto dall’azione, dalla volontà e dalla potenza politica di queste masse. Se sbaglia chi ritiene che tra i due fenomeni ci sia una meccanico rapporto causale, ovvero che la catastrofe susciti automaticamente la sollevazione, sbaglia a sua volta chi semplicemente rovescia la relazione causale e fa dipendere la catastrofe dalla sollevazione, e dunque la esclude vista l’attuale arretratezza e impotenza politica delle masse.

L’intelletto, come diceva Hegel, ci tiene a tenere separati e distinti i diversi fattori, la ragione dialettica, invece, vede la loro intima connessione. Crisi sistemica e psicologia delle masse non se ne stanno fisse nel loro empireo, mutano, e mutano nell’ambito della loro reciproca relazione, che ha piedi e testa nel mondo reale. Per capire come mutano e come cambia la loro relazione, occorre, come scrivevo: «Analisi concreta della situazione concreta, dalla quale dipendono linea politica e linea di condotta, che non devono basarsi sull’umore delle masse, per sua natura volatile, ma anzitutto sui fattori oggettivi. Ciò che conta è cogliere nella situazione la linea di tendenza principale e, della catena, quali sono gli anelli deboli destinati a spezzarsi per primi».

Quindi concludevo:
«Altra farina deve macinare il mulino della crisi prima che da un fuoco qua e là si passi all’incendio generale, alla sollevazione. Devono saltare le paratie difensive del sistema, fallire i dispositivi di salvataggio dell’Unione europea. Noi non abbiamo dubbi che questo avverrà, che chi sta in alto non riuscirà a far ripartire il motore grippato del capitalismo occidentale, europeo in particolare. Non riuscirà ad evitare lo sbocco “naturale” di questa crisi: una pauperizzazione generale delle masse con una contestuale concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta minoranza di possidenti, decisi a difendere ad ogni costo la loro supremazia, se serve anche sbarazzandosi del poco che resta della democrazia».
Come chiunque può comprendere non solo ribadivo che la tendenza oggettiva è quella alla catastrofe sociale, ma che questa potente e oggettiva forza motrice è destinata a incidere sulla psicologia delle masse, ad obbligarle a cercare una via d’uscita, a spingerle quindi all’azione. Tra i diversi fattori c’è una gerarchia, essi hanno un rango: i fattori oggettivi, in ultima istanza, impongono le loro ragioni.

La società si cambia grazie all’accumulo di forza materiale, facendo leva sui conflitti tra le diverse classi sociali; per questo sono decisivi l’indagine scientifica dei processi economici, l’inchiesta sociale, l’esame comparato dei fattori. Solo così possono avere luogo le individuazioni: quale, tra le tendenze in atto è quella determinante, quale classe o raggruppamento di classi possono trainare il passaggio da un sistema sociale ad un altro e quali, di converso, agiscono in senso contrario.

Senza queste individuazioni ogni messaggio politico poggerebbe sulla sabbia delle aspettative oracolari e non avrebbe credibilità ed efficacia. D’altra parte, posta questa disamina a basamento della prassi politica, resta il fattore tempo. Riconosciuta la tendenza che fa da forza motrice, occorre immaginare i tempi nei quali la tendenza principale non solo si manifesta apertamente e s’impone sulle altre, ma s’impone e si manifesta alla coscienza delle masse. Ognuno capisce che sarà diverso se io dico che la catastrofe s’avanza a dosi omeopatiche, sui tempi lunghi, o se, invece, affermo che essa s’afferma per strappi traumatici successivi e sui tempi brevi. Oppure un miscuglio tra le due eventualità. Comunque sia non esiste la possibilità di calcolare in maniera infallibile i tempi. A causa della molteplicità di fattori, spinte e soggetti che operano nella società, i tempi con cui certe tendenze fanno giungere i loro frutti a maturazione non si possono determinare con la stessa precisione con cui ad esempio un agronomo, misurata la curva degli zuccheri dell’uva, decide giunto il momento della vendemmia. Sui tempi politici si possono solo fare pre-visioni, ipotesi. Per quanto esse non abbiano valore cogente, pur tuttavia, queste ipotesi vanno fatte, sono uno degli elementi che concorrono a indirizzare la prassi.

Tabella n.1. Il crollo della produzione industriale
in Italia (clicca per ingrandire)
Evidenze empiriche della catastrofe sociale

Noi non stiamo dicendo che la sollevazione è alle porte. Affermiamo invece con sicurezza che lo è la catastrofe sociale del nostro paese, anzi, diciamo che essa è già in atto.
Ciò non contraddice affatto l’analisi che svolgevo nell’articolo Perché questo mortorio sociale, quando sottolineavo l’ordine di grandezza della diffusa ricchezza mobiliare (risparmi e rendite) e immobiliari esistente in Italia. Il fatto è che i dati che riportavo vanno posti accanto alle piaghe sociali, alle privazioni e all’indigenza crescenti. Questo è il punto quando parliamo di tendenza dominante: che mentre la ricchezza accumulata in decenni tende a diminuire, la pauperizzazione tende di converso a crescere in tempi rapidi.

A grandi passi verso la Grecia.

