Scritto da M. Badiale, F. Tringali. Domenica 11 Settembre 2011
Fonte: megachipinfo
La crisi finanziaria italiana, e più in generale i problemi finanziari ed economici dell'area euro, ci incalzano con continui mutamenti della situazione. Siamo ormai costantemente incollati alle notizie sugli andamenti degli indici di borsa e dello spread fra Btp e Bund tedeschi. In questa situazione ci sembra opportuno proporre al lettore alcune considerazioni utili a decifrare il quadro in continuo movimento che ci troviamo di fronte. In primo luogo, appare davvero assordante il coro unanime sulla necessità della crescita. Governo, Presidente della Repubblica, maggioranza e opposizione, BCE e FMI, sindacati e Confindustria, giornali e televisioni ripetono in continuazione che il vero grande obiettivo è la crescita.
Chi critica la manovra lo fa perché ritiene che in essa non vi siano sufficienti misure per la crescita. Chi la difende argomenta che invece i provvedimenti che favoriscono la crescita ci sono.
Già questo fatto dovrebbe essere sufficiente a farci guardare con sospetto alla “crescita”. Sappiamo infatti che è sempre bene diffidare delle parole d'ordine della casta, soprattutto quando vengono pronunciate in modo bi-partisan.
Se l'intero ceto dominante europeo vuole la crescita, è perché dietro questa parola si nasconde qualcosa di decisivo per i suoi fini e il suo potere.
E la speranza di una eterogenesi dei fini è oramai vana: nei Paesi ad antica industrializzazione, dalla crescita ottengono guadagni e vantaggi solo le oligarchie politiche, industriali e finanziarie. Tutti gli altri, tutti noi, dalla crescita abbiamo solo da perdere.
Infatti da oltre trent'anni oramai, in occidente la crescita economica non determina altro che l'aumento dei profitti, che si accompagna al peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza delle popolazioni e all'inasprirsi di una crisi ecologica senza precedenti, in grado di mettere a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana sulla Terra.
Pertanto questo coro universale a favore della crescita dovrebbe convincerci, se già non lo fossimo, del fatto che l'idea della decrescita è un fondamento imprescindibile per qualsiasi politica di opposizione alle scelte distruttive dei governanti nostrani ed europei.
Naturalmente per “decrescita” non intendiamo l'assenza di crescita che stiamo sperimentando in questo periodo di crisi.
Il sistema capitalistico nel quale viviamo, oramai arrivato allo stadio di capitalismo assoluto, è completamente incentrato sulla necessità della crescita infinita.
E all'interno di tale sistema, l'assenza di crescita significa recessione, e conseguente impoverimento generale.
Per decrescita quindi non intendiamo meramente diminuzione del PIL, bensì un radicale cambiamento dei rapporti economici e sociali che ci liberi dalla necessità di crescere.
Il che vuol dire, né più né meno, l'abbandono del capitalismo e l'inizio di transizione verso un nuovo paradigma da definire democraticamente, ma che non sia più dipendente dalle logiche del mercato e del profitto, della valorizzazione del capitale, della competitività, della produttività.
Il fatto che proponiamo una rivoluzione di così ampia portata può spaventare il lettore, tuttavia è bene che ciascuno faccia i conti con il fatto che nel prossimo futuro non potremo fare a meno di assistere a drastici cambiamenti dei nostri modi di vivere, produrre, consumare.
Inevitabilmente la nostra società uscirà dalla crisi con un volto completamente diverso da quello con il quale vi è entrata.
Se non si riuscirà a realizzare un'alternativa al capitalismo assoluto, il nostro destino è perdere tutto quanto abbiamo conquistato (noi, i nostri padri e i nostri nonni) e scivolare in un progressivo declino e verso la terzomondizzazione del nostro Paese.
Su questo purtroppo non vi è alcun dubbio, perché non esistono soluzioni morbide alla crisi, né interventi di stampo neo-keynesiano che possano rilanciare la crescita senza intaccare i diritti, i beni comuni e i servizi pubblici, e mantenendo il potere di acquisto su livelli medio-alti.
Infatti la via indicata con chiarezza dall'Europa passa per l'azzeramento dei diritti dei lavoratori e la svendita del patrimonio pubblico.
