Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 7 giugno 2013

La Grecia ha pagato per l’euro


7 giugno 2013
To Vima Atene

L’Fmi ha ammesso che i sacrifici di Atene sono serviti soltanto a salvaguardare i creditori e il resto dell’eurozona. Ora i greci devono ribellarsi a questa enorme ingiustizia.
Allora è così: il piano di aiuti era falsato fin dall'inizio. Un piano che ha portato a conseguenze devastanti. Un piano che avrebbe dovuto "salvare" la Grecia, ma che in realtà è servito a salvare l'euro attraverso la condanna morte della Grecia.
Chi lo dice? Uno dei tre membri della troika (Bce, Ue, Fmi), il Fondo monetario internazionale. E la sua critica interessa tanto i suoi partner quanto se stesso e il governo greco. Tutti insieme sono andati verso una catastrofe che non aveva altro scopo se non quello di far guadagnare tempo agli altri paesi della zona euro.
Il documento dell'Fmi pubblicato il 5 giugno è uno vero e proprio schiaffo non solo alla politica di "salvataggio", ma soprattutto all'"Europa" – cioè alla Germania – e anche al governo greco dell'epoca guidato dal [socialista George Papandreou], che aveva firmato il primo memorandum. Non solo [i creditori] distruggono, ma sembrano anche voler utilizzare la crisi greca per proteggere e riorganizzare la zona euro a scapito della Grecia.
Il documento ha provocato grande irritazione. L'Fmi confessa il suo crimine ma non ammette le proprie responsabilità; rivela nel modo più ufficiale possibile il motivo senza spiegare come questa tragedia che interessa tutto il paese – e dovuta non al debito, ma al piano di salvataggio – possa essere affrontata una volta riconosciuti gli errori. Una posizione di un cinismo esasperante.
Ovviamente questo mette in una situazione molto difficile quella classe politica greca che sosteneva il piano di aiuti e lo presentava come l'unica opzione per il paese. Un piano che ha obbligato la Grecia a piegarsi a questo diktat mortale con l'alibi del suo salvataggio. Un salvataggio che, come ha riconosciuto l'Fmi, si è rivelato catastrofico.
La classe politica non si è battuta per gli interessi del paese, ma ha preferito la strada più facile e si è preoccupata solo di restare al potere. I politici si sono dichiarati pronti a rinunciare alla sovranità del paese, cedendo a uno stupido ricatto.
Se il governo greco avesse un minimo di rispetto sia per la parola "greco" che per la parola "governo", non dovrebbe chiudere gli occhi sulle ammissioni dell'Fmi. Al contrario, questa volta dovrebbe rispondere alla domanda: è possibile che uno dei tre membri del direttorio che esercita il controllo economico sul paese continui a seguire questa strategia senza che [il governo greco] reagisca?
Forse è proprio per questo che il rapporto è stato realizzato e pubblicato: per dare ad Atene la possibilità di rimettere in discussione il metodo adottato finora. In ogni caso l'idea che improvvisamente l'Fmi si sia "reso conto del suo errore" appare piuttosto ingenua.
La Grecia dovrebbe fare qualcosa. Che cosa aspetta? Se non lo fa adesso, quando lo farà? Ora dovranno rivedere la loro posizione tutti coloro che dicevano che questa soluzione era un "salvataggio", che la Grecia era la prima responsabile delle sue sventure e che i greci dovevano sopportare tutto.
I creditori hanno fatto autocritica. Adesso è il momento che anche i loro sostenitori facciano lo stesso. E vediamo infine tutti insieme come si potrà sfruttare tutto ciò per mettere fine a quella catastrofe che chiamiamo salvataggio. Anche se ormai è troppo tardi, perché la Grecia ha perso tutte le sue armi. Per colpa sua.
Traduzione di Andrea De Ritis

Considerazioni sulla sinistra che non c’è

di Roberto Salerno - nuvole - sinistrainrete -

I.

Sembra ormai patrimonio comune l’idea dell’irreversibilità della sconfitta della sinistra cosiddetta “radicale”. Fuori dal Parlamento, tradita dai suoi elettori – rifugiatisi in un movimento quanto meno ambiguo, quando non direttamente nell’astensione – e abbandonata dai militanti, non sembra più in grado di incidere in nessun modo sui destini del Paese.

Meno discussa è invece l’incredibile débâcle della sinistra moderata – o “riformista” – quella che una volta si sarebbe chiamata socialdemocratica e che oggi prova in tutti modi a nascondere cos’è, peraltro riuscendoci benissimo. A differenza di quella radicale, la sconfitta della sinistra moderata non è però nei numeri; in fondo in Italia il PD è alla guida del governo. La sconfitta è ideologica: l’idea stessa della giustizia sociale – in fondo vera ragion d’essere di ogni sinistra moderata o radicale, riformista o rivoluzionaria – è stata assorbita e reinterpretata attraverso strumenti e politiche limpidamente di destra, una destra forse civile, ma di certo paternalistico-elitaria.

II.


Per provare a meglio definire questa sconfitta limitiamoci a soli quattro esempi, lasciando per ultimo quello più clamoroso.
In coda, una serie di affermazioni dei nuovi punti di riferimento culturale della neo-sinistra moderata faranno rabbrividire anche i più aperti verso le promesse riformiste del PD o di SEL.

A) La pace sociale. Il mantenimento della pace sociale è ormai del tutto delegata all’attività di repressione. Dalle semplici manifestazioni – regolamentate soprattutto da governi nominalmente di centro sinistra – ai conflitti sociali più radicali – del tutto abbandonati dalla sinistra moderata – il PD ha dato solo risposte d’ordine o, come amano dire, istituzionali. L’area del dissenso, per la sinistra moderata, non è delimitata dalle intollerabili sopraffazioni, politiche e sociali, di un sistema che scarica le proprie contraddizioni sui più deboli, come da tradizione, ma dalle indistinte “regole”, dimenticando opportunamente che le regole non sono neutre, ma espressione degli interessi dominanti. C’è sempre un buon motivo per creare mille distinguo in merito alle proteste: dalla pericolosità del linguaggio all’opportunità del momento. Ne discende il tentativo di appropriarsi di temi tradizionalmente di destra, come la sicurezza o l’appoggio incondizionato alle forze dell’ordine, anche quando coinvolte in fatti che chiamare criminosi è un pallido eufemismo. E, naturalmente, la pronta denuncia di un clima di intolleranza quando alcuni disperati, invece che suicidarsi, pongono in essere gesti eclatanti. Da dove realmente provenga la disperazione delle persone non sembra tema in grado di suscitare la stessa indignata preoccupazione.

B) La politica estera. Dal bombardamento, mai dimenticato, contro la Serbia – vera vergogna di qualsiasi uomo di sinistra – agli scellerati appoggi alla guerra in Libia, passando per Iraq e Afghanistan, al prossimo appoggio all’attacco della Siria, alla totale cecità dei complessi processi di riorganizzazione politica sociale in Sudamerica (non necessariamente Chavez e Castro, ma persino quello che si muove in Bolivia, in Ecuador o in Argentina con la Kirchner, che non è certo legata alla sinistra radicale), l’abbandono di qualsiasi prospettiva autonoma e l’appoggio più o meno incondizionato alla politica della destra americana – o di Obama, che è la stessa cosa – hanno del tutto chiuso la possibilità di contare qualcosa nella politica internazionale. Non che tradizionalmente si sia mai stati particolarmente influenti – in fondo rimaniamo un protettorato USA – ma essere costretti a ricordare il Craxi di Sigonella come esempio di schiena dritta è davvero un triste epilogo per la sinistra.

C) La giustizia. Ingessata dall’antiberlusconismo, la sinistra moderata ha anche qui dimenticato tutte le terribili distorsioni del sistema giudiziario italiano, che continua a essere fonte ineguagliabile di prevaricazione verso i deboli. I dati della popolazione carceraria sono devastanti, e naturalmente correlati alla classe sociale di provenienza; la scarsa efficienza dei procedimenti giudiziari è sempre giustificata da carenze d’organico, che ci sono, ma che non spiegano la leggerezza con cui molti magistrati mandano la gente in carcere; la formazione dei magistrati – che sono spesso del tutto incapaci di comprendere la delicata funzione del proprio ruolo – li rende molto spesso deboli con i forti e fortissimi contro i deboli – valga per tutti la repressione del dissenso in val di Susa operata da Caselli. Il disinteresse reale verso questa fondamentale questione è assordante.

D) La questione economica. È qui che la sinistra moderata ha abbandonato del tutto la propria vocazione, firmando la propria resa incondizionata. L’adozione di una prospettiva di destra, lucidamente di destra, è suffragata da tantissime prove. Le politiche economiche hanno del tutto dimenticato non solo Marx, ma addirittura Keynes, con l’incredibile appoggio – “incredibile” proprio in senso tecnico, in tempi di recessione – alle misure di austerità di Monti e dei governi precedenti. È una storia che arriva da lontano. Dall’indipendenza della Banca d’Italia dal Tesoro, per esempio (senza che nessuno si chiedesse “indipendenza da chi?”), che ha prodotto un effetto terribile sui conti pubblici alzando in maniera indiscriminata i tassi di interesse sui titoli di Stato; o dalla paura dell’inflazione, come se fosse un male in sé, cosa che forse può credere qualche tedesco ancora traumatizzato da Weimar, ma che è assurda in Europa; ma, ancora, dall’entusiastica adesione a un sistema di cambi fissi, prima, e addirittura di moneta comune, dopo, rinunciando al solo strumento che davvero poteva offrire una qualche forma di protezione ai ceti più deboli contro gli shock esterni, come quello arrivato dagli USA nel 2008. E, a corollario, ci sono naturalmente le privatizzazioni, vere dismissioni di patrimonio pubblico che non hanno prodotto mai un abbassamento di prezzi o un miglioramento del servizio (basta pensare a luce, acqua e gas) e che non solo hanno ulteriormente arricchito i potenti gruppi finanziari (quando non semplici avventurieri), ma si sono trasformate in un ulteriore peso per le classi deboli, alle prese non più con un settore pubblico “comprensivo” per una bolletta pagata in ritardo, ma con un privato fuori da ogni controllo.