6 dicembre 2012- Fonte: il manifesto

di Piero Bevilacqua -
Qualcuno ricorda ancora le previsioni di Mario Monti a proposito delle liberalizzazioni varate dal suo governo, nel gennaio del 2012? Predisse allora che il Pil nazionale sarebbe potuto crescere del 10%. Una cifra che lasciò increduli tutti, e che gettò anche una piccola ombra di credibilità sulla figura di un così autorevole tecnico. Forse però qualcuno ricorda altri detti memorabili del presidente, come «la crisi è alle spalle» del marzo scorso, o «la fine del tunnel sta incominciando a illuminarsi», pronunciato alla vigilia della sua visita al presidente francese Hollande, nel luglio 2012. Tutte queste ottimistiche previsioni e quelle, ripetute, di altri ministri che abbiamo ascoltato in questi mesi e settimane, gettano oggi una ulteriore luce sinistra sulle prospettive dell’Italia. Perché esse si rivelano delle previsioni erronee e infondate e certificano l’incapacità del governo tecnico di venire a capo di una crisi vasta come mai nella storia del capitalismo e di inedita complessità. Quelle promesse senza fondamento mostrano infatti che molti dei tecnici del governo brillano in una branca limitata della loro disciplina, il marketing. Sono degli ottimi pubblicitari, forse contagiati, nel loro mestiere, dal Grande Pubblicitario che li ha preceduti al governo. Ma falliscono tragicamente sul terreno decisivo, quello dell’economia reale.
Tutti gli indici della situazione economica italiana autorizzano tale giudizio. Se si fa eccezione per l’ abbassamento dello spread (mai portato, tuttavia, a livelli fisiologici e mai stabilizzato) e per la ritrovata dignità e autorevolezza dell’Italia sulla scena internazionale, dopo un anno di “agenda Monti” le condizioni del paese sono peggiorate, talora precipitate. Com’è a tutti noto, il debito pubblico, il mostro per il quale il governo ha chiesto cosi tante vittime sacrificali, è cresciuto. Ma è cresciuta ulteriormente anche la disoccupazione – come confermano ancora gli ultimi dati Istat – e le proiezioni dell’Ocse ci dicono che crescerà ancora il prossimo anno e non solo in Italia. Il Pil, altro totem sacro dell’economia nazionale, decresce di anno in anno a dispetto degli scongiuri governativi, che annunciano la sua risalita sempre per l’anno prossimo. Nel frattempo diminuisce costantemente la capacità di risparmio delle famiglie, lo scrive la Banca d’Italia, i consumi precipitano all’indietro di decenni, cala costantemente la produzione industriale, mentre si fanno più acuti i processi di deindustrializzazione che interessano il nostro Paese ormai da molti anni. Ad aumentare è solo la pressione fiscale.
Tali considerazioni sono necessarie innanzi tutto per riportare a dimensioni realistiche le pretese virtù salvifiche del presidente Monti. Non vogliamo sminuire la sua figura, ma almeno mostrare la clamorosa infondatezza della sua esaltazione, soprattutto da parte di tanti moderati, sbandati e senza idee, che cercano le ali di un qualche capo sotto cui rifugiarsi. Mario Monti è uno stimato tecnocrate che ha lavorato insieme ai tecnocrati della sua generazione a edificare il castello dell’economia neoliberistica, quella macchina ideologica e di potere che ha generato la crisi presente. Le sue idee economiche si muovono entro un recinto di categorie concettuali che hanno provato il loro fallimento. Sono state «falsificate», direbbe Popper, dalla presente crisi e dal disordine mondiale che vanno alimentando.
Ma, al di la delle ricette economiche, crediamo che la sua figura di leader sia tutt’altro che moderna, se vogliamo dare a questo termine il significato volgare che ad esso si dà nel dibattito politico corrente. Avete mai sentito Mario Monti parlare di ambiente, di riscaldamento climatico, di problemi del territorio italiano, di sistemi urbani? Qualcuno l’ha udito soffermarsi sulla questione vitale dei diritti delle persone, dei problemi della vita e della morte nelle società dominate dalla tecnoscienza? E la scuola e la formazione? Che idee ha il professor Monti? Le considerazioni sugli insegnanti italiani, espresse alla trasmissione di Fabio Fazio il 25 novembre, mostrano quale scarsa conoscenza specifica egli ha di questa istituzione fondamentale del Paese. Sgomenta poi, nel suo argomentare, l’assenza di una qualunque visione strategica del ruolo dello Stato nel nostro tempo, ovviamente sostituito dall’intelligenza metafisica del mercato.
Certo, l’impareggiabile modestia (per dire cosi…) del ceto politico che l’ha preceduto lo fa giganteggiare. Ma Monti incarna, simbolicamente e di fatto, il risucchiamento della politica nella tecnocrazia finanziaria. E questo non solo significa che il ceto politico ha consegnato l’esecutivo di un grande Paese a un rappresentante di quell’élite internazionale che lo ha messo ai margini e ora sta manomettendo la sovranità degli stati. Sotto il profilo culturale significa che chi oggi invoca la permanenza di Monti alla guida dell’Italia non insegue alcuna modernità. Non corre dietro alcuna avanguardia. Al contrario, chiede che si torni indietro, applaude a un tecnico del secolo scorso, al rappresentante di una cultura politica non solo fallimentare, ma anche vecchia, unilaterale, chiusa in un recinto di mondo reale che non va oltre la vita di banche e imprese. La sinistra lo deve dire alto e forte: Monti è un leader vecchio e inadeguato di fronte alla varietà e complessità delle sfide che abbiamo di fronte.
Ma i dati recenti dell’Ocse, che gettano una luce fosca sul prossimo avvenire dell’Italia e dei paesi della zona euro, inducono a una più larga considerazione. Continuiamo a parlare di crisi come un fenomeno unitario, che continua a imperversare da cinque anni. In realtà bisogna ormai scandire al suo interno almeno tre distinte fasi. La prima e la seconda sono state già messe in evidenza da tanti analisti. Nel settembre 2008 il fallimento della Lehman Brothers, in seguito alla crisi dei mutui subprime, trascina nel tracollo l’architettura della finanza mondiale, portandola sull’orlo dell’abisso. Il salvataggio delle banche operato dagli Usa e da molti altri governi ha poi ingigantito il debito degli stati, trasformando il tracollo delle banche in una crisi dei debiti sovrani. I salvati hanno utilizzato la forza ritrovata per sommergere i salvatori sotto l’onda della loro pirateria speculativa. Ma dal 2010 prima in Irlanda, Grecia e Spagna e negli anni successivi anche in Italia e altrove, inizia una fase inedita della crisi. Ad alimentarla ora con rinnovata energia è la politica di austerità della Troika. L’attuale situazione economica e sociale dell’Italia è sempre più alimentata da una sorgente nuova: la politica del governo Monti. Non è tanto più il disordine finanziario, ma la risposta data dall’esecutivo alla speculazione che sta mettendo in ginocchio l’economia e la società italiana. Per comprenderlo occorre ricordarsi dell’origine strutturale della crisi. Questa è nata per la prolungata stagnazione dei redditi popolari, soprattutto americani, sostenuti artificialmente da quel dispositivo che è stato definito “keynesismo finanziario”: vale a dire l’indebitamento delle famiglie tramite crediti e mutui facili. È perciò inevitabile che oggi l’ulteriore riduzione dei redditi, generata dalle politiche di austerità, scavi nuovi abissi di disuguaglianza e dunque acuisca le cause e le forme della crisi.
Oggi, dopo un anno di governo, è distintamente evidente che la cosiddetta agenda Monti è l’agente diretto del peggioramento generale. Perfino il Fmi, che ha una lunga esperienza nella pratica di distruzione delle economie nazionali dei Paesi del Sud del mondo, comincia a denunciare i guasti dell’austerità. L’Italia si sta avvitando in una spirale che la porterà allo schianto, e, se non si cambia rotta, trascinerà con sé la moneta unica e l’Europa Unita. I difensori di tale politica tentano di rassicurarci ricordando che il governo ha «messo i conti in ordine» e questo ci porrà al riparo da una rovinosa risalita dello spread. Ma basta questo per rimontare la china? Come fa un Paese nelle nostre condizioni a ritrovare un qualche equilibrio, se deve (come ha ricordato su questo giornale Guido Viale) rispettare il pareggio di bilancio, sborsare ogni anno 40 miliardi per onorare il fiscal compact e pagare circa 100 miliardi di interessi sul debito? Non abbiamo una laurea alla Bocconi e quindi potremmo sbagliarci. Ma perché il prossimo anno la speculazione finanziaria dovrebbe risparmiarci, solo perché non aumenta il nostro debito? Domanda, peraltro, generosa visto che il debito continua a crescere. Perché dovrebbe apparire solvibile un Paese dove dilaga la disoccupazione, dove vanno in frantumi pezzi importanti dell’apparato industriale, dove la gran parte della gioventù è senza lavoro, dove si riducono gli investimenti per scuola e Università, mentre la ricerca – che dovrebbe accrescere la nostra competitività – è messa nell’angolo? Perché il nostro Paese dovrebbe apparire più sicuro per la finanza internazionale e il mondo degli investitori se il disagio sociale è destinato ad aumentare di mese in mese, se ci aspettano anni di rivolta, se la coesione sociale andrà in pezzi? Come si accrescerà l’attrattività dell’Italia, considerando i vantaggi offerti da tale scenario alla criminalità organizzata, che troverà più numerosi proseliti nell’esercito dei disoccupati e nuove lucrose occasioni di investimento nelle aziende in crisi?
Le rassicurazioni che vengono dal governo sono fatte della stessa pasta pubblicitaria delle loro precedenti previsioni. L’attesa fideistica della ripresa sono pura superstizione, testimoniano l’inaffidabilità tecnica dei tecnici. Nessuno, negli ambienti che contano, ha il coraggio di dirlo. Ma la politica di austerità del governo Monti è incompatibile con la salvezza dell’Italia. La via di fuga passa per la sconfitta di quell’agenda. E bisogna far presto, perché quando i gravi raggiungono un punto molto avanzato di un piano inclinato occorre assai meno forza a continuare la discesa che a risalire…
Infine, qualche parola agli amici della sinistra radicale, di cui mi sento parte. Essi sembrano oggi dare più credito alla carta di intenti delle primarie del centro-sinistra che ai fatti, alle parole più che alla realtà. Si sbagliano quando affermano che il Pd e Sel applicheranno l’agenda Monti. Si sbagliano perché questo sarà impossibile. Sarebbe come se queste forze si impegnassero a distruggere l’economia e la società italiana e dunque se stesse. La realtà è più forte delle parole, anche di quelle scritte. Ad essi dico che non saranno soli (per nostra fortuna), come pure amerebbero pensare, a combattere contro una politica ormai condannata dai suoi plurimi, ripetuti e ormai non più occultabili insuccessi.

