Il decisionismo autoritario di un presidente–sovrano
Scritto da Gianfranco Greco - sinistrainrete -
“Se votare facesse qualche differenza non ce lo lascerebbero fare”
(Mark Twain)
(Mark Twain)
Trovarsi nei panni degli elettori PD deve durare una certa fatica laddove si pensi che una sapiente e risoluta operazione di restaurazione li ha fatti precipitare dalle mitiche “primarie” - condite dai precisi impegni, presi dai maggiorenti del partito, di non fare accordi con Berlusconi - ad una situazione per tanti versi surreale in cui, alla fine, i loro voti vanno a fare mucchio con quelli degli elettori PDL per dar vita - tanto per rinverdire i fasti tipici del trasformismo italiano – ad un governo delle larghe intese, voluto e realizzato da chi, da sempre, ha svolto un indefesso lavorìo a favore di questa soluzione.
Dolersi, indignarsi per la piega presa dai recenti accadimenti rientra nel più classico dei dejà vu, tuttavia nello stigmatizzare talune prese di posizione, certi giri di valzer, specificatamente a livello parlamentare, non ci si dovrebbe mai dimenticare che gli stessi sono legittimati e quindi consentiti da quella che viene, con spreco di enfasi, definita “la più bella Costituzione del mondo” che, all’art. 67, recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato” significando in tal modo che il singolo parlamentare non ha vincolo né verso il proprio partito, né verso il suo programma elettorale, né, tantomeno, verso gli elettori che lo hanno votato, ai quali viene riconosciuta la sola libertà di non eleggerlo alla successiva tornata elettorale.
Ciò avrebbe garantito, secondo i “padri fondatori”, la libertà di espressione più assoluta ai membri del Parlamento. Tuttavia lo spettacolo miserevole andato in onda, oggi come anche in passato, non avvalora di certo questa chiave di lettura finendo, invece, per dar forza alla ovvia considerazione che l’intero meccanismo si basi sul fatto che, essenzialmente, “ masse di elettori vengono trascinati nella impossibile scelta tra le differenze politiche di uno schieramento di partiti che in realtà non presentano alcuna seria concorrenza di programmi, di idee, di princìpi, ma che esibiscono una sconcia parata di lestofanti alla ricerca di quel tanto di potere che il loro investimento monetario, fatto in campagna elettorale, gli permetterà di accaparrarsi”[1] dal che emerge la natura eminentemente truffaldina del contesto elettorale di cui è plastica testimonianza proprio la vicenda italiana nella quale alla massa di “cittadini elettori”di cui ci si è serviti nell’ultima tornata elettorale viene poi rivolto il “perentorio” invito di farsi disciplinatamente da parte in quanto il manovratore o, meglio, i manovratori non devono essere disturbati.
Elitarismo intriso di autoritarismo. Come altro definirlo?
Un bell’esempio da manuale per gli esegeti, in servizio permanente, della cosiddetta democrazia borghese ai quali verrebbe da chiedere se la realtà attuale, intrisa di ingiustizia, diseguaglianze, sfruttamento, miseria, sia veramente quel “ migliore dei mondi possibili” concedendoci la licenza di parafrasare il Pangloss del “Candido” di Voltaire.
A far da dato rilevante è il permanere, nell’intera vicenda, del forte sentore che il governo delle larghe intese ma, perfino, la stessa rielezione di Napolitano facciano parte di un’unica strategia che parte da lontano e che, al di là della bolsa retorica sulla pacificazione, sul superamento delle divisioni, abbia a che vedere con gli impegni sottoscritti con l’Europa, con gli organismi internazionali, con centri finanziari, in sintesi col preciso intento di dar continuità agli impegni presi tra cui la macelleria sociale portata avanti con precisione chirurgica dal governo dei bocconiani.
D’altra parte tutto questo - com’era nei voti dei poteri forti, Confindustria e Vaticano compresi – poteva, stante gli esiti elettorali, essere garantito soltanto da una “grosse koalition” in salsa tricolore a cui avessero dato il loro sostegno i due maggiori partiti.