III.


Che questo sconfortante quadro sia l’esito di una precisa mutazione ideologica lo si può ricavare dalla triste sequenza di visioni del mondo che traspare da quelli che sarebbero i riferimenti politici ideali di questa nuova sinistra. Per i padri nobili, anche intellettuali d’area, l’irredimibile popolo va, forse, emancipato ma, prima e soprattutto, salvato dalle proprie pulsioni ormai naturaliter di destra o, come più elegantemente (?) si dice adesso, antipolitiche. E siccome ogni tanto il popolo è recalcitrante deve essere messo sotto stress in modo da poter fare quello che i padri nobili sanno essere buono e giusto. In ogni caso, si devono limitare al massimo gli spazi di partecipazione, anzi, le stesse modalità di partecipazione devono essere decise dall’alto e condotte da esperti che sapranno sagacemente guidare le collettività verso quello che è giusto per loro (casualmente quasi sempre in sintonia con gli interessi dei potentati economici e dei gruppi dirigenti).

Vanno, così, al di là dell’immaginazione di un complottista le ridenti dichiarazioni di Romano Prodi, il candidato vero della sinistra moderata alla Presidenza della Repubblica, capace di dire, senza particolari difficoltà, e di ripetere varie volte, che l’euro è qualcosa che non conviene ai cittadini italiani, ma che, siccome conviene alla Germania, si doveva fare («la Germania è il Paese più grande e più forte d’Europa grazie all’euro», ma anche «nonostante tutto ciò, penso che l’euro non solo si salverà, ma celebrerà molte altre decine di compleanni perché esso costituisce la forza della Germania», Il Messaggero, 31 dicembre 2011). Ancora più sconcertante è l’idea – che ritroviamo in tutti i padri della patria – dell’uso delle crisi come strumento per aggirare i vincoli democratici: «I am sure the Euro will oblige us to introduce a new set of economic policy instruments. It is politically impossible to propose that now. But some day there will be a crisis and new instruments will be created» (sempre Prodi al Financial Times, 5 dicembre 2001).

Non era da meno Guido Carli, quando sul trattato di Maastricht affermava tranquillamente che «ancora una volta si è dovuto aggirare il Parlamento sovrano della Repubblica, costruendo altrove ciò che non si riusciva a costruire in patria»
(Cinquant’anni di vita italiana, Laterza 1996).

Così anche Tommaso Padoa Schioppa: «Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità» (Corriere della Sera, 26 agosto 2003).

Come stupirsi, a questo punto, che Monti possa tranquillamente affermare che «nei momenti di crisi più acuta ci sono i progressi più sensibili. Rientro dell’emergenza della crisi, affievolimento della volontà di cooperare. Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti di sovranità nazionali a un livello comunitario. È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata». E ancora, in sconfortante crescendo: «abbiamo bisogno delle crisi […] per fare passi avanti, ma quando una crisi sparisce rimane un sedimento, perché si sono messi in opera istituzioni, leggi, eccetera, per cui non è pienamente reversibile».

Se poi qualcuno continua assurdamente a cercare fuori dalla penisola qualche speranza, si rivolga pure a Jacques Attali, nume tutelare del nostro nuovo Presidente del Consiglio e così presente nelle cronache nostrane: «Era evidente, e tutti coloro che hanno partecipato a questa storia lo sanno, che l’euro, sapevamo sarebbe scomparso entro 10 anni senza un federalismo buggettario. Vale a dire con eurobond, ma anche con una tassa europea, e il controllo del deficit. Noi lo sapevamo. Perché la storia lo dimostra. Perché non c’è nessuna zona monetaria che sopravviva senza un governo federale … Tutti sapevamo che questa crisi sarebbe arrivata». E quindi da sovrani, anzi da despoti, «abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht… In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del Trattato di Maastricht, hanno, ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne… sia impossibile. Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne». Concludendo: «non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti». Persino il luogo in cui queste parole sono state dette diventa beffardo. Si tratta della “Università partecipativa” che Segolène Royal organizzò sul tema della “Crisi dell’euro” il 24 ottobre 2011.

IV.


Insomma, siamo in presenza di un paternalismo neanche conservatore, limpidamente reazionario. E a poco vale la copertura sul versante dei diritti civili, importante certo, ma che assume solo aspetti strumentali all’interno del quadro che abbiamo sommariamente accennato. Non è certamente impossibile intravedere forme di cinismo nella scelta di una presidente della Camera donna e con un curriculum fondato sull’assistenza ai rifugiati o di una donna di colore come ministro. Operazioni di maquillage – in un paese dove le donne sono vittime di continue violenze e il razzismo si espande in modo preoccupante – buone per provare a dare l’illusione di una diversità dalla destra che è sostanzialmente inesistente.

Questa è la sinistra moderata oggi. E visto che la sinistra radicale, arrivata in fondo al pozzo, sembra sempre più impegnata a scavare (e non certo come la vecchia talpa), se speranza esiste – se, solo se –non è certo da ricercare lì. Piuttosto, forse, nei singoli movimenti che stanno faticosamente provando a costruire dei momenti di conflitto sociale, dalla già citata Val di Susa al movimento sui beni comuni, dall’Ilva di Taranto ai tentativi bolognesi di spostare risorse dal privato al pubblico almeno negli asili nido. O, per allargare lo spettro, negli Indignados o nei vari Occupy e M15. Roba di poco conto si dirà. Certo, ma cos’altro rimane?

Gli errori degli economisti 2.0

di Vladimiro Giacché - marx - sinistrainrete -

Il rapporto dell'opinione pubblica e della politica con gli economisti, nel corso di questa lunga crisi, è stato contraddittorio e altalenante.

Per un verso non ha giovato alla buona fama degli economisti il fatto di aver ignorato (salvo pochi lodevoli casi) la gravità della crisi e di non averne inteso le vere cause. Nel 2008 fu la stessa regina d'Inghilterra a porre a un'imbarazzata platea di economisti la fatidica domanda: "perché nessuno si è accorto dell'arrivo di questa crisi?". Le risposte avute non devono essere state troppo convincenti, se nel dicembre dello scorso anno, durante una visita alla Banca d'Inghilterra, è tornata sull'argomento osservando, con un tono che a qualcuno è apparso ironico, che "è davvero difficile prevedere le crisi". D'altra parte, molte delle politiche adottate per contrastare la crisi in Europa – e che in realtà l'hanno aggravata – si sono avvalse di una copertura teorica fornita da economisti e centri studi.

Nelle ultime settimane, però, sono avvenuti alcuni episodi che hanno sollevato in modo esplicito il problema del controllo sulla qualità di questi dati e di queste ricostruzioni teoriche.

Si è infatti scoperto che, almeno su due argomenti chiave, rapporto tra debito pubblico e crescita e relazione tra produttività e andamento dei salari, i dati usati per giustificare le politiche adottate in Europa erano sbagliati, incompleti o esposti in modo tendenzioso. Vediamo.
Caso 1. La "legge del 90%". Possiamo definire così la correlazione tra alto debito e bassa crescita resa famosa da un bestseller economico sulla crisi scritto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff: un rapporto debito/pil superiore al 90% - questa la loro tesi - sarebbe indissolubilmente legato a una bassa crescita. Conseguenza pratica: per far ripartire la crescita bisogna abbattere il debito pubblico. Anche se nell'immediato la cosa avesse conseguenze negative sui redditi personali (e quindi sulla domanda interna e per questa via sulla crescita), questo sarebbe comunque benefico nel lungo periodo. Questa "legge" ha circolato molto negli ultimi anni, e ha rappresentato uno dei più citati argomenti in favore delle politiche di austerity. Bene, recentemente due professori della University of Massachusetts, Robert Pollin e Michael Ash, hanno affidato a un loro studente, Thomas Herndon, il compito di rifare i calcoli sulla base dati considerata da Reinhart e Rogoff. I risultati, pubblicati il 15 aprile 2013 in un saggio che ha subito fatto il giro del mondo, sono stati decisamente sorprendenti. Le medie erano sbagliate: a causa dell'esclusione arbitraria di alcuni dati, di un modo non corretto di ponderazione dei dati e – dulcis in fundo – per un errore di codice nel foglio excel adoperato. Rifatti i calcoli, si è scoperto che i paesi con debito superiore al 90% del prodotto interno lordo non vedono un calo del pil, ma una sua crescita media del 2,2%! Reinhart e Rogoff hanno ammesso pubblicamente l'errore. Lo stesso non ha fatto però il commissario europeo Olli Rehn, il quale aveva affermato: "è ampiamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca scientifica, che quando i livelli di debito pubblico salgono oltre il 90% tendono a presentare una dinamica economica negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni".