Sinistra radicale: non c’è più niente da fare (almeno per questo giro)

- aldogiannuli -

Diversi amici e compagni mi sollecitano un parere su cosa dovrebbe fare la sinistra radicale in vista delle elezioni. Risposta semplice: nulla e passare la mano. Infatti, almeno per questo giro, non c’è nulla da fare, la sinistra radicale si è suicidata: non si possono perdere 4 anni e 10 mesi e pretendere di risolvere tutto con un tentativo degli ultimi due mesi, siamo seri! Iniziamo da Vendola: la scelta di sottoscrivere l’alleanza con il Pd si è risolta nel disastro che era stato facile prevedere. Nichi, che due anni fa di questi tempi, sognava di arrivare primo in elezioni primarie della sinistra (e forse avrebbe potuto anche farcela) non è arrivato neppure al secondo turno, surclassato da Renzi che ha preso il doppio dei suoi voti. Per cui, l’alternativa a Bersani non era alla sua sinistra ma alla sua destra ed a Nichi non resta che fare la ruota di scorta di un Pd esplicitamente orientato a mantenere la linea fallimentare del rigore montiano.
Vendola avrebbe potuto essere il punto di riferimento di una nuova aggregazione di sinistra che incidesse sin dentro il Pd, ma ha buttato dalla finestra questa occasione, limitandosi ad una esasperata esposizione narcisistica della sua persona ed impedendo a Sel di diventare una forza politica con un suo insediamento e strutturazione. Ha preferito tenerla come sorta di comitato elettorale aggiuntivo alle famose “fabbriche di Nichi” di cui non si ricorda più nessuno. Non ha detto una sola parola sensata sulla crisi ed ha svolazzato su tutti i temi senza approfondirne nessuno, da vero poeta. Bene: che faccia il poeta.
Qualcuno mi dirà: “Ma se Vendola aveva la possibilità di fare il polo della sinistra radicale, perché non lo hai appoggiato e sei rimasto in Rifondazione?” Risposta: perché, conoscendolo da quando aveva 17 anni, sapevo che l’esito sarebbe stato questo, perché non avrebbe retto una prova di quel livello. Poi Nichi ha preso la scivolata finale con questa disastrosa virata verso il Pd il cui esito gli era stato preannunciato da molti. Intendiamoci: Sel, grazie al Porcellum entrerà in Parlamento perché gli basterà il 2%, ma il peso politico sarà nullo. C’è un’unica possibilità che pesi qualcosa: che Renzi esca dal partito e passi con il centro. Diversamente il percorso verso il nulla politico è già segnato.
L’Idv, se si può considerarla una forza di sinistra radicale (del che dubiteremmo) è finita schiacciata fra l’ipotesi del voto utile al Pd e l’onda montante grillina, d’altra parte, con un Berlusconi ridotto a macchietta politica priva di qualsiasi possibilità di successo, Di Pietro che cosa ha da dire? E la formula del partito “patrimonio personale” del leader regge solo fino ad un certo punto ed, in questo caso, è arrivato al capolinea (ci pensi Grillo che si è messo su questa stessa strada e con maggior determinazione ancora).
E veniamo a Rifondazione che, pure, una occasione di rilancio molto seria l’ha avuta fra il 2008 ed il 2009, quando la crisi ha gonfiato le vele di quasi tutti i partiti di sinistra radicale in Europa (dalla Grecia alla Spagna, dalla Francia alla Germania, dall’Islanda al Portogallo) e, peraltro, quando ancora aveva più forza organizzativa di Sel. Ma Rifondazione ha preferito affidarsi al gruppo dirigente più impresentabile della storia del movimento operaio, capeggiato dall’alfabetizzato recente Paolo Ferrero.