E’ proprio questo particolare aspetto che viene colto e nitidamente sintetizzato da Marco Bascetta, su “il Manifesto”, laddove, nell’analizzare le coordinate lungo cui procede il neo-presidente della repubblica, scrive:
“Si tratta di stabilire, in accordo con i poteri forti del momento e con i “mercati” una serie di compatibilità, garantire che le forze sociali li rispettino, condannare ogni forma spontanea di mobilitazione e di dissenso. Ne consegue, oltre all’apprezzamento pratico e ideologico dell’austerità, una profonda ostilità nei confronti dello strumento referendario, per non parlare dei movimenti e del conflitto sociale nonché dei diritti di libertà che potrebbero disturbare il mondo cattolico” e ancora “ E’ la forma più garbata di connubio tra liberismo e autoritarismo (nel senso di una indiscutibile autonomia dei manovratori, di una prevalenza sacrale dei governanti sui governati)”[1].
Per amor di paradosso ci piace anche dar rilievo a come il dodicesimo Presidente della Repubblica – peraltro etichettato, con ampio sfoggio di immaginazione, “comunista” – sia stato indicato e voluto da un personaggio – il padrone del PDL – che trascorre gran parte del suo tempo a baloccarsi col mantra dell’anticomunismo.
Il vero “kingmaker “ di questa elezione risulta essere, pertanto, il cavaliere che, tra l’altro, difficilmente avrebbe potuto esplicitare il proprio potere di orientamento/condizionamento se non fosse stato coadiuvato da alcuni notabili del PD coi quali, prescindendo dall’opposizione di facciata di tutti questi anni, esistono congrui e datati rapporti di cointeressenza.
E’ lampante come i passi che hanno portato alla nomina del Presidente della Repubblica e, successivamente, alla formazione del governo Letta abbiano seguito un filo conduttore in prevalenza già predeterminato e tutto questo continua ad avvenire in una situazione politica che vede le istituzioni tutte ma in particolar modo il Parlamento – questa specie di “turris eburnea” - in totale sconnessione con la realtà circostante e all’interno del quale è molto attiva una federazione di potentati il cui peso specifico è legato strettamente alla filiera di tessere possedute o dei voti di cui si dispone nel Parlamento medesimo.
Analisti politici, studiosi di ingegneria costituzionale hanno riscontrato nello svolgersi di queste recenti dinamiche un mutamento della costituzione materiale che vede come manifestazione ultima un presidenzialismo di fatto che marginalizza il Parlamento a semplice organo notarile.
D’altronde, rivelatore di questa concezione oligarchica è lo stesso Monti che in una intervista rilasciata a “Der Spiegel” dichiara, testualmente,:”I governi non devono lasciarsi vincolare da decisioni dei propri Parlamenti, ma devono educarli”[2]
I dieci saggi e la convenzione per le riforme
Il “ Gran Consiglio dei saggi” istituito con perfetta tempistica dal Capo dello Stato va a prefigurare il governo che di lì a poco sarebbe stato formato e le risultanze a cui perviene costituiscono le linee direttrici a cui lo stesso governo si sarebbe poi dovuto informare.
Ne sono scaturite 10 proposte che spaziano dalla legge elettorale al superamento del bicameralismo paritario, dal rapporto tra Parlamento e Governo al finanziamento dei partiti.
Non si può certamente non rimarcare l’inedita prassi costituzionale di cui si è avvalso il presidente Napolitano nell’istituire tale commissione, ciò che va a dimostrare come l’attuale congiuntura economica e politica induca ad un esercizio del potere che considera il rispetto delle stesse regole democratico-borghesi con malcelato fastidio.
Nel dare configurazione all’attuale fase costituente il giurista Ugo Mattei scrive :
“Da lungo tempo Napolitano prende ordini dai poteri forti, i quali non sopportano più il dispiegarsi della democrazia perché sanno che il popolo ora rigetta consapevolmente il loro disegno di predazione. Gli apparati ideologici della globalizzazione e il dispositivo politico-mediatico del riformismo non riescono più a sedurre né a nascondere. E’ necessario “attentare” alla Costituzione, sovrapponendo alle sue istituzioni un Gran Consiglio del Riformismo, forse presto una Giunta, in ogni caso un organo giuridicamente informale su un costituzionalismo formale morente”[3].
