di Mary Kaldor. Fonte: sbilanciamoci
Le crisi multiple di oggi riflettono il divario tra i cambiamenti economici e sociali e gli assetti istituzionali e politici che fermi a un’epoca passata. Le proteste sociali hanno bisogno di una risposta istituzionale: è possibile un’Europa di pace, verde, democratica e cosmopolitica, al posto di una burocrazia neoliberista?
Agosto non è stato esattamente un mese di vacanza. Giorno dopo giorno ci piovevano addosso le notizie di crisi multiple – la caduta di Gheddafi, le violenze in Siria, la crisi del debito pubblico in Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, l’impasse al Congresso negli Usa e il declassamento del debito americano dalla tripla A, l’uragano Irene, e poi la campagna contro la corruzione in India e le rivolte in Inghilterra. Non si faceva in tempo a star dietro alla quantità di eventi straordinari che spuntavano dappertutto.
La crisi finanziaria – come hanno fatto notare altri interventi al dibattito su “La rotta d’Europa” – è espressione di una crisi più diffusa e profonda che si manifesta in termini politici, economici, sociali, ambientali e morali. Una crisi legata alla fine di una lunga fase di sviluppo, fondata sugli stati nazionali, la produzione di massa, alti consumi di energia, soprattutto del petrolio, e dominio degli Stati uniti. Negli ultimi due decenni si è accelerata l’erosione del compromesso tra capitale e lavoro che era alla base del ruolo dello stato, la perdita di sovranità economica, il costo dell’energia – sia economico che ambientale – così come le sfide rivolte al ruolo degli Usa. Si è trattato anche di un periodo caratterizzato dalla crescita della cosiddetta “nuova economia” basata sulle tecnologie dell’informazione e comunicazione, con implicazioni enormi e ancora sconosciute per le relazioni umane. In sostanza, le istituzioni alla base della fase di sviluppo precedente sono state fortemente danneggiate, mentre non sono state ancora create quelle che dovranno gestire la transizione verso il nuovo.
I manifestanti di piazza Tahrir al Cairo e delle altre città del Medio oriente, gli indignados in Spagna e in Grecia o i wutburger in Germania – come spiega l’articolo di Donatella Della Porta – stanno sperimentando nuove modalità di organizzazione sociale e nuove forme di democrazia discorsiva. Ma hanno bisogno di una risposta istituzionale. A livello nazionale il cambiamento è bloccato: i modi di pensare e le politiche del passato sono iscritte nelle strutture degli stati nazionali e nelle verità accettate dai suoi politici. Alcuni cambiamenti sono possibili a livello locale e regionale, ma c’è bisogno di un’agenda globale, soprattutto nei campi della finanza, della sicurezza e dell’ambiente.
Le crisi multiple di oggi riflettono il divario tra i cambiamenti economici e sociali e gli assetti istituzionali e politici che fermi a un’epoca passata. Le proteste sociali hanno bisogno di una risposta istituzionale: è possibile un’Europa di pace, verde, democratica e cosmopolitica, al posto di una burocrazia neoliberista?
Agosto non è stato esattamente un mese di vacanza. Giorno dopo giorno ci piovevano addosso le notizie di crisi multiple – la caduta di Gheddafi, le violenze in Siria, la crisi del debito pubblico in Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, l’impasse al Congresso negli Usa e il declassamento del debito americano dalla tripla A, l’uragano Irene, e poi la campagna contro la corruzione in India e le rivolte in Inghilterra. Non si faceva in tempo a star dietro alla quantità di eventi straordinari che spuntavano dappertutto.
La crisi finanziaria – come hanno fatto notare altri interventi al dibattito su “La rotta d’Europa” – è espressione di una crisi più diffusa e profonda che si manifesta in termini politici, economici, sociali, ambientali e morali. Una crisi legata alla fine di una lunga fase di sviluppo, fondata sugli stati nazionali, la produzione di massa, alti consumi di energia, soprattutto del petrolio, e dominio degli Stati uniti. Negli ultimi due decenni si è accelerata l’erosione del compromesso tra capitale e lavoro che era alla base del ruolo dello stato, la perdita di sovranità economica, il costo dell’energia – sia economico che ambientale – così come le sfide rivolte al ruolo degli Usa. Si è trattato anche di un periodo caratterizzato dalla crescita della cosiddetta “nuova economia” basata sulle tecnologie dell’informazione e comunicazione, con implicazioni enormi e ancora sconosciute per le relazioni umane. In sostanza, le istituzioni alla base della fase di sviluppo precedente sono state fortemente danneggiate, mentre non sono state ancora create quelle che dovranno gestire la transizione verso il nuovo.
I manifestanti di piazza Tahrir al Cairo e delle altre città del Medio oriente, gli indignados in Spagna e in Grecia o i wutburger in Germania – come spiega l’articolo di Donatella Della Porta – stanno sperimentando nuove modalità di organizzazione sociale e nuove forme di democrazia discorsiva. Ma hanno bisogno di una risposta istituzionale. A livello nazionale il cambiamento è bloccato: i modi di pensare e le politiche del passato sono iscritte nelle strutture degli stati nazionali e nelle verità accettate dai suoi politici. Alcuni cambiamenti sono possibili a livello locale e regionale, ma c’è bisogno di un’agenda globale, soprattutto nei campi della finanza, della sicurezza e dell’ambiente.