Il falso mito dell’italiano sfaticato e del tedesco super efficiente

Il falso mito dell’italiano sfaticato e del tedesco super efficiente

di Guido Iodice -
Raramente si spiega però cosa voglia dire e la terminologia tecnica (“produttività del lavoro”) lascia intendere che il problema siano i lavoratori. Magari, come dice la Fornero, perché da noi c’è il sole, si mangia bene, la gente si rilassa. Oppure, come sostiene il sottosegretario Polillo, perché facciamo troppe vacanze.
Ma cos’è la produttività? Vi sono molti modi per misurarla, ma i due fondamentali sono la “produttività oraria”, cioè quanto prodotto un lavoratore realizza in un’ora, e il “costo del lavoro per unità di prodotto”, cioè quanto costa, in termini di salari, contributi e altre spese produrre qualcosa. Ma ecco il punto su cui fare attenzione: il “prodotto” viene calcolato generalmente in termini monetari, non di quantità, visto che non possiamo mischiare automobili a confetture di frutta. Per cui la produttività oraria significa quanto PIL l’Italia realizza con un’ora di lavoro di un lavoratore e il “costo del lavoro per unità di prodotto” significa quanto salario, contributi e altre spese legate al personale sono necessarie per produrre 1 euro di PIL.
A questo punto possiamo capire dove sta l’inghippo. Il problema è che i lavoratori italiani lavorano meno ore di quelli tedeschi? No, è il contrario. Gli italiani lavorano molte più ore dei tedeschi, come si evince da questo grafico:
e guardate i famosi “sfaticati” greci, loro lavorano molto più di noi.
Allora, si dirà, il problema è che i lavoratori italiani costano troppo alle aziende. Neppure: ecco la classifica del costo del lavoro nei paesi dell’OCSE.
Insomma, non lavoriamo poco e non prendiamo salari troppo alti. Il problema è quindi da un’altra parte. Dove? Perché nonostante lo sforzo lavorativo e nonostante i salari non elevati, la nostra “competitività” è bassa?
Pensiamo ad un lavoratore della terra. Se deve arare il campo con le mani nude gli può servire una settimana per smuovere la terra di un piccolo appezzamento. Se ha una zappa, allora ci metterà un giorno. E se invece ha un trattore, impiegherà solo un’ora. Il problema è quindi nell’altro fattore produttivo oltre al lavoro, cioè il capitale.
Proviamo a capirne le cause. Quel che sappiamo è che le nostre imprese non investono in ricerca e sviluppo, non ammodernano i macchinari, sono generalmente piccole, così che non possono ottimizzare i costi come fanno le grandi imprese. Ma sappiamo anche che il problema è anche in ciò che (non) produciamo: ad esempio non produciamo software, pannelli solari, prodotti tecnologici e tra poco rischiamo anche di non produrre automobili, cioè che prodotti che hanno un elevato valore aggiunto (in sostanza costa relativamente poco produrli e vengono venduti a prezzi relativamente elevati). La Grecia fa molto peggio di noi, vista la debolezza del suo settore industriale.
Allora, si dirà, la Germania è il campione della produttività europea. Sicuramente loro producono in modo più efficiente di tutti, grazie alla proverbiale organizzazione tedesca. I loro prodotti sono migliori e la gente è disposta a pagarli di più. La risposta è che sì, i tedeschi sono bravi, ma non i più bravi di tutti. Questo grafico mostra la produttività oraria di alcuni paesi europei.
Come si nota la Germania è messa decisamente meglio dell’Italia, la Spagna e la Grecia, ma altrettante decisamente è indietro rispetto alla Francia e addirittura leggermente al di sotto della media europea. Quindi la Germania non è “il campione” della produttività. Ma allora come si spiega che la Francia importa dalla Germania più di quanto esporti e non il contrario? La risposta è che la Germania sta competendo sui prezzi. Da 10 anni i salari dei lavoratori tedeschi sono fermi, quindi mentre la produttività oraria cresceva, con i salari stagnanti il “costo del lavoro per unità di prodotto” precipitava, come mostra questo grafico:
Per non parlare della compressione della domanda interna grazie ai lavori sottopagati (i cosiddetti mini jobs), che ha provocato la frenata delle importazioni. Gli altri paesi, invece, chi più, chi meno, hanno visto aumentare i salari con la produttività.
Insomma, diciamo la verità: i tedeschi – leggasi: le classi dirigenti tedesche – stanno facendo i “furbi”, approfittando della mancanza di regole europee sui costi dei dipendenti. Impongono ai paesi periferici la stretta sui bilanci pubblici, l’austerità, le riforme regressive sul mercato del lavoro, ma di regole contro la “deflazione salariale” che vadano a colpire i loro interessi non se ne parla. Forti dell’egemonia economica che hanno conquistato grazie alla mancanza di regole, la trasformano in egemonia politica che usano per fare in modo che le regole continuino a favorirli.
Nei giorni scorsi le parti sociali hanno firmato un accordo sulla “produttività”. Come al solito si è fatto un passo indietro in termini di tutele, lasciando ai contratti di secondo livello (che poi non si fanno quasi mai) una serie di regole sulla flessibilità di orari e mansioni e sul recupero dell’inflazione, svuotando il contratto nazionale e colpendo i già bassi salari. Sono le stesse ricette che si applicano da 20 anni a questa parte: flessibilità, deflazione salariale. Ma abbiamo visto che il grosso del problema produttività in Italia è di tutt’altra origine. E come nei precedenti 20 anni queste misure non serviranno a nulla, se non a dare un po’ di ossigeno ai settori più arretrati del sistema produttivo italiano, invece di puntare decisamente su l’innovazione di prodotto e di processo.

E adesso Mancino parli

Fonte: libertaegiustizia.it

di Sandra Bonsanti -
C’è un momento, un’ora in questa drammatica storia della trattativa tra Stato e mafia su cui Nicola Mancino conosce la verità e, se volesse, potrebbe finalmente dirla.
E’ il primo luglio del 1992. Paolo Borsellino, poco più d’un mese dopo la strage di Capaci, è a Roma e sta interrogando, in gran segreto, Gaspare Mutolo, il mafioso che sta cominciando a collaborare.
Mentre si sta svolgendo l’interrogatorio il magistrato riceve una telefonata: dal Viminale gli chiedono di recarsi a incontrare il nuovo ministro dell’Interno, Mancino, appunto, che vorrebbe salutarlo.
Borsellino interrompe l’interrogatorio. Va al Viminale, attende in anticamera e arriva Bruno Contrada, l’uomo dei servizi. Con una battuta gli fa sapere che lui sa che Mutolo sta parlando.
Poi Borsellino entra a salutare Mancino. Infine, torna a completare l’interrogatorio. Che riprende sugli intrecci Stato-mafia.
La sera, Borsellino telefona a Gioacchino Natoli che oggi presiede il tribunale di Marsala. Gli racconta l’accaduto. Gli dice che non sa come mai Contrada fosse informato. Gli dice: “Non siamo al sicuro”.
Diciotto giorni dopo anche Borsellino viene ucciso.
Mancino non ricorda: di aver visto Borsellino, quel giorno. Poi ammette che forse gli ha stretto la mano, uno fra tanti.
Mancino sa di cosa si parlò il primo luglio del ’92 al Viminale. E’ il suo segreto. Un segreto attorno al quale ruota da anni l’inchiesta sulla trattativa. Mancino sa e deve parlare. Tanto più ora, dopo la sentenza della Corte.
Mancino è stato un protagonista della vita politica nella Prima Repubblica, nel bene e nel meno bene.
Non può esser creduto quando sostiene di non ricordare.
L’insistenza con la quale cercava protezione dal Quirinale, mettendo nei guai anche il Capo dello Stato, ci dice qualcosa. E’ la spia della volontà o della necessità di mantenere un silenzio.
Bisogna che oggi trovi il coraggio di raccontare cosa accadde quel primo luglio del ’92 nel suo nuovo ufficio al Viminale: chi era presente, cosa si disse, cosa gli fu detto sull’uccisione di Falcone e sulle richieste della Cupola.
Da oggi Nicola Mancino deve ricordarsi davvero tutto, a partire dal terrore dei politici democristiani dopo l’uccisione di Salvo Lima, dopo la morte di Falcone; di quei minuti che segnarono forse la vita anche di Paolo Borsellino.
E degli altri che morirono nelle stragi del 1993.
Bisogna che finalmente su questa pagina tremenda della nostra storia si faccia verità e giustizia.