Questo discorso fa riferimento – solo in chiave ipotetica ? – al possibile ricorso a procedimenti in grado di fa passare come riforma un processo costituente suscettibile di stravolgere e travolgere l’insieme di una Costituzione non più in sintonia con alcuni precetti ritenuti non più procrastinabili come possono essere il superamento del bicameralismo paritario, la creazione di un senato delle Regioni, l’attribuzione del voto di fiducia per il governo alla sola camera dei deputati e la riduzione del numero dei parlamentari.
Tutte misure – come si può facilmente evincere – tese alla semplificazione delle procedure nonché ad un accentramento decisionale scevro, in massima parte, da filtri di garanzia.
La costituzionalista Lorenza Carlassare fa rilevare come:
”La Costituzione non può essere modificata nei principi fondamentali e nella struttura di base , la forma di Stato … I rapporti tra gli organi costituzionali sono stati disegnati conformemente al principio della divisione dei poteri: se concentriamo tutto il potere in un solo organo, il primo ministro o il presidente della Repubblica, si cambia la forma di stato non solo quella di governo. E poi l’idea che un piccolo gruppo prenda in mano i destini del paese mi fa paura, è un ulteriore segnale dello spirito autoritario che si sta affermando”.[4]
Lo stesso Stefano Rodotà trova modo di criticare aspramente il tavolo della Convenzione per le riforme apparecchiato da PD e PDL alla luce, soprattutto, di precedenti non proprio edificanti nei quali il Parlamento ha votato, per esempio, la “devolution”, voluta dai cosiddetti saggi di Lorenzago, bocciata poi da un referendum o come il pareggio di bilancio (art.81) che, come scrive Luciano Gallino,
“Monti e la sua maggioranza hanno approvato in due ore in parlamento , come se fosse una bagatella. L’Italia ha, pertanto, inserito nella Costituzione la regola che le imporrà di ridurre 50 miliardi di debito ogni anno, per vent’anni consecutivi. Molti di coloro che siedono in parlamento non si rendono conto di cosa significhi. Forse non sapevano di cosa si trattava oppure hanno sottovalutato il fatto che tagli di queste proporzioni , oggi, significano una sola cosa: la condanna alla miseria”.[5]
E’ questo il viatico che andrà ad accompagnare i primi passi del neo costituito governo Letta che, stando a ciò che Napolitano ha voluto rimarcare, è un governo politico, non più tecnico, intendendo con questo che la fase di eccezionalità è terminata per lasciare quindi il campo ad un governo con poteri ben più ampi e incisivi.
La nota paradossale, tuttavia, è data dal fatto che – prescindendo dai nominalismi tecnico o politico – la compagine governativa è formata, de facto, dalle stesse forze politiche che hanno appoggiato il governo dei bocconiani e con ciò, quindi, viene assicurata persistenza a quel piano di riforme strutturali dalle quali, secondo quanto sostiene Moody’s, non si può prescindere laddove si voglia migliorare l’affidabilità creditizia del sistema Italia e che non possono non andare ad incidere su un mercato del lavoro ritenuto “da un lato eccessivamente regolamentato e dall’altro ancora vincolato ad accordi di categoria nazionali che potrebbero, viceversa, essere decentrati”[6] alla quale dà man forte un “rottame stalinista” quale Giuliano Ferrara a detta del quale l’unica vera riforma da fare sarebbe l’introduzione della facoltà di licenziare!
A volte ritornano: i democristiani
Come l’Araba fenice – l’uccello mitologico noto per il fatto di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte – l’ex Democrazia cristiana è rinata a nuova vita e a dimostrarlo è proprio il governo appena varato nel quale sono presenti i vari Letta, Alfano, Del Rio, Franceschini, ossia un plotone di quarantenni tutti provenienti dalla scuola politica del vecchio Movimento giovanile della Democrazia Cristiana.
