Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 11 ottobre 2013

"I" come indignazione

di Livio Pepino , Marco Revelli

L’abbraccio apparentemente innaturale delle “larghe intese” è il suggello di un pensiero unico che attraversa le forze politiche dominanti. Per ricominciare occorrono nuovi modi di partecipazione e una revisione dal basso dei sistemi della rappresentanza. Iniziamo dalla manifestazione di sabato 12 ottobre a difesa della Costituzione

C’è, nel Paese, un’anomalia. L’indignazione è maggioranza, schiacciante maggioranza. Basta vedere l’andamento del voto nelle ultime tornate elettorali. Ancor più, è sufficiente passeggiare in un mercato e viaggiare su tram o treni. Eppure quell’indignazione non conta nulla a livello istituzionale. Oppure veicola movimenti populisti e pieni di contraddizioni. Così cresce il rischio che l’indignazione si chiuda in se stessa e produca sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità.
Crescono nel Paese i poveri. A dismisura. Nel 2012 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni 814mila, pari al 7,9 per cento della popolazione (mentre nel 2011 erano 3,415 milioni pari al 5,2 per cento). E sono ben 9 milioni e 563mila, pari al 15,8 per cento della popolazione, le persone in condizione di povertà relativa, cioè con una disponibilità inferiore a 506 euro mensili. Senza contare l’area della “deprivazione” o della “vulnerabilità”, pari al 41,7 per cento degli uomini e delle donne, non in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno. E cresce, ancor più, la disuguaglianza. Basterebbe. Ma c’è di più. Il di più è il degrado morale e istituzionale – insolente, a dir poco – che accompagna la crisi economica, producendo una vera e propria corruzione del sistema. I guasti riguardano, anzitutto, l'assetto etico del Paese. Sono stati “sdoganati” comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni. È stato autorevolmente autorizzato l'inaccettabile per qualunque comunità civile, come se l'appartenere al circolo magico del potere permettesse tutto. È stata cancellata – neutralizzata, assimilata, condivisa – l'anomalia italiana costituita dalla persona di Silvio Berlusconi, dalla sua trasgressione di tutti i caratteri di virtù pubblica e privata. E per questa via è stata sancita l'ammissibilità della compravendita dei corpi e delle menti, della frode e dell'evasione fiscale, dell'ostentazione del privilegio e della pratica del «non sa chi sono io», della menzogna sistematica e della falsificazione dei fatti.
Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale. E, invece, ci tocca assistere allo spettacolo deprimente dell'assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una comune maggioranza di governo. Si colloca qui il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino della “sinistra” e in particolare del Pd. In realtà la mutazione genetica in atto nel Partito democratico sta modificando (ha ormai modificato) il quadro delle culture politiche italiane. Senza considerare lo spettacolo meno nobile della corsa a ricollocarsi, spartirsi le potenziali cariche, riconquistare posizioni perdute, consumare vendette antiche e recenti, mutare amicizie... Può non piacere – e non piace – ma questo è il Pd reale, non quello immaginario dei falsi realisti che aspettano ogni volta un "segno" di una sua rinata identità di sinistra.
La nascita del governo delle “larghe intese” poi, lungi dal garantire stabilità, ha dato vita a un meccanismo auto-dissolutivo, istituzionalizzato l'instabilità e facendone un carattere strutturale del nostro sistema politico. Ma tensioni e instabilità sono determinati essenzialmente da questioni di superficie e di spartizione del potere. Nel profondo, l’abbraccio apparentemente innaturale delle “larghe intese” è il suggello di un pensiero unico che attraversa le forze politiche dominanti, traducendosi persino in gesti e parole indistinguibili: nell’ossequio cieco e acritico all’Europa dei mercati, nel tentativo di esorcizzare il conflitto sociale (fino ad evocare irresponsabilmente, con il supporto di improbabili maîtres à penser, i fantasmi del terrorismo) e finanche nel disegno di stravolgere la Costituzione, servendosi a tal fine di una inammissibile modifica dell’articolo 138, cioè della norma di chiusura che dovrebbe garantirci – tutti – contro i colpi di mano di aggregazioni corsare...
Tutto ciò è chiaro da tempo, ma – sino ad oggi – non ha trovato interpreti e soggetti capaci di raccogliere l’indignazione e di modificare la realtà. Non per mancanza di idee o di progetti, che, anzi, sono stati oggetto di molte significative elaborazioni. E neppure per carenza di risorse umane e personali, ché forse mai come nell’ultimo decennio c’è stato un fiorire di iniziative settoriali, movimenti, associazioni anche di grande respiro. Quel che è mancato è stata la capacità di costruire un soggetto (nuovo, plurale, partecipato) in grado di raccogliere consenso e di proporsi, anche nei luoghi della rappresentanza, come veicolo di cambiamento. Nel bacino degli indignati chi non ha scelto l’autoemarginazione si è mosso, sul piano elettorale e dell’organizzazione della rappresentanza, riproponendo metodi logori e perdenti. Le ultime consultazioni elettorali sono state univoche e senza appello. La sommatoria di vecchi soggetti politici della sinistra (con o senza rinforzi) è un’operazione perdente e impresentabile in sé, a prescindere dai programmi. E c’è di più. Il voto – con la ripetuta sconfitta dell’intero arco della sinistra, pur in situazioni spesso favorevoli – ha messo a nudo la fine (probabilmente irreversibile, per lo meno nel modo con cui esso è stato declinato nel Novecento) del termine “sinistra”, con quanto esso evoca, come elemento di aggregazione, convincimento, mobilitazione. Restano validi e addirittura rafforzati – almeno per noi – i contenuti fondamentali che in tale termine si sono condensati negli anni, ma senza modi nuovi per veicolarli rischiano di essere travolti.
Che fare, dunque?
Per ricominciare – come sempre è accaduto nei momenti cruciali della storia – bisogna prima finire. Inutile pensare a una rigenerazione di questo sistema. Il fatto è che un reale cambiamento deve passare attraverso una profonda discontinuità di prassi e comportamenti. Il punto fondamentale è ormai chiaro: chi fa la politica? i cittadini, singoli e organizzati nella rete di movimenti, associazioni, comitati che animano il quotidiano e i territori? o un ceto politico professionale, investito di una ampia delega, che trae la sua legittimazione da una sperimentata capacità tecnica (sic!)? Per chi sceglie la prima opzione – e non può non essere così nella nostra prospettiva – c’è un corollario. Non solo i partiti tradizionali ma la stessa forma partito, così come la conosciamo, è superata, finita, travolta dagli eventi (pur essendo stata – meritoriamente – l’asse portante dello sviluppo della democrazia del dopoguerra). E quel che è finito non si può resuscitare. Occorrono forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dal basso dei sistemi della rappresentanza. Senza una rifondazione profonda – inutile illudersi e illudere – è finita anche la sinistra. Anche perché le indicazioni programmatiche, se non sorrette da un reale radicamento sociale e da adeguate garanzie personali, rischiano di restare dei “pezzi di carta”.
Il pezzo qui sopra costituisce l'introduzione al libro collettivo Grammatica dell'indignazione (Edizioni Gruppo Abele) in libreria dal 7 ottobre