Viaggio-inchiesta in una Grecia allo stremo

Ctrl+Alt+Canc Arresta il Sistema. Intervista impura a Pamela Garberini e Anna Coluccino

La crisi in Grecia
La crisi in Grecia
Intervista a cura di CRITICA IMPURA
Il Parlamento greco sotto assedio, le strade di Atene invase da una moltitudine di disperati: gente comune ma anche molti intellettuali, la cui vita è stata schiacciata e oltraggiata dal peso del debito pubblico e dalla catastrofe del collasso economico. Le misure di austerity imposte ai cittadini dal governo, la pressione della troika di benefattori internazionali di cui la Grecia è ostaggio: Banca Centrale Europea, Ue e Fondo Monetario Internazionale. La disperazione di un popolo che ha inventato la democrazia e, al tempo stesso, la convinzione che attualmente sia proprio l’essenza stessa della democrazia ad essere in agonia.
Un grido di dolore e insieme una testimonianza, quella di due donne in viaggio, l’antropologa e videomaker Pamela Garberini e la giornalista e scrittrice Anna Coluccino, autrici del documentario Ctrl+Alt+Canc Arresta il Sistema, che hanno accettato di parlare su Critica Impura del loro viaggio inchiesta in Grecia, alle radici della devastazione e del meccanismo perverso dell’indebitamento senza fine. Due donne che, pur di poter dire la propria sulla crisi finanziaria che stritola la nazione, hanno messo in gioco se stesse, i propri risparmi, la solidarietà di amici e parenti e smosso, con il crowdfunding, la grande anima della Rete per autoprodurre questo docu-film. Sono così sfuggite ad eventuali censure o alle pressioni politiche che sarebbero state imposte da qualsiasi altro finanziamento e hanno rivendicato a se stesse e al popolo greco la libertà di parola e il diritto alla propria dignità, con coraggio, impegno e lucidità. Un viaggio-incontro che è stato un “andarsene in giro nudi”, come le autrici stesse affermano di aver imparato a fare, che rappresenta in definitiva “l’unico modo per mettere alla prova la propria forza” e per dare testimonianza e visibilità agli altri.
Critica Impura: Vorremmo cominciare questa intervista con tre delle cinque W dell’apprendista giornalista: come, quando e perché è nata l’idea di girare questo reportage?
Pamela e Anna: L’idea è nata a fine febbraio 2012 da una conversazione su Skype. Ci piangevamo addosso a causa delle nostre reciproche situazioni di vita, cominciando dall’insopportabile precarietà lavorativa (ancora oggi in attivo), arrivando alla personale incapacità di sentirsi motori di cambiamento della Storia che ci scorre intorno. Per trasformare il malessere condiviso ci siamo dette: “Partiamo!” Anna aveva deciso di chiedere alla redazione con la quale collabora di poter essere la loro “corrispondente sul campo” e io, avendo a disposizione una Sony 100, le ho proposto di essere il suo occhio. Ovviamente le condizioni non sono state accettate e ovviamente non ci siamo fermate. Abbiamo deciso di partire ugualmente, convinte che quello che avremmo speso per stare lì sarebbe equivalso alle spese fisse che dovevamo affrontare restando a casa. Abbiamo deciso di mettere in gioco le nostre competenze per raccontare una crisi, la nostra in primis. Abbiamo deciso di muovere dei passi, sciolte da ogni condizionamento. Ci siamo volute immergere in quello che ci sembrava poter essere – da lì a poco – il nostro futuro e la Grecia rappresentava lo specchio più fedele della situazione che anche il nostro paese si avviava a vivere. Non volevamo sentirci assuefatte dalla pigrizia di un lamento passivo e abbiamo organizzato il nostro coraggio, non tenendo conto di nessuna delle cinque W. In pochissimi giorni, circa una settimana, l’esistenza ha fatto il resto. L’idea del crowdfunding, la generosità di parenti e amici incoraggianti, ci ha reso certe della bellezza dei passi che volevamo compiere. Cosa volevamo dire non era chiaro, volevamo solo poter essere lì, osservatrici osservate. Di ora in ora, in quei giorni il nostro entusiasmo lievitava, e infiniti “segni” arrivavano a combaciare con i nostri intenti. Dovremmo scrivere un libro su questo…
Critica Impura: Molti documentari prodotti ultimamente sulla crisi in Grecia (Catastroika, Debtocracy ed altri) sono stati finanziati attraverso il sistema del crowdfunding. E’ stato difficile per voi intraprendere questa strada per finanziare il vostro progetto?
Pamela e Anna: In realtà, il tutto ha preso lo spazio di poche ore – ma molto intense – e ha richiesto semplici azioni: leggere le indicazioni sul sito www.eppela.com; realizzare un video-appello da spammare su web; domandarci chi eravamo noi due e cosa volevamo condividere con gli eventuali sostenitori. E voilà… Il resto lo hanno fatto gli “altri”. In dieci giorni abbiamo raggiunto l’obiettivo grazie al sostegno di molti. L’importo minimo richiesto era di 600 euro – modesto a parere della tutor di eppela.com, ma onesto e realizzabile ai nostri occhi. Quel denaro è ancora sul nostro conto paypal, aspetta di essere speso per il prossimo viaggio. Quindi NO, non è stato difficile. Una dritta per chi volesse avventurarsi in un’iniziativa similare è, ad esempio, quella di creare un evento su Facebook e chiedere ai propri contatti di invitare tutti i loro contatti. In tre giorni eravamo arrivate a 7000 invitati e, grazie a questo escamotage, abbiamo avuto il piacere di far arrivare il nostro appello fino a Creta. Dove una sconosciuta – ora nostra amica – di nome Giorgia ci ha accolte come sorelle e ha organizzato degli incontri importanti, per dar voce ad alcuni protagonisti chiave del documentario. La rete è una risorsa preziosa che va ben considerata.