E’ un sublime suggello all’alacre lavorìo di Napolitano che assume quasi i contorni derisori della beffa: “Eletti ed elettori di quel grande ceppo fondante del PD che fu la diaspora “comunista” (si fa per dire - n.d.r.) non fanno parte del governo Letta!”[7]
In cosa possa fattivamente tradursi l’operato di questo governo il cui programma presenta una certa dose di vaghezza laddove alle misure annunciate – sospensione dell’IMU, rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, avviare a soluzione il problema degli esodati, introduzione di un reddito minimo per le famiglie bisognose e altre ancora – riesce difficile intravederlo e i tantissimi punti del programma di Letta sanno tanto di pedissequa enunciazione in quanto dimentica di precisare da dove attingerà le risorse ma soprattutto tralascia di dire che le politiche di austerità rimarranno intatte.
Riteniamo di non andare molto lontano dalla realtà nell’asserire che Letta non rappresenta e non può rappresentare discontinuità alcuna con “l’agenda Monti” di cui condivide l’intero impianto.
Alcuni economisti hanno, tuttavia, rilevato come il neo-presidente del Consiglio non abbia fatto cenno ad alcuna disposizione concreta di alienazione né del patrimonio pubblico né di tagli della spesa pubblica, la qualcosa induce a domandarsi: quando si parla – tra le altre cose - di abbassare il costo del lavoro è inverosimile ritenere che ciò vada a corrispondere ad una nuova riduzione delle pensioni, della sanità o della cassa integrazione?
Ulteriore attacco, per via consequenziale, alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato italiano.
D’altronde nelle riforme strutturali – sulle quali è saltato, nel novembre 2011, il governo Berlusconi – tra i vari punti, si fa esplicito riferimento all’esigenza di riformare “ulteriormente” il sistema di contrattazione salariale collettiva così come quella di adottare un’ accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti procedendo, con tutto questo armamentario, a grandi passi verso la cinesizzazione del lavoro in Italia di cui indubbio precursore è stato Marchionne.
I fatti continuano ad essere testardi
“Facts are stubborn things” (I fatti sono cose caparbie) è quanto asserisce un proverbio inglese significando come sia operazione inutile voler ricamare intorno all’oggettività dei fatti che nella fattispecie rimarcano lo stacco profondo che esiste tra una enunciazione di intenti inderogabili come quella contenuta nel diktat della Bce e una realtà di crisi globale evidenziata, significativamente, da un dato: l’80% degli abitanti del mondo vive in uno stato che ha tagliato tutto.
Il ritenere quindi – come contenuto sempre nelle fatidiche “riforme strutturali” – che le sfide principali siano l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi o la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e la privatizzazione attuata su larga scala va a legarsi plasticamente con le risultanze di uno studio appena pubblicato dall’”Initiative for Policy Dialogue” della Columbia University intitolato: ”L’era dell’austerità – studio delle politiche di aggiustamento della spesa pubblica in 181 paesi”.
Secondo quanto scrive, su il Manifesto, Andrea Baranes
"Quest’anno l’austerità potrebbe riguardare circa l’80% della popolazione globale, ovvero circa 5,8 miliardi di persone. Riguardo le misure adottate tra il 2010 e il 2013 le più diffuse sono:
- - l’eliminazione o la riduzione dei sussidi e degli aiuti, in particolare su agricoltura e cibo (in 100 paesi);
- - la riduzione dei salari, a partire da quelli nell’istruzione, la salute e altri settori pubblici (98 paesi);
- - la diminuzione delle reti e delle misure di protezione sociale (80 paesi);
- - una riforma delle pensioni (86 paesi);
- - tagli alla sanità pubblica (37 paesi);
- - più flessibilità per i lavoratori (32 paesi).
