Nel mondo, si legge nel rapporto: «il numero degli individui con patrimonio finanziario superiore a 1 milione di dollari infatti è aumentato in termini di popolazione e ricchezza nel 2010, superando i livelli pre-crisi del 2007 in quasi tutte le regioni». La popolazione dei milionari (e a salire) è aumentata dell’8,3%, a 10,9 milioni e la ricchezza finanziaria da essa detenuta è in crescita del 9,7% a 42.700 miliardi di dollari USA (rispetto al 17,1% e al 18,9% rispettivamente nel 2009). La popolazione globale degli individui con patrimonio finanziario di oltre 30 milioni di dollari ha registrato un aumento pari al 10,2% nel 2010 e la sua ricchezza è cresciuta dell’11,5%.
È bene chiarire che il rapporto si occupa, chiamandoli HNWI (High Net Wealth Individuals), di quelle persone con un patrimonio investibile di più di 1 milione di dollari americani. Dal conto si escludono i beni durevoli e non durevoli collegati al consumo e il valore immobiliare delle prime case.
Meno di 11 milioni di individui controllano una ricchezza “mobilitabile” di quasi 43 trilioni di dollari, come a dire l’equivalente teorico di quasi il 73% del PIL mondiale. Pur con tutte le cautele, e l’immediato rifiuto della vecchia logica pauperista, qualcosa veramente non va. I numeri nella vita reale, nel quadro di un’economia capitalisticamente e/o politicamente sana, devono “parlarsi”, ci devono essere delle proporzioni che abbiano un senso. Questi numeri non hanno nemmeno le orecchie. Ma noi le abbiamo, e ci ricordiamo di alcuni dati, in piena sintonia con quanto fin qui detto, apparsi sul Financial Time della settimana scorsa e su uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali qualche tempo prima.
L’articolo del FT, intitolato «le società non tollereranno per sempre queste gigantesche liquidazioni», spiegava come dal 1978 al 2008 il reddito delle classi-medio basse britanniche fosse aumentato del 27%, a fronte di un raddoppio del PIL e di un quadruplicamento del reddito delle classi agiate (rappresentate dal 10% più alto dei redditi dichiarati). Non male davvero, ecco come poi arrivi a 42,7 trilioni di dollari nel mondo (e alla conseguente uniformazione dei gusti e delle pratiche, mai notato qualche differenza tra un loungebar a NY e uno a Chennay?).
Veniamo alla Banca dei regolamenti internazionali (BIS). I calcoli effettuati da Luci Ellis e Kathryn Smith per la BIS mostrano un’esplosione della quota dei profitti sul totale della ricchezza nazionale in tutti i paesi industrializzati. Visto dall’angolatura opposta, lo studio suggerisce che la quota sulla ricchezza complessiva imputabile ai salari è negli ultimi 25 anni letteralmente crollata.
Le cifre sono inequivocabili: prendendo il caso dell’Italia, la percentuale dei profitti sul PIL al costo dei fattori era del 23% circa nel 1983, passa al 29% nel 1994 per superare il 31% nel 1995 e raggiungere il picco al 32,7% nel 2001. In poco meno di 20 anni i profitti hanno incrementato il loro peso sulla ricchezza nazionale di oltre 9 punti. A solo scopo esemplificativo, si pensi che 9 punti del PIL italiano 2007 a valori correnti equivalgono a quasi 140 miliardi di euro transitati dalla retribuzione del lavoro alla remunerazione del capitale. Trasferimento secco se, come scrivono le autrici dello studio: «L’incremento della quota dei profitti è una pura ri-allocazione di rendite economiche e non, se la nostra analisi è corretta, la compensazione di un extra-deprezzamento [del capitale, nda]. Ciò suggerisce che l’incremento della quota dei profitti non si è verificato per finanziare un surplus di investimenti lordi». Lo spostamento di peso verso la remunerazione del capitale, innesca, parallelamente, un altro fenomeno: quello della concentrazione della ricchezza a livelli mai conosciuti dopo gli anni Trenta.
Bene, siamo tornati agli anni ’30, ai robber baron e all’accumulazione originaria di ricchezza. Il novecento è proprio finito, il compromesso socialdemocratico seppellito oltre 30 anni fa. Mentre le “nuove” destre - armate del solito vecchio repertorio - si fanno strada nei sistemi politici delle ex perle della socialdemocrazia del Nord Europa, siamo qui ancora una volta a parlare di basi di legittimazione del capitalismo, ovvero del potere moderno.
Nel nostro libro abbiamo cercato di dimostrare come gli esiti effettivi del patto di potere che regola gli equilibri del sistema in Italia abbiano privato quest’ultimo di ogni legittimità. Abbiamo anche cercato di descriverlo quel patto e di far emergere la categoria che, solitaria, ne è esclusa e che lo paga: i Contadini.
