di Paolo Persichetti. Fonte: liberazione
L’idea di un ricorso ad ipotesi di «default controllato» cominciano a farsi strada. Angela Merkel, decisamente restia a soluzioni del genere anche solo poche settimane fa, ha dichiarato nel corso di una intervista che nell’eurozona «il compito più importante è impedire un default “non gestito” perchè questo non riguarderebbe soltanto la Grecia». La cancelliera tedesca ha auspicato che venga «fatto tutto il possibile per tenere insieme politicamente l’eurozona, perchè altrimenti possiamo ottenere velocemente un effetto domino».
Professor Brancaccio, tra le soluzioni alla crisi greca si fa strada l’ipotesi del fallimento tecnico. La dichiarazione di insolvibilità non sembra più uno spauracchio.
Il fatto che si discuta oggi in maniera più esplicita di fallimento e di regolazione del debito è una cosa che non deve meravigliarci. Nel corso della storia si sono verificati numerosi fallimenti degli Stati sovrani. I fallimenti si sono resi necessari in più circostanze. Si dimentica troppo spesso che il reddito dei creditori dipende dalla spesa dei debitori, per cui se si costringono i debitori a ridurre eccessivamente le spese per rimborsare i debiti si finisce per ridurre il volume generale dei consumi e quindi i redditi degli stessi creditori, scatenando così una spirale perversa che sfocia in una crisi irreversibile.
Sia i mercati che la Bce hanno fatto capire che l’Italia ha appena superato la sufficienza e che presto servirà una terza manovra rivolta soprattutto alle uscite dello Stato: tradotto le pensioni. Se questo è il prezzo, non è forse meglio un default governato anche per noi?
La linea Berlusconi-Draghi tracciata dalle direttive indicate nella famigerata lettera della Bce ci porterà inevitabilmente verso quella spirale perversa cui accennavo prima. Seguendo di questo passo i debiti non verrano pagati e si andrà lo stesso verso il default tecnico che sta paralizzando la Grecia.
Quindi hanno ragione i sostenitori del diritto all’insolvenza che dicono: «il debito non l’abbiamo contratto noi, dunque rifiutiamo di pagarlo a nostre spese»?
E’ la linea degli economisti vicino ai movimenti. Tuttavia se si vuol prendere sul serio la posizione del fallimento occorre intraprendere un percorso politico tra creditori e debitori, che però potrebbe anche non realizzarsi; oppure bisogna avere la forza di non ricorrere più al debito estero per un bel po’ di tempo. Altrimenti i tassi sarebbero esorbitanti e subiremmo un effetto di razionamento.
Esiste un’alternativa al default?
Sì, risolvere politicamente la crisi dei rapporti interni all’Europa tra Paesi debitori e Paesi creditori, cioè tra Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e il grande creditore, la Germania, ormai in una posizione insostenibile. La Germania ha accumulato crediti verso l’estero sulla base di una politica che la portava ad esportare molto verso i Paesi fragili e importare poco. Anche in virtù del fatto che i tedeschi hanno adottato politiche fortemente restrittive e di fortissima deflazione salariale competitiva, in totale contraddizione con la sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. In altri termini hanno potuto accumulare crediti grazie al fatto che gli altri Paesi assorbivano le loro merci. Affrontare politicamente la crisi dei rapporti tra Paesi creditori e Paesi debitori significa in primo luogo chiamare la Germania alle proprie responsabilità.
Come?
Attraverso l’introduzione di uno «standard salariale europeo», cioè la prima forma di coordinamento delle politiche salariali tra i Paesi dell’Unione che di fatto costringerebbe la Germania a non tenere i salari reali al di sotto della produttività destabilizzando i vicini.
Tremonti negozia con la Cina l’acquisto di titoli di Stato. E’ un’altra soluzione?
L’iniziativa ha una sua logica. I cinesi possono offrire un vantaggio che è importante: la Cina ha sempre gestito i rapporti di debito e credito in chiave politica. Non si sono mai affidati all’andamento erratico dei mercati finanziari. Proprio quello che ci serve: sottrarre ai mercati finanziari i rapporti tra creditori e debitori. Dobbiamo cioè politicizzare questi rapporti. Tuttavia sarebbe molto ingenuo pensare di risolvere la situazione sostituendo il creditore tedesco con quello cinese. Il nostro problema non è trovare un altro creditore. Il debito europeo nasce dal fatto che ancora non abbiamo trovato una nuova fonte di domanda. Essendo ormai chiaramente tramontata l’epoca della domanda trainata dai boom speculativi della finanza privata è tempo che si concepisca un nuovo motore interno della domanda europea fondato sull’azione pubblica.
Sul modello del job act?
Anche se Obama l’ha fatto accodandosi al pareggio di bilancio. Per poter realizzare politiche di creazione dell’occupazione attraverso l’azione pubblica servono politiche monetarie e fiscali non vincolate al pareggio di bilancio.
Quale effetto avrebbe questo vincolo se entrasse nella Costituzione?
Dal punto di vista della logica macroeconomica è una emerita idiozia. Non esiste tema economico che possa reggere in presenza di un sistematico pareggio nel bilancio pubblico. In realtà si tratta di una operazione politica: questo tipo di vincolo potrebbe costringere a nuovi processi di privatizzazione che oggi riguarderebbero lo Stato sociale. Emergerebbe infine un elemento di autocontraddizione. Vi sono articoli della costituzione repubblicana del ’48 che sono palesemente antitetici con la filosofia contenuta nel dogma del pareggio di bilancio.