giovedì 6 dicembre 2012

Il Quarto Polo tra essere e non essere

L’assemblea di sabato scorso degli arancioni è stata un successo. Applausi e ovazioni per Luigi De Magistris e Antonio Ingroia. Ma il processo unitario è solo all’inizio. E la strada per trovare la quadra è in salita.
- micromega -
di Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena
Il Quarto Polo prende forma. Il Polo dei Partigiani. Il Movimento Arancione. "Cambiare si può". O chiamatelo come vi pare, che conta fino a un certo punto. Il soggetto è nato, seppur con mille difficoltà da superare ma con un’agenda politica abbastanza chiara: no all’ipotesi di un Monti-bis e sì ad un nuovo contenitore capace di attuare una nuova stagione di diritti civili e sociali. A sinistra del centrosinistra, l’alternativa ora mancante tra il Pd e il M5S di Grillo per un novello "New Deal" – come dice sempre uno dei promotori, il sociologo Luciano Gallino, una delle menti più lucide della sinistra italiana e non solo.
Sabato primo dicembre all’assemblea nazionale di Cambiare si può, al Teatro Vittoria di Roma, c’è stato l’esordio: quasi 500 persone arrivate sotto una pioggia battente, platea piena e in parecchi rimasti fuori. Una convention in cui si sono susseguiti gli interventi di esponenti della società civile, di sindacati, di movimenti ma anche di partiti. A sponsorizzare il progetto c’è il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che in un intervento applauditissimo ha sciolto i dubbi sulla collocazione politica: siamo fuori dal centrosinistra. Per il momento. Poi dopo il voto, un confronto programmatico con Bersani che «dovrà scegliere tra noi e Casini». Quasi sicuramente sceglierà il secondo. Comunque fino al voto massima autonomia: un Quarto Polo che potrebbe avere come candidato premier il pm Antonio Ingroia, anche lui presente ed acclamato al Teatro Vittoria. Sempre De Magistris, intanto, il 12 dicembre presenterà la sua lista arancione, interconnessa ovviamente a "Cambiare si può".
Tutto bene, tutto perfetto? Non proprio. Perché se tutti sono d’accordo nel reclamare un rilancio del welfare contro le politiche di austerity, nell’invocare più giustizia e meno disuguaglianza, nell’affermare più diritti civili nel Paese, nel ruolo fondamentale della Fiom e più in generale nel programma politico da attuare, allo stesso tempo appare molto più difficile costruire in pratica questo soggetto. Da una parte l’impostazione antipartitica – quindi a volte velata e a volte meno ostilità nei confronti di Rifondazione Comunista e di pezzi di Italia dei Valori – dall’altra i partiti stessi che prima di far sparire il proprio simbolo alle elezioni chiedono garanzie.
In mezzo c’è la missione principale: riuscire a far sentire anche in Parlamento una voce antiliberista, un’opposizione coerente e di sinistra, allergica al populismo ma capace di spiegare le origini della crisi e una via d’uscita credibile. «Contro il pensiero unico dominante, in direzione ostinata e contraria», diceva sempre il sindaco di Napoli. In mezzo, ancora, ci sono le diverse provenienze politico-culturali: gli intellettuali di Alba, i movimenti No Tav e No dal Molin, i comunisti, gli scontenti di Sinistra e Libertà, per ultima l’adesione di Antonio Di Pietro. Come fare? Sempre Alba, ad esempio, chiede «ai partiti e alle associazioni di credere e stare attivamente in questo progetto ma facendo due passi indietro: il primo passo richiede che non si pongano come protagonisti della lista, ma che con le proprie identità dichiarino l’appoggio al progetto (come abbiamo deciso anche noi), formando un comitato di sostegno sul modello dei referendum del 2011. Il secondo passo indietro comporta che le persone da candidare non abbiano avuto ruoli di direzione politica né di rappresentanza istituzionale nell’ultimo decennio a livello di partiti nazionali, parlamento italiano ed europeo, regioni. Proponiamo che tutte e tutti si facciano coerenti rappresentanti di quel messaggio di coalizione democratica antiliberista e di cittadinanza nuova che solo può offrirsi come alternativa credibile al non voto».

Povera Italia...


ingroiadi Antonio Ingroia
Apro oggi un blog da quaggiù, in Guatemala, terra difficile ed assai lontana dal Paese cui ho dedicato la mia vita, per una semplice ragione. Sento l'esigenza di far sentire la mia voce. Anche per non darla vinta a quelli che pensavano di essersi liberati di me col mio trasferimento in America Centrale...
Perché questo titolo? Perché "Partigiani della Costituzione"? Per tante ragioni.
In primo luogo, perché mi piace ricordare quei partigiani che hanno fatto la democrazia nel nostro Paese e che per combattere meglio la loro battaglia per la libertà scelsero di fare resistenza lontano dalle loro città. Andarono in montagna. Ed io sto qui, sull'altopiano dove sorge Città del Guatemala.
In secondo luogo, per ribadire la mia non neutralità. Io sono stato ed ancora mi sento, anche se nel diverso ruolo di funzionario dell'ONU, magistrato indipendente, ma rispetto ai valori non sono neutrale. Sarò sempre dalla parte dei principi di giustizia e di eguaglianza. Partigiano in nome del diritto. Ed il diritto è il regno del giusto, non dell'opportuno.
In terzo luogo, perché mi sento partigiano della Costituzione, come ho più volte rivendicato pubblicamente. Dalla parte della Costituzione, dei suoi principi fondamentali e dei suoi valori fondanti.
Già, la Costituzione. E quale miglior modo per aprire questa mia rubrica da "partigiano della Costituzione", quale miglior modo per ricordare la mia fedeltà alla Costituzione, che spiegando la mia critica, anche aspra, nei confronti della recente decisione con la quale la Corte Costituzionale, custode della Costituzione, ha dato ragione al Presidente Napolitano nel conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo? C'è chi si meraviglia, autorevoli esponenti delle istituzioni e perfino la magistratura associata. Perché – dicono – la Corte Costituzionale non si tocca, non può essere criticata. Mi chiedo dove sta scritto. Il diritto di critica deve poter essere liberamente esercitato nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione. Guai se non si consentisse il legittimo diritto di critica nei confronti di qualsivoglia provvedimento giudiziario, compresi quelli della Corte Costituzionale. Altra cosa, ovviamente, sono le invettive e gli insulti delegittimanti spesso piovuti addosso alle magistrature di ogni ordine e grado. Ma non confondiamo le due cose. Perché, altrimenti, si corre il rischio che il cliché dell'invettiva berlusconiana contro i provvedimenti giudiziari a lui non congeniali venga equiparato con ogni forma legittima di esercizio del diritto di critica, a discapito della libertà di espressione. Guai a trarre dall'abuso del diritto argomenti per limitare l'esercizio legittimo del diritto.
E poi: non cambiamo le carte in tavola. Chi è stato (ingiustamente) accusato di avere violato la legge, addirittura ledendo le prerogative della più alta carica dello Stato, sono i magistrati della Procura di Palermo, non i giudici della Consulta. E chi ha sollevato il conflitto fra poteri, accendendo il fuoco delle polemiche che ne è conseguito e si è propagato, non è stata certamente la Procura di Palermo...
E che dire di chi oggi, ringalluzzito dal tenore di un contraddittorio e parziale comunicato stampa della Corte costituzionale, pretende ancora di impartire lezioni di diritto costituzionale e di procedura penale ad alcuni fra i più illustri studiosi della materia come Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero ed Alessandro Pace? Ebbene, questi commentatori, alcuni dei quali giuristi improvvisati (siano o meno laureati in giurisprudenza poco importa) che rivelano scarsa dimestichezza con codici e Costituzione, oggi discettano sulle prime pagine di autorevoli quotidiani delle cantonate di cui si sarebbero resi responsabili i magistrati palermitani. Ignorando, fra le altre cose, che il meccanismo che la Corte vorrebbe applicarsi alle intercettazioni indirette del Presidente della Repubblica, e cioè la distruzione immediata senza il contraddittorio delle parti, non è in alcun modo previsto dalla legge, avendo la Suprema Corte di Cassazione più volte ribadito che anche l'ormai famigerato art. 271 del codice di procedura penale (peraltro applicabile solo a ministri di culto, avvocati, ed altre categorie professionali ben distinte dal Capo dello Stato) impone che le intercettazioni illegittime, prima della distruzione, vengano depositate a disposizione delle parti.
Il risultato è dunque che la decisione della Corte non ha risolto affatto il problema ed il GIP che verrà investito dalla Procura di Palermo sarà punto e a capo, perché la Consulta non è intervenuta in alcun modo sulla legge, com'era invece necessario. Ha invece soltanto dato ragione, platealmente, al Capo dello Stato, per bacchettare altrettanto platealmente la Procura di Palermo. Ma che farà il GIP, visto che il vuoto legislativo che già c'era è rimasto? Dovrà tornare alla Corte Costituzionale sollevando stavolta la questione di legittimità costituzionale perché la Consulta questa volta intervenga con le regole del diritto, e non con una decisione "politica". Un vero pasticcio che poteva essere evitato...
Ma di questo nessun "autorevole" commentatore sembra finora essersi reso conto. Sono tutti troppo presi dal suonare le fanfare. Così frastornati che c'è chi sembra non saper distinguere ancora oggi le intercettazioni accidentali dalle intercettazioni dirette. Provavo a spiegare ieri il "nostro" conflitto di attribuzioni ad un alto magistrato dell'America Centrale. Ebbene, perfino in Guatemala è ben chiara la differenza fra le intercettazioni dirette nei confronti di una persona, quando cioè si mette sotto controllo un suo telefono (ovviamente vietato nei confronti del presidente della Repubblica), e le intercettazioni accidentali, quando cioè sotto controllo è il telefono di altra persona che, appunto, accidentalmente telefona al Capo dello Stato. In Guatemala la distinzione è chiarissima, in Italia no. Povera Italia...
THE STATE_MAFIA DIATRIBE STILL ON IN ITALY
 