Caso 2. "Per far crescere la competitività bisogna ridurre i salari".
In occasione del Consiglio Europeo del 14 marzo 2013, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha effettuato una presentazione su "Situazione economica dell'eurozona e i fondamenti della crescita". Tra i grafici presentati, alcuni mettono a confronto produttività e crescita dei salari. Risultato: in tutti i paesi in deficit (tra cui l'Italia) i salari sono aumentati molto di più della produttività del lavoro. Ergo, la chiave per risolvere i problemi di competitività in Europa è ridurre i salari. Piccolo problema: la crescita dei salari esposta nei grafici è espressa in termini nominali (cioè senza tener conto dell'inflazione), mentre quella della produttività è espressa in termini reali (cioè tenendo conto dell'inflazione). In questo modo, ovviamente, si sovrastima la crescita dei salari. Ma soprattutto si rappresenta come un mondo ideale quello in cui i salari scendono permanentemente in termini reali: infatti, anche considerando il tasso d'inflazione "regolare" secondo la BCE, quello pari all'1,9%, proiettato su 10 anni diventa un'inflazione del 20,7%. E se configuro i miei grafici senza tenerne conto, una crescita dei salari nominali pari al 20,7% in dieci anni sembrerà un inaccettabile frutto dell'esosità dei lavoratori, anziché quello che è veramente: una crescita zero dei salari reali, ossia la semplice conservazione del potere d'acquisto di 10 anni prima. Ciò che è peggio, sembra che questa presentazione di Draghi abbia avuto l'effetto di tacitare Hollande nel Consiglio Europeo di marzo, "dimostrandogli" che il problema in Europa non sono le politiche di austerity e il dumping salariale tedesco, ma – al contrario – il lusso immotivato in cui vivrebbero i lavoratori dei paesi latini. La circostanza è stata notata da Andrew Watt, dell'Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, secondo il quale la presentazione di Draghi sarebbe illuminante da un solo punto di vista: perché farebbe luce sull'ideologia del suo autore.

Conclusioni. Cosa concludere da tutto questo? La prima considerazione da fare riguarda la necessità, per l'opinione pubblica, di una considerazione critica dei dati che le vengono proposti. A questo scopo è necessaria l'opera di centri di ricerca, e anche di un sistema dell'informazione, realmente indipendenti.

"Indipendenza" significa non soltanto indipendenza dal potere politico, ma anche dal potere economico e finanziario. Sembra evidente che, nei nostri paesi sia precisamente questa la condizione difficile da assolvere. Questo vale, spesso e volentieri, anche per le università, che sempre più di frequente sono costrette dai vincoli di bilancio ad accettare generose sponsorizzazioni private, quando non a istituire cattedre finanziate dal big business e a produrre ricerche finalizzate a premere su governi e parlamenti per ottenere una legislazione più favorevole ai committenti.

Ma l'indipendenza più importante, in fondo, è ancora un'altra. È quella nei confronti dei dogmi del "pensiero unico" neoliberista che si è affermato dagli anni Novanta in poi. È precisamente l'obbedienza nei confronti di quei dogmi che può indurre ad accettare come plausibili ricostruzioni non sufficientemente fondate, o a forzarne le conclusioni per restare in linea con l'ortodossia.

È uno schema che abbiamo già visto in opera in passato, nei paesi dell'Est europeo. Non è andata a finire bene.

Il falso problema del debito pubblico

di Guglielmo Forges Davanzati - micromega sinistrainrete -

L'elevato debito pubblico italiano costituisce un problema, per il presidente Letta, perché danneggia le generazioni future, che saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere. Sono tesi che si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato. E che devono essere superate, se davvero si vuole andare oltre il disastroso dogma dell'austerità

Per l’ex premier Mario Monti, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituiva un problema dal momento che avrebbe incentivato attacchi speculativi, così che occorreva porre in essere misure di austerità, riducendo la spesa pubblica e soprattutto aumentando l’imposizione fiscale. Due i risultati ottenuti: le misure di austerità messe in atto per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL hanno prodotto l’esito esattamente opposto, determinandone un aumento di circa 7 punti percentuali in un anno, anche in considerazione dell’errore di stima del moltiplicatore fiscale, come evidenziato dal Fondo Monetario Internazionale. In più, proprio in quella fase, all’aumentare del debito pubblico non hanno fatto seguito attacchi speculativi, o almeno non di entità e durata paragonabili a quelli sperimentati nell’estate del 2011, quando l’indebitamento pubblico rispetto al PIL era inferiore ai valori assunti nel corso del 2012.

Per il neo-Presidente del Consiglio, Enrico Letta, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituisce un problema perché danneggia le generazioni future, che, inevitabilmente, a suo dire, saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere.

E’ bene chiarire che queste convinzioni si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato, e soprattutto si basano sull’assunto – non dimostrato né dimostrabile – secondo il quale il nostro debito pubblico è eccessivamente elevato. Si tratta di un’assunzione opinabile dal momento che, allo stato attuale delle conoscenze, non esiste alcun criterio “scientifico” per definire il limite di sostenibilità del debito: sul piano empirico, può essere qui sufficiente richiamare il caso giapponese, laddove, con un rapporto debito pubblico/PIL che oscilla intorno al 240%, non sussistono problemi di sostenibilità dello stesso. Si può, inoltre, ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL italiano è sostanzialmente in linea con la media dei Paesi appartenenti all’Unione Monetaria Europea e che, stando a studi recenti relativi alla quantificazione del c.d. debito pubblico “implicito”, sembrerebbe che il debito italiano in rapporto al PIL sia inferiore a quello di tutti i Paesi dell’eurozona, Germania inclusa.

La convinzione del Presidente Letta, secondo la quale le politiche di rigore si giustificano per ragioni di equità intergenerazionale, è del tutto priva di fondamento, per le seguenti ragioni.

1) Non è chiaro chi, perché e quando dovrebbe accrescere l’imposizione fiscale a danno delle generazioni future. E non è chiaro a quale futuro si fa riferimento, dal momento che l’aumento della tassazione a seguito di un aumento del debito pubblico non è affatto un automatismo, e rinvia a una decisione puramente politica. Né è dato sapere di quanto la pressione fiscale aumenterà e a danno di quali gruppi sociali. In altri termini, il Presidente Letta ritiene di poter persuadere i contribuenti italiani rendendoli disponibili a impoverirsi oggi per evitare di impoverire i posteri, ovvero ritiene che li si possa far diventare a tal punto altruisti in senso intergenerazionale da far loro desiderare il benessere di individui che potrebbero non conoscere mai, accettando ulteriori sacrifici certi, oggi.