Come se queste misure non fossero sufficienti, lo studio ricorda come diversi governi ne abbiano adottate anche altre, con pesanti ricadute, soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione. E’ il caso di politiche fiscali regressive come l’aumento dell’IVA o simili che pesano in maniera sproporzionata sulle fasce più povere. Nell’ultima parte della ricerca si mette in discussione tanto l’equità quanto la validità di tali decisioni, affrontando la questione da diversi punti di vista: la tempistica, lo scopo che si voleva perseguire, l’intensità delle misure adottate, la loro efficacia dal punto di vista macroeconomico rispetto al costo sociale.
Il risultato è prevedibile. Le conseguenze sono gravi e rischiano di esserlo ancora di più nel prossimo futuro:
Il risultato è prevedibile. Le conseguenze sono gravi e rischiano di esserlo ancora di più nel prossimo futuro:
- - aumento della disoccupazione;
- - maggiore povertà;
- - aumento delle diseguaglianze.”[8]
Una realtà tremenda che va ad incrociarsi, per quel che attiene l’Italia, con una effettività segnata da una depressione economica intorno alla quale i ciarlatani dei consessi internazionali, Banca Mondiale, OCSE o FM, si sbizzarriscono in previsioni, sulla ripresa dell’economia, che rivelano la loro natura di falsari non disgiunta da una certa irresponsabilità.
C’è poco da discettare. Basta un solo inconfutabile dato: l’Italia è il paese dell’Eurozona con il tasso di occupazione più basso dopo Grecia e Spagna e che va ad incidere soprattutto sui giovani tra i 15 e i 24 anni portando il tasso di disoccupazione giovanile al 39,2%.
Analizzare più in profondità questa dimensione di crisi significa porre anche in rilievo come - sempre in Italia e nel solo settore dei dipendenti pubblici – misure quali il rinvio dei pensionamenti, il blocco delle nuove assunzioni ed il mancato rinnovo degli interinali ha consentito un notevole risparmio sugli stipendi, che è andato a gravare, com’è ovvio, totalmente sui lavoratori. Se nel 2011 la spesa è stata di 170 miliardi, ebbene nel 2012 era già scesa a 165 miliardi.
Anche per quel che attiene le retribuzioni lo stato italiano presenta questo andamento a ritroso per cui, in termini reali, si è tornati al 1979 andando ad incidere negativamente sui settori che garantiscono il Welfare, scuola e sanità per primi.
Questo insieme va ad inserirsi in un contesto, l’Eurozona, che vedrà nel 2013 – secondo dati della BCE - la disoccupazione strutturale aumentare insieme a quella congiunturale ed in cui 25 milioni di persone non riuscirà più a trovare un lavoro.
“L’uscita dalla crisi, se e quando ci sarà, non produrrà nuova occupazione e lascerà sul campo persone “non convertibili”. I loro posti di lavoro non ci saranno più” e ancora “ Quanto più a lungo i disoccupati restano senza lavoro, più è probabile che le loro competenze diminuiscano e che il loro capitale umano si deprezzi”[9]
Dati questi chiari di luna diventa alquanto arduo definire presupposti fattivi sui quali basare la tanto decantata ripresa tenendo conto, oltretutto, che una eventuale spesa pubblica più espansiva, un ipotetico credito più abbondante, un presumibile nuovo programma di lavori pubblici dovrebbero, in ogni caso, sottostare alle “forche caudine” delle compatibilità con gli accordi imposti dalla BCE e dalla UE tant’è che” Le prime sensazioni che si avvertono a Bruxelles suggeriscono che la promessa di “mantenere gli impegni” presi in Europa sui conti Italiani sia poco compatibile con il pacchetto di indicazioni programmatiche contenute nel discorso del neo primo ministro”.[10]
Lotta alla casta o lotta di classe ?
Disagio sociale, insofferenza, insoddisfazione, rabbia, follia individuale.
Grani di un rosario che altro non rappresentano se non una filiera esplosiva che si rivolge contro la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento, lo Stato e di cui il Movimento 5 Stelle ha saputo interpretare al meglio le pulsioni.