Si rifletta sul fatto che la BCE, per la prima volta nella sua storia, ha imposto ad un governo (il nostro) di introdurre nell'ordinamento nuove regole in materia sindacale, tali da garantire facilità di licenziamento e deroghe alle garanzie e ai diritti contenuti nei Contratti Nazionali di Lavoro e nello Statuto dei Lavoratori.
Dunque la crescita che stiamo così affannosamente inseguendo è soltanto questo: la riduzione dei lavoratori ad una condizione di tipo ottocentesco, spazzando via tutte le conquiste ottenute con più di un secolo di lotte.
Non solo. Queste misure produrranno un ulteriore aggravamento della crisi, perché la diminuzione dei diritti, dei redditi e delle pensioni, spingerà le persone a diminuire i consumi, producendo un'ulteriore contrazione della domanda. Ergo nessuna crescita.
A questo punto ci diranno che esiste ancora un modo per ottenere la crescita: privatizzare e vendere tutto ciò che è pubblico. Beni comuni, servizi, patrimonio immobiliare. Tutto.
Ecco dove ci poterà, molto presto, la “crescita”. A perdere tutto: diritti, servizi pubblici come sanità e scuola, beni comuni.
E tutto ciò non servirà nemmeno ad ottenere questa fantomatica crescita, e a far “ripartire l'economia” come tanti commentatori del mainstream si augurano.
Già negli anni '90 le nefaste privatizzazioni realizzate dai governi di centrosinistra si sono accompagnate ad una progressiva perdita di competitività dell'economia italiana, e ad una riduzione dei tassi di crescita.
Dunque tutte le misure che si stanno adottando, producono recessione e non potranno che precipitarci prestissimo in una situazione analoga alla Grecia.
Tuttavia non è questo preoccupa i ceti dirigenti italiani ed europei. I nostri governanti sanno benissimo che la crescita non ci sarà. Conoscono perfettamente gli effetti recessivi di manovre economiche come quelle appena varate, ma hanno capito che possono sfruttare questa situazione per accaparrarsi tutto.
E sanno che questo disegno non troverà opposizione perché non esiste partito, sindacato o grande organizzazione popolare che abbia la forza, il coraggio e la consapevolezza per dire che occorre smettere di inseguire la crescita economica, con tutto ciò che ne consegue.
Al contrario, come abbiamo accennato all'inizio, in Italia sia l'opposizione politica che quella sindacale criticano l'esecutivo accusandolo di non essere in grado di prendere decisioni in favore della crescita. E si candidano ad essere loro stessi a prendere le “misure impopolari” necessarie, una volta disarcionato Berlusconi.
La CGIL, la più grande confederazione sindacale, dal canto suo, ha firmato insieme a tutte le altre l'accordo del 28 giugno, indicando chiaramente di essere disposta ad accettare la libertà di licenziamento e le deroghe ai CCNL e allo Statuto dei Lavoratori, in nome della crescita.
In questo modo ha spianato la strada a un futuro governo di larghe intese, che coinvolga anche il centrosinistra, cui sarà permesso di fare quello che oggi si tenta di impedire al governo Lega-PDL.
I tentativi per far cadere Berlusconi e sostituirlo con un esecutivo di “salvezza nazionale” oramai non si contano più, anche all'interno dello stesso PDL[1].
Il problema, come abbiamo detto più volte, è che Berlusconi è troppo debole, ricattabile e preso dai propri problemi giudiziari per fare lo sporco lavoro di macelleria sociale che è richiesto dai ceti dirigenti nazionali e internazionali.
Inoltre la Lega frena su alcune tematiche sociali, come i tagli alle pensioni, e l'esclusione del centrosinistra dall'esecutivo determina l'automatica avversione delle forze sociali collegate a quella parte politica.
Dunque l'attuale esecutivo non offre garanzie sufficienti ai ceti dominanti, i quali hanno assecondato il sostanziale commissariamento del nostro governo da parte degli organismi dell'Unione Europea.
L'ultima manovra economica è stata scritta a Bruxelles, e blindata dal Presidente della Repubblica, Napolitano. E passerà con il voto di fiducia alle Camere. Ma non sarà sufficiente.
