Molti paesi in Europa si trovano in una situazione post-politica
Intervista a Chantal Mouffe
25 settembre
Intervista a Chantal Mouffe a cura del Gruppo di lavoro “Europp” (European Politics and Policy) della London School of Economics and Political Science. Pubblicata sul sito Social Europe Journal il 19 settembre 2013. Traduzione dall’inglese di Fabio Vander.
Hai scritto molto in tema di post-politica. Pensi che l’Europa sia in una condizione post-politica?
Di sicuro molti paesi europei sono in una situazione post-politica. Ho sviluppato questa idea di post-politica, riferendomi innanzi tutto alle grandi democrazie rappresentative europee e segnatamente al fatto che lì si è affermato quello io chiamo ‘consensus al centro’, cioè la convergenza fra il centro-destra e il centro-sinistra intorno all’idea che non c’è alternativa alla globalizzazione neo-liberale. A mio modo di vedere democrazia deve invece significare possibilità per i cittadini di fare una scelta consapevole quando vanno a votare, cioè una scelta fra due alternative reali rispetto all’ordine esistente. Oggi questa alternativa non c’è più, perché i partiti di sinistra non offrono più una alternativa seria alla globalizzazione neo-liberale. Ne abbiamo avuto una riprova lampante in Gran Bretagna con Tony Blair e il New Labour, che è andato al potere senza minimamente mettere in discussione le basi dell’agenda stabilita dalla Thatcher, semplicemente limitandosi a gestirla in modo più umano. Lo stesso è avvenuto in altro paesi. Ad esempio in Francia abbiamo oggi un governo socialista, ma Hollande non sta facendo niente di davvero alternativo rispetto a quello che faceva Sarkozy. Lo stesso è accaduto in Spagna con Zapatero. Questo è dunque ciò che chiamo post-politica: il fatto che non c’è vera alternativa; ai cittadini non è offerta una effettiva possibilità di scelta. Non penso che questa sia una buona cosa per la democrazia. Naturalmente c’è anche chi invece pensa che sia un bene tale offuscamento della distinzione fra destra e sinistra, perché così la democrazia sarebbe più matura. Non penso proprio sia così. Non a caso nel mio libro On the [[Political(1) ho cercato di mostrare come lo sviluppo di partiti populisti, di destra come di sinistra, sia una reazione proprio al difetto di alternative a disposizione dei cittadini. I partiti populisti di destra sono oggi in molti paesi gli unici che offrono una alternativa reale. Ovviamente l’alternativa che loro propongono è inaccettabile, non funziona dal punto di vista economico ed esprime troppo spesso forme di xenofobia, ma sono purtuttavia in grado di raccogliere e interpretare le spinte al cambiamento. Perché la politica ha certamente a che fare con gli interessi e con le istanze morali, ma ha anche una dimensione fatta di ‘passione’, del bisogno della gente di identificarsi con un progetto. Ebbene quello che io chiamo post-politica è precisamente una tale mancanza di passione e di identità.
L’Europa deve solo diffidare del populismo, o esso potrebbe anche avere un effetto positivo sulla democrazia?
Cominciamo col dire che la crisi europea è percepita per lo più come ‘crisi del progetto europeo’. Non penso sia così. Penso si tratti piuttosto di crisi della variante liberista del progetto europeo. Il problema è semmai che troppa gente a tal punto identifica l’Unione Europea con il neo-liberismo, che si crede davvero non ci sia possibilità di trasformarla in qualcosa d’altro. Europa e neo-liberismo coincidono per costoro. D’altro canto sono le stesse persone che considerano ogni critica all’attuale progetto europeo come fondamentalmente anti-europea. Sembra non esservi spazio per quanti non sono contro l’Europa, ma semplicemente vogliono un diverso tipo di integrazione europea. Attualmente i partiti populisti di destra non offrono alcuna alternativa, sono interessati solo a dire che non vogliono l’Unione europea. Ma poiché appunto sembra che non si possa ricercare una alternativa senza essere etichettati come ‘anti-europei’, ecco rafforzarsi proprio il consenso al populismo di destra, che vuole soltanto sbarazzarsi dell’integrazione europea. Ora secondo me il termine populismo non ha soltanto un’accezione negativa. Perché, sempre a mio modo di vedere, la democrazia ha di necessità anche una dimensione populista. La democrazia è costruzione di un demos e il populismo -pur lasciando da parte le interpretazioni che insistono sui