Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 4 febbraio 2012

Imparare da Oakland 8. Back to the General Global Strike

Il lancio dello sciopero generale globale il primo maggio 2012, partito da Occupy Los Angeles, sta ottenendo adesioni da parte di molti movimenti Occupy negli Stati Uniti. Pubblichiamo l’appello con cui Occupy Oakland si impegna a partecipare alla costruzione dello sciopero generale perché, come era già emerso il 2 novembre scorso, pensiamo che lo sciopero precario abbia molto da imparare da Oakland.

Oakland ci insegna non solo che scioperare si può, ma che per farlo è necessario immaginare modalità nuove di sciopero, attraverso un processo che sappia connettere diverse figure della precarietà, superando le categorie sindacali e le divisioni tra i lavoratori. Accanto alla differenza tra l’1% e il 99% che costituisce il filo rosso dei movimenti Occupy, altre percentuali arricchiscono l’algebra di Occupy Oakland. Per coloro che immaginano lo sciopero precario globale del primo maggio, altrettanto significativo è il fatto che solo poco più dell’11% dei lavoratori negli Stati Uniti siano sindacalizzati. Gli altri sono i migranti, colpiti dal razzismo istituzionale e la cui precarizzazione è una leva per la precarizzazione di tutti, sono le donne, migranti e non, che lavorano nella sfera invisibile del lavoro riproduttivo, sono gli studenti che fanno lavori precari per ripagare il debito che hanno contratto per iscriversi all’università, sono tutti quei lavoratori precari a cui viene chiesta una piena disponibilità con salari sempre più bassi e la costante minaccia del licenziamento. Sono coloro che si assumono la sfida di immaginare una forma nuova di sciopero che sappia bloccare la produzione e i flussi del capitale globale.

È difficile prevedere se Occupy Oakland riuscirà ad accrescere la forza espansiva ottenuta costruendo connessioni sul lavoro, se riuscirà a non farsi assorbire dalla spirale di azione, repressione e solidarietà e a essere all’altezza dello sciopero del 2 novembre. Quel che è certo è che da questo appello emerge una chiara indicazione sui soggetti che necessariamente devono essere protagonisti dello sciopero generale globale. La scelta della data è significativa in questo senso e rivela quanto sia concreta l’immaginazione di coloro che preparano lo sciopero precario: il primo maggio è stato nel 2006 il giorno dello sciopero dei lavoratori migranti. Come mostra anche l’appello di OccupyLosAngeles, oltre oceano sanno che nessuna giornata globale potrà fermare la produzione e colpire i profitti dei precarizzatori senza fare leva sul coraggio e la forza organizzativa mostrata da chi ha scioperato anche se non poteva farlo.

Mentre in Italia e in Europa si oscilla ancora sulle date e sulle forme, Oakland, dopo l’esperimento pilota del 2 novembre, ribadisce che scioperare si può, dunque, e lo si può fare solo a partire dalla connessione di precari, migranti, operai e studenti. Sono le fabbriche della precarietà che impongono che lo sciopero abbia una forma determinata: né allusione né semplice parola d’ordine né esercizio simbolico ma amplificazione delle forze oltre le barriere contrattuali, di impiego e di categoria per rovesciare quelle divisioni e quelle gerarchie sulle quali si regge l’ordine globale dello sfruttamento. Ora il gioco si sposta al di qua dell’oceano ed è certo che il dibattito non può piegarsi sulle differenze di date o sulla tattica o sulla radicalità delle parole. Saremo in grado di reggere l’accelerazione e di dare altre gambe a questo processo? Riusciremo anche noi a fare tesoro dell’esperienza dello sciopero del lavoro migrante del primo marzo? Lo sciopero precario è vicino, non si può non vederlo. Lo sciopero ci chiama, ma chi sta lavorando per lo sciopero?

Orwell in Italia e il calo dello spread .

Fonte: senzasoste
Cominciamo dalle frasi pronunciate a reti unificate, in tono levigatamente mortuario, dal presidente del consiglio Mario Monti. Una differenza tra l'ex consulente di Goldman Sachs e il precedente presidente del consiglio sta sicuramente nell'uso dei processi unidirezionali della comunicazione mediale. Mentre Berlusconi dava spettacolo, eredità di un mondo anni '80-'90 quando il potere era scenografico, Mario Monti alimenta l'utilizzo morale del potere del broadcasting. Quest'uso morale è moneta sonante: si usa la capacità di pressione cognitiva dei media generalisti per tranquillizzare la popolazione con perizia tecnica "lo spread calerà" (caldo potere pastorale di rassicurazione). E per imporre precetti orwelliani come "le tutele [al reddito e alla continuità del posto di lavoro, ndr] possono essere dannose".