giovedì 10 ottobre 2013

Imperialismo globale e crisi

M. Castaldo intervista Ernesto Screpanti

È appena uscito il libro di Ernesto Screpanti L’imperialismo globale e la grande crisi. Lodevolmente, è stato pubblicato in edizione online scaricabile gratis. È un tentativo di spostare avanti, adeguandolo ai tempi, il dibattito sull’imperialismo. La globalizzazione sta realizzando una nuova forma di dominio imperiale nella quale il grande capitale multinazionale, attraverso il mercato, priva di sovranità e di autonomia politica le organizzazioni locali, i sindacati, i partiti e le istituzioni deliberative. La grande crisi del 2007-13 ha fatto esplodere le contraddizioni tra stato e capitale. Nello stesso tempo sta accelerando il processo di affermazione dell’imperialismo globale. Si configura come una crisi di transizione fra il sistema tardo-novecentesco delle relazioni e dei pagamenti internazionali e un nuovo sistema basato sul multilateralismo, su un Super-Sovereign Currency Standard e su una forma del tutto inedita del potere mondiale del capitale. Ho rivolto delle domande a Ernesto Screpanti per chiarire alcune questioni cruciali e per portare alla luce il senso in cui la sua analisi, che si presenta come altamente innovativa pur entro la tradizione marxista, ci permette di capire l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica.


La differenza tra le tue tesi e quelle di Lenin sono legate a una nuova fase dell’accumulazione del capitale o si tratta di una diversa impostazione teorica nell’affrontare la questione?


Dai tempi di Lenin è cambiata non solo la fase dell’accumulazione, ma anche la forma del capitalismo. L’analisi di Lenin era adeguata per il capitalismo trustificato dell’era degli imperi coloniali. Il capitale di ogni nazione cresceva coi profitti monopolistici entro un mercato parzialmente protetto, e spingeva lo stato a espandere il mercato nazionale con l’impero. Oggi il grande capitale ha travalicato i confini degli imperi e si accumula su scala mondiale senza riguardo agli interessi nazionali di questo o quel paese, neanche quelli in cui risiedono le case madri delle imprese multinazionali. Degli imperi nazionali costituirebbero delle limitazioni geografiche all’espansione commerciale e all’accumulazione. Per questo il grande capitale di oggi è libero-scambista. La sua ideologia è quella della globalizzazione come processo di abbattimento delle barriere protezionistiche, mentre quella del capitale dei tempi di Lenin era il nazionalismo protezionistico. La mia impostazione metodologica è la stessa di Marx, e parte dalla tesi che la tendenza del capitale a proiettarsi sui mercati mondiali è una proprietà intrinseca dell’accumulazione capitalistica e non dipende da un difetto distributivo, come invece argomentava Hobson, il quale individuava la radice dell’imperialismo nella cattiva distribuzione del reddito e nella conseguente tendenza al sottoconsumo. Lenin, pur riprendendo molte tesi di Hobson, non dà importanza al sottoconsumo e, sulla scorta di Hilferding, sviluppa un’analisi più generale. Certamente è più marxista dell’economista laburista inglese: non pensa che l’imperialismo possa essere combattuto con una politica riformista di redistribuzione del reddito. La mia analisi non è in contrasto con quella di Lenin. È una generalizzazione della teoria dell’imperialismo e un adeguamento alla fase attuale dell’accumulazione.


Volendo fissare a scala storica il rapporto dei due conflitti mondiali con l’accumulazione capitalistica, questa era in espansione o in depressione quando esplosero i due conflitti?

La prima guerra mondiale scoppiò al culmine di un’onda lunga di crescita della produzione e del commercio internazionale. Scoppiò perché gli imperi coloniali avevano raggiunto il massimo di espansione geografica ed erano arrivati a un punto di conflittualità tale che solo una guerra poteva ridisegnarne i confini e i rapporti di potere. Tra le due guerre ci fu invece un periodo di depressione, di forte protezionismo, di svalutazioni e deflazioni competitive, specialmente dopo la crisi del ’29. Il sistema dei pagamenti internazionali vigente prima della prima guerra mondiale era entrato in crisi, il Gold Standard creava più problemi di quanti ne risolveva, la Gran Bretagna aveva perso l’egemonia economica e la capacità di regolare l’economia mondiale con la sua politica monetaria, ma gli Stati Uniti non erano ancora pronti a subentrare. Quindi il sistema dei pagamenti internazionali entrò nel caos, e ciò acutizzò alcune contraddizioni inter-imperiali. Il Giappone era uscito dalla crisi del ‘29 adottando forti politiche di riarmo e avanzava ambizioni imperiali sul Pacifico che gli americani non potevano tollerare. In Europa la Germania era uscita dalla crisi prima degli altri paesi, e anch’essa con delle politiche di riarmo. L’Unione Sovietica non aveva risentito della crisi e cresceva a ritmi sostenuti, suscitando grandi preoccupazioni in tutte le grandi potenze imperialiste. In altri termini il superamento della crisi del ’29 aveva consentito alla Germania, al Giappone, all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti di crescere in potenza economica, e aveva declassato le potenze inglese e francese. D’altronde la prima guerra mondiale non aveva risolto i conflitti inter-imperiali europei, né aveva fatto emergere una super-potenza capace di sostituirsi alla Gran Bretagna. Così i conflitti sono riesplosi. Insomma la seconda guerra mondiale si configura come una ripresa della prima, tanto che alcuni parlano di “guerra dei trent’anni”.