rischi connessi alla manipolazione delle masse ed ai leaders demagogici- è elemento irrinunciabile della creazione di un popolo. La democrazia struttura la volontà popolare, quella che Gramsci chiamava “collective will” (2) . Certo ci sono poi modi diversi in cui un “popolo” può essere costruito, tanto che ci sono forme diverse di populismo, di destra e di sinistra. Ho elaborato una dottrina secondo la quale l’identità politica è basata sulla contrapposizione di ‘noi’ a ‘loro’. E se si vuole costruire un popolo è necessario stabilire chi siano ‘loro’. Nel caso del populismo di destra sono immancabilmente gli immigrati, gli islamici, gli stranieri. Ma questo non è il solo modo possibile di costruzione di un popolo. Se si pensa infatti al “Front de la Gauche” in Francia, esso è sicuramente un movimento di sinistra, ma accusato a sua volta di populismo. Da un certo punto di vista è giusto, perché essi vogliono opporsi al Fronte Nazionale costruendo un’altra idea di popolo. Un popolo in cui islamici e immigrati non siano degli esclusi, mentre i veri nemici sono le forze della globalizzazione neoliberista. Così se Fronte della Sinistra e Fronte Nazionale sono entrambi movimenti populisti, pure c’è una bella differenza nel tipo di popolo che sono rispettivamente impegnati a costruire. Un altro esempio di populismo di sinistra -e di populismo vincente- è rappresentato da Syriza in Grecia, che arrivò a sfiorare la vittoria alle elezioni del 2012. Assistiamo dunque alla nascita di un nuovo populismo di sinistra in Europa e questo a mio modo di vedere è uno sviluppo estremamente positivo. Rappresenta infatti il modo con cui cominciare a infrangere il consensus intorno al centro e a costruire una reale alternativa alla globalizzazione neo-liberista.
Finora abbiamo discusso di politiche nazionali, ma pensi che gli sviluppi sul piano europeo, ad esempio l’opera della Commissione europea e del Parlamento europeo, possano avere un effetto sul dibattito intorno alla integrazione europea? E comunque un effetto positivo o negativo?
Credo che in ultima istanza abbiamo lo stesso effetto negativo dei partiti centristi sul piano nazionale. Le istituzioni europee non vanno prese in considerazione dell’ambito di un discorso politico serio. L’Unione Europea ha bisogno di essere politicizzata; al momento si tratta solo di ambiti burocratici e non-politici che è bene non pesino nell’ambito di una discussione vera sulla direzione dei processi di integrazione. Tutto ciò ha per altro riflessi sulla scena nazionale, perché i partiti centristi trovano nelle attuali istituzioni europee la scusa per evitare di cambiare le loro politiche. Possono infatti sostenere che fosse per loro promuoverebbero anche politiche diverse, solo che è Brussels che glielo vieta. È appunto una scusa che serve a negare ai cittadini la possibilità di organizzare le cose diversamente. Ma ciò non è affatto necessario. C’è sempre la possibilità di organizzare un dibattito pubblico sulle alternative, di destra o di sinistra, in Europa. Se le elezioni per il Parlamento europeo fossero impostate a partire da chiare linee di destra e di sinistra, con effettive alternative offerte agli elettori, sicuramente aumenterebbe l’interesse dei cittadini per l’Unione europea. Del resto l’Europa dovrebbe essere ciò che i suoi cittadini vogliono che sia.
I governi tecnocratici sono la conclusione necessaria del tipo di Europa post-politica che vai tratteggiando?
Sicuramente io condivido le analisi di studiosi come Colin Crouch che sostengono noi stiamo vivendo in un’era ‘post-democratica’. Le nostre società ancora si definiscono democratiche, ma che significa democrazia nella condizione attuale? Ora il caso più evidente è certamente quello in cui viene completamente scavalcato ogni processo democratico incentrato sul parlamento e sostituito con un governo di tecnocrati. Che senso ha chiamare ancora democratiche questo tipo di società? Indubbiamente si tratta di una tendenza reale, ma di una tendenza che mina nel profondo la democrazia. Ci induce infatti a credere che non ce ne facciamo più niente della democrazia. Anzi ci spinge a credere che le cose andranno meglio se semplicemente rimuoviamo ogni complicazione democratica e implementiamo determinate forme di burocrazia. In casi come questi il nome ‘democrazia’ può anche rimanere, ma non si può seriamente credere che questi paesi siano ancora democratici.