ORWELL IN ITALIA

Il tratto di continuità tra Monti e Berlusconi sta invece in questa possibilità di condizionare i processi connettivi del tessuto sociale operando a reti unificate. Ma questo pericolo permanente per la democrazia, e per l'ecosistema dell'informazione, resterà tale fino a quando residui di partiti, movimenti, sindacati non entreranno nel XXI secolo imponendo la centralità del problema. Per adesso vanno alla grande le ristrutturazioni del lessico: tutto è declinato, fortunatamente, in "comune" ma senza una una democratizzazione e una pubblicizzazione dei grandi network generalisti il comune è destinato a rimanere sulle carte di diritti, principi e intenti. La mediatizzazione della società, e della politica, è un fenomeno irreversibile e in via di ulteriore, impetuoso sviluppo. E' uno degli effetti più naturali di società che si connettono e si guardano reciprocamente anche a grande distanza senza mediazione territoriale, tramite dispositivi di informazione istantanea. E' la democratizzazione di questo processo che è il problema presente e a venire. Non solo, la stessa crisi finanziaria non ha soluzione senza una democratizzazione e una ristrutturazione dell'accesso alle fonti di comunicazione, pubbliche e private, sui grandi network in materia di economia. Una soluzione puramente economicista della crisi è qualcosa che non tiene conto del fatto che la connessione sociale non avviene secondo le regole della differenziazione sociale dell'otto-novecento. Chi non ha una soluzione mediale è quindi destinato a perdere anche sul piano della proposta economica. Figuriamoci poi su quello della politica.
Successivamente l'uso di internet può decostruire quanto vuole, e tradurre istantaneamente nelle lingue del globo, il discorso di Monti. Ma il potere di connessione complessiva, il potere del simbolico e la forza dell'icona che unifica linguaggi e attira l'attenzione, è oggi tutto nelle mani della politica istituzionale nel momento in cui è innestata nel mainstream mediale. Che ripete vecchi mantra economici dell'inizio degli anni '30. Il mantra di Mario Monti è composto di due frasi apparentemente sconnesse: "lo spread calerà" e, appunto, "il posto fisso è noioso". A differenza di Berlusconi, che iniettava nel corpo sociale dichiarazioni senza senso giocando sul potere dell'intrattenimento, Monti rilascia invece dichiarazioni verificabili che devono far strada a precise politiche. Poi se queste politiche funzionino o meno, che siano mantra da stregoni dell'economia liberale degli anni '30 è un altro capitolo.
Quando Monti dice lo spread calerà, a differenza di Berlusconi, quindi non mente. Si tratta solo di analizzare l'informazione che ci fornisce. E anche di comprendere quali dispositivi sociali intenda attivare.

TRAGEDIA GRECA. TROIKA AL GOVERNO: VUOI LA MONEY? ALLORA PIU' AUSTERITY!

