di Marco Panara, Affari & Finanza di Repubblica
Telecom, Ilva e Alitalia sono tre pezzi da novanta dell’economia italiana, che ora l’Italia rischia di perdere. Tutte e tre sono creature dello Stato Padrone, che le ha create e coccolate fino a quando, le prime due negli anni ’90 dello scorso secolo e l’ultima nel 2009, non le ha cedute. Quello in corso in queste convulse settimane è solo l’epilogo di una storia lunga, complicata e controversa, dalla quale escono bene in pochi: quella delle privatizzazioni. A guardare bene chi ne esce peggio è l’imprenditoria nazionale, che solo in pochi casi ha saputo cogliere l’opportunità immensa del trasferimento di centinaia di imprese, spesso con impianti all’avanguardia, dalla proprietà pubblica alla mano privata. Da questo immane trasloco non è uscito neppure un nuovo capitano d’industria, uno di quei personaggi che con la loro visione e determinazione sono capaci di segnare un settore e a volte anche un paese. Ci troviamo quelli che avevamo o i loro eredi, e i nomi nuovi, pochissimi, con l’epopea delle privatizzazioni non hanno nulla a che fare.
Tra gli obiettivi fissati per le privatizzazioni nell’autunno del 1992 dal Parlamento, ce n’è uno che fa mestamente sorridere: la creazione di dieci/dodici gruppi industriali caratterizzati da una dimensione che permettesse loro di competere a livello europeo. A quel numero non siamo arrivati, anzi. Nel 1992 lo Stato controllava i quattro quinti del sistema bancario, l’intero sistema ferroviario e aereo, le autostrade, le reti di gas, elettricità e acqua, la telefonia, buona parte dell’industria chimica e siderurgica, e poi assicurazioni, fibre, impiantistica, vetro, meccanica ed elettromeccanica, pubblicità, spettacolo, alimentare, grande distribuzione. Il 16 per cento degli occupati dipendeva da aziende pubbliche. All’inizio era stato un progetto, creare una grande industria siderurgica e chimica e dotare l’Italia di servizi e infrastrutture, poi era diventato un modo per proteggere l’occupazione, infine un sistema di clientele e corruzione.
Privatizzare si è rivelato un affare. Per costruire e finanziare l’industria pubblica nel dopoguerra lo Stato aveva sborsato circa 75 miliardi euro, tra dividendi e privatizzazioni ne ha incassati 65, ma ha ancora in portafoglio un patrimonio mobiliare valutabile in oltre 35 miliardi. Il bilancio quindi risulta attivo per circa 25 miliardi. Questo però è solo il conto dello stato imprenditore, non ci sono nel calcolo i miliardi spesi per i prepensionamenti né quelli per il risanamento di aree inquinate.
Dove le cose hanno funzionato meno bene è stato nel modo di privatizzare e nella scelta degli acquirenti. Chi ha la memoria lunga ricorderà il dibattito feroce tra i sostenitori del nocciolino duro e quelli della public company. Alla fine, nel paese dei salotti e del capitalismo di relazione, vinse il nocciolino duro: ebbene, oggi nessuna delle società privatizzate è una public company e nessuna è controllata da un nocciolino duro stabile (tranne le banche grazie alla fondazioni).
Quanto ai compratori il caso più clamoroso è quello della Cirio- Bertolli-De Rica, che doveva diventare la base per costruire una multinazionale alimentare italiana. Acquistata dalla Fisvi di Cragnotti nel 1994, è fallita nel 2000. Il resto sono luci e ombre, con una lezione che dopo tanti anni, vale per tutti: mai vendere a chi non ha i soldi. Per comprare, e per investire nell’azienda acquistata.