Prestissimo ci diranno che servono nuove misure, e questo governo difficilmente riuscirà ad approvare le prossime devastanti decisioni che ci verranno imposte.
E poi Berlusconi, politicamente, è troppo debole per usare le maniere forti nelle piazze dove monterà la protesta.
I ceti dominanti sanno che quando bisogna bastonare, la cosa migliore da fare è chiamare al governo il centrosinistra. Possono stare certi che risponderà prontamente.
Verrebbe quasi da augurarsi che Berlusconi resista al governo. Ma sarebbe una sciocchezza. Non possiamo sperare di essere davvero difesi dal più ridicolo e corrotto governo della storia della Repubblica.
I corrotti si fanno corrompere, è il loro mestiere.
Ed è probabile che alla fine Berlusconi accetti le offerte di impunità e garanzie patrimoniali, che oramai gli vengono fatte alla luce del sole[2] e decida di farsi da parte, prima che la Lega lo faccia fuori o che qualche parlamentare “responsabile” trovi conveniente voltargli le spalle.
Dunque la nostra situazione è questa: il popolo di questo paese è preso nella morsa fra un governo di nani e ballerine, che ci sta per vendere o ci ha già venduti agli artefici della macelleria sociale, e le restanti forze politiche, di centro e di sinistra, che scalpitano per mostrare ai padroni quanto bravi siano nel fare i loro interessi.
Se il quadro resta questo, non c'è scampo per questo Paese.
Ciò di cui abbiamo assoluto bisogno è un nuovo soggetto politico, che veda nella “decrescita” e nella partecipazione democratica, le basi per promuovere nella società una radicale alternativa al capitalismo assoluto.
Tuttavia la nascita di un partito del genere richiederà non poco tempo.
E noi abbiamo l'urgenza di difenderci da subito dalle scelte distruttive che ci stanno imponendo.
La fiammella della speranza potrà restare accesa se nelle prossime settimane prenderà corpo e vita un ampio fronte di opposizione sociale, intransigente con l'intero ceto politico, determinato nella difesa dei beni comuni, del lavoro e dei diritti, e basato sulla parola d'ordine “noi il vostro debito non lo paghiamo”.
La crisi finanziaria italiana, e più in generale i problemi finanziari ed economici dell'area euro, ci incalzano con continui mutamenti della situazione. Siamo ormai costantemente incollati alle notizie sugli andamenti degli indici di borsa e dello spread fra Btp e Bund tedeschi. In questa situazione ci sembra opportuno proporre al lettore alcune considerazioni utili a decifrare il quadro in continuo movimento che ci troviamo di fronte. In primo luogo, appare davvero assordante il coro unanime sulla necessità della crescita. Governo, Presidente della Repubblica, maggioranza e opposizione, BCE e FMI, sindacati e Confindustria, giornali e televisioni ripetono in continuazione che il vero grande obiettivo è la crescita.
Chi critica la manovra lo fa perché ritiene che in essa non vi siano sufficienti misure per la crescita. Chi la difende argomenta che invece i provvedimenti che favoriscono la crescita ci sono.
Già questo fatto dovrebbe essere sufficiente a farci guardare con sospetto alla “crescita”. Sappiamo infatti che è sempre bene diffidare delle parole d'ordine della casta, soprattutto quando vengono pronunciate in modo bi-partisan.
Se l'intero ceto dominante europeo vuole la crescita, è perché dietro questa parola si nasconde qualcosa di decisivo per i suoi fini e il suo potere.
E la speranza di una eterogenesi dei fini è oramai vana: nei Paesi ad antica industrializzazione, dalla crescita ottengono guadagni e vantaggi solo le oligarchie politiche, industriali e finanziarie. Tutti gli altri, tutti noi, dalla crescita abbiamo solo da perdere.
Infatti da oltre trent'anni oramai, in occidente la crescita economica non determina altro che l'aumento dei profitti, che si accompagna al peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza delle popolazioni e all'inasprirsi di una crisi ecologica senza precedenti, in grado di mettere a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana sulla Terra.
Pertanto questo coro universale a favore della crescita dovrebbe convincerci, se già non lo fossimo, del fatto che l'idea della decrescita è un fondamento imprescindibile per qualsiasi politica di opposizione alle scelte distruttive dei governanti nostrani ed europei.
Naturalmente per “decrescita” non intendiamo l'assenza di crescita che stiamo sperimentando in questo periodo di crisi.
Il sistema capitalistico nel quale viviamo, oramai arrivato allo stadio di capitalismo assoluto, è completamente incentrato sulla necessità della crescita infinita.
E all'interno di tale sistema, l'assenza di crescita significa recessione, e conseguente impoverimento generale.
Per decrescita quindi non intendiamo meramente diminuzione del PIL, bensì un radicale cambiamento dei rapporti economici e sociali che ci liberi dalla necessità di crescere.
Il che vuol dire, né più né meno, l'abbandono del capitalismo e l'inizio di transizione verso un nuovo paradigma da definire democraticamente, ma che non sia più dipendente dalle logiche del mercato e del profitto, della valorizzazione del capitale, della competitività, della produttività.
Il fatto che proponiamo una rivoluzione di così ampia portata può spaventare il lettore, tuttavia è bene che ciascuno faccia i conti con il fatto che nel prossimo futuro non potremo fare a meno di assistere a drastici cambiamenti dei nostri modi di vivere, produrre, consumare.
Inevitabilmente la nostra società uscirà dalla crisi con un volto completamente diverso da quello con il quale vi è entrata.
Se non si riuscirà a realizzare un'alternativa al capitalismo assoluto, il nostro destino è perdere tutto quanto abbiamo conquistato (noi, i nostri padri e i nostri nonni) e scivolare in un progressivo declino e verso la terzomondizzazione del nostro Paese.
Su questo purtroppo non vi è alcun dubbio, perché non esistono soluzioni morbide alla crisi, né interventi di stampo neo-keynesiano che possano rilanciare la crescita senza intaccare i diritti, i beni comuni e i servizi pubblici, e mantenendo il potere di acquisto su livelli medio-alti.
Infatti la via indicata con chiarezza dall'Europa passa per l'azzeramento dei diritti dei lavoratori e la svendita del patrimonio pubblico.
Si rifletta sul fatto che la BCE, per la prima volta nella sua storia, ha imposto ad un governo (il nostro) di introdurre nell'ordinamento nuove regole in materia sindacale, tali da garantire facilità di licenziamento e deroghe alle garanzie e ai diritti contenuti nei Contratti Nazionali di Lavoro e nello Statuto dei Lavoratori.
Dunque la crescita che stiamo così affannosamente inseguendo è soltanto questo: la riduzione dei lavoratori ad una condizione di tipo ottocentesco, spazzando via tutte le conquiste ottenute con più di un secolo di lotte.
Non solo. Queste misure produrranno un ulteriore aggravamento della crisi, perché la diminuzione dei diritti, dei redditi e delle pensioni, spingerà le persone a diminuire i consumi, producendo un'ulteriore contrazione della domanda. Ergo nessuna crescita.
A questo punto ci diranno che esiste ancora un modo per ottenere la crescita: privatizzare e vendere tutto ciò che è pubblico. Beni comuni, servizi, patrimonio immobiliare. Tutto.
Ecco dove ci poterà, molto presto, la “crescita”. A perdere tutto: diritti, servizi pubblici come sanità e scuola, beni comuni.
E tutto ciò non servirà nemmeno ad ottenere questa fantomatica crescita, e a far “ripartire l'economia” come tanti commentatori del mainstream si augurano.
Già negli anni '90 le nefaste privatizzazioni realizzate dai governi di centrosinistra si sono accompagnate ad una progressiva perdita di competitività dell'economia italiana, e ad una riduzione dei tassi di crescita.
Dunque tutte le misure che si stanno adottando, producono recessione e non potranno che precipitarci prestissimo in una situazione analoga alla Grecia.
Tuttavia non è questo preoccupa i ceti dirigenti italiani ed europei. I nostri governanti sanno benissimo che la crescita non ci sarà. Conoscono perfettamente gli effetti recessivi di manovre economiche come quelle appena varate, ma hanno capito che possono sfruttare questa situazione per accaparrarsi tutto.