Fonte: controlacrisi.org Autore: A. F.
I mercati guardano alla Grecia, aspettandosi una soluzione che li soddisfi entro pochi giorni, fregandosene altamente della vita di milioni di cittadini greci che ormai hanno toccato il fondo. Ma non basta, devono pagare ancora di più, rinunciare a quel minimo che gli è rimasto perché altrimenti i creditori internazionali della Troika non sgancieranno un euro in più. E' un vero e proprio ricatto quello dei rappresentanti dei creditori internazionali della Grecia - Pauel Tomsen del Fondo Monetario Internazionale, Matthias Mors dell'Unione Europea, e Claus Mazuch della Banca Centrale Europea - che insistono sulle loro posizioni, riguardo l'attuazione del Memorandum. Stanno mettendo alle strette il governo greco, che alla fine pare cederà. Si è opposto alla proposta di subire un 'commissariamento' avanzata dalla Germania, ma di fatto la Grecia è già commissariata. Anche ieri, durante l'incontro tra la Troika e il ministro delle Finanze Evaghelos Venizelos, e il ministro del Lavoro Giorgos Koutroumanis, sul tavolo sono tornate (mai andate via) le richieste di riduzione dello stipendio minimo garantito, l'abolizione o la riduzione drastica della tredicesima e della quattordicesima mensilità, la riduzione dei sussidi pensionistici di almeno il 35% e il cambio dell'accordo collettivo del lavoro. Richieste pesanti come macigni che rischiano di peggiorare una tragedia già drammatica. Richieste che saranno portate sul tavolo dell'incontro del premier con i leader dei tre partiti che sostengono il suo governo. Il premier greco ha paura e cerca di mettere i leader dei tre partiti di fronte alle proprie responsbilità (torna sempre questa parola quando si tratta di imporre misure di austerity). Comunque, la decisione dovrà essere presa prima di lunedì, giorno della riunione dell'Eurogruppo, che dovrà dare il via libera allo scambio dei titoli di Stato nelle mani dei privati (Psi), e al nuovo pacchetto di aiuto alla Grecia, che secondo la volontà della troika dipende dall'esito delle trattative in corso per l'approvazione o meno da parte del governo, delle misure richieste. Secondo i giornali ellenici, il premier vorrebbe che le misure venissero approvate da tutti e tre i partiti che sostengono il suo governo, mentre i tre leader dovrebbero impegnarsi per il comportamento dei loro parlamentari. Questo perché preoccupa la reazione di alcuni parlamentari del Pasok, che durante la riunione del gruppo parlamentare del partito hanno minacciato di votare contro le misure richieste dalla troika. Fonti interne dicono che se mancherà un accordo fra tutti e tre i leader, il premier si dimetterà e chiederà dal Presidente della Repubblica di andare a elezioni anticipate. Altro giro, altra corsa.

La Germania problema d'Europa

Stefano Sylos Labini sinistrainrete
La politica egoistica e suicida della Merkel, con il dogma dell'indipendenza della Bce, impedisce di trovare soluzioni alla crisi europea, da cui si può uscire imparando dal passato

I tedeschi hanno il terrore che l’eccesso di debito pubblico spinga la Banca centrale europea a stampare grandi quantità di moneta che farebbe scoppiare l’inflazione. Per questo la Cancelliera Merkel, con la sua intransigenza sul risanamento dei bilanci dei paesi europei più in difficoltà e con la sua posizione contraria verso l’emissione degli Eurobond e verso gli acquisti di titoli del debito pubblico da parte della Bce, sta spingendo l’Europa in una pericolosa recessione e in una crisi di fiducia che potrebbero avere conseguenze devastanti. Ma i tedeschi, che hanno l’economia con la produttività più elevata d’Europa, dovrebbero ricordarsi di ciò che accadde dopo la prima guerra mondiale e di conseguenza dovrebbero essere più lungimiranti per evitare di ripetere gli stessi errori che loro furono costretti a subire.

Lezioni di storia
Il Trattato di Versailles fu imposto alla Germania con la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Il Trattato istituì una commissione che doveva determinare le esatte dimensioni delle riparazioni che dovevano essere pagate dalla Germania. Nel 1921, questa cifra fu ufficialmente stabilita in 33 miliardi di dollari. John Maynard Keynes criticò duramente il trattato: non prevedeva alcun piano di ripresa economica e l’atteggiamento punitivo e le sanzioni contro la Germania avrebbero provocato nuovi conflitti e instabilità, invece di garantire una pace duratura. Keynes espresse questa visione nel suo saggio The Economic Consequences of the Peace. I problemi economici che questi pagamenti comportarono sono spesso citati come la principale causa della fine della Repubblica di Weimar e dell’ascesa di Adolf Hitler, che inevitabilmente portò allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Quando Hitler andò al potere nel 1933 oltre 6 milioni di persone (il 20% della forza lavoro) erano disoccupate ed al limite della soglia della malnutrizione mentre la Germania era gravata da debiti esteri schiaccianti con delle riserve monetarie ridotte quasi a zero. Ma, tra il 1933 e il 1936, si realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, anche più significativo del tanto celebrato “New Deal” di F.D. Roosevelt. E non furono le industrie d'armamento ad assorbire la manodopera; i settori trainanti furono quello dell'edilizia, dell’automobile e della metallurgia. L’edilizia, grazie ai grandi progetti sui lavori pubblici e alla costruzione della rete autostradale, creò la maggiore occupazione (+209%), seguita dall'industria dell'automobile (+117%) e dalla metallurgia (+83%). Nel miracolo economico degli anni ’30 i nazionalsocialisti si erano creati una teoria monetaria che suonava pressappoco così: “le banconote si possono moltiplicare e spendere a volontà, purché si mantengano costanti i prezzi. Il solo motore necessario per questo meccanismo è la fiducia. Basta creare e mantenere questa fiducia, sia con la suggestione sia con la forza o con entrambe”.