GLI STRANIERI
Non solo le laute commissioni pagate dal Tesoro, che sono andate a rimpinguare le casse delle grandi banche d’affari internazionali (un po’ anche di Mediobanca e Imi), ma anche un bel pezzo delle imprese privatizzate sono finite in mani estere, che peraltro quasi sempre si sono dimostrate le più capaci di far crescere e internazionalizzare le aziende. Il caso di scuola è quello del Nuovo Pignone, acquistato dalla General Electric, che ha fatto crescere l’azienda facendola diventare la capofila del settore Oil & Gas di tutto il gruppo a livello mondiale e ne ha moltiplicato per otto il fatturato. Bene è andata anche alla Siv, Società Italiana Vetri fondata nel ’62 da Enrico Mattei, comprata nel ’93 dalla Pilkingtone dalla Techint (che poi ha ceduto la sua quota agli inglesi) e che ancora oggi fa parte della multinazionale. Alla Acciai Speciali di Terni, acquisita prima in parte e poi totalmente dal gruppo tedesco Thyssen, i problemi sono cominciati nel dicembre del 2007 con il dramma dello stabilimento di Torino nel quale persero la vita sette operai, e il futuro cambia volto quanto Thyssen decide di cedere tutta la sua area degli acciai speciali alla Otokumpu, che si trova così ad avere una posizione dominante in Europa e deve cedere lo stabilimento di Terni, il cui destino è a tutt’oggi sospeso.
GLI ITALIANI
Gli affari migliori, a oltre quindici anni data, li hanno fatti i Benetton, che in tre tornate si aggiudicarono Autostrade, Autogrill e Gs (quest’ultima, che operava nella grande distribuzione, è stata poi ceduta ai francesi di Carrefour). Con Autostrade (ogpeggiato Atlantia) i Benetton hanno virato verso una solida rendita monopolistica, ora l’azienda ha cominciato a internazionalizzarsi e sta allargando la sua area di intervento con la fusione con un’altra privatizzata (arrivata sotto il controllo dei Benetton in seconda battuta), Aeroporti di Roma. Autogrill invece è una delle poche storie di successo internazionale gestita da mani italiane dell’intera epopea. Guidata da Gian Mario Tondato si è scrollata di dosso la sua origine ‘captive’ di gestore di punti ristoro lungo le autostrade nazionali ed è diventata una multinazionale tra i leader globali nel settore della ristorazione in viaggio e dei duty free (ora i due settori stanno prendendo strade separate).
Ha trovato un compratore giusto anche la Dalmine, acquistata dalla Techintdella famiglia Rocca che già allora aveva una proiezione internazionale soprattutto in America Latina, rafforzando la Techint, che ha cambiato il nome in Tenaris ed è leader mondiale nella produzione di tubi per l’industria energetica ed altre applicazioni industriali.
LE NOTE DOLENTI
Oltre alla citata Cirio, vale la pena di ricordare la Seat, acquistata da un gruppo cada De Agostini e Comit, che hanno guadagnato miliardi cedendola alla Olivetti, ed è poi stata oggetto di una serie di leverage buy out. Oggi il titolo in Borsa capitalizza 26 milioni di euro.
Ma le privatizzazioni che hanno segnato la storia economica del paese e ahimè condizioneranno le sue prospettive sono quelle di Telecom, Ilva e Alitalia. Telecomè una saga nella saga, la dimostrazione più lampante della fragilità del capitalismo italiano. La privatizzazione avvenne con la formazione di un nocciolino messo insieme a fatica e con poca volontà di investire che acquistò poco meno del 9 per cento. Dentro c’era tutta la finanza italiana, Fondazioni incluse, con un chip dell’AT&T e la presenza industriale dell’Ifil degli Agnelli. La gestione del nocciolino non fu un successo e nel ’99 viene conquistata con l’opa del secolo da un gruppo capitanato dalla Olivetti guidata allora da Roberto Colaninno. Gestione infelice anche questa e in soccorso arriva un altro gruppo, questa volta guidato da Tronchetti Provera. Anche questa gestione non regge e nasce Telco, i cui azionisti sono Telefonica, Generali, Mediobanca e Intesa. Non reggono neppure loro, ora sulla porta c’è Telefonica. Il filo conduttore di questa storia di fallimenti è solo uno: i soldi. Molti ne hanno presi, nessuno ne ha messi dentro.
All’Ilva la storia è diversa (in parte). I Riva sono un gruppo siderurgico medio, comprando l’Ilva diventano un gigante europeo. Sanno come gestire l’azienda e tirarne fuori dividendi miliardari ma investono poco e restano legati prevalentemente al mercato domestico. Sotto la loro gestione esplode il conflitto impossibile tra salute e lavoro. La soluzione del dilemma è nelle mani della magistratura e l’Italia rigi schia di perdere un settore chiave per la sua industria metalmeccanica.
Quello che accomuna la vicenda Telecom e quella dell’Ilva è un capitalismo opportunista e miope, che mostra i suoi limiti nel gestire la complessità e che, quando ci riesce, diventa predatore.
Infine Alitalia. Qui il fallimento è soprattutto dello Stato, incapace di sciogliere i nodi, da Malpensa in giù. La privatizzazione è figlia di un fallimento, di una compagnia commissariata che brucia soldi ogni minuto che un suo aereo vola. I ‘capitani coraggiosi’ sembrano in realtà più che altro capitani ingenui. Hanno messo denaro in una impresa sperando di recuperarlo da un’altra parte, ma di alcuni si sta occupando la magistratura (da Riva a Ligresti), altri penano a tenere in piedi le loro aziende, altri ancora se mai ci hanno creduto ora non ci credono più. Air France, alleata della prima ora, si è trasformata in un falco, pronta a catturare la preda appena gli ultimi milioni saranno stati bruciati. Probabilmente Alitalia è tra le aziende pubbliche che è costata di più ai contribuenti: la politica ne ha fatto una bandiera, i sindacati, finché hanno potuto, un fortino, l’opinione pubblica ha abboccato all’amo. E ha pagato.
LE PRIVATIZZAZIONI CHE VERRANNO
Ora si vorrebbe aprire un altro ciclo di privatizzazioni, in un momento infelice. Il governo (per quanti giorni ancora?) va a propagandare le opportunità che l’Italia offre e intanto deve trovare il modo di dare un destino che non danneggi il paese a Telecom e Alitalia. La partita è complicatissima, ed è difficile capire e far capire che per queste due aziende il problema non è più soltanto trovare un compratore, ma trovare quello giusto. Che per Telecom non è Telefonica e per Alitalia non è Air France, perché creerebbero (creeranno) un colossale conflitto di interessi con l’azienda acquista e con il paese. Telefonica costringerebbe Telecom a cedere le residue partecipazioni estere confinandosi in Italia e chiudendo ogni prospettiva di rilancio. Air France racchiuderebbe Alitalia ad un ruolo locale e concentrerebbe tutti i voli intercontinentali su Parigi e Amsterdam, con un danno per Alitalia ma anche per il paese. Nessuna delle due ha soldi e voglia di investire nelle imprese che per un piatto di lenticchie si apprestano a conquistare. La strada era segnata sin dall’inizio quando si scelsero questi due alleati, e ora sarà più difficile uscirne.
Fare altre privatizzazioni in questo clima non appare semplice, ma si possono replicare alcuni casi di successo ed evitare errori del passato. Si può cominciare a quotare pezzi di Poste (a cominciare dalla parte assicurativa) e pezzi di Ferrovie: le quotazioni di Eni, Enel, Terna sono state dei successi. Mentre per Ansaldo Trasporti e Ansaldo Energia più che cercare azionisti italiani senza soldi, più che creare improbabili nocciolini duri, meglio cercare acquirenti solidi, per i quali abbia un senso investire in Italia e che abbiano i soldi e l’intenzione di farlo. Il futuro di quelle aziende e di chi ci lavora non sta nell’italianità della proprietà ma negli investimenti e nelle tecnologie. Politica e sindacato conoscono la storia del Nuovo Pignone e quella di Alitalia, le tengano in mente.
(3 ottobre 2013)
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