E sanno che questo disegno non troverà opposizione perché non esiste partito, sindacato o grande organizzazione popolare che abbia la forza, il coraggio e la consapevolezza per dire che occorre smettere di inseguire la crescita economica, con tutto ciò che ne consegue.
Al contrario, come abbiamo accennato all'inizio, in Italia sia l'opposizione politica che quella sindacale criticano l'esecutivo accusandolo di non essere in grado di prendere decisioni in favore della crescita. E si candidano ad essere loro stessi a prendere le “misure impopolari” necessarie, una volta disarcionato Berlusconi.
La CGIL, la più grande confederazione sindacale, dal canto suo, ha firmato insieme a tutte le altre l'accordo del 28 giugno, indicando chiaramente di essere disposta ad accettare la libertà di licenziamento e le deroghe ai CCNL e allo Statuto dei Lavoratori, in nome della crescita.
In questo modo ha spianato la strada a un futuro governo di larghe intese, che coinvolga anche il centrosinistra, cui sarà permesso di fare quello che oggi si tenta di impedire al governo Lega-PDL.
I tentativi per far cadere Berlusconi e sostituirlo con un esecutivo di “salvezza nazionale” oramai non si contano più, anche all'interno dello stesso PDL[1].
Il problema, come abbiamo detto più volte, è che Berlusconi è troppo debole, ricattabile e preso dai propri problemi giudiziari per fare lo sporco lavoro di macelleria sociale che è richiesto dai ceti dirigenti nazionali e internazionali.
Inoltre la Lega frena su alcune tematiche sociali, come i tagli alle pensioni, e l'esclusione del centrosinistra dall'esecutivo determina l'automatica avversione delle forze sociali collegate a quella parte politica.
Dunque l'attuale esecutivo non offre garanzie sufficienti ai ceti dominanti, i quali hanno assecondato il sostanziale commissariamento del nostro governo da parte degli organismi dell'Unione Europea.
L'ultima manovra economica è stata scritta a Bruxelles, e blindata dal Presidente della Repubblica, Napolitano. E passerà con il voto di fiducia alle Camere. Ma non sarà sufficiente.
Prestissimo ci diranno che servono nuove misure, e questo governo difficilmente riuscirà ad approvare le prossime devastanti decisioni che ci verranno imposte.
E poi Berlusconi, politicamente, è troppo debole per usare le maniere forti nelle piazze dove monterà la protesta.
I ceti dominanti sanno che quando bisogna bastonare, la cosa migliore da fare è chiamare al governo il centrosinistra. Possono stare certi che risponderà prontamente.
Verrebbe quasi da augurarsi che Berlusconi resista al governo. Ma sarebbe una sciocchezza. Non possiamo sperare di essere davvero difesi dal più ridicolo e corrotto governo della storia della Repubblica.
I corrotti si fanno corrompere, è il loro mestiere.
Ed è probabile che alla fine Berlusconi accetti le offerte di impunità e garanzie patrimoniali, che oramai gli vengono fatte alla luce del sole[2] e decida di farsi da parte, prima che la Lega lo faccia fuori o che qualche parlamentare “responsabile” trovi conveniente voltargli le spalle.
Dunque la nostra situazione è questa: il popolo di questo paese è preso nella morsa fra un governo di nani e ballerine, che ci sta per vendere o ci ha già venduti agli artefici della macelleria sociale, e le restanti forze politiche, di centro e di sinistra, che scalpitano per mostrare ai padroni quanto bravi siano nel fare i loro interessi.
Se il quadro resta questo, non c'è scampo per questo Paese.
Ciò di cui abbiamo assoluto bisogno è un nuovo soggetto politico, che veda nella “decrescita” e nella partecipazione democratica, le basi per promuovere nella società una radicale alternativa al capitalismo assoluto.
Tuttavia la nascita di un partito del genere richiederà non poco tempo.
E noi abbiamo l'urgenza di difenderci da subito dalle scelte distruttive che ci stanno imponendo.
La fiammella della speranza potrà restare accesa se nelle prossime settimane prenderà corpo e vita un ampio fronte di opposizione sociale, intransigente con l'intero ceto politico, determinato nella difesa dei beni comuni, del lavoro e dei diritti, e basato sulla parola d'ordine “noi il vostro debito non lo paghiamo”.
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