Baratto fra unità economiche

venerdì 3 febbraio 2012

Docenti di economia a Monti: ci voleva la patrimoniale.

Fonte: PRC
I firmatari di questa lettera sono tutti docenti universitari di economia. Chiediamo ospitalità ad alcuni giornali, fra cui il suo, per rivolgere al Presidente Monti una domanda che riteniamo piuttosto importante. Ci auguriamo che lui stesso o qualche altro esponente del governo vorrà darci risposta.
La domanda è questa: perché nella manovra economica da poco approvata non è presente una seria tassazione di tipo patrimoniale della ricchezza mobiliare? Si tratta di un'assenza conturbante, in quanto questo provvedimento avrebbe alcuni ovvi vantaggi. In primo luogo potrebbe fornire un gettito sostanzioso: secondo i dati ufficiali dell'Associazione Italiana Private Banking, "Il valore della ricchezza investita nel private banking in Italia nel 2010 ha superato i livelli pre-crisi, al livello più alto da sempre, con 896 miliardi".

Questa naturalmente è solo una parte dell'imponibile. Aliquote anche molto miti consentirebbero di mantenere inalterata l'indicizzazione delle pensioni, con ovvi guadagni di equità e riducendo drasticamente gli effetti recessivi della manovra. Infine è il caso di sottolineare il guadagno di consenso che il governo ne ricaverebbe, per effetto della maggiore equità del prelievo complessivo della manovra; ed è noto come il consenso sia un capitale prezioso nei momenti di difficoltà.
Ciò che sopratutto ci preoccupa come economisti è però che accanto a questi ovvi effetti positivi non riusciamo a vederne di negativi. In altri termini, ci sembra che non vi sia alcun motivo di efficienza che possa giustificare l'assenza del provvedimento che auspichiamo.

Joseph Halevi: CAPITALE VS AUSTERITÀ (con una risposta a Rossana Rossanda)

Fonte: il Manifesto Autore: Joseph Halevy - ilconfrontodelleidee
Il capitale nella sua forma più globalizzata non vuole più l'austerità, anzi ne ha decisamente paura. I rapporti ed i comunicati che vengono emessi dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale, fino all'agenzia di rating Standard&Poor's - nella motivazione del recente declassamento di nove paesi dell'erurozona - si concentrano vieppiù sull'aggravamento della recessione e sul ruolo negativo (prociclico) delle politiche di austerità fiscale perseguite in Europa sia nella zona dell'euro che in Gran Bretagna.
In sostanza la politica di rigore fiscale ha perso di credibilità e viene vista come una strettoia da cui uscire assai rapidamente. Il discorso non è su come rilanciare l'economia ma sul futuro stesso del capitalismo, un ordine di ragionamento di diversa grandezza e gravità. Il Financial Times sostiene senza mezze parole che a Davos domineranno le questioni riguardanti appunto il futuro del sistema. Durante la scorsa settimana il quotidiano londinese aveva pubblicato una serie speciale intitolata capitalism in crisis, chiaramente intesa come un input alle riunioni di Davos. Inoltre, sul summit del Forum economico mondiale pesa il documento del Global Issues Group del Forum stesso. I membri di questo gruppo di lavoro sono, tra gli altri, la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, il direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio Pascal Lamy e quello della Banca Mondiale Robert Zoellick.
Più diplomatico della sorprendente e valida analisi condotta da Standard &Poor's, il documento del gruppo di Davos non elogia le politiche di austerità, si limita ad affermare la necessità di una finanza sostenibile, regolamentando tra l'altro quella bancaria, per poi presentare come neccessità impellente la lotta alla sperequazione sociale nei vari paesi. Infine arriva la dichiarazione di George Soros: «Le rigide misure di austerità fiscale mettono sotto pressione i salari ed i profitti». In questo contesto l'intervento di Angela Merkel ha segnato una sua netta caduta di credibilità. Martin Wolf del Financial Times ha così commentato l'intervento della Cancelliera: «Come i Borboni, Angela Merkel non ha scordato niente e niente ha imparato. Essenzialmente continua a credere che l'eurozona possa uscire dalla crisi con un mix di disciplina fiscale per garantire la solvibilità, riforme strutturali per lo sviluppo e un sostegno finanziario limitato e temporaneo ai paesi in difficoltà».
E Mario Monti? Il premier italiano è chiaramente dalla parte dei critici, altrimenti non avrebbe dichiarato al Financial Times di condividere l'analisi di Standard&Poor's. Contemporaneamente però in Italia applica esattamente ciò che Wolf bolla nei confronti della Merkel incluso il perseguimento del mito della competitività. Che Monti sia un Brüning cosciente di esserlo? La paura fa 90 e la crisi si trascina dietro l'intera classe dirigente europea, senza un ricambio in vista.

