La “fatwa” lanciata dai capitalisti e dai loro ideologhi contro il comunismo dopo la caduta del Muro ha prodotto ovunque molti danni. I peggiori dei quali nella testa dei comunisti medesimi, presto convertitisi e dediti con zelo all’abiura radicale del proprio passato, per riguadagnare, agli occhi dei vincitori, la perduta dignità politica e il diritto ad accomodarsi nei salotti del potere.
Come il poliziotto del film “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, gli ex comunisti hanno trangugiato il sale del pentimento ed hanno solennemente ripudiato non solo la falce e il martello, ma l’intera storia che ha forgiato quei simboli, gareggiando con i liberisti d’antan a chi con più lena e convinzione sostiene l’ordine di cose esistente. Ma, francamente, è giunta l’ora di metterci una pietra sopra. Costoro sono persi e da lì non potrà venire nulla di buono, tanto meno catartiche resurrezioni, perché un riflesso pavloviano impedisce loro di ripercorrere criticamente la propria storia, quella del movimento operaio, che non è stata elaborata, ma semplicemente rimossa.
Costoro sono semplicemente cooptati altrove. E vagano come le anime morte di Gogol, utili ad un gioco in cui sono altri i veri protagonisti o, se si preferisce, gli “utilizzatori finali”.
Come ognuno può tristemente constatare, non vi è più argine capace di contenere la “ruzzola” politica del Pd che ha reciso anche il più fragile ormeggio (ideale? culturale? politico?) a sinistra e procede al traino del Pdl, di questa impresentabile destra.
L’approdo prossimo venturo – dopo lo sconquasso dei diritti del lavoro, del welfare, della legge elettorale iper-maggioritaria, della sovranità popolare ceduta alla Bce e via demolendo – è la madre di tutte le “riforme” istituzionali: la trasformazione dell’Italia in una repubblica presidenziale. Tutto avviene tranquillamente, senza patemi o crisi di coscienza, con squisito afflato bipartisan.
Le risate di licio Gelli staranno raggiungendo il cielo: neppure lui avrebbe potuto immaginare che il suo “Programma di rinascita nazionale” avrebbe raccolto così entusiasti proseliti, che i gravissimi capi d’accusa per i quali fu arrestato e condannato sarebbero stati riciclati nei programmi di governo. E che gli atti che gli valsero l’accusa di eversione sarebbero stati ripuliti al punto che se una cosa oggi stupisce è che al vecchio fondatore della Loggia P2 non siano ancora stati revocati gli arresti (dorati) nella sua villa Wanda aretina.
Nel 2003, quando tante porcherie anticostituzionali dovevano ancora venire, Gelli se ne uscì con queste parole, in un’intervista a Repubblica.it: “Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la Tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa. Tutto nel ‘Piano di Rinascita’, ed è finita proprio come dicevo io”. E invece non era ancora finita. Né lo è ora.
Come nel 1815, quando le ultime tracce della rivoluzione furono divelte dalle forze reazionarie per tornare all’Ancien régime, così qui da noi si procede, con gli stivali delle sette leghe, verso la totale abrogazione della Costituzione, chiudendo finalmente i conti con il più prezioso lascito della rivoluzione democratica e antifascista.
Per ironia della sorte, mentore e mallevadore di questa “fuga nell’opposto” è Giorgio Napolitano, i cui trascorsi comunisti stridono sinistramente contro un presente che ha sepolto con un doppio strato di calce viva ogni segno di quel passato.
Il fatto è che la deriva dei democrat non restituirà il soffio della vita a chi comunista è ostinatamente rimasto e a chi ancora, nonostante tutto, lo diventa, pur in questi durissimi anni di emarginazione, non certo per fare dell’impotente testimonianza.
Ecco, questo è il punto. Ci è chiesto un di più, di creativo, di evolutivo, come Marx seppe fare per primo e raccomandò di non dimenticare, se lo scopo è quello di produrre un cambiamento reale e profondo nei rapporti sociali, evitando perciò di consegnarsi all’adorazione di feticci o di ricette preconfezionate. E’ un lavoro duro. Che costa impegno e fatica, perché non contempla scorciatoie e non si riduce alla sloganistica radicale o alla protesta, anche se urlata a pieni polmoni.
Sin qui – pare evidente – non siamo stati all’altezza del compito. Ma la costruzione di una sinistra non velleitaria esige che si sappia elaborare un paradigma trasformativo, talmente robusto da poter combattere, ad armi pari, contro il capitale, la battaglia per l’egemonia. E che le lotte sociali, da frammentarie e scollegate che sono, trovino in quel progetto il terreno unificante. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. Ma lì è la sfida. Cercare, trovare il bandolo della matassa è il compito che attende i comunisti. Altrimenti, malgrado gli immani disastri provocati, saranno ancora i padroni di sempre, coadiuvati dal loro inesausto esercito di maitre a penser, a guidare la danza.