Amnesia e insulto

Basta, pietà, non se ne può più, ci vogliono prendere per sfinimento. Mentre quel buontempone di Letta Nipote si trastulla con la fine del ventennio, già si lavora per aprirne un altro. Il massimo rappresentante di una classe politica incapace e cialtrona che da vent’anni non fa altro che inventare reati inutili e riempire vieppiù le carceri per gabbare la gente, vellicarne i più bestiali istinti e nascondere la propria inettitudine, cade dal pero e viene a raccontarci (a noi!) che bisogna liberare un’altra volta decine di migliaia di criminali, come già nel 2006, perché non c’è più tempo da perdere e l’Europa sta per condannarci per il nostro sistema carcerario da terzo mondo.
Se ce lo chiedesse un marziano, potremmo pure ascoltarlo. Ma ce lo chiede Napolitano, un signore che entrò in Parlamento nel 1953, è stato presidente della Camera fra il 1992 e il ’94, poi ministro dell’Interno dal 1996 al ’98, e da sette anni e passa è nientemeno che il presidente della Repubblica che ha firmato senza batter ciglio una miriade di leggi affolla-carceri. E ora viene a spiegarci (a noi!) che le prigioni sono strapiene e bisogna spalancarne le porte con una bella legge libera-tutti (o quasi).
Indulto e, già che ci siamo, pure amnistia. Per entrambi i provvedimenti occorrono i due terzi del Parlamento, dunque già sappiamo come andrà a finire. Dando per scontato che, salvo improvvisi istinti suicidi, 5Stelle e Lega voteranno contro, in Parlamento occorreranno i voti di Pd-Pdl-Scelta civica (che superano di poco il 66%). E il Pdl farà pagare la propria indispensabilità cara e salata con l’ennesimo ricatto, quando si dovranno decidere il tetto massimo di pena per i reati da amnistiare e la lista dei delitti da indultare (come già nel 2006 per il “liberi tutti” di Mastella & C.). O vi rientreranno i reati di Berlusconi, oppure non ci sarà la maggioranza e il supermonito di Napolitano cadrà nel vuoto. Risultato: nella migliore delle ipotesi, i processi in corso di B. saranno falcidiati dall’ennesimo sconto di 3 anni di pena (come già accaduto per 3 anni su 4 nel processo Mediaset); e, nella peggiore, non si celebreranno proprio per l’amnistia (che estingue direttamente il reato).
Ma metta anche in funzione le tante carceri e i tanti reparti ora inutilizzati (vedi dossier presentato dai 5Stelle); riapra Pianosa e Asinara scriteriatamente chiuse nel ’97 come da “papello”; e magari adatti a centri di reclusione provvisoria qualcuna delle tante caserme rimaste vuote dopo la fine della leva obbligatoria per ospitarvi i detenuti meno pericolosi, in attesa di costruire strutture più moderne. Se poi tutto questo non basterà, si adotti un indulto di un anno al massimo per tutti i condannati, senza eccezioni (salvo magari i mafiosi). Ma l’amnistia per i reati bagatellari non serve a nulla (i detenuti per reati bagatellari sono pochissimi), se non ad aprire una porta per farvi entrare di tutto.
E l’indulto di tre anni è uno sproposito criminale e criminogeno: sia perché rimetterebbe in libertà migliaia di pericolosi criminali pronti a tornare a delinquere, per indole o per necessità (se non trovano lavoro i neolaureati, figuriamoci gli ex detenuti); sia perché l’Italia darebbe vieppiù di sé l’immagine del paradiso dei delinquenti, attirando altre migliaia di immigrati clandestini: non quelli che fuggono dalla fame e dalle guerre, ma quelli che cercano il posto migliore dove farla franca. E lo trovano regolarmente in Italia. Basta, signori. Basta. Piantatela di scaricare sulla gente onesta gli effetti della vostra incapacità e illegalità. Perché prima o poi, nel loro piccolo, anche gli onesti s’incazzano.
Ma non c’è solo B. Alzando lo sguardo sulle vicende giudiziarie degli ultimi anni, la lista degli imputati eccellenti è un mezzo elenco telefonico: banchieri, imprenditori, manager, politici nazionali e locali che hanno grassato e depredato l’Italia la farebbero franca senza mai vedere una cella neppure in cartolina, con la scusa dei poveri detenuti che affollano le carceri.
Il tutto è reso ancor più odioso dal ricatto morale del solenne messaggio alle Camere di un Presidente che pare abbia vissuto su Marte fino a ieri mattina, e scopre all’improvviso l’urgenza del colpo di spugna per evitare una sanzione europea tanto sacrosanta quanto prevedibile e prevista.
Poi, alle prime critiche, insulta i 5Stelle, cioè gli unici parlamentari che, mentre la classe politica creava ad arte l’emergenza carceri per preparare l’ennesimo colpo di spugna, non c’erano. No, non sono l’indulto di tre anni e l’amnistia la sola ricetta possibile per evitare la dispendiosa condanna europea: anche perché, senza incidere sulle cause che producono tanti detenuti, fra sei mesi saremmo punto e daccapo. La soluzione è un decreto (i motivi di eccezionalità e urgenza ci sono tutti) del governo che depenalizzi i reati inutili; cancelli la ex-Cirielli che tiene dentro i recidivi per periodi spropositati, rispedisca in patria i detenuti clandestini (come previsto da una delle poche norme sagge della Bossi-Fini); faccia tabula rasa della Fini-Giovanardi sul reato di possesso di droghe anche in minima quantità; e smantelli i “pacchetti sicurezza” di Maroni & C. (l’ultimo, come sempre firmato da Napolitano nel 2009, istituiva il tragicomico reato di immigrazione clandestina).
Il Fatto Quotidiano, 9 Ottobre 2013

Fmi top secret: Lausterity? Solo per salvare le banche

    
Fmi top secret: Lausterity? Solo per salvare le banche

il manifesto -

A tre anni e mezzo di distanza, comincia a emergere quella verità che in molti, inascoltati, avevano denunciato all’epoca. Il salvataggio della Grecia è servito a garantire le banche francesi e tedesche, a discapito dei cittadini. La scontata verità emerge dai verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui il Fondo Monetario Internazionale diede il via libera al primo piano di aiuti per il paese. I documenti, classificati come riservatissimi e segreti, e pubblicati dal Wall Street Journal, evidenziano come più di quaranta paesi, tutti non europei e pari al 40% del board, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici Fmi. Il piano era infatti considerato «troppo ottimistico» e «al limite del panglossiano» da Paesi come Canada, Russia e Australia. Il rappresentante del Brasile lo disse con chiarezza: si tratta di un piano «ad altissimo rischio», perché «concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del Vecchio continente e non la Grecia».
I critici sostenevano che le previsioni del Fmi erano sovrastimate e che Atene avrebbe pagato un costo salatissimo in termini di recessione e disoccupazione. Quello che è puntualmente accaduto: l’economia ellenica è andata giù del 25% e il 27% dei cittadini del paese è senza lavoro (il 57% i giovani tra i 15 e i 24 anni). Al momento del voto, però, i contrari all’austerity hanno dovuto cedere: Stati Uniti ed Europa non hanno voluto sentire ragioni e dato il via libera all’operazione.
Così la Grecia è sprofondata sempre più e le banche si sono salvate: all’epoca della riunione del Fondo a Washington le banche francesi avevano in tasca 78,8 miliardi di titoli di stato ellenici e quelle tedesche 45 (le italiane 6,8). Pochi mesi dopo l’esposizione era ridotta di un quarto. E quando il debito è stato declassato, costringendo i creditori privati ad accettare uno sconto del 70% sulla loro esposizione per evitare il default della Grecia, la quota in possesso delle banche era stata tagliata ancora di più.
Quello venuto fuori non è la prima conferma delle politiche del Fondo monetario. Pochi mesi fa un paper dello stesso organismo aveva ammesso che la pianificazione degli interventi sul debito ellenico è stata calibrata in modo tale da dare tempo al resto d’Europa di prendere le contromisure necessarie per non trasformare un default di Atene in un disastro per l’intera area euro. Un concetto ribadito nei giorni scorsi da Christine Lagarde, numero uno del Fmi, in un’intervista alla Cnn in cui ha ribadito che «sarebbe stato meglio ristrutturare il debito privato prima del marzo 2012, ma il rischio era di mettere ko tutta l’Europa». A emergere è invece lo scontro politico che c’è stato all’interno del Fondo, e come i critici mettessero in luce i reali obiettivi dell’austerity.
Intanto, ieri c’è stato l’ennesimo sciopero ad Atene, questa volta dei portuali. Mentre il ministero della Pubblica Istruzione ha chiesto l’intervento della magistratura contro i responsabili dei servizi amministrativi delle otto università in agitazione (ad Atene, Salonicco, Patrasso, Tessaglia, Ioannina e Creta) che devono consegnare alle autorità le liste con i nomi dei 1.349 dipendenti da mettere in mobilità. Gli atenei hanno chiuso per protesta, sostenendo che con un taglio così massiccio di personale non potranno funzionare.

mercoledì 9 ottobre 2013

Landini: «Questa manifestazione non è che l'inizio»

Fonte: Il Manifesto                    
Sala gremita nel convento di San Domenico Maggiore, come non si vedeva da tempo. Maurizio Landini entra mentre gli attori Renato Carpentieri e Tore Salomone hanno appena finito di leggere gli articoli della Costituzione, accolto da applausi. Quando prende la parola ricorda immediatamente la tragedia di Lampedusa e lo fa a modo suo: «I soldi possono circolare come vogliono - dice - gli Stati hanno fatto leggi perché il capitale possa valicare qualsiasi frontiera senza passaporto, al contrario hanno creato un mondo in cui le persone sono clandestine. Così nel nostro paese succede che coloro i quali si sono salvati, avendo la fortuna di non morire, siccome non hanno un lavoro sono illegali e devono essere arrestati». Si fa silenzio, senza retorica. Questo è il popolo che si è sempre battuto per un mondo di eguali, da qualsiasi Stato provenissero.
E' infatti una delle ultime assemblee prima della manifestazione di sabato prossimo per la difesa della Costituzione. «Quando Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky mi hanno chiamato - continua Landini - mi sono sentito onorato. Poi mi sono detto 'hei vola basso, non è Maurizio che hanno chiamato ma il segretario della Fiom' per quello che hanno rappresentato i metalmeccanici in questo paese».
Landini fa un discorso chiaro e parla per più di mezz'ora, ci tiene a sottolineare che il 12 bisogna esserci tutti, è importante che la manifestazione riesca altrimenti non ci sarà un dopo di cui parlare, e invita al passaparola. Ribadisce ancora una volta che non è sua intenzione fondare un partito «ce ne sono già troppi», l'ambizione e ben più alta, «ridare un senso alla politica che deve rispondere al peggioramento delle condizioni di vita delle persone e al deterioramento della democrazia». Per questo i luoghi di confronto tornano a essere importanti, come aveva in precedenza sottolineato Elena Coccia, vicepresidente del consiglio comunale.
Landini sollecita il ritorno al confronto, il rovesciamento del sistema, ma non per essere conservatori: «Secondo la nostra Costituzione la Repubblica è fondata sul lavoro - dice -. Dunque, la politica dovrebbe essere condizionata dal lavoro, invece succede il contrario: l'economia condiziona la politica e questa a sua volta il lavoro. Mentre i mercati determinano le economie nel mondo». Ne ha per i Riva dell'Ilva, Landini, «che il migliore è agli arresti domiciliari», mentre l'acciaio deve continuare a essere prodotto «basterebbe non insegnare agli ingegneri come tagliare 10 minuti di pausa agli operai, ma a produrre macchine che non inquinano». E ancora, contro la competizione selvaggia, le discriminazioni sul lavoro. Poi chiude tra gli applausi: «Questa manifestazione non è la fine di un processo, è l'inizio. La democrazia è a rischio e la difendi se le persone hanno la possibilità di contare».
Prima del segretario ci sono stati fiumi d'interventi. Impossibile riportarli tutti, ma danno il polso di quante anime si ritroveranno in piazza a Roma per fare la differenza. Tra questi sicuramente gli operai della Fiat di Pomigliano D'Arco perché, spiega Antonio Di Luca, Rsa Fiom, da solo due settimane rientrato a diritto come sindacalista in fabbrica, «siamo davanti all'attacco finale di un sistema liberista e liberticida che vuole mettere mano all'articolo 138. Voglio ricordare che noi siamo ritornati nello stabilimento grazie alla Corte Costituzionale. Un diritto che c'era stato negato e di cui ci siamo riappropriati anche se ci trattano come nemici perché hanno paura, perché vogliamo che tornino in fabbrica gli altri 3mila lavoratori».
Arriverà nella capitale l'associazione Libera: «Per rivendicare il diritto alla disobbedienza» come dice Paolo D'Amore. E padre Giacinto Cataldo, francescano: «Ognuno di noi è portatore di una parte di giustizia e se ci manca siamo più poveri». E ci saranno gli universitari napoletani che qui in Campania non hanno la copertura per le borse di studio e come urla emozionata la giovanissima Rita Cantalino, «non ce ne facciamo niente della promessa che non toccheranno la Costituzione se poi non viene attuata». Da Napoli i bus partiranno alle 9.30 dall'Hotel Ramada, sono tutti invitati.