Austerità, la lotta di classe dei ricchi

     
Austerità, la lotta di classe dei ricchi

- ilmanifesto -

di Roberto Ciccarelli -
Torniamo a dare il giusto peso alle parole. Quella che stiamo vivendo è una lotta di classe. Oggi la fanno i ricchi contro i poveri che sono stati messi a morte dalle politiche dell’austerità. Il tono è enfatico, ma sono le parole usate dal Nobel per l’economia Joseph Stiglitz per descrivere il più grande saccheggio della ricchezza avvenuto in tempi moderni. La violenza della crisi è tale da mettere a rischio la vita di milioni di persone. Gli autori dell’undicesimo «Rapporto sui diritti globali» (Ediesse), presentato ieri a Roma presso la sede centrale della Cgil in Corso Italia, spiegano nelle oltre mille pagine del volume le caratteristiche della guerra di rapina condotta dal capitalismo finanziario e descrivendo il meccanismo di una «redistribuzione al contrario». Quella messa in piedi dal 2008 dalle politiche dell’austerità nell’Unione Europea è una gigantesca macchina di drenaggio verso l’alto dei redditi da lavoro e dei risparmi delle famiglie. Le banche, i fondi di investimento, le grandi imprese, lo Stato che aumenta il carico fiscale sui cittadini senza restituire nulla in servizi, hanno accumulato un’enorme massa monetaria che non «sgocciola» nell’economia reale, resta nelle sfere della finanza e viene usata per acquistare o vendere buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Questa situazione ha annientato la produttività del lavoro in Italia. Dal 2000 al 2009 è diminuita dello 0,5% ogni anno, impresa mai riuscita in un paese a capitalismo avanzato fino ad oggi. Gli occupati italiani lavorano di più dei colleghi europei, ma producono il 25% in meno dei tedeschi e il 40% in meno dei francesi. Senza contare che l’occupazione è crollata di 1 milione e 700 mila unità dal 2008, abbattendosi con particolare violenza sui giovani tra i 15 e i 24 anni, il 41,7% dei quali è disoccupato (con punte di oltre il 50% a Sud). Ciò ha comportato un impoverimento generalizzato tra i pensionati e persino tra i bambini. Nel 2011 i bambini da 0 a 2 anni che avevano la possibilità di frequentare un asilo nido non superavano l’11,8% (era il 3% nel 2004). Su un totale di 16,7 milioni di pensionati, quasi 8 percepiscono una pensione inferiore a mille euro al mese, oltre 2 milioni non arrivano a 500. Senza contare che il processo di deregolamentazione del lavoro ha creato in Italia un esercito di lavoratori precari da 3.315.580 milioni di persone, più di mezzo milione delle quali lavorano per lo Stato, il più grande sfruttatore di lavoro precario al mondo. Il reddito di queste persone è di 927 euro mensili per i maschi e 759 euro per le donne. Queste cifre sono utili per dare un’idea della povertà dilagante nel nostro paese.
Questo processo è destinato a durare a lungo. L’Italia, come anche Francia, Spagna, Grecia o Portogallo, ha approvato nella loro costituzione l’impegno a ridurre il debito sovrano dall’attuale 130% al 60% sul Pil. Ciò porterà alla dismissione del patrimonio pubblico e alle liberalizzazioni, tagli alla spesa e altre misure che dovranno «risparmiare» 50 miliardi di euro all’anno per i prossimi venti. Fondi che alimenteranno la bolla degli interessi sul debito e non andranno in investimenti. La stessa sorte è toccata ai mille miliardi di euro prestati dalla Banca Centrale Europea alle banche europee altasso d’interesse irrisorio dell’1%. Le banche italiane hanno ottenuto 200 miliardi. Di questa montagna di denaro fresco solo il 5% delle persone sopra i 15 anni ha ottenuto un prestito negli ultimi dodici mesi, a fronte di una media europea del 13%. Questo significa che il nostro paese fluttua in una bolla finanziaria che espropria la ricchezza alle persone, non libera risorse verso il basso, ma le accumula in un forziere chiuso a doppia mandata da cui esce solo qualche centesimo. Questa è la cornice macroeconomica dove prolifera la disuguaglianza sociale. Il reddito di uno dei 38 mila «straricchi» (lo 0,1% più ricco in Italia) vale oggi quello di cento poveri. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% dei redditi. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale.
La responsabilità di questa tragedia non è solo di Berlusconi o di Monti che hanno gestito la parte terminale di una crisi che viene da lontano, cioè dall’inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica» nel 1992. Oggi solo cinque paesi Ocse, tra cui gli Stati Uniti, mostrano disuguaglianze più feroci tra i ricchi e i poveri dell’Italia. Ad avere allargato la forbice tra le rendite e i redditi è stata l’abolizione della scala mobile nel 1984, la crisi valutaria ed economica del 1992 e la manovra finanziaria da 90 miliardi di lire fatta da Amato nello stesso anno. Da quel momento tutti i governi hanno portato il loro contributo alla lotta di classe in corso. Il «pilota automatico», una volta evocato dal presidente Bce Mario Draghi per spiegare la natura delle politiche economiche europee, indipendentemente dalla maggioranza politica alla guida di un paese, è stato azionato più di vent’anni fa. Da allora continua a pretendere l’applicazione rigorosa degli imperativi del rigore del bilancio, la liberalizzazione dei servizi e la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
La tesi del rapporto sui diritti globali sostiene che il tentativo in corso di «ammorbidire» la cura preparata dalla Troika (Bce, Fmi e banca mondiale) per i paesi indebitati come Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e ora anche Francia, non riuscirà a fermare la rovinosa corsa a precipizio del treno dell’austerità. L’obiettivo finale della lotta di classe è farla finita con il « modello sociale europeo», quello del Welfare, già dichiarato morto da Draghi. Lo dimostra il taglio del 90% alle politiche sociali che tra il 2010 e il 2012 sono passate da 435 milioni di euro a 43 milioni, mentre i fondi per scuola e università sono stati tagliati di 10 miliardi. Entro il 2015 la sanità subirà 30 miliardi di tagli. Alla luce di questi dati si comprende meglio l’utilità del governo delle «larghe intese». Parliamo di una forma politica postdemocratica che si è candidata a gestire la liquidazione dei diritti sociali in Italia e a normalizzare i conflitti sociali che potrebbero nascere. Un lavoro arduo, ma è a buon punto.
Reddito di cittadinanza, una risorsa per i più deboli.
Per uscire dalla «guerra dei trent’anni» del liberismo contro il Welfare, gli autori del «rapporto sui diritti globali 2013» indicano quattro priorità: 1) ripristinare la partecipazione democratica e il ruolo del pubblico nell’economia; 2) affiancare alla crescita della produttività e dell’efficienza economica il benessere delle persone, l’equità e l’uguaglianza in direzione di una maggiore sostenibilità sociale e ambientale; 3) indirizzare la crescita economica verso lo sviluppo di nuove attività ad alta intensità di conoscenza, favorendo l’occupazione stabile e sanzionando il ricorso delle imprese (e dello Stato) alla precarietà dei giovani e dei meno giovani; 4)consolidare la partecipazione della società civile, non profit e delle mobilitazioni sociali elaborando nuovi strumenti di intervento nell’economia e nella società. La centralità delle politiche «anti-austerity» dev’essere quella della ridistribuzione delle ricchezze, favorita da una riforma fiscale che colpisca il dominio economico esercitato dal 10% della popolazione più ricca. Particolare attenzione viene prestata al rilancio del «reddito di cittadinanza», e non del salario minino. Si chiede l’introduzione di una misura universalistica necessaria per rimediare all’esclusione sociale fatta di lavori poveri, intermittenti, precari e di non lavoro.
Il Manifesto – 05.06.13

mercoledì 5 giugno 2013

Napolitano, gli ex-comunisti e noi

Fonte: liberazione.it | Autore: Dino Greco
                  
La “fatwa” lanciata dai capitalisti e dai loro ideologhi contro il comunismo dopo la caduta del Muro ha prodotto ovunque molti danni. I peggiori dei quali nella testa dei comunisti medesimi, presto convertitisi e dediti con zelo all’abiura radicale del proprio passato, per riguadagnare, agli occhi dei vincitori, la perduta dignità politica e il diritto ad accomodarsi nei salotti del potere.
Come il poliziotto del film “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, gli ex comunisti hanno trangugiato il sale del pentimento ed hanno solennemente ripudiato non solo la falce e il martello, ma l’intera storia che ha forgiato quei simboli, gareggiando con i liberisti d’antan a chi con più lena e convinzione sostiene l’ordine di cose esistente. Ma, francamente, è giunta l’ora di metterci una pietra sopra. Costoro sono persi e da lì non potrà venire nulla di buono, tanto meno catartiche resurrezioni, perché un riflesso pavloviano impedisce loro di ripercorrere criticamente la propria storia, quella del movimento operaio, che non è stata elaborata, ma semplicemente rimossa.

Costoro sono semplicemente cooptati altrove. E vagano come le anime morte di Gogol, utili ad un gioco in cui sono altri i veri protagonisti o, se si preferisce, gli “utilizzatori finali”.

Come ognuno può tristemente constatare, non vi è più argine capace di contenere la “ruzzola” politica del Pd che ha reciso anche il più fragile ormeggio (ideale? culturale? politico?) a sinistra e procede al traino del Pdl, di questa impresentabile destra.
L’approdo prossimo venturo – dopo lo sconquasso dei diritti del lavoro, del welfare, della legge elettorale iper-maggioritaria, della sovranità popolare ceduta alla Bce e via demolendo – è la madre di tutte le “riforme” istituzionali: la trasformazione dell’Italia in una repubblica presidenziale. Tutto avviene tranquillamente, senza patemi o crisi di coscienza, con squisito afflato bipartisan.

Le risate di licio Gelli staranno raggiungendo il cielo: neppure lui avrebbe potuto immaginare che il suo “Programma di rinascita nazionale” avrebbe raccolto così entusiasti proseliti, che i gravissimi capi d’accusa per i quali fu arrestato e condannato sarebbero stati riciclati nei programmi di governo. E che gli atti che gli valsero l’accusa di eversione sarebbero stati ripuliti al punto che se una cosa oggi stupisce è che al vecchio fondatore della Loggia P2 non siano ancora stati revocati gli arresti (dorati) nella sua villa Wanda aretina.

Nel 2003, quando tante porcherie anticostituzionali dovevano ancora venire, Gelli se ne uscì con queste parole, in un’intervista a Repubblica.it: “Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la Tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa. Tutto nel ‘Piano di Rinascita’, ed è finita proprio come dicevo io”. E invece non era ancora finita. Né lo è ora.
Come nel 1815, quando le ultime tracce della rivoluzione furono divelte dalle forze reazionarie per tornare all’Ancien régime, così qui da noi si procede, con gli stivali delle sette leghe, verso la totale abrogazione della Costituzione, chiudendo finalmente i conti con il più prezioso lascito della rivoluzione democratica e antifascista.

Per ironia della sorte, mentore e mallevadore di questa “fuga nell’opposto” è Giorgio Napolitano, i cui trascorsi comunisti stridono sinistramente contro un presente che ha sepolto con un doppio strato di calce viva ogni segno di quel passato.
Il fatto è che la deriva dei democrat non restituirà il soffio della vita a chi comunista è ostinatamente rimasto e a chi ancora, nonostante tutto, lo diventa, pur in questi durissimi anni di emarginazione, non certo per fare dell’impotente testimonianza.
Ecco, questo è il punto. Ci è chiesto un di più, di creativo, di evolutivo, come Marx seppe fare per primo e raccomandò di non dimenticare, se lo scopo è quello di produrre un cambiamento reale e profondo nei rapporti sociali, evitando perciò di consegnarsi all’adorazione di feticci o di ricette preconfezionate. E’ un lavoro duro. Che costa impegno e fatica, perché non contempla scorciatoie e non si riduce alla sloganistica radicale o alla protesta, anche se urlata a pieni polmoni.

Sin qui – pare evidente – non siamo stati all’altezza del compito. Ma la costruzione di una sinistra non velleitaria esige che si sappia elaborare un paradigma trasformativo, talmente robusto da poter combattere, ad armi pari, contro il capitale, la battaglia per l’egemonia. E che le lotte sociali, da frammentarie e scollegate che sono, trovino in quel progetto il terreno unificante. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. Ma lì è la sfida. Cercare, trovare il bandolo della matassa è il compito che attende i comunisti. Altrimenti, malgrado gli immani disastri provocati, saranno ancora i padroni di sempre, coadiuvati dal loro inesausto esercito di maitre a penser, a guidare la danza.

IL PRESIDENZIALISMO?

IL PRESIDENZIALISMO? PER L'ITALIA SI CONFIGURA UNO SCENARIO SUDAMERICANO

 PER L'ITALIA SI CONFIGURA UNO SCENARIO SUDAMERICANO

"Gli esponenti politici parlano di cose che evidentemente non conoscono. Bisogna capire quale sistema si vuole praticare, con quali contrappesi e garanzie. La nostra cultura politica lo dimostra: per l'Italia è molto alto il rischio che venga fuori un modello autoritario"

Aldo GiannuliLa politica ha deciso: la priorità per l'Italia è il Presidenzialismo. Lo vuole fortemente Berlusconi, che oggi ha sollecitato il governo, sostenendo che "la guerra civile è finita". Anche il premier Letta ha subito assecondato il richiamo del Capo dello Stato, nominando una commissione di 35 saggi che supporteranno il governo nella definizione delle riforme costituzionali.Ma qual è la ratio con cui si persegue l'obiettivo del presidenzialismo? Quali sono i modelli esistenti di questa forma di governo e quanto questa è davvero dffusa in Europa? Infine, in mancanza di una definizione bilanciata dei necessari contrappesi, quali scenari si configurerebbero per l'Italia?
Abbiamo approfondito le questioni col supporto di Aldo Giannuli, docente di Storia contemporanea all'Università Statale di Milano
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"Intanto, di presidenzialismo si parla a sproposito, come se l'unico elemento a determinare un regime parlamentare fosse l'elezione diretta del Capo dello Stato. In realtà, i fattori che definiscono la Costituzione come presidenziale o meno sono diversi, non è soltanto chi elegge il Presidente: il problema sono i poteri che ha il Presidente, l'architettura complessiva del sistema, i contrappesi, i controlli e le garanzie.
Esistono molti regimi presidenziali molto diversi tra di loro, esiste il presidenzialismo francese, dove il governo può essere di colore diverso dal Presidente della Repubblica eletto dal popolo. Esistono sistemi come quello Irlandese o quello austriaco, dove il Presidente, pure eletto dal popolo, ha poteri limitati o comunque è vissuto come autorità debole.
Esiste il modello americano, degli Stati Uniti, dove c'è un Presidente forte che è insieme Capo dello Stato e del governo, però contrappesato da fortissimi poteri del Parlamento, del Congresso, del Senato e della Corte Suprema ed infine esiste il modello latino americano, che vede dei presidenti forti, capi di esecutivo, con pochissimi contrappesi e pochissime garanzie, e infatti vengono fuori regimi tendenzialmente autoritari.
Quindi c'è da capire quale modello vogliamo praticare, tenendo presente che, date le tradizioni della cultura politica di questo Paese, è molto alto il rischio che venga fuori più il modello latino americano che non quello francese o quello nord americano.

Non è vero poi che quello presidenziale sia il sistema in assoluto più diffuso in Europa: il sistema più diffuso in realtà è quello della repubblica parlamentare o della monarchia parlamentare, perché una larga fetta dei paesi europei, tutti i paesi scandinavi, a eccezione della Finlandia, più la Spagna, sono monarchie, quindi in qualche modo non possono che essere regimi parlamentari, a cui si aggiungono repubbliche di tipo parlamentare, come formalmente è ancora sulla carta il caso italiano.

Di fatto, con la presidenza Napolitano si è completato un processo iniziato già con la presidenza Pertini, un Presidente della Repubblica che non è più referente del sistema politico, delle forze politiche, ma che parla direttamente con l'opinione pubblica, da cui riceve forza e legittimazione.
Questo poi si è accentuato fortemente con la presidenza Cossiga e ha toccato il punto più alto con la presidenza Napolitano.
Il Presidente Napolitano più che garante della Costituzione, così come nella Costituzione è scritto, si è posto come garante degli accordi internazionali del Paese, il suo referente è stata piuttosto la BCE.
Lui è stato quello che ha garantito alla BCE e all'Unione Europea che l'Italia avrebbe seguito certe indicazioni nell'interesse della stabilità dell'Euro, quindi in qualche modo abbiamo un Presidente che ha già cambiato funzioni e che è molto più interventista nelle scelte politiche fatte nel paese.
Sostanzialmente questo completa il processo di emarginazione del Parlamento, rispetto al Capo dello Stato e all'esecutivo, che è stato determinato da venti anni in qua.

Perché dunque questa insistenza sul presidenzialismo? Per un miscuglio di ragioni. C'è la sostanziale incomprensione, come dire, inadeguatezza culturale di buona parte degli esponenti politici, a iniziare dal Presidente del Consiglio, che parlano di cose che evidentemente non sanno dove stanno di casa.
In parte, c'è una effettiva pulsione di alcune forze politiche, per esempio il Pdl, che pensa così di garantire definitivamente il suo leader, e non c'è da sbagliarsi su che cosa verrebbe fuori con una repubblica presidenziale retta dal Cavaliere come Presidente.
Poi ci sono alcune pulsioni di tipo autoritario nel PD, dove già la svolta del maggioritario nel 1993 aveva fatto nascere questa cultura politica del decisionismo in funzione finanziaria. In questo senso un passo avanti rispetto a Craxi, un passo avanti verso le soluzioni autoritarie naturalmente."

Le rane bollite.

Di Marco Malavasi - http://www.eureka.gr/

Alcuni giorni fa leggevo di un esperimento realmente efettuato in un'università americana alla fine del diciannovesimosecolo che, con poco rispetto per gli animali da laboratorio, ha dimostrato qualcosa di incredibile: gli scienziati hanno gettato una rana in una pentola di acqua bollente, e questa è immediatamente schizzata fuori con un gran salto, per salvarsi da quella che sarebbe stata un'orribile morte certa. E qui la sorpresa: se la rana viene posta nella pentola con acqua fredda che i ricercatori poi iniziano a riscaldare lentamente ma in modo costante l'animale rimane nella pentola “adattandosi” alla crescente temperatura fino a finire bollita. A questo punto ho visto un parallelismo agghiacciante: proviamo a sostituire il gruppo dei ricercatori con l'elite che ormai governa al ribasso non più attraverso la politica - ma con la finanza - questo mondo sempre più brutto e sempre più globalizzato, la pentola e l'acqua con la caterva di provvedimenti e di “misure economiche” che ormai da anni vengono propinate in Grecia, ma anche in Italia e non solo, con cadenze da goccia cinese, dai vari “governi” più o meno eletti dal popolo.

Chiaro adesso chi fa la rana? Ecco perché lo trovo agghiacciante; e a nulla valgono le giustificazioni del tipo «ancora la gente non è arrivata al limite, ma tra un pò reagirà»: con tutta probabilità la rana, mentre l'acqua si faceva sempre più calda, faceva le stesse elucubrazioni. Mi si potrebbe obiettare che, fino a prova contraria, gli esseri umani hanno capacità cognitive molto superiori a quelle delle rane; a parte il fatto che ciò non è sempre vero, proviamo a riportarci indietro nel tempo, a pochi anni fa, e ad immaginare che in un telegiornale qualsiasi venga data la notizia che di punto in bianco le relazioni nel mondo del lavoro, gli stipendi e le pensioni, gli ammortizzatori sociali ove presenti, insomma tutta la nostra vita, e quel che è peggio, quella dei nostri figli avessero subito con decorrenza immediata i cambiamenti e tagli come quelli che poi ci sono stati imposti: ebbene quale sarebbe stata la nostra reazione?

 Saremmo o no schizzati fuori dalla pentola e direttamente nelle piazze per difendere le nostre vite come la rana messa nell'acqua bollente? Facciamoci caso: la cadenza degli annunci e delle decisioni – imposizioni segue la logica del pescatore: tenere la lenza sempre in tiro per evitare che il pesce si liberi, concedendo alla bisogna anche qualche metro di filo, tanto poi lo recupera a gioco lungo, senza fretta, ma inesorabile come l'acqua che si fa sempre più calda. L'esperimento ci insegna questo: una volta che si preferisce, invece di reagire prontamente e con forza per salvaguardare se stessi, il prossimo, chi ci è caro e non ultimi i valori in cui crediamo e tutto ciò che chi ci ha preceduto ha conquistato per noi a prezzo anche della vita, ci adattiamo e tiriamo a campare, con ogni probabilità si finisce bolliti (e mazziati). Il problema non è il “quando” reagire, ma il “se” reagire; con tutta probabilità la rana che finì bollita, nell'adattarsi all'acqua sempre più calda, all'inizio si è anche sentita bene al calduccio - in definitiva il cambiamento si poteva accettare - oppure pensò che «c'è chi sta peggio» e questo le ha fatto rimandare il
momento in cui spiccare il salto di cui sarebbe stata capacissima, la pentola non era coperta, e che la avrebbe salvata dalla morte atroce a cui andava incontro: sicuramente poi ad un certo punto, quando il calore diventò sgradevole, commise l'errore fatale di credere che magari si trattasse di una cosa passeggera: quante volte lo stagno si era riscaldato in estate.

Purtroppo, quando poi la situazione si fece davvero insostenibile a tutto intorno diventò invivibile, l'amara scoperta: non aveva più la forza di spiccare quel salto tante volte rimandato.
Mi chiedo a questo punto se il funesto esito dell'esperimento sia poi colpa solo dei sadici ricercatori, i quali, se accusati di aver ucciso la rana, potrebbero sempre obiettare che stavano facendo solo il proprio mestiere, che la pentola era scoperchiata, che la scienza – ogni scienza - può causare vittime che si chiamano effetti collaterali, che nessuno in definitiva aveva costretto la rana a rimanere nell'acqua.

E questa è una grande verità: non possiamo sicuramente aspettarci che chi causa il male altrui si preoccupi delle vittime del suo “lavoro”, che chi vorrebbe riportarci indietro di duecento anni ci venga a mettere l'ora legale all'orologio; perciò non esistono alibi: se gli “scienziati” fanno il loro lavoro, è solo e soltanto compito delle rane di tutto il mondo fare quel salto che può salvare loro stesse, i loro discendenti, gli ideali per cui altri hanno dato la vita perchè la pentola in cui erano aveva il coperchio.

martedì 4 giugno 2013

On June 7th and 8th, we invite all European movements and organizations to the Alter Summit in Athens

What is the Alter Summit?
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This event will be organized with the Greek social movement with the support of civil society organizations, trade unions, NGOs, political and cultural personalities from all around Europe.
The Alter Summit in Athens will be a step forward in the building of more convergence between movements opposed to the current anti-social and anti-ecological policies promoted by European governments and institutions.
It will be a highly symbolic gathering, since Greece has been the laboratory of the destructive austerity and so-called competitiveness policies, but can also become the laboratory of the resistance against austerity... Read more
  • German unionists and prominent academics support the Alter Summit !

    Many trade union leaders and prominent academics in Germany have publicly declared their solidarity for the Alter Summit. Attached you will find their Sympathy–Declaration of the ‘European Alternative Summit’ in Athens.
  • Practical Information

    Assemblies, network meetings and the plenary will take place on Friday and Saturday at the Olympic Stadium (Irini station, 25 min from Omonoia sq. metro station). For direct access to the Olympic Stadium, where the Alter Summit will be held, you can take the Athens Suburban Railway from the airport to the Nerantziotisa station; from there change to the Green Line (Athens Metro) to Irini station.
    To get to downtown Athens you can take the Blue Line (Athens Metro) to Syntagma station.
    here you can see the venue
    http://www.altersummit2013.blogspot.gr/p/blog-page_3.html
    The demo on (...)

Il referendum sull’euro? Si può fare!

 

Euro crepe
La questione del rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta all’interno della nostra organizzazione politica ed istituzionale è uno degli temi centrali del MoVimento. Strumenti che dovranno portare ad un rafforzamento della democrazia fondata sulla partecipazione attiva di tutti i cittadini, contro quel sistema di «democrazia dei partiti» (o partitocrazia) che è stata l’espressione più evidente della volontà delle vecchie forze politiche di spostare la sovranità dal popolo ad un particolare soggetto politico, il partito appunto. Uno dei punti programmatici del MoVimento è, in questo senso, costituito dall’introduzione del referendum propositivo senza quorum. Come è noto, per realizzare questo obiettivo sarà necessaria una modifica della Costituzione, che non potrà non attuarsi attraverso tutti i passaggi previsti dal testo costituzionale.
La Costituzione prevede, per le leggi di modifica della Costituzione, due approvazioni successive, ad almeno 3 mesi l’una dall’altra, da parte di entrambi i rami del Parlamento (Camera e Senato). Nella seconda votazione, è richiesta, per l’approvazione, la maggioranza assoluta (metà più uno dei componenti dell’assemblea). A questo punto, secondo l’art. 138 della Costituzione, si devono distinguere due ipotesi:
  1. se, entro tre mesi dall’approvazione – lo richiedano 500.000 elettori, oppure 1/5 dei membri di ciascuna Camera, o, infine, 5 consigli regionali – la legge viene sottoposta a referendum popolare;
  2. se la legge, invece, è stata approvata nella seconda votazione con una maggioranza più alta di quella assoluta, pari ai 2/3 dei componenti dell’assemblea (maggioranza qualificata), essa è sottratta al referendum.
È evidente che questo procedimento richiede che, per la modifica della Costituzione, il MoVimento disponga di una forza, di una maggioranza parlamentare, che al momento non ha. Che fare, allora, di fronte ad un problema decisivo come l’Euro? Come rendere possibile e concreta la necessità di cui Grillo, pochi giorni fa, si è fatto portavoce («L’Europa va ripensata. Noi consideriamo di fare un anno di informazione e poi di indire un referendum per dire sì o no all’Euro e sì o no all’Europa»)?
L’Europa va ripensata. È vero: questa Europa dei banchieri e dei grandi gruppi finanziari non è certo l’Europa dei popoli, ma l’Europa che sta dividendo i popoli. La questione della moneta riguarda tutto questo, perché è il cuore di questa Europa che non vogliamo. Il MoVimento ha sempre mantenuto una posizione chiara e coerente: quella di far decidere agli italiani con un referendum se continuare a stare in questa gabbia d’acciaio o uscirne. Nessuno ce lo ha chiesto. Siamo entrati nell’Euro con una decisione presa senza alcuna consultazione popolare (utili idioti all’interno di un patto tra Kohl e Mitterrand) e – non dimentichiamolo – il Governo Monti ci è stato imposto dalla dittatura di Berlino e Bruxelles per salvare la moneta unica.
Non ci sono alternative, dal momento che per ora un referendum abrogativo è impossibile: non soltanto, infatti, l’art. 75 della Costituzione vieta esplicitamente che possa svolgersi un simile referendum sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali ma, secondo una consolidata interpretazione della Corte Costituzionale, non sarebbe mai possibile interferire, attraverso referendum, con l’ambito di applicazione delle norme comunitarie e con gli obblighi assunti dall’Italia nei confronti dell’Unione Europea. Niente referendum abrogativo, quindi.
Eppure qualcosa si può fare. Esiste, infatti, un precedente, che potrebbe essere utilizzato. È da questo precedente che si può cominciare quella campagna di informazione e di dibattito pubblico contro il silenzio imposto dai giornali, anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno. Veniamo, pertanto, al precedente che consentì, nel 1989, di evitare il “blocco” che la costituzione pone all’intervento diretto del popolo in materia di rapporti con l’Europa. Con legge costituzionale (3 aprile 1989, n. 2), fu allora indetto un “referendum di indirizzo” (ossia consultivo) sul conferimento di un mandato al Parlamento Europeo per redigere un progetto di Costituzione Europea (fu un plebiscito a favore dell’Europa, con l’88% dei sì). Fu necessaria, allora, una legge di iniziativa popolare promossa dal Movimento Federalista Europeo – successivamente sostituita dalla proposta di legge costituzionale presentata dal Partito Comunista – la cui approvazione richiese la doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento, secondo l’iter necessario per le leggi costituzionali.
La Costituzione non prevede, nella sua lettera, un’ipotesi simile, ma nell’89 i partiti furono concordi nell’approvare questo strumento atipico (il “referendum di indirizzo”) mediante una legge costituzionale ad hoc, formalmente “in deroga” o “rottura” di quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione, per legittimare con il ricorso al voto popolare l’accelerazione del processo di integrazione europea. Vi fu, allora, una «temporanea “rottura della Costituzione”», che servì a consentire agli italiani di esprimere direttamente la propria posizione su una decisione fondamentale per lo Stato e la sua sovranità. Nessuno, tuttavia, ritenne questa “rottura” incostituzionale.
La nostra stessa storia repubblicana ha dunque conosciuto – e non si vede perché ciò non possa ripetersi – “rotture” della lettera della Costituzione dirette a consentire al popolo di esprimersi direttamente su temi che mettevano in discussione alla radice la sua stessa sovranità. Si potrebbe, pertanto, lavorare per una nuova legge costituzionale ad hoc che consenta ai cittadini di esprimersi direttamente sulla possibile uscita dell’Italia dall’Eurozona. Questa volta non sarebbe neppure necessaria una iniziativa popolare, in quanto il MoVimento è già presente in Parlamento, ed i suoi deputati e senatori potrebbero, pertanto, presentare direttamente il progetto di legge.
A differenza di un progetto di riforma e modifica della Costituzione, questa legge costituzionale ad hoc – che, senza introdurre nell’ordinamento il referendum di indirizzo si limiterebbe a farlo entrare e, dopo il voto, subito uscire dallo scenario costituzionale – costringerebbe i partiti ad esprimersi non sull’istituto del referendum in generale, ma su una questione particolare e concreta: decidere se chiedere ai cittadini, direttamente, di esprimere la loro volontà sull’Euro.
Il MoVimento dimostrerà, con questa iniziativa, la propria volontà di andare avanti, con coerenza e forza, nei propri obiettivi: ridare la voce al popolo, ridare la sovranità ai cittadini.

Bilderberg 2013

- fabionews -
Ecco l'appunatmento annuale per decidere le sorti del mondo (e nostre)! Crederete mica che queste improtanti decisioni siano lasciate alle organizzazioni "democratiche"?!!? Quelle servono solo per prenderci per i fondelli e illuderci che la democrazia sia possibile...

Ciao
Fabio

DA megachip.info

Bilderberg 2013 al Grove Hotel di Watford


Il meeting Bilderberg quest'anno riceverà qualche attenzione più del solito, giornalisti e blogger convergono tutti su Watford. [Traduz. ComeDonChisciotte]

martedì 4 giugno guardian.co.uk di Charlie Skelton.

Quando si sta scegliendo un posto per organizzare il summit politico più potente del mondo, non si può sbagliare : Watford. Forse le Seychelles erano già al completo.

Giovedi pomeriggio, un inebriante mix di politici, banchieri, miliardari, amministratori delegati e tutta la nobiltà europea piomberà sull'elegante vialone del Grove Hotel, a nord di Watford, dove inizierà la conferenza annuale del Bilderberg.

Sarà uno spettacolo forte - una delle meraviglie della natura - la cosa più eccitante che sia accaduta a Watford da quando misero un semaforo, subito dopo la rotonda sulla statale A 412. La zona intorno all'albergo è bloccata: gli abitanti sono costretti a girare con il passaporto per rientrare a casa. Sarà emozionante anche per i delegati. Il CEO della Royal Dutch Shell salterà fuori dalla sua limousine, deliziato dalla possibilità di trascorrere tre giorni interi di trattative politiche con il capo della HSBC, con il presidente della Dow Chemical, con tutti i suoi ministri delle finanze europei preferiti e con i capi dell'intelligence statunitense. La conferenza sarà, come sempre, il momento clou dell'anno per ogni plutocrate e lo è dal 1954. L'unica volta che Bilderberg ha saltato un anno era il 1976, dopo che il suo presidente fondatore, il principe Bernardo d'Olanda, fu arrestato per aver preso tangenti dalla Lockheed Martin.

Può sembrare strano, come quelle stesse lobby che, solo a nominarle, tanto scandalo provocano in Parlamento, abbiano il potere di riunire un gruppo dei politici del più alto livello e di ammaliarli per tre giorni di lussi e onori accompagnati da presidenti e amministratori delegati di hedge funds, multinazionali high-tech e grandi holding, senza che la stampa possa in nessun modo fraintenderli. " Va tutto all'opposto di quanto stabiliva l'impegno pubblico che prese [George] Osborne nel 2010, sulla necessità di una "trasparenza più assoluta della Agenda dei lavori che il paese abbia mai visto'", dice Michael Meacher di MP. Meacher presenta il convegno come "una cospirazione anti-democratica dei leader del capitalismo di mercato occidentale che si incontra in privato per mantenere il proprio potere di influenza lontano da qualsiasi occhio pubblico".

Ma, ad essere onesti, può essere utile un "controllo pubblico", quando tutti i politici se ne stanno rintanati in un luogo ben protetto, insieme a tanti membri del Consiglio di Amministrazione di JP Morgan? Ci sarà sempre il CEO della BP pronto per fare in modo che nessuno possa fare indebite pressioni su nessuno dei politici. E se lui ( Il CEO della BP) non fosse momentaneamente nella stanza a tenerli d'occhio, allora ci sarebbe sicuramente almeno uno dei presidenti di Novartis, della Zurich Insurance, della Fiat o della Goldman Sachs International.

Quest'anno, ci sarà molto più "controllo pubblico" su Bilderberg. La pressione da giornalisti e degli attivisti infatti è riuscita ad avere un ufficio: per la prima volta in 59 anni ci sarà un ufficio stampa non ufficiale, composto da volontari. Sono attesi diverse migliaia di attivisti, blogger, fotografi e giornalisti da tutto il mondo.

Solo nel 2009 i testimoni erano appena una dozzina - circondati e anche arrestati dalla polizia greca che aveva una mano pesante. Quest'anno c' è una zona stampa, un servizio di polizia, bagni chimici, un furgone snack, un angolo per portavoce - tutti gli ingredienti per un Bilderberg diverso. Hanno promesso "un'aria da festival". Se vi preoccupate per la trasparenza o per il lobbying, Watford è il posto giusto per passare il prossimo fine settimana. Come si presenteranno i delegati alla stampa e al pubblico resta da vederlo. Ma non dimentichiamoci, che hanno tutti le mani piene delle opere di bene che sta perparando Bilderberg. La conferenza è, dopo tutto, gestita come un ente di beneficenza.

Se qualcuno si dovesse domandare a chi è destinata questa gigantesca operazione di sicurezza abbiamo, http://bilderberg2013.co.uk/participants/ la lista dei partecipanti alle ultime conferenze, in un file pdf inviato da Anonymous, nel quale si informa anche che tutte le spese di Bilderberg, nel Regno Unito, saranno pagate da un ente di beneficenza registrato ufficialmente: l' Associazione Bilderberg (charity number 272.706).

Secondo i conti la Charity Commission, l'associazione sosterrà i "notevoli costi" della conferenza, che si terrà nel Regno Unito, inclusi i costi dell' ospitalità ed i costi di viaggio di alcuni delegati. Presumibilmente la Commissione di carità si occuperà anche delle massiccie spese per il contratto della sicurezza G4S. Fortunatamente però, la Commissione di carità riceve regolari somme a cinque cifre da due gentili sostenitori dei suoi scopi benefici: la Goldman Sachs e la BP. La più recente prova documentale delle spese sostenute risale al 2008 (pdf), dopo tale data la Commissione di carità ha omesso di indicare i nomi dei donatori (pdf).

L'obiettivo della Commissione di carità è "l'istruzione pubblica". E come si deve fare per educare il pubblico? "In linea con gli obiettivi del Comitato Direttivo Internazionale si organizzano conferenze e incontri nel Regno Unito e altrove, e si diffondono i risultati conseguiti preparando e pubblicando relazioni sulle conferenze, sulle riunioni e con altri mezzi informativi." Intelligentemente, i risultati vengono diffusi tenendoli accuratamente lontani dal pubblico e dalla stampa.

La Commissione di carità è supervisionata da tre fiduciari (pdf) membri del comitato direttivo di Bilderberg, il Vice Ministro Kenneth Clarke , Lord Kerr di Kinlochard, e Marcus Agius, l'ex presidente di Barclays che si è dimesso per lo scandalo Libor.

Il Deputato laburista Tom Watson osserva: "Se le accuse che un ministro sieda nel CDA di una Commissione di carità che finanzia discretamente una conferenza segreta di élite sono vere, allora mi auguro che il Primo Ministro ne sia stato informato. E 'stato proprio David Cameron che ha tracciato una nuova era di trasparenza. Spero perciò che chieda a Kenneth Clarke di aderire a questi principi in futuro ". In effetti sia George Osborne che K. Clarke possono considerare di attenersi al codice ministeriale, quando si tratta di Bilderberg e possono inserirlo nella loro lista di "incontri con proprietari, editori e dirigenti dei media", come hanno sempre fatto in passato. Naturalmente, mentre lo scandalo sulle lobbying è ancora vivo, è possibile che i nostri ministri evitino di essere presenti a un evento tanto importante di lobbying aziendale. Lo scopriremo giovedì prossimo.

Charlie Skelton scrive su "10 O'Clock Live" & su " Have I Got News for You" , inoltre segue Bilderberg dal 2009. Tweeterà da Bilderberg Watford da @ deYook
Fonte : http://www.guardian.co.uk/world/2013/jun/02/week-ahead-bilderberg-2013-watford
Tratto da: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11920.
Traduzione per www.ComeDonChisciotte.org a cura di Bosque Primario.

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I MAGNIFICI CINQUE ITALIANI DEL BILDERBERG 2013
Chissà se venerdì scorso, prima di iniziare l'ospitata negli studi de La7, Franco Bernabé ha concordato con Lilli Gruber la trasferta londinese di mercoledì all'appuntamento annuale del Gruppo Bilderberg.
Nelle liste di partecipanti, più o meno ufficiose, che si trovano in rete, infatti, figurano cinque italiani all'edizione dello scorso anno: il presidente della Telecom e la conduttrice di "Otto e mezzo", appunto, oltre al presidente della Fiat John Elkann, l'ad dell'Enel Fulvio Conti e l'attuale premier in carica, Enrico Letta. All'ultima edizione, dopo che non aveva mancato un appuntamento per diversi anni, non ha invece partecipato Mario Monti, diventato presidente del Consiglio.

Fonte: www.dagospia.com.

La prossima bolla finanziaria


di Andrea Baranes - sbilanciamoci -
Sette trimestri consecutivi di recessione. Un record. Famiglie e imprese strangolate dalla crisi. La disoccupazione ai massimi dal 1977. Ma la Borsa in un anno segna un + 35%. Uno scollamento sempre più marcato tra finanza ed economia. L'Italia è nel mezzo di una bolla finanziaria?
Tra giugno 2012 e maggio 2013, il Mib, il principale indice della Borsa italiana, guadagna oltre il 35%. Davvero niente male per un Paese che sta entrando nel settimo trimestre consecutivo di calo del Pil. Consumi e produzione industriale crollano, viviamo una stagione di instabilità politica e di sfiducia sociale, la disoccupazione è ai massimi storici. Ma la finanza vola. 35% in un anno, un dato che dovrebbe corrispondere a un vero e proprio boom economico e a una sfavillante fiducia nel futuro. Cosa sta succedendo, esattamente?
Andiamo indietro di qualche anno, negli Usa. La bolla dei titoli tecnologici esplode a cavallo del nuovo millennio. Negli anni precedenti i mercati erano in preda a un'euforia sfrenata, chiunque investisse in una società informatica vedeva il proprio capitale crescere a dismisura. Il valore di Borsa cresceva al di là di qualsiasi fondamentale economico. L'aumento della domanda dei titoli ne faceva salire il prezzo, e l'aumento del prezzo causava un ulteriore aumento della domanda. La classica bolla finanziaria che si auto-alimenta. Finché un evento in sé limitato non porta qualcuno a vendere, scatenando l'effetto valanga: le vendite fanno scendere il prezzo, il che porta altri investitori a disfarsi dei titoli, in breve si scatena il panico.
Facciamo un altro salto all'indietro, di quasi quattro secoli. Nel XVII secolo i tulipani sono la nuova moda nelle corti europee. Alla crescita della domanda di bulbi alcuni mercanti iniziano a comprarli non per coltivare tulipani, ma sperando che il prezzo continui a salire. Più i prezzi salgono, più persone vengono attratte da questa speculazione e il fenomeno si auto-amplifica. Nel 1635 un bulbo viene venduto a 5.000 fiorini, mentre un maiale ne costava 30 e una tonnellata di burro 10. Fino all'inevitabile scoppio della bolla e alla successiva crisi.
Due situazioni per molti versi simili. Cambia però la reazione delle istituzioni. Nel XVII secolo, i giudici si rifiutano di riconoscere i debiti nati dalla bolla dei tulipani, equiparandoli a gioco d'azzardo. Nel 2001, quando scoppia la bolla tecnologica, la banca centrale statunitense taglia i tassi, per fare ripartire il sistema immettendo più denaro in circolazione. Sto giocando al casinò, finché vinco mi tengo il bottino, quando perdo mi danno la possibilità di acquistare nuove fiches a un prezzo scontato, per continuare a giocare come e peggio di prima. Un gigantesco azzardo morale.
Una montagna di “soldi facili” che segna l'avvio di una nuova bolla, questa volta nel settore immobiliare. Com'è andata a finire è ormai noto: nel 2007 i mutui subprime, il fallimento della Lehman Brothers e la peggiore crisi degli ultimi decenni. Come se ne è usciti? Semplice, inondando nuovamente i mercati di soldi. Indebitando gli Stati per migliaia di miliardi per foraggiare il sistema finanziario responsabile della crisi e portando i tassi ai minimi storici.
Non che in una situazione di crisi sia sbagliata l'idea in sé di iniettare denaro pubblico per fare ripartire l'economia, la politica opposta è la sciagurata austerità che stiamo vivendo in Europa. Ma l'ibrido di liquidità illimitata per la finanza e austerità per gli Stati e i cittadini è surreale. I piani di salvataggio arrivano senza condizioni. Un assegno in bianco dal pubblico al settore finanziario, e si riparte. Con una bolla del petrolio, poi dell'oro. A cavallo del 2008 il prezzo del grano e del mais raddoppia sui mercati internazionali, senza che ci sia alcun motivo “reale”, una siccità, una grandinata, l'invasione delle cavallette, che possa minimamente giustificarne l'andamento.
Tutto questo mentre l'austerità e i tagli alla spesa pubblica significano meno risorse nel sistema economico e recessione. In questa situazione, “naturalmente” i capitali si indirizzano verso la speculazione e si allontanano dalle attività produttive, amplificando la bolla finanziaria da una parte e la stessa recessione dall'altra.
Il sistema bancario contribuisce in maniera determinante. In Italia, con i tassi di riferimento così bassi e un costo della raccolta del denaro che rimane alto, è difficile guadagnare su prestiti e mutui. Le difficoltà di famiglie e imprese nel restituire i prestiti portano inoltre all'aumento delle sofferenze bancarie e dei crediti deteriorati. Per fare quadrare il bilancio, si investe massicciamente in titoli finanziari. L'attività bancaria si sposta dai prestiti agli investimenti di portafoglio. Ulteriori risorse sottratte all'economia e immesse nella finanza.
Somme stratosferiche circolano tra i mercati di tutto il mondo, ma in Italia è praticamente impossibile ottenere un mutuo sulla casa e le imprese non hanno accesso al credito. Un sistema incredibilmente inefficiente, in quanto necessità di enormi risorse per portare a termine il proprio compito, e altrettante inefficace, in quanto non riesce nemmeno a realizzare tale compito in maniera accettabile. Questa finanza non è più uno strumento al servizio dell'economia. È un fardello insostenibile, un gigantesco bidone aspiratutto sopra le nostre teste. È questa la posta in gioco quando parliamo di chiudere il casinò finanziario, limitare l'uso dei derivati, contrastare i paradisi fiscali, introdurre dei controlli sui movimenti di capitali, tassare le transazioni finanziarie. Sottoporre la finanza a una rigida cura dimagrante.
Il problema non è che non ci sono i soldi, come ci ripetono quotidianamente. Il problema è che ce ne sono troppi. Ma sono tutti dalla parte sbagliata. Il Mib segna un +35%. Il Pil è in calo da sette trimestri consecutivi. Uno scollamento sempre più profondo tra finanza ed economia. Una classica bolla. E prima o poi le bolle scoppiano, causando disastri economici e sociali. Se non cambiamo dalle fondamenta l'attuale sistema, il dubbio non è “se” ma “quando” scoppierà. Dopo di che, anche sull'ipotizzare chi verrà riempito di soldi e liquidità perché è “too big to fail”, e chi al contrario rimarrà con il cerino in mano a pagare un conto fatto di sacrifici, disoccupazione, precarietà e piani di austerità, i dubbi sono abbastanza pochi.

In difesa del finanziamento ai partiti e alla politica

 
In difesa del finanziamento ai partiti e alla politica

Pubblicato in - ilmanifesto -

di Francesco Marchianò -
È una grande tristezza assistere inermi alla riduzione e all’abolizione di qualsiasi forma di finanziamento della politica. E’ una sconfitta della democrazia, del progresso, di civiltà. Almeno della nostra civiltà europea. Si dice che sono i cittadini a volerla, che essa rifletta la rabbia del disagio sociale causato dalla crisi. Può darsi. Ma non è una buona politica quella che interpreta le rabbie. La politica dovrebbe risolvere i problemi che stanno all’origine della rabbia, non farsene un interprete populista.
È una regressione grave e pericolosa. Persino, si potrebbe dire, anticostituzionale. L’articolo 49 della nostra Costituzione recita:
“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Se è un diritto vuol dire che lo stato dovrebbe garantirlo e non negarlo. Favorirlo, non sopprimerlo. Dovrebbe aumentare il finanziamento ai partiti, che in tantissimi paesi europei è nettamente più cospicuo che da noi, magari a scapito degli stipendi dei parlamentari. Poi certamente andrebbe regolamentato e reso trasparente, imponendo alcuni vincoli ai partiti.
Da noi si abolisce il finanziamento pensando di decurtare gli stipendi dei politici e non si capisce che a rimetterci, come ha ricordato Ugo Sposetti al Corriere della Sera, sono in realtà le persone che nei partiti e nelle fondazioni collegate lavorano per poche centinaia di euro al mese. Sono quelli che lo fanno per passione prima ancora che per denaro a pagarne le conseguenze.
Ma non è solo questo. L’abolizione del finanziamento alla politica ha a che fare con l’essenza stessa della democrazia sostanziale. Persino un bambino capirebbe che, senza il finanziamento, si andrebbe incontro solo a tendenze plutocratiche e degenerative: la politica la potrebbero fere solo i ricchi e i partiti diventerebbero ricattabili da chi ha denaro e sarebbero, dunque, costantemente sotto lo scacco delle lobby economiche e dei poteri forti. Vince il mercato, perde lo Stato. Vincono le banche e le imprese, perdono i cittadini. Il pubblico si suicida a favore del privato. Una tragedia politica e sociale.
Nel discorso pubblico si lascia credere che siano i cittadini a volere l’abolizione; in realtà è il mondo della finanza e dell’economia che lo desidera visto che teme, in questo periodo di crisi, le risposte che possono venire da partiti strutturati che possono portare avanti istanze reali di cambiamento dal basso. Sono gli stessi soggetti che, avendo a disposizione i mass media, sono riusciti a montare la polemica, inconsistente, contro la casta. Voglio che lo Stato non finanzi la politica ma poi pretendono che utilizzi i soldi dei cittadini per pagare i debiti delle banche.
Chi difende la democrazia dei partiti viene accusato di essere novecentesco. Sarà. Ma chi lo dice, dietro la sua presunta ipermodernità, è in realtà un ottocentesco che propone (inconsapevolmente?) il ritorno ai notabili muniti di comitati personali, alla società civile (molto più ridotta del corpo elettorale) che, in virtù del suo potere cognitivo ed economico, persegue solo interessi privati senza quella “intuizione del mondo” tipica dei partiti.
È la vittoria delle miserie del liberalismo italiano che smise di essere classe dirigente quando comparvero i partiti dimostrando di non sapere dialogare con la modernità della democrazia di massa. Allora, per togliere di mezzo i partiti, si servì anche del fascismo. Oggi è bastato solo aver montato una battaglia mediatica e populista per raggiungere lo stesso scopo.
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