LA GRECIA CONFERMA LA REGOLA, CON I SOCIALISTI LE BANCHE SONO SERVITE

controlacrisi
Se ieri hanno devastato il Paese consengnandolo ai ricatti dei mercati internazionali quando erano al Governo, oggi continuano a distruggerlo sostenendo un governo di grande coalizione che continua nella stessa direzione. Peggio di così i socialisti greci non potevano fare. Del resto la linea del gruppo dei socialisti democratici europei è quella del rigore e della crescita, linea che trova qualche difficoltà applicativa nel mentre si è in piena crisi recessiva. La condivisione di atti importanti come l'inserimento del vincolo di bilancio nelle costituzioni di tutti i paesi europei è parte di questa schizzofrenia. Si maledicono i lupi dopo avergli aperto le porte dell'ovile. In Italia per confermare la regola il PD ha votato a favore al primo passaggio alla camera della norma che introduce il vincolo di bilancio e sostiene Monti che parla di crescita ma massacra le pensioni come se fosse la Merkel. Una teoria quella del rigore e del risanamento accompagnata alla crescita che per i paesi periferici vuol dire recessione certa e disoccupazione di massa. Banalmente perchè i due termini sono oppositivi, o c'è il rigore o c'è la crescita. Questa ambiguità politica dei socialdemocratici genera scelte folli quando poi si parla di atti concreti. Si portano avanti senza esitare politiche di austerity nel primo tempo, mentre della crescita non c'è traccia. Nemmeno i grandi capitalisti pensavano che in Europa si potesse arrivare a tanto. Come ha ben spiegato Halevi nel suo ultimo articolo oggi anche i capitalisti hanno paura dell'austerity. Restiamo allibiti nel leggere che oggi in Grecia, dopo la fine delle trattative fra il governo e i rappresentanti della troika, i parlamentari dei tre partiti che sostengono il governo di coalizione di Lucas Papademos saranno chiamati ad approvare le misure chieste dai creditori internazionali del Paese. Volete sapere cosa sono le misure che BCE FMI e Commissione Europea hanno imposto ad un paese sovrano? Riduzione dello stipendio minimo garantito, il taglio della 13.ma e della 14.ma per tutti i lavoratori e maggiore libertà per i licenziamenti del personale. Per evitare i mal di pancia dei propri deputati i leader socialisti stanno chiedendo ai loro parlamentari obbedienza alla linea del partito per evitare sorprese e voti contrari. Chi si spericola a sinistra per entrare nella famiglia dei democratici socialisti è servito. Italia Grecia, una razza una faccia....

I BANCHIERI HANNO PAURA CHE ESPLODA LA BOMBA SOCIALE

controlacrisi
Il capo dell'ufficio esecutivo della Deutsche Bank, Josef Ackermann ha paura, teme l'innesco di una «bomba sociale» a causa degli squilibri nella distribuzione della ricchezza. Parlando con la Bbc, Ackermann, che è anche alla guida dell'Iif, Institute for International Finance, il gruppo di pressione che riunisce 400 banche nel mondo, ha detto che i banchieri hanno «una responsabilità sociale, perchè se questa disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza aumenta, potremmo trovarci alle prese con una bomba sociale a orologeria e nessuno vuole questo». Paura eh?!

Oltre i confini della disuguaglianza

di Cinzia Sciuto micromega
La crisi economica nella quale ci stiamo ormai abituando a vivere ha avuto almeno il merito di riportare sulla ribalta del dibattito pubblico un concetto che negli anni passati era decisamente fuori moda: quello della disuguaglianza. La letteratura sul tema si moltiplica e la parola occupa sovente le prime pagine dei giornali. «Disuguaglianza» è un concetto eminentemente relazionale, ha bisogno di almeno due termini di confronto, bisogna sempre individuare un «noi» e un «altri», nei confronti dei quali «misurare» il grado di maggiore o minore disuguaglianza. E nel compiere quasta operazione si delimita anche l’ambito all’interno del quale la disuguaglianza costituisce un problema politico.

Nelle nostre società questo perimetro è rappