Conversazione con Giorgio Agamben - sinistrainrete -
Intervista uscita in tedesco il 24 maggio 2013 sul Frankfurter Allgemeine Zeitung e poi pubblicata in inglese dalla casa editrice Verso il 4 giugno 2013. La traduzione è di Nicola Perugini
Professor Agamben, quando lo scorso marzo ha proposto l’idea di un “impero latino” contro il dominio tedesco in Europa, s’immaginava che questa idea avrebbe avuto una tale risonanza? Nel frattempo il suo saggio è stato tradotto in molte lingue e discusso appassionatamente in mezzo continente…Giorgio Agamben: No, non me lo aspettavo. Ma credo nella forza delle parole, quando sono pronunciate al momento giusto.
La frattura dentro l’Unione Europea è davvero una frattura tra economie e modi di vita “germanico” del nord e “latino” del sud?
G.A.: Vorrei chiarire il fatto che la mia tesi è stata esagerata dai giornalisti e quindi fraintesa. Il titolo del mio articolo, “L’impero latino al contrattacco!”[1], è stato scelto dalla redazione di Libération ed è stato ripreso dai media tedeschi. Non ho mai utilizzato quella frase. Come potrei contrapporre la cultura latina a quella tedesca, quando qualsiasi europeo dotato d’intelligenza sa che la cultura italiana del Rinascimento o della Grecia classica sono oggi parte integrante della cultura tedesca, la quale le ha riformulate e se n’è appropriata!
Dunque non è una questione di “impero latino” dominante o di tedeschi ignoranti?
G.A.: L’identità di ogni cultura europea è un’identità di frontiera.
Un tedesco come Winckelmann o Hölderlin potrebbe essere più greco dei greci. E un fiorentino come Dante potrebbe sentirsi tedesco quanto l’imperatore Federico II di Svevia. Questo è ciò che caratterizza l’Europa: una particolarità che non smette di oltrepassare le frontiere nazionali e culturali. L’oggetto della mia critica non era la Germania, ma il modo in cui l’Unione Europea è stata costruita, vale a dire su base esclusivamente economica. Dunque, in questo processo di costruzione sono state ignorate sia le nostre radici culturali e spirituali, sia quelle politiche e giuridiche. Se ciò è stato interpretato come una critica alla Germania, è perché la Germania, a causa della sua posizione dominante e nonostante la sua eccezionale tradizione filosofica, oggi sembra incapace di concepire un’Europa fondata su qualcosa di diverso dall’euro e dall’economia.
In che senso l’Unione Europea ha negato le sue radici politiche e giuridiche?
G.A.: Quando parliamo di Europa oggi, ci troviamo di fronte all’enorme repressione di una verità tanto dolorosa quanto ovvia: la cosiddetta costituzione europea è illegittima. Il testo varato con questo nome non è mai stato votato dai popoli europei. Quando è stato messo ai voti, ad esempio in Francia e Olanda nel 2005, è stato rifiutato con forza. Quindi, dal punto di vista legale, ciò che abbiamo non è una costituzione, bensì un trattato concordato tra governi: diritto internazionale, non diritto costituzionale. Recentemente un esperto tedesco di diritto molto rispettato come Dieter Grimm ci ha ricordato che la costituzione europea manca di un elemento democratico fondamentale, poiché ai cittadini europei non è stata concessa possibilità di esprimersi in merito. E ora l’intero progetto di ratifica popolare è stato congelato.
È proprio questo il famoso “deficit democratico” del sistema europeo…
G.A.: Non dovremmo perdere di vista questo elemento. I giornalisti, soprattutto in Germania, mi hanno accusato di non capire nulla di democrazia, ma farebbero bene a prendere in considerazione il fatto che l’Unione Europea è innanzitutto una comunità fondata su trattati tra stati camuffati con una costituzione democratica. L’idea di Europa come potere costituente è uno spettro che nessuno si azzarda più a evocare. Tuttavia è solo con una costituzione valida che le istituzioni europee potrebbero riacquisire legittimità.
Questo significa che lei vede nell’Unione Europea un’entità illegale?
G.A.: Non illegale ma illegittima. La legalità è una questione di regole con cui si esercita il potere; la legittimità è il principio che sta alla base di queste regole. I trattati legali non sono mere formalità poiché riflettono una realtà sociale. Per cui è chiaro che un’istituzione senza una costituzione non può seguire politiche sincere, e che ogni stato europeo continua ad agire secondo interessi egoistici – e oggi ciò significa chiaramente interessi economici. Il minimo comun denominatore di questa comunità si manifesta in maniera chiara quando l’Europa agisce come un vassallo degli Stati Uniti e prende parte a guerre che non sono fondate su alcun interesse comune, né sulla volontà dei popoli. Alcuni stati fondatori dell’Unione Europea –come l’Italia, con le sue molte basi americane– assomigliano più a dei protettorati che a degli stati sovrani. Nelle questioni politiche e militari c’è un Alleanza Atlantica, ma certamente non un’Europa.
Dunque lei all’Unione Europea preferirebbe un imperium latino, al cui stile di vita i “germanici” dovrebbero adattarsi…
G.A.: No, forse ho ripreso il progetto di “imperium latino” di Alexandre Kojève in maniera provocatoria. Nel Medio Evo quanto meno le persone sapevano che l’unione di società politiche diverse doveva significare qualcosa di più che una società esclusivamente politica. A quel tempo, il legame andava cercato nella cristianità. Oggi credo che questa legittimazione vada cercata nella storia dell’Europa e nelle sue tradizioni culturali. A differenza degli asiatici e degli americani, per cui la storia significa qualcosa di completamente diverso da come noi la intendiamo, gli europei incontrano sempre la verità nel dialogo con il proprio passato. Per noi il passato non significa solo un’eredità o una tradizione culturale, ma una condizione antropologica di fondo. Se ignorassimo la nostra storia potremmo solo penetrare nel nostro passato in maniera archeologica. Il passato diventerebbe per noi una forma di vita distinta. L’Europa ha una relazione speciale con le sue città, i suoi tesori artistici, i suoi paesaggi. In questo consiste l’Europa. E in questo risiede la sua sopravvivenza.
Quindi l’Europa è innanzitutto una forma di vita, una sensazione storica di vita?
G.A.: Sì, ed è per questo che nel mio articolo ho insistito sul fatto che dobbiamo preservare le nostre peculiari forme di vita. Quando gli Alleati hanno bombardato le città tedesche, sapevano che avrebbero potuto distruggere l’identità tedesca. Allo stesso modo, gli speculatori stanno distruggendo il paesaggio italiano con il cemento, le autostrade e le superstrade. Questo non significa solo derubarci di ciò che possediamo, ma anche della nostra identità storica.
Allora l’Unione Europea dovrebbe valorizzare le differenze al posto dell’armonizzazione?
G.A.: Forse non esiste un altro posto al mondo in cui è percepibile una tale varietà di culture e di forme di vita come in Europa. A mio avviso, in passato la politica si esprimeva nell’idea di impero romano, poi di impero romano-germanico. L’insieme ha sempre lasciato intatte le particolarità dei popoli. Non è facile prevedere cosa possa emergere oggi al posto di questo modello. Ma sicuramente un’entità politica che prenda il nome di Europa non può che muovere i suoi passi dalla consapevolezza del passato. È per questa ragione che la crisi attuale mi sembra così pericolosa. Dobbiamo immaginare l’unità nella piena consapevolezza delle differenze. Invece negli stati europei le scuole e le università – quelle stesse istituzioni che dovrebbero tramandare la nostra cultura e stimolare il contatto tra passato e presente – vengono demolite ed economicamente indebolite. Questo indebolimento va di pari passo con una crescente museificazione del passato. Un processo che sta prendendo piede in molte città, trasformate in zone storiche in cui gli abitanti sono costretti a sentirsi turisti negli spazi in cui vivono.
Questa museificazione strisciante va di pari passo con un impoverimento strisciante?
G.A.: È ormai chiaro che dobbiamo far fronte a problemi la cui natura non è solamente economica. La questione è l’esistenza dell’Europa nel suo insieme –a partire dalla nostra relazione con il passato. L’unico posto in cui il passato può vivere è il presente. E se il presente non percepisce più il proprio passato come un qualcosa di vivo, le università e i musei diventano problematici. È evidente che in Europa vi sono forze che cercano di manipolare la nostra identità tagliando il cordone ombelicale che ci lega al nostro passato. In questo modo le differenze vengono cancellate. Ma l’Europa può essere il nostro futuro se chiariamo a noi stessi che questo futuro significa prima di tutto il nostro passato. Un passato che si cerca sempre più di liquidare.
Dunque questa crisi è la forma di espressione di un sistema di governo che si applica alle nostre vite quotidiane?
G.A.: Il concetto di “crisi” è ormai divenuto il motto della politica moderna, e da tempo fa parte di tutte le sfere della vita sociale. La parola stessa esprime due radici semantiche: una medica, che si riferisce al percorso di una malattia, e una teologica, che si riferisce al Giudizio Universale. Tuttavia oggi entrambi i significati si sono trasformati, annullando la loro relazione con il tempo. “Crisi” nell’antica medicina significava giudizio, il momento decisivo in cui il dottore si rendeva conto se il paziente sarebbe sopravvissuto o no. Invece l’attuale interpretazione della nozione di crisi si riferisce a uno stato permanente. Dunque questa incertezza si estende al futuro, indefinitamente. La stessa cosa vale per il senso teologico di crisi: il Giudizio Universale non era separabile dalla fine del tempo. Invece oggi il giudizio viene separato dall’idea di fine e posticipato ripetutamente. Così la prospettiva di una decisione è senza fine, un interminabile processo decisionale che non si conclude mai.
Questo significa che la crisi del debito, la crisi della finanza statale, della moneta, dell’Unione Europea, sono crisi senza fine?
G.A.: Oggi la crisi è divenuta uno strumento di governo. Essa serve a legittimare decisioni politiche ed economiche che di fatto privano i cittadini di qualsiasi possibilità di decisione. Questo è estremamente chiaro in Italia, dove si è formato un governo nel nome della crisi e Berlusconi è tornato al potere contro la volontà degli elettori. Questo governo è illegittimo tanto quanto la cosiddetta costituzione europea. I cittadini europei devono rendersi conto che questa crisi senza fine –come qualsiasi stato di emergenza– è incompatibile con la democrazia.
Quali prospettive restano all’Europa?
G.A.: Dobbiamo iniziare con la riscoperta del significato originario della parola “crisi”, intesa come momento di giudizio e scelta. L’Europa non può continuare a posticipare a un futuro indefinito. Molti anni fa il filosofo Alexandre Kojève, un alto rappresentante di ciò che poi sarebbe stata l’Europa nel suo stadio embrionale, ipotizzava che l’homo sapiens era giunto alla fine della sua storia e che erano rimaste solo due possibilità. O l’“American way of life”, che Kojève vedeva come una sorta di vegetazione post-storica. O lo snobismo giapponese, una forma di celebrazione di rituali vuoti di una tradizione privata di qualsiasi significato storico. Penso che l’Europa possa rendersi conto dell’esistenza di un’alternativa, di una cultura che rimanga sia umana sia vitale, poiché in dialogo con la sua propria storia e quindi in grado di acquisire una nuova vita.
L’Europa, intesa come cultura e non solo come spazio economico, potrebbe dunque offrire una risposta alla crisi?
G.A.: Per oltre duecento anni le energie umane europee si sono focalizzate sull’economia. Molti elementi indicano che per l’homo sapiens è giunto il momento di riorganizzare l’azione umana al di là di questa dimensione esclusivamente economica. È qui che l’Europa può offrire il suo contributo al futuro.
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