martedì 8 ottobre 2013

Danni di guerra

Fonte: liberazione.it
 La Grecia presenta il conto alla Merkel
Scopo della richiesta è soprattutto quello di addolcire la pesante austerity imposta dalla troika
Secondo il New York Times c'è un documento di 80 pagine in cui il governo di Atene elenca i danni subiti dalle città e delle infrastrutture greche per opera delle truppe di occupazione della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale per un ammontare di circa 220 miliardi dollari. In effetti l'importo dei danni che ammonta a quasi la metà del debito statale, fa tornare la voglia dei greci di chiedere il risarcimento al governo di Berlino. La richiesta era stata già avanzata, seppur non ufficialmente, durante la visita che il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, effettuò la scorsa primavera in Grecia. Una richiesta che, però, Schaeuble, rigettò senza appello ricordando che la questione era stata chiusa in base a degli accordi precedentemente firmati da entrambi i governi. La richiesta troverebbe motivo come rivalsa per le dure politiche di austerità che Berlino avrebbe imposto, insieme alla troika, in cambio degli aiuti, pari a 240 miliardi di euro. In realtà Atene fu costretta a rinunciare alle sue pretese da americani e britannici che nel 1945 non volevano ripetere gli errori del Trattato di Versailles, a seguito della prima guerra mondiale, e come aveva suggerito inutilmente l'economista britannico John Maynard Keynes di non pesare troppo con i pagamenti per danni di guerra sulla ripresa tedesca. Cosa che in effetti avvenne solo nel 1945 dando il via al miracolo economico tedesco del secondo dopoguerra. Ma Atene dovette rinunciare alle sue pretese di vedersi ripagare i danni di guerra nell'entità voluta. Insomma per tutti questi motivi i danni di guerra provocati dalla Germania nazista sono una ferita ancora aperta in Grecia e non solo per le numerose stragi perpetrate dai soldati del Terzo Reich come rappresaglie sulla popolazione civile ma per l'intervento di Washington e Londra che avevano messo a tacere le pretese elleniche. Alcuni membri del Consiglio nazionale ellenico sui risarcimenti, un gruppo di pressione sul tema, chiedono più di 677 miliardi dollari per ripagare anche i numerosi manufatti antichi rubati, i danni per l'economia e per le infrastrutture, nonché il finanziamento bancario forzoso e i singoli reclami di danni di privati cittadini.
Anche l'importo relativo al prestito bancario forzoso è un tema molto dibattuto e controverso in quanto imposto, in dracme, in un momento di forte inflazione oltre 70 anni fa. Tradurre questo prestito in moneta attuale è una operazione molto complessa e la questione di quanto dovrebbe essere valutato l'interesse da applicare è oggetto di aspro dibattito tra gli esperti. Una stima prudente elaborata da un ex ministro delle finanze greco, ha considerato il valore del prestito forzoso a soli 24 miliardi di dollari, importo fortemente contestato da altri economisti.
Altri analisti, invece, ritengono che le cifre uscite sul rimborso dei danni di guerra tedeschi - in particolare quelle sul prestito forzoso – potrebbero diventare un importante merce di scambio nei mesi a venire, quando la Grecia e i suoi creditori dovranno discutere i modi per ridurre l'enorme peso del suo debito.
Pochi ad Atene credono che la diffusione del rapporto governativo sia stato un incidente di percorso visto che i dettagli del rapporto sono stati fatti trapelare dal giornale greco Real News il 22 settembre scorso, il giorno che i tedeschi sono andati alle urne eleggendo cancelliere, per la terza volta, Angela Merkel.

lunedì 7 ottobre 2013

12 ottobre.