(1) Traduzione italiana: C. Mouffe, Sul Politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori, 2007. Se ne veda la recensione: F. Vander, C. Mouffe, Sul Politico, “Behemoth”, n. 42, 2007. (2) “Volontà collettiva nazionale popolare”, in quanto creazione del “moderno Principe”, è probabilmente la formula gramsciana più adeguata ai termini usati da Mouffe.
Di sicuro molti paesi europei sono in una situazione post-politica. Ho sviluppato questa idea di post-politica, riferendomi innanzi tutto alle grandi democrazie rappresentative europee e segnatamente al fatto che lì si è affermato quello io chiamo ‘consensus al centro’, cioè la convergenza fra il centro-destra e il centro-sinistra intorno all’idea che non c’è alternativa alla globalizzazione neo-liberale. A mio modo di vedere democrazia deve invece significare possibilità per i cittadini di fare una scelta consapevole quando vanno a votare, cioè una scelta fra due alternative reali rispetto all’ordine esistente. Oggi questa alternativa non c’è più, perché i partiti di sinistra non offrono più una alternativa seria alla globalizzazione neo-liberale. Ne abbiamo avuto una riprova lampante in Gran Bretagna con Tony Blair e il New Labour, che è andato al potere senza minimamente mettere in discussione le basi dell’agenda stabilita dalla Thatcher, semplicemente limitandosi a gestirla in modo più umano. Lo stesso è avvenuto in altro paesi. Ad esempio in Francia abbiamo oggi un governo socialista, ma Hollande non sta facendo niente di davvero alternativo rispetto a quello che faceva Sarkozy. Lo stesso è accaduto in Spagna con Zapatero. Questo è dunque ciò che chiamo post-politica: il fatto che non c’è vera alternativa; ai cittadini non è offerta una effettiva possibilità di scelta. Non penso che questa sia una buona cosa per la democrazia. Naturalmente c’è anche chi invece pensa che sia un bene tale offuscamento della distinzione fra destra e sinistra, perché così la democrazia sarebbe più matura. Non penso proprio sia così. Non a caso nel mio libro On the [[Political(1) ho cercato di mostrare come lo sviluppo di partiti populisti, di destra come di sinistra, sia una reazione proprio al difetto di alternative a disposizione dei cittadini. I partiti populisti di destra sono oggi in molti paesi gli unici che offrono una alternativa reale. Ovviamente l’alternativa che loro propongono è inaccettabile, non funziona dal punto di vista economico ed esprime troppo spesso forme di xenofobia, ma sono purtuttavia in grado di raccogliere e interpretare le spinte al cambiamento. Perché la politica ha certamente a che fare con gli interessi e con le istanze morali, ma ha anche una dimensione fatta di ‘passione’, del bisogno della gente di identificarsi con un progetto. Ebbene quello che io chiamo post-politica è precisamente una tale mancanza di passione e di identità.
L’Europa deve solo diffidare del populismo, o esso potrebbe anche avere un effetto positivo sulla democrazia?
Cominciamo col dire che la crisi europea è percepita per lo più come ‘crisi del progetto europeo’. Non penso sia così. Penso si tratti piuttosto di crisi della variante liberista del progetto europeo. Il problema è semmai che troppa gente a tal punto identifica l’Unione Europea con il neo-liberismo, che si crede davvero non ci sia possibilità di trasformarla in qualcosa d’altro. Europa e neo-liberismo coincidono per costoro. D’altro canto sono le stesse persone che considerano ogni critica all’attuale progetto europeo come fondamentalmente anti-europea. Sembra non esservi spazio per quanti non sono contro l’Europa, ma semplicemente vogliono un diverso tipo di integrazione europea. Attualmente i partiti populisti di destra non offrono alcuna alternativa, sono interessati solo a dire che non vogliono l’Unione europea. Ma poiché appunto sembra che non si possa ricercare una alternativa senza essere etichettati come ‘anti-europei’, ecco rafforzarsi proprio il consenso al populismo di destra, che vuole soltanto sbarazzarsi dell’integrazione europea. Ora secondo me il termine populismo non ha soltanto un’accezione negativa. Perché, sempre a mio modo di vedere, la democrazia ha di necessità anche una dimensione populista. La democrazia è costruzione di un demos e il populismo -pur lasciando da parte le interpretazioni che insistono sui rischi connessi alla manipolazione delle masse ed ai leaders demagogici- è elemento irrinunciabile della creazione di un popolo. La democrazia struttura la volontà popolare, quella che Gramsci chiamava “collective will” (2) . Certo ci sono poi modi diversi in cui un “popolo” può essere costruito, tanto che ci sono forme diverse di populismo, di destra e di sinistra. Ho elaborato una dottrina secondo la quale l’identità politica è basata sulla contrapposizione di ‘noi’ a ‘loro’. E se si vuole costruire un popolo è necessario stabilire chi siano ‘loro’. Nel caso del populismo di destra sono immancabilmente gli immigrati, gli islamici, gli stranieri. Ma questo non è il solo modo possibile di costruzione di un popolo. Se si pensa infatti al “Front de la Gauche” in Francia, esso è sicuramente un movimento di sinistra, ma accusato a sua volta di populismo. Da un certo punto di vista è giusto, perché essi vogliono opporsi al Fronte Nazionale costruendo un’altra idea di popolo. Un popolo in cui islamici e immigrati non siano degli esclusi, mentre i veri nemici sono le forze della globalizzazione neoliberista. Così se Fronte della Sinistra e Fronte Nazionale sono entrambi movimenti populisti, pure c’è una bella differenza nel tipo di popolo che sono rispettivamente impegnati a costruire. Un altro esempio di populismo di sinistra -e di populismo vincente- è rappresentato da Syriza in Grecia, che arrivò a sfiorare la vittoria alle elezioni del 2012. Assistiamo dunque alla nascita di un nuovo populismo di sinistra in Europa e questo a mio modo di vedere è uno sviluppo estremamente positivo. Rappresenta infatti il modo con cui cominciare a infrangere il consensus intorno al centro e a costruire una reale alternativa alla globalizzazione neo-liberista.
Finora abbiamo discusso di politiche nazionali, ma pensi che gli sviluppi sul piano europeo, ad esempio l’opera della Commissione europea e del Parlamento europeo, possano avere un effetto sul dibattito intorno alla integrazione europea? E comunque un effetto positivo o negativo?
Credo che in ultima istanza abbiamo lo stesso effetto negativo dei partiti centristi sul piano nazionale. Le istituzioni europee non vanno prese in considerazione dell’ambito di un discorso politico serio. L’Unione Europea ha bisogno di essere politicizzata; al momento si tratta solo di ambiti burocratici e non-politici che è bene non pesino nell’ambito di una discussione vera sulla direzione dei processi di integrazione. Tutto ciò ha per altro riflessi sulla scena nazionale, perché i partiti centristi trovano nelle attuali istituzioni europee la scusa per evitare di cambiare le loro politiche. Possono infatti sostenere che fosse per loro promuoverebbero anche politiche diverse, solo che è Brussels che glielo vieta. È appunto una scusa che serve a negare ai cittadini la possibilità di organizzare le cose diversamente. Ma ciò non è affatto necessario. C’è sempre la possibilità di organizzare un dibattito pubblico sulle alternative, di destra o di sinistra, in Europa. Se le elezioni per il Parlamento europeo fossero impostate a partire da chiare linee di destra e di sinistra, con effettive alternative offerte agli elettori, sicuramente aumenterebbe l’interesse dei cittadini per l’Unione europea. Del resto l’Europa dovrebbe essere ciò che i suoi cittadini vogliono che sia.
I governi tecnocratici sono la conclusione necessaria del tipo di Europa post-politica che vai tratteggiando?
Sicuramente io condivido le analisi di studiosi come Colin Crouch che sostengono noi stiamo vivendo in un’era ‘post-democratica’. Le nostre società ancora si definiscono democratiche, ma che significa democrazia nella condizione attuale? Ora il caso più evidente è certamente quello in cui viene completamente scavalcato ogni processo democratico incentrato sul parlamento e sostituito con un governo di tecnocrati. Che senso ha chiamare ancora democratiche questo tipo di società? Indubbiamente si tratta di una tendenza reale, ma di una tendenza che mina nel profondo la democrazia. Ci induce infatti a credere che non ce ne facciamo più niente della democrazia. Anzi ci spinge a credere che le cose andranno meglio se semplicemente rimuoviamo ogni complicazione democratica e implementiamo determinate forme di burocrazia. In casi come questi il nome ‘democrazia’ può anche rimanere, ma non si può seriamente credere che questi paesi siano ancora democratici.
(1) Traduzione italiana: C. Mouffe, Sul Politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori, 2007. Se ne veda la recensione: F. Vander, C. Mouffe, Sul Politico, “Behemoth”, n. 42, 2007. (2) “Volontà collettiva nazionale popolare”, in quanto creazione del “moderno Principe”, è probabilmente la formula gramsciana più adeguata ai termini usati da Mouffe.
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