mercoledì 5 dicembre 2012

La sentenza della Corte Costituzionale

La Consulta con Napolitano. Ingroia: «Una sentenza politica»

La sentenza della Corte Costituzionale che ha accolto il ricorso del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, «rappresenta un brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all’equilibrio fra i poteri dello Stato».
L’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, dal Guatemala, in due interviste a ‘Repubblica’ e al ‘Corriere della Sera’, si dice «profondamente amareggiato» e accusa: «Le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto».
E ancora: «Per ragioni politiche prima ancora che giuridiche non c’era altra via d’uscita che dare ragione al presidente della Repubblica».
Per Ingroia «la scelta del presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzioni è stata dannosa per l’immagine delle istituzioni italiane nel suo complesso».
E insiste: «Ma io non voglio essere visto come un pm sovversivo. Io e i miei colleghi della procura di Palermo vogliamo essere ricordati come quelli che hanno tenuto la schiena dritta per accertare la verità sulla stagione delle stragi».
Ingroia non ha dubbi: «Il comunicato emesso dà la sensazione di una sentenza che risente anche del condizionamento del clima politico. Del resto non penso che esistano sentenze che non risentono del clima generale che si respira in un Paese».
E osserva: «Forse abbiamo sbagliato a sottovalutare l’impatto mediatico delle strumentalizzazioni, ci siamo preoccupati piu’ di mantenere la segretezza che degli attacchi che sarebbero arrivati al nostro ufficio».

Oh mamma m’è scappato il pugno chiuso

Oh mamma m’è scappato il pugno chiuso

di MATTEO PUCCIARELLI –
Quanto conformismo, e quanto perbenismo. Al giovane collaboratore di Bersani Tommaso Giuntella scappa un pugno chiuso. Qualcuno glielo fa notare e lui grida all’«avete capito male, per carità» e aggiunge di essersi sentito «un po’ abbandonato. E ferito». Lo avevano “velatamente” accusato di essere un comunista. Orrore. Orrore!
Allora qualche annotazione andrebbe fatta. Che innanzitutto considerare un dirigente del Pd, chiunque esso sia, “comunista”, nel 2012, dopo vent’anni di politiche degli eredi del Pci tutt’altro che comuniste o anche solo vagamente socialdemocratiche solo perché fa un pugno chiuso è assolutamente ridicolo; quindi il malcapitato Giuntella non ha nulla di cui giustificarsi.
Che poi considerare il pugno chiuso un gesto disdicevole è altrettanto ridicolo: anche volendolo per forza accostare a un gesto di lotta, che male c’è? No perché di questo passo va a finire con la solita storiella trita e ritrita degli “opposti estremismi”, mettendo sullo stesso piano un saluto romano con un pugno chiuso. Sul primo c’è da vergognarsi, sul secondo no: sopraffazione e lotta per i diritti non sono esattamente similari.
Terzo: vedere monsignor Rino Fisichella che si lamenta per un pugno chiuso fa venir voglia di camminare per strada, montare sulla metro e infine andare a letto col pugno chiuso. Così, a spregio. Ti dà fastidio? Ecco, e io lo faccio. Fisichella, quello che invitava a contestualizzare le bestemmie di Berlusconi. Contestualizziamo Fisichella allora, e rileghiamo certe affermazioni alla rubrica deliri da sagrestia.
Quarto: Giuntella, per metterci la pezza hai scavato una voragine. «Quando agito il pugno quando la Roma fa gol, o quando faccio gol io nelle partite parrocchiali della domenica sera, quell’esultanza (spero sana e sempre rispettosa dell’avversario) mi fa pensare a Totti, a Zanardi, al limite agli atleti USA Smith e Carlos alle olimpiadi del ‘68». Insomma, con tutto il rispetto per Totti, il gesto del ‘68 “al limite” ha un valore un pochino più profondo che anche un politico del Pd, volendo, può apprezzare.
Quinto, sempre Giuntella: questa frase è il programma perfetto del provincialismo post-comunista di chi, in tutta fretta, ha tentato di rinnegare la storia dei padri: «Avrei anche accettato che mi si fosse contestata l’imprudenza dopo aver verificato la mia buona fede…». “Imprudenza”? “Buona fede”? Per un pugno chiuso? No perché, cari Giuntella del Pd sparsi in tutto il mondo, c’è ancora chi vede in quel gesto qualcosa di forte, serio e a volte intimo. Nulla da esibire. Nulla da rivendicare con furore ideologico. Ma un pezzo di cuore, di identità, un modo di stare al mondo e di ritenersi partigiani di qualcosa, o di qualcuno. Questo sì. Senza vergogna, e con orgoglio. «A pugno chiuso» (cit).
PS. Posto qui un commento di Rosanna Agresta, che ringrazio: «Senza l’emozione delle parole e dei gesti si diventa estranei perfino a sé stessi, incapaci di legarsi a niente. Dobbiamo ricostruire quel sistema di riferimento capace di rifornirci di una nuova identità».