Nel corso della prossima comparsa su Linkiesta, cercheremo di abbozzare i primi passi di quella che ci sembra una coerente soluzione politica al problema dell’ingiustizia e della crisi italiana, che forse può rappresentare, nelle diversità, una bozza anche per un’agenda di riforma politica del capitalismo in senso più ampio e sovranazionale. Politica, non tecnica, né economica; due dimensioni che devono necessariamente seguire la prima. Altrimenti si ricade nella vecchia barzelletta di Bisio sull’inversione della precedenza tra imparare a scrivere e a leggere e delle sue conseguenze.
È bene chiarire che il rapporto si occupa, chiamandoli HNWI (High Net Wealth Individuals), di quelle persone con un patrimonio investibile di più di 1 milione di dollari americani. Dal conto si escludono i beni durevoli e non durevoli collegati al consumo e il valore immobiliare delle prime case.
Meno di 11 milioni di individui controllano una ricchezza “mobilitabile” di quasi 43 trilioni di dollari, come a dire l’equivalente teorico di quasi il 73% del PIL mondiale. Pur con tutte le cautele, e l’immediato rifiuto della vecchia logica pauperista, qualcosa veramente non va. I numeri nella vita reale, nel quadro di un’economia capitalisticamente e/o politicamente sana, devono “parlarsi”, ci devono essere delle proporzioni che abbiano un senso. Questi numeri non hanno nemmeno le orecchie. Ma noi le abbiamo, e ci ricordiamo di alcuni dati, in piena sintonia con quanto fin qui detto, apparsi sul Financial Time della settimana scorsa e su uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali qualche tempo prima.
L’articolo del FT, intitolato «le società non tollereranno per sempre queste gigantesche liquidazioni», spiegava come dal 1978 al 2008 il reddito delle classi-medio basse britanniche fosse aumentato del 27%, a fronte di un raddoppio del PIL e di un quadruplicamento del reddito delle classi agiate (rappresentate dal 10% più alto dei redditi dichiarati). Non male davvero, ecco come poi arrivi a 42,7 trilioni di dollari nel mondo (e alla conseguente uniformazione dei gusti e delle pratiche, mai notato qualche differenza tra un loungebar a NY e uno a Chennay?).
Veniamo alla Banca dei regolamenti internazionali (BIS). I calcoli effettuati da Luci Ellis e Kathryn Smith per la BIS mostrano un’esplosione della quota dei profitti sul totale della ricchezza nazionale in tutti i paesi industrializzati. Visto dall’angolatura opposta, lo studio suggerisce che la quota sulla ricchezza complessiva imputabile ai salari è negli ultimi 25 anni letteralmente crollata.
Le cifre sono inequivocabili: prendendo il caso dell’Italia, la percentuale dei profitti sul PIL al costo dei fattori era del 23% circa nel 1983, passa al 29% nel 1994 per superare il 31% nel 1995 e raggiungere il picco al 32,7% nel 2001. In poco meno di 20 anni i profitti hanno incrementato il loro peso sulla ricchezza nazionale di oltre 9 punti. A solo scopo esemplificativo, si pensi che 9 punti del PIL italiano 2007 a valori correnti equivalgono a quasi 140 miliardi di euro transitati dalla retribuzione del lavoro alla remunerazione del capitale. Trasferimento secco se, come scrivono le autrici dello studio: «L’incremento della quota dei profitti è una pura ri-allocazione di rendite economiche e non, se la nostra analisi è corretta, la compensazione di un extra-deprezzamento [del capitale, nda]. Ciò suggerisce che l’incremento della quota dei profitti non si è verificato per finanziare un surplus di investimenti lordi». Lo spostamento di peso verso la remunerazione del capitale, innesca, parallelamente, un altro fenomeno: quello della concentrazione della ricchezza a livelli mai conosciuti dopo gli anni Trenta.
Bene, siamo tornati agli anni ’30, ai robber baron e all’accumulazione originaria di ricchezza. Il novecento è proprio finito, il compromesso socialdemocratico seppellito oltre 30 anni fa. Mentre le “nuove” destre - armate del solito vecchio repertorio - si fanno strada nei sistemi politici delle ex perle della socialdemocrazia del Nord Europa, siamo qui ancora una volta a parlare di basi di legittimazione del capitalismo, ovvero del potere moderno.
Nel nostro libro abbiamo cercato di dimostrare come gli esiti effettivi del patto di potere che regola gli equilibri del sistema in Italia abbiano privato quest’ultimo di ogni legittimità. Abbiamo anche cercato di descriverlo quel patto e di far emergere la categoria che, solitaria, ne è esclusa e che lo paga: i Contadini.
Nel corso della prossima comparsa su Linkiesta, cercheremo di abbozzare i primi passi di quella che ci sembra una coerente soluzione politica al problema dell’ingiustizia e della crisi italiana, che forse può rappresentare, nelle diversità, una bozza anche per un’agenda di riforma politica del capitalismo in senso più ampio e sovranazionale. Politica, non tecnica, né economica; due dimensioni che devono necessariamente seguire la prima. Altrimenti si ricade nella vecchia barzelletta di Bisio sull’inversione della precedenza tra imparare a scrivere e a leggere e delle sue conseguenze.
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/la-distribuzione-della-ricchezza-globale-e-sempre-piu-iniqua#ixzz2V92MaSzi
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