Come ti sentiresti nei panni di docente di economia anticostituzionale?
Gli economisti cosiddetti critici sono abituati a trovarsi in posizioni di minoranza. Anche se oggi i fatti danno loro ragione.
Paolo Persichetti
in data:14/09/2011
Professor Brancaccio, tra le soluzioni alla crisi greca si fa strada l’ipotesi del fallimento tecnico. La dichiarazione di insolvibilità non sembra più uno spauracchio.
Il fatto che si discuta oggi in maniera più esplicita di fallimento e di regolazione del debito è una cosa che non deve meravigliarci. Nel corso della storia si sono verificati numerosi fallimenti degli Stati sovrani. I fallimenti si sono resi necessari in più circostanze. Si dimentica troppo spesso che il reddito dei creditori dipende dalla spesa dei debitori, per cui se si costringono i debitori a ridurre eccessivamente le spese per rimborsare i debiti si finisce per ridurre il volume generale dei consumi e quindi i redditi degli stessi creditori, scatenando così una spirale perversa che sfocia in una crisi irreversibile.
Sia i mercati che la Bce hanno fatto capire che l’Italia ha appena superato la sufficienza e che presto servirà una terza manovra rivolta soprattutto alle uscite dello Stato: tradotto le pensioni. Se questo è il prezzo, non è forse meglio un default governato anche per noi?
La linea Berlusconi-Draghi tracciata dalle direttive indicate nella famigerata lettera della Bce ci porterà inevitabilmente verso quella spirale perversa cui accennavo prima. Seguendo di questo passo i debiti non verrano pagati e si andrà lo stesso verso il default tecnico che sta paralizzando la Grecia.
Quindi hanno ragione i sostenitori del diritto all’insolvenza che dicono: «il debito non l’abbiamo contratto noi, dunque rifiutiamo di pagarlo a nostre spese»?
E’ la linea degli economisti vicino ai movimenti. Tuttavia se si vuol prendere sul serio la posizione del fallimento occorre intraprendere un percorso politico tra creditori e debitori, che però potrebbe anche non realizzarsi; oppure bisogna avere la forza di non ricorrere più al debito estero per un bel po’ di tempo. Altrimenti i tassi sarebbero esorbitanti e subiremmo un effetto di razionamento.
Esiste un’alternativa al default?
Sì, risolvere politicamente la crisi dei rapporti interni all’Europa tra Paesi debitori e Paesi creditori, cioè tra Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e il grande creditore, la Germania, ormai in una posizione insostenibile. La Germania ha accumulato crediti verso l’estero sulla base di una politica che la portava ad esportare molto verso i Paesi fragili e importare poco. Anche in virtù del fatto che i tedeschi hanno adottato politiche fortemente restrittive e di fortissima deflazione salariale competitiva, in totale contraddizione con la sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. In altri termini hanno potuto accumulare crediti grazie al fatto che gli altri Paesi assorbivano le loro merci. Affrontare politicamente la crisi dei rapporti tra Paesi creditori e Paesi debitori significa in primo luogo chiamare la Germania alle proprie responsabilità.
Come?
Attraverso l’introduzione di uno «standard salariale europeo», cioè la prima forma di coordinamento delle politiche salariali tra i Paesi dell’Unione che di fatto costringerebbe la Germania a non tenere i salari reali al di sotto della produttività destabilizzando i vicini.
Tremonti negozia con la Cina l’acquisto di titoli di Stato. E’ un’altra soluzione?
L’iniziativa ha una sua logica. I cinesi possono offrire un vantaggio che è importante: la Cina ha sempre gestito i rapporti di debito e credito in chiave politica. Non si sono mai affidati all’andamento erratico dei mercati finanziari. Proprio quello che ci serve: sottrarre ai mercati finanziari i rapporti tra creditori e debitori. Dobbiamo cioè politicizzare questi rapporti. Tuttavia sarebbe molto ingenuo pensare di risolvere la situazione sostituendo il creditore tedesco con quello cinese. Il nostro problema non è trovare un altro creditore. Il debito europeo nasce dal fatto che ancora non abbiamo trovato una nuova fonte di domanda. Essendo ormai chiaramente tramontata l’epoca della domanda trainata dai boom speculativi della finanza privata è tempo che si concepisca un nuovo motore interno della domanda europea fondato sull’azione pubblica.
Sul modello del job act?
Anche se Obama l’ha fatto accodandosi al pareggio di bilancio. Per poter realizzare politiche di creazione dell’occupazione attraverso l’azione pubblica servono politiche monetarie e fiscali non vincolate al pareggio di bilancio.
Quale effetto avrebbe questo vincolo se entrasse nella Costituzione?
Dal punto di vista della logica macroeconomica è una emerita idiozia. Non esiste tema economico che possa reggere in presenza di un sistematico pareggio nel bilancio pubblico. In realtà si tratta di una operazione politica: questo tipo di vincolo potrebbe costringere a nuovi processi di privatizzazione che oggi riguarderebbero lo Stato sociale. Emergerebbe infine un elemento di autocontraddizione. Vi sono articoli della costituzione repubblicana del ’48 che sono palesemente antitetici con la filosofia contenuta nel dogma del pareggio di bilancio.
Come ti sentiresti nei panni di docente di economia anticostituzionale?
Gli economisti cosiddetti critici sono abituati a trovarsi in posizioni di minoranza. Anche se oggi i fatti danno loro ragione.
Paolo Persichetti
in data:14/09/2011
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