«NESSUNO DI NOI E’ ESENTE DA ERRORI»

 - lavorincorsoasinistra -       

di Fulvia Bandoli -
Per scrivere qualcosa di sensato sullo stato della sinistra oggi in Italia mi serve almeno un piccolo punto di partenza, e non vado a cercarlo troppo lontano perché il discorso sarebbe lunghissimo. Parto dalla nascita del Pd, 5 anni fa, quando il più grande partito della sinistra, i Ds, decisero di dar vita assieme ad altri ad un partito di centro democratico ( così si definiscono anche oggi). Quella scelta che io non condivisi mise davanti a tutta la sinistra politica e sociale e a tutte le persone di sinistra in Italia una domanda urgente e chiara: che facciamo adesso, come continuiamo a far vivere in questo paese una sinistra popolare, radicata socialmente e che sappia porsi il problema della trasformazione dello sviluppo e della redistribuzione delle risorse e della giustizia sociale? Perché io credo che una sinistra come si deve possa essere solo popolare, ampia, capace di trasformare la realtà e dunque anche di governarla se ne è capace. In quel momento lo spazio politico c’era perché tante e tanti non condividevano l’approdo del partito democratico ma la risposta a quella domanda non fu univoca, lo sappiamo bene. Una parte della sinistra intraprese un tentativo, con la nascita di Sel, di dar vita ad una sinistra plurale, alternativa al liberismo e capace di aggregare storie e percorsi anche diversi , un’altra parte scelse di restare nei suoi confini, non accettò il confronto. Oggi posso dire che comunque si vogliano distribuire le responsabità quel che risulta evidente è che nessuno è stato all’altezza della domanda che la nascita del pd ci poneva. L’Italia non ha ancora una forza politica di sinistra popolare e radicata nella società. E questa mancanza è ancora più grave se consideriamo che stiamo vivendo da anni una crisi economica gravissima, il liberismo ha mostrato tutti i suoi limiti e le sue ingiustizie, le destre si sono sfarinate, le ingiustizie, le povertà e la precarietà del vivere coinvolgono milioni di persone. Che una sinistra politica non abbia saputo trovare il suo spazio e non abbia saputo crescere in una situazione del genere pare quasi impossibile. Eppure così è. Sono cresciuti invece la delusione, l’astensione, il consenso a movimenti come quello di Grillo ( che oggi sarebbe il secondo partito o movimento in Italia). Le responsabilità di Sel le vedo chiare, partiti con un progetto che per almeno due anni è stato chiaro, siamo infatti riusciti ad avvicinarci alla società in varie battaglie referendarie, a costruire alternative in diverse città italiane, a stare accanto ai lavoratori e alle loro vertenze, e ad essere vissuti come una sinistra innovativa ma alternativa, con la caduta di Berlusconi e l’avvento del governo Monti tutte le nostre energie le abbiamo messe nella costruzione di un centrosinistra alternativo alle destre, obiettivo legittimo certo, ma che ha avuto solo nel confronto con il pd l’asse principale. Io sono tra coloro che pensano che un confronto con il pd dovesse esserci, perché questo partito è pur sempre votato da milioni di elettori di sinistra, ma doveva essere un confronto-competizione e soprattutto dovevamo portarci dentro, in questa competizione, il popolo della sinistra e le sue inquietudini e sofferenze sociali, il ricco mondo delle associazioni e dei movimenti, gli intellettuali, e i corpi sociali che più soffrono la crisi, in primis il mondo del lavoro e del precariato. Per fare questo Sel doveva consolidare il suo radicamento, la vicinanza alle lotte nei territori e nei luoghi di lavoro e di studio e non affidarsi solo e soltanto alle primarie che ad un certo punto sono apparse invece come l’alfa e l’omega della sua strategia politica. Ma se vedo bene le responsabilità di Sel vedo anche quelle di coloro che hanno sempre ritenuto di non dovere aprire un confronto con Sel, che hanno preferito rinchiudersi in recinti identitari o nelle loro piccole, pur se significative, esperienze associative o di movimento. Il risultato è che oggi da un lato Sel pare appiattita completamente sul pd e pare non avere la forza sufficiente per strappare risultati significativi soprattutto sul fronte dei contenuti e delle riforme da fare per uscire dalla crisi con proposte alternative e radicali rispetto al governo Monti e alle ricette europee, dall’altro lato coloro che pensano di ri-partire a tre mesi dal voto per un viaggio che dovrebbe ricostruire una sinistra ( mi riferisco a Cambiare si può) lo fanno avendo accumulato un ritardo enorme, senza alcuna pratica politica comune e con un progetto politico che risulta ancora parecchio fumoso. Per me che ho combattuto il leaderismo esagerato dentro sel non è piacevole notare che anche dentro “Cambiare si può” ci siano alcuni uomini della provvidenza , e che accanto a questo si rimettano insieme pezzetti di sinistra politica non meglio definiti e che in tutti gli anni passati mai hanno avuto a cuore il tema di dar vita ad una grande sinistra al di la delle appartenenze. Se come dice Revelli l’obiettivo è solo quello di portare in parlamento un gruppo di persone capaci di testimoniare io non voglio ridicolizzarlo, lo rispetto, ma mi permetto di dire che oltre al quorum da fare ( che fu fallito miseramente dalla sinistra arcobaleno) io penso che il ruolo della sinistra in Italia sia quello di dare concretamente risposte alle molte ingiustizie e di farlo , come lo seppe fare la più grande sinistra italiana che fu il pci, organizzando e dando voce e rappresentanza a soggetti sociali precisi. Se la sofferenza che la crisi provoca è enorme, se le ingiustizie crescono, se le persone giovani soprattutto sono vicine alla disperazione sociale, se interi comparti industriali rischiano la chiusura perché non convertiti ecologicamente testimoniare non può bastare. Come risulta chiaro da quel che ho scritto è il pessimismo il tratto che domina i miei pensieri in questo momento. Ma un appello mi sentirei di farlo: siccome camminiamo tutti in terreni rischiosi e scivolosi, e siccome nessuno di noi è esente da errori, almeno non sbraniamoci tra noi, tra coloro che si giocano l’osso del collo in una alleanza di centrosinistra sperando che possa dare al paese un governo alternativo e diverso e coloro che invece non credendo in questa ipotesi hanno scelto la strada della ripartenza da zero, con ritardo, ma con passione. Proviamo a portarci rispetto.

Cinque domande facili al ‘Pd allargato’

- gilioli -


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All’alleanza per l’Italia Bene Comune – o meglio al ‘Pd allargato’ di cui si parla oggi un po’ dappertutto – vorrei sommessamente porre cinque domande di contenuto le cui risposte (se si hanno le idee chiare) possono essere molto semplici e limpide.
1. Confermerete la decisione di spendere subito tre miliardi di euro nel Tav verso la Francia (e almeno altri tre in seguito)? O deciderete che questo denaro pubblico potrebbe essere più utilmente utilizzato in opere per il territorio e il suolo?
2. Taglierete le spese militari (30 miliardi di euro l’anno) e se sì di quanto? Confermerete il progetto di acquisto degli F-35 e il programma ‘Forza Nec’ che costerà ai cittadini 22 miliardi di euro nei prossimi venti anni? In che data porrete fine alla missione in Afghanistan (costo stimato almeno mezzo miliardo l’anno)?
3. Come intendete porvi rispetto agli attuali finanziamenti diretti o indiretti al Vaticano (esenzioni Imu, erogazione di servizi strutturali gratuiti per la Santa Sede, stipendi a carico dello Stato per gli insegnanti di religione scelti dalle Curie, attribuzione alla Chiesa Cattolica dell’85 per cento del gettito dell’8 per mille nonostante sia esplicitamente scelta solo dal 36 per cento dei contribuenti etc etc?).
4. Che seguito intendete dare alla Risoluzione del Parlamento Europeo del 20 ottobre 2010 sul reddito minimo garantito?
5. Ridurrete ulteriormente o incrementerete gli investimenti dello Stato nella scuola pubblica e nella sanità pubblica?

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