Essendo un non-partito ma essenzialmente una rete riesce, attraverso una furbesca opera di gestione dello scontento sociale, ad attrarre componenti diverse dal punto di vista socio-economico e politico per cui gode di un certo seguito tra gli operai come pure tra gli imprenditori, tra i disoccupati, i lavoratori autonomi, gli studenti, i liberi professionisti finendo con l’assumere una dimensione interclassista , da partito di massa come potevano essere in passato la DC o il PCI.
Sotto questo aspetto il M5S ha saputo svolgere un’importante funzione laddove ha offerto uno sbocco politico alle istanze provenienti da strati della popolazione sempre più in sofferenza con l’avanzare della crisi economica e sociale, inglobandole in un progetto che non si connota, di certo, per il suo antagonismo anticapitalista ma solo per un giustizialismo radicale anti casta.
Generalità indifferenziate come la Nazione o i cittadini assumono preminenza semantica così come l’impresa viene scelta come soggetto sociale centrale mentre è accuratamente evitato qualsiasi riferimento al cambiamento dei rapporti economico-sociali esistenti.
Il retro pensiero del duo Casaleggio-Grillo allude quindi
”ad una società come fosse divisa solo orizzontalmente: il sotto e il sopra, i cittadini e il Potere. Non ci sono più divisioni e conflitti sociali. Oppure ci sono, ma la comunità è altra cosa dalla società. E’ un tutto organico di non-organici. Una somma di individui anonimi, il vincolo interpersonale trasferito alla Rete”.[11]
E su questa “agorà” virtuale, a sentire lo stesso Casaleggio
“On line il 90% dei contenuti è creato dal 10% degli utenti. Questi utenti sono gli “influencer” che vanno valutati come asset strategici delle aziende. Hanno post, postano video, sono attivi sui social network, propongono “l’opinione degli utenti” a proposito di prodotti e servizi sul mercato: opinioni spesso finte, pagate, sollecitate secondo le regole del marketing”[12]
Per gli studiosi di comunicazione un saggio insuperabile sul legame sempre più stretto tra marketing e politica!
L’economia 5 stelle, al contrario, di insuperabile mostra ben poco se riesce ad affastellare in un tutto indistinto teorie liberiste e difesa dei beni comuni, misure redistributive, l’abolizione delle pensioni, tagli agli stipendi pubblici e finanche la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili di impresa, riuscendo, di fatto, a ridar vita all’art. 12 del “Manifesto di Verona” dell’allora Repubblica sociale italiana.
E’ del tutto evidente come nella prospettiva del M5S non ci sia posto per la questione sociale, per i diritti dei lavoratori, per la critica al sistema capitalista finendo, il tutto, per assumere soltanto una connotazione moralizzeggiante, una rivolta etica del tutto organica e quindi funzionale soprattutto agli interessi di certa borghesia nostrana.
Non è dunque con queste fumisterie che i lavoratori, i disoccupati, i precari, i giovani che non troveranno mai un lavoro, che non percepiranno mai una pensione e per i quali si prospetta un domani di assoluta povertà, che potranno dare una risposta alle loro ansie, alle loro paure, alla loro insoddisfazione, alla loro rabbia.
D’altronde è la stessa borghesia a riconoscere apertamente che l’epoca del benessere diffuso è ormai definitivamente chiusa e che bisogna attivarsi tutti per salvare il sistema capitalistico dato che non esiste alternativa alcuna ad esso cercando quindi di occultare o far sembrare anacronistico l’antagonismo tra borghesia e proletariato che, però, esiste e continua ad essere insanabile.
In estrema sintesi, se un sistema come quello attuale è giunto – oggettivamente – a fine corsa poiché non sa assicurare, alla maggior parte dell’umanità, altro che diseguaglianze e povertà diventa allora attuale quanto indilazionabile l’esigenza di cambiare gli attuali rapporti sociali.
“Ma ciò implica che anche il moderno proletariato si riconosca, innanzitutto, come classe sfruttata, inconciliabilmente contrapposta alla borghesia, e, al contempo, anche come l’unica classe che può porre fine all’attuale sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e avviare la costruzione di un’autentica società comunista.”[13]
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