Come il poliziotto del film “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, gli ex comunisti hanno trangugiato il sale del pentimento ed hanno solennemente ripudiato non solo la falce e il martello, ma l’intera storia che ha forgiato quei simboli, gareggiando con i liberisti d’antan a chi con più lena e convinzione sostiene l’ordine di cose esistente. Ma, francamente, è giunta l’ora di metterci una pietra sopra. Costoro sono persi e da lì non potrà venire nulla di buono, tanto meno catartiche resurrezioni, perché un riflesso pavloviano impedisce loro di ripercorrere criticamente la propria storia, quella del movimento operaio, che non è stata elaborata, ma semplicemente rimossa.
Costoro sono semplicemente cooptati altrove. E vagano come le anime morte di Gogol, utili ad un gioco in cui sono altri i veri protagonisti o, se si preferisce, gli “utilizzatori finali”.
Come ognuno può tristemente constatare, non vi è più argine capace di contenere la “ruzzola” politica del Pd che ha reciso anche il più fragile ormeggio (ideale? culturale? politico?) a sinistra e procede al traino del Pdl, di questa impresentabile destra.
L’approdo prossimo venturo – dopo lo sconquasso dei diritti del lavoro, del welfare, della legge elettorale iper-maggioritaria, della sovranità popolare ceduta alla Bce e via demolendo – è la madre di tutte le “riforme” istituzionali: la trasformazione dell’Italia in una repubblica presidenziale. Tutto avviene tranquillamente, senza patemi o crisi di coscienza, con squisito afflato bipartisan.
Le risate di licio Gelli staranno raggiungendo il cielo: neppure lui avrebbe potuto immaginare che il suo “Programma di rinascita nazionale” avrebbe raccolto così entusiasti proseliti, che i gravissimi capi d’accusa per i quali fu arrestato e condannato sarebbero stati riciclati nei programmi di governo. E che gli atti che gli valsero l’accusa di eversione sarebbero stati ripuliti al punto che se una cosa oggi stupisce è che al vecchio fondatore della Loggia P2 non siano ancora stati revocati gli arresti (dorati) nella sua villa Wanda aretina.
Nel 2003, quando tante porcherie anticostituzionali dovevano ancora venire, Gelli se ne uscì con queste parole, in un’intervista a Repubblica.it: “Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la Tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa. Tutto nel ‘Piano di Rinascita’, ed è finita proprio come dicevo io”. E invece non era ancora finita. Né lo è ora.
Come nel 1815, quando le ultime tracce della rivoluzione furono divelte dalle forze reazionarie per tornare all’Ancien régime, così qui da noi si procede, con gli stivali delle sette leghe, verso la totale abrogazione della Costituzione, chiudendo finalmente i conti con il più prezioso lascito della rivoluzione democratica e antifascista.
Per ironia della sorte, mentore e mallevadore di questa “fuga nell’opposto” è Giorgio Napolitano, i cui trascorsi comunisti stridono sinistramente contro un presente che ha sepolto con un doppio strato di calce viva ogni segno di quel passato.
Il fatto è che la deriva dei democrat non restituirà il soffio della vita a chi comunista è ostinatamente rimasto e a chi ancora, nonostante tutto, lo diventa, pur in questi durissimi anni di emarginazione, non certo per fare dell’impotente testimonianza.
Ecco, questo è il punto. Ci è chiesto un di più, di creativo, di evolutivo, come Marx seppe fare per primo e raccomandò di non dimenticare, se lo scopo è quello di produrre un cambiamento reale e profondo nei rapporti sociali, evitando perciò di consegnarsi all’adorazione di feticci o di ricette preconfezionate. E’ un lavoro duro. Che costa impegno e fatica, perché non contempla scorciatoie e non si riduce alla sloganistica radicale o alla protesta, anche se urlata a pieni polmoni.
Sin qui – pare evidente – non siamo stati all’altezza del compito. Ma la costruzione di una sinistra non velleitaria esige che si sappia elaborare un paradigma trasformativo, talmente robusto da poter combattere, ad armi pari, contro il capitale, la battaglia per l’egemonia. E che le lotte sociali, da frammentarie e scollegate che sono, trovino in quel progetto il terreno unificante. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. Ma lì è la sfida. Cercare, trovare il bandolo della matassa è il compito che attende i comunisti. Altrimenti, malgrado gli immani disastri provocati, saranno ancora i padroni di sempre, coadiuvati dal loro inesausto esercito di maitre a penser, a guidare la danza.
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