    
12 ottobre. Dacci oggi la nostra Costituzione quotidiana

Dacci oggi la nostra Costituzione quotidiana

di Vittorio Agnoletto -
“Noi possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo averle entrambe”, così scriveva Louis Breandeis, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939.
Una grande e semplice verità, facilmente comprensibile da ciascuno, che restituisce concretezza alla parola Democrazia, sottraendola a dibattiti spesso astratti e sottomessi alle esigenze contingenti di una specifica fase politica. E la Costituzione è la pietra fondante della nostra convivenza democratica.
L’iniziativa del 12 ottobre e il percorso individuato sono quindi utili e necessari, ma dobbiamo fare molta attenzione a non essere vissuti come “elitari”; dobbiamo evitare che i milioni di persone che ogni giorno lottano per la sopravvivenza, per arrivare a fine mese, per pagare l’affitto, le bollette e il mutuo si sentano estranei a questa battaglia, la vivano come qualcosa di completamente avulsa dalla propria drammatica quotidianità.
Dobbiamo rendere esplicito il collegamento tra la difesa della Carta Costituzionale e il diritto al lavoro, all’assistenza sanitaria e all’istruzione, diritti garantiti dalla Costituzione. Dobbiamo in tutti i modi avere la capacità di rendere comprensibile a chiunque che la lotta per una giustizia sociale fondata sulla redistribuzione delle ricchezze rappresenta la miglior modalità per applicare la Costituzione che, non a caso, ha come riferimenti il diritto al lavoro, alle cure e allo studio.
La nostra campagna in difesa della Carta Costituzionale deve certamente rivolgersi a tutti, ma con la capacità di individuare riferimenti precisi nelle classi subalterne; in poche parole dobbiamo far vivere, alle persone alle quali ci rivolgiamo, la materialità della Costituzione.
Una Costituzione, la nostra, già più volte calpestata: sospesa a Genova in quel drammatico luglio 2001, ignorata dieci anni dopo, quando 27 milioni di persone votarono in difesa dell’acqua pubblica e stracciata le tante volte che la nostra bandiera ha sventolato su carri armati e cacciabombardieri.
Il ripudio della guerra è un elemento cardine e oggi più che mai attuale della nostra Carta Costituzionale; sbaglieremmo a ritenere che sia ormai archiviato il rischio di un ulteriore ampliamento del conflitto in Siria e a non considerare come la guerra sia prepotentemente tornata ad essere per molti governanti la continuazione delle politica con altri mezzi. La nostra campagna deve coinvolgere tutto il mondo pacifista e anche i tanti, singoli e associazioni che si sono mobilitati raccogliendo l’appello del Papa.
Sono tempi difficili, non raramente abbiamo l’impressione che rischi di prevalere una depressione collettiva; i nostri avversari ci descrivono come dei conservatori, isolati, con gli occhi rivolti al passato. Non perdiamoci d’animo, torniamo con la mente alle parole di Bertolt Brecht nella famosa poesia “A chi esita” “Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua.” La posta in gioco è grande.
L’appello lanciato da Rodotà, Landini, don Ciotti, Zagrebelsky e Carlassare s’intreccia con la consapevolezza di molti: lo scardinamento dell’art.138 ha l’obiettivo di consegnare il testo costituzionale alle decisioni delle temporanee maggioranze parlamentari.
Sullo sfondo il timore, non certo infondato, che il governo Letta punti a trasformare l’attuale assetto istituzionale in senso presidenzialista o comunque attraverso un rafforzamento ulteriore dell’esecutivo (le formule utilizzate sono infinite: cancellierato forte, repubblica semipresidenziale ecc.) destinato inevitabilmente ad allontanare ancor più la popolazione dalla partecipazione e ad esasperare la delega e la personalizzazione della politica che in Italia ha già prodotto immensi danni.
Senza pensare a quali rischi esporremmo noi stessi e le future generazioni in un paese che non è riuscito in vent’anni nemmeno ad approvare una legge sul conflitto d’interesse, pietra d’angolo per evitare una pericolosa concentrazione di potere.

Il gasdotto TAP

... ovvero fuga di capitali e danni ambientali?

    
Il tracciato del TAP. Immagine di Genti77, licenza CC-BY-SA-3.0, Wikimedia Commons
[di Elena Gerebizza]
Nel corso della seduta 111 del Senato della Repubblica, tenutasi il 25 settembre scorso, si è discussa la ratifica dell’accordo internazionale tra Italia, Grecia e Albania per la costruzione del gasdotto Trans Adriatico, meglio noto con l’acronimo TAP (Trans Adriatic Pipeline).
Una grande opera dalla dubbia utilità, contro cui si stanno opponendo il comitato No tap e diverse amministrazioni comunali, a partire dal Comune di Melendugno, nel cui territorio dovrebbe arrivare il gasdotto. Una pipeline lunga centinaia di chilometri, che dovrebbe portare in Europa gas naturale proveniente dalla regione del Caspio, a partire da quello del nuovo giacimento offshore di Shah Deniz al largo della costa azera. Punto di arrivo, dopo avere attraversato Grecia e Albania, dovrebbe essere pr l’appunto la costa pugliese. Più a oriente, il gasdotto TANAP (anch’esso in fase di progettazione) dovrebbe attraversare tutta la Turchia, fino a collegarsi al funzionante gasdotto BTC per raggiungere Baku, sul mar Caspio.
Il TAP è quindi solo una parte del nuovo “corridoio sud del gas” che la Commissione europea definisce “di priorità comunitaria” per la costruzione del mercato del gas europeo (vedi la pubblicazione “In Gas We Trust“).
Tra le questioni su cui il governo italiano si auspica riferirà nelle prossime settimane, vi è quella della personalità giuridica della società costituita per la costruzione del progetto, la Trans Adriatic Pipeline GA, registrata a Baar, nel cantone di Zugo in Svizzera. Fino a questo momento è imbarazzante l’incapacità del nostro esecutivo di fornire delucidazioni in merito a chi siano i titolari di questa società intestata a “persone anonime”, al punto da sollevare dubbi sull’autenticità della forma giuridica della TAP.
A nostro avviso è gravissimo che un progetto definito “strategico” per l’Italia e per l’Europa – che si candida a ricevere l’importante sostegno economico che la Commissione assieme alla Banca europea degli investimenti riserva appunto ai progetti prioritari – venga costruito e gestito da una società registrata in un noto paradiso fiscale, o ancora meglio a Zug, il cantone con la legislazione più blanda in tutta la Svizzera e dove le aziende possono registrarsi senza dichiarare praticamente nulla dei rispettivi “proprietari”.
Fatta la visura della TAP GA alla Camera di commercio svizzera – a questo sito
• abbiamo constatato che in effetti la TAP è stata registrata dichiarando il minimo dovuto, ovvero solo i nomi dell’amministratore delegato e del consiglio di amministrazione della TAP- che non si sa quali proprietari veri rappresentano – il capitale sociale, e nient’altro.
C’è il sospetto che con questo accordo il governo si prepari di fatto a facilitare una fuga di capitali dall’Italia nell’ordine di milioni di euro al giorno, permettendo a note multinazionali del petrolio di far transitare dal nostro paese non solo milioni di metri cubi di gas, che non sono destinati al consumo nostrano, ma al “mercato europeo”, ma anche milioni di euro in profitti che non verranno spesi in Italia, e che in Italia non verranno nemmeno tassati!
Ciò risulta alquanto singolare, visto che lo stesso governo in queste settimane si sta giustamente battendo in sede europea nell’ambito del negoziato sulla revisione della direttiva sull’anti-riciclaggio per ottenere registri delle imprese che riportino la verità sui proprietari ultime di queste in tutti i paesi Ue, così come avviene da tempo qui da noi. Peccato però che per le opere strategiche poi si tollera che le società si registrino in Svizzera in grande segretezza.
Un progetto inutile e dannoso, che dietro di se rischia di lasciare danni ambientali e sociali dai territori in cui il gas verrà estratto fino all’ultimo centimetro di terra espropriata per costruire il gasdotto e gli impianti collegati. A quale costo? A vantaggio di chi dovrebbe essere costruito il TAP? Domande su cui il Parlamento dovrebbe facilitare una discussione più ampia, che coinvolga tutte le parti coinvolte, che permetta una valutazione reale dei costi e dei presunti benefici che il nostro paese dovrebbe trarre da un progetto che per ora sembra disegnato per servire gli interessi di attori privati e dei mercati finanziari, scaricando i costi sui cittadini italiani.

La crisi perpetua come strumento di potere

Conversazione con Giorgio Agamben - sinistrainrete -

Intervista uscita in tedesco il 24 maggio 2013 sul Frankfurter Allgemeine Zeitung e poi pubblicata in inglese dalla casa editrice Verso il 4 giugno 2013. La traduzione è di Nicola Perugini
Professor Agamben, quando lo scorso marzo ha proposto l’idea di un “impero latino” contro il dominio tedesco in Europa, s’immaginava che questa idea avrebbe avuto una tale risonanza? Nel frattempo il suo saggio è stato tradotto in molte lingue e discusso appassionatamente in mezzo continente…
Giorgio Agamben: No, non me lo aspettavo. Ma credo nella forza delle parole, quando sono pronunciate al momento giusto.

La frattura dentro l’Unione Europea è davvero una frattura tra economie e modi di vita “germanico” del nord e “latino” del sud?

G.A.: Vorrei chiarire il fatto che la mia tesi è stata esagerata dai giornalisti e quindi fraintesa. Il titolo del mio articolo, “L’impero latino al contrattacco!”[1], è stato scelto dalla redazione di Libération ed è stato ripreso dai media tedeschi. Non ho mai utilizzato quella frase. Come potrei contrapporre la cultura latina a quella tedesca, quando qualsiasi europeo dotato d’intelligenza sa che la cultura italiana del Rinascimento o della Grecia classica sono oggi parte integrante della cultura tedesca, la quale le ha riformulate e se n’è appropriata!

Dunque non è una questione di “impero latino” dominante o di tedeschi ignoranti?

G.A.: L’identità di ogni cultura europea è un’identità di frontiera.
Un tedesco come Winckelmann o Hölderlin potrebbe essere più greco dei greci. E un fiorentino come Dante potrebbe sentirsi tedesco quanto l’imperatore Federico II di Svevia. Questo è ciò che caratterizza l’Europa: una particolarità che non smette di oltrepassare le frontiere nazionali e culturali. L’oggetto della mia critica non era la Germania, ma il modo in cui l’Unione Europea è stata costruita, vale a dire su base esclusivamente economica. Dunque, in questo processo di costruzione sono state ignorate sia le nostre radici culturali e spirituali, sia quelle politiche e giuridiche. Se ciò è stato interpretato come una critica alla Germania, è perché la Germania, a causa della sua posizione dominante e nonostante la sua eccezionale tradizione filosofica, oggi sembra incapace di concepire un’Europa fondata su qualcosa di diverso dall’euro e dall’economia.

In che senso l’Unione Europea ha negato le sue radici politiche e giuridiche?

G.A.: Quando parliamo di Europa oggi, ci troviamo di fronte all’enorme repressione di una verità tanto dolorosa quanto ovvia: la cosiddetta costituzione europea è illegittima. Il testo varato con questo nome non è mai stato votato dai popoli europei. Quando è stato messo ai voti, ad esempio in Francia e Olanda nel 2005, è stato rifiutato con forza. Quindi, dal punto di vista legale, ciò che abbiamo non è una costituzione, bensì un trattato concordato tra governi: diritto internazionale, non diritto costituzionale. Recentemente un esperto tedesco di diritto molto rispettato come Dieter Grimm ci ha ricordato che la costituzione europea manca di un elemento democratico fondamentale, poiché ai cittadini europei non è stata concessa possibilità di esprimersi in merito. E ora l’intero progetto di ratifica popolare è stato congelato.

È proprio questo il famoso “deficit democratico” del sistema europeo…

G.A.: Non dovremmo perdere di vista questo elemento. I giornalisti, soprattutto in Germania, mi hanno accusato di non capire nulla di democrazia, ma farebbero bene a prendere in considerazione il fatto che l’Unione Europea è innanzitutto una comunità fondata su trattati tra stati camuffati con una costituzione democratica. L’idea di Europa come potere costituente è uno spettro che nessuno si azzarda più a evocare. Tuttavia è solo con una costituzione valida che le istituzioni europee potrebbero riacquisire legittimità.

Questo significa che lei vede nell’Unione Europea un’entità illegale?

G.A.: Non illegale ma illegittima. La legalità è una questione di regole con cui si esercita il potere; la legittimità è il principio che sta alla base di queste regole. I trattati legali non sono mere formalità poiché riflettono una realtà sociale. Per cui è chiaro che un’istituzione senza una costituzione non può seguire politiche sincere, e che ogni stato europeo continua ad agire secondo interessi egoistici – e oggi ciò significa chiaramente interessi economici. Il minimo comun denominatore di questa comunità si manifesta in maniera chiara quando l’Europa agisce come un vassallo degli Stati Uniti e prende parte a guerre che non sono fondate su alcun interesse comune, né sulla volontà dei popoli. Alcuni stati fondatori dell’Unione Europea –come l’Italia, con le sue molte basi americane– assomigliano più a dei protettorati che a degli stati sovrani. Nelle questioni politiche e militari c’è un Alleanza Atlantica, ma certamente non un’Europa.

Dunque lei all’Unione Europea preferirebbe un imperium latino, al cui stile di vita i “germanici” dovrebbero adattarsi…

G.A.: No, forse ho ripreso il progetto di “imperium latino” di Alexandre Kojève in maniera provocatoria. Nel Medio Evo quanto meno le persone sapevano che l’unione di società politiche diverse doveva significare qualcosa di più che una società esclusivamente politica. A quel tempo, il legame andava cercato nella cristianità. Oggi credo che questa legittimazione vada cercata nella storia dell’Europa e nelle sue tradizioni culturali. A differenza degli asiatici e degli americani, per cui la storia significa qualcosa di completamente diverso da come noi la intendiamo, gli europei incontrano sempre la verità nel dialogo con il proprio passato. Per noi il passato non significa solo un’eredità o una tradizione culturale, ma una condizione antropologica di fondo. Se ignorassimo la nostra storia potremmo solo penetrare nel nostro passato in maniera archeologica. Il passato diventerebbe per noi una forma di vita distinta. L’Europa ha una relazione speciale con le sue città, i suoi tesori artistici, i suoi paesaggi. In questo consiste l’Europa. E in questo risiede la sua sopravvivenza.

Quindi l’Europa è innanzitutto una forma di vita, una sensazione storica di vita?

G.A.: Sì, ed è per questo che nel mio articolo ho insistito sul fatto che dobbiamo preservare le nostre peculiari forme di vita. Quando gli Alleati hanno bombardato le città tedesche, sapevano che avrebbero potuto distruggere l’identità tedesca. Allo stesso modo, gli speculatori stanno distruggendo il paesaggio italiano con il cemento, le autostrade e le superstrade. Questo non significa solo derubarci di ciò che possediamo, ma anche della nostra identità storica.

Allora l’Unione Europea dovrebbe valorizzare le differenze al posto dell’armonizzazione?

G.A.: Forse non esiste un altro posto al mondo in cui è percepibile una tale varietà di culture e di forme di vita come in Europa. A mio avviso, in passato la politica si esprimeva nell’idea di impero romano, poi di impero romano-germanico. L’insieme ha sempre lasciato intatte le particolarità dei popoli. Non è facile prevedere cosa possa emergere oggi al posto di questo modello. Ma sicuramente un’entità politica che prenda il nome di Europa non può che muovere i suoi passi dalla consapevolezza del passato. È per questa ragione che la crisi attuale mi sembra così pericolosa. Dobbiamo immaginare l’unità nella piena consapevolezza delle differenze. Invece negli stati europei le scuole e le università – quelle stesse istituzioni che dovrebbero tramandare la nostra cultura e stimolare il contatto tra passato e presente – vengono demolite ed economicamente indebolite. Questo indebolimento va di pari passo con una crescente museificazione del passato. Un processo che sta prendendo piede in molte città, trasformate in zone storiche in cui gli abitanti sono costretti a sentirsi turisti negli spazi in cui vivono.

Questa museificazione strisciante va di pari passo con un impoverimento strisciante?

G.A.: È ormai chiaro che dobbiamo far fronte a problemi la cui natura non è solamente economica. La questione è l’esistenza dell’Europa nel suo insieme –a partire dalla nostra relazione con il passato. L’unico posto in cui il passato può vivere è il presente. E se il presente non percepisce più il proprio passato come un qualcosa di vivo, le università e i musei diventano problematici. È evidente che in Europa vi sono forze che cercano di manipolare la nostra identità tagliando il cordone ombelicale che ci lega al nostro passato. In questo modo le differenze vengono cancellate. Ma l’Europa può essere il nostro futuro se chiariamo a noi stessi che questo futuro significa prima di tutto il nostro passato. Un passato che si cerca sempre più di liquidare.

Dunque questa crisi è la forma di espressione di un sistema di governo che si applica alle nostre vite quotidiane?

G.A.: Il concetto di “crisi” è ormai divenuto il motto della politica moderna, e da tempo fa parte di tutte le sfere della vita sociale. La parola stessa esprime due radici semantiche: una medica, che si riferisce al percorso di una malattia, e una teologica, che si riferisce al Giudizio Universale. Tuttavia oggi entrambi i significati si sono trasformati, annullando la loro relazione con il tempo. “Crisi” nell’antica medicina significava giudizio, il momento decisivo in cui il dottore si rendeva conto se il paziente sarebbe sopravvissuto o no. Invece l’attuale interpretazione della nozione di crisi si riferisce a uno stato permanente. Dunque questa incertezza si estende al futuro, indefinitamente. La stessa cosa vale per il senso teologico di crisi: il Giudizio Universale non era separabile dalla fine del tempo. Invece oggi il giudizio viene separato dall’idea di fine e posticipato ripetutamente. Così la prospettiva di una decisione è senza fine, un interminabile processo decisionale che non si conclude mai.

Questo significa che la crisi del debito, la crisi della finanza statale, della moneta, dell’Unione Europea, sono crisi senza fine?

G.A.: Oggi la crisi è divenuta uno strumento di governo. Essa serve a legittimare decisioni politiche ed economiche che di fatto privano i cittadini di qualsiasi possibilità di decisione. Questo è estremamente chiaro in Italia, dove si è formato un governo nel nome della crisi e Berlusconi è tornato al potere contro la volontà degli elettori. Questo governo è illegittimo tanto quanto la cosiddetta costituzione europea. I cittadini europei devono rendersi conto che questa crisi senza fine –come qualsiasi stato di emergenza– è incompatibile con la democrazia.

Quali prospettive restano all’Europa?

G.A.: Dobbiamo iniziare con la riscoperta del significato originario della parola “crisi”, intesa come momento di giudizio e scelta. L’Europa non può continuare a posticipare a un futuro indefinito. Molti anni fa il filosofo Alexandre Kojève, un alto rappresentante di ciò che poi sarebbe stata l’Europa nel suo stadio embrionale, ipotizzava che l’homo sapiens era giunto alla fine della sua storia e che erano rimaste solo due possibilità. O l’“American way of life”, che Kojève vedeva come una sorta di vegetazione post-storica. O lo snobismo giapponese, una forma di celebrazione di rituali vuoti di una tradizione privata di qualsiasi significato storico. Penso che l’Europa possa rendersi conto dell’esistenza di un’alternativa, di una cultura che rimanga sia umana sia vitale, poiché in dialogo con la sua propria storia e quindi in grado di acquisire una nuova vita.

L’Europa, intesa come cultura e non solo come spazio economico, potrebbe dunque offrire una risposta alla crisi?

G.A.: Per oltre duecento anni le energie umane europee si sono focalizzate sull’economia. Molti elementi indicano che per l’homo sapiens è giunto il momento di riorganizzare l’azione umana al di là di questa dimensione esclusivamente economica. È qui che l’Europa può offrire il suo contributo al futuro.

Note
[1] Qui una traduzione italiana dell’articolo.

domenica 6 ottobre 2013

Dietro la crisi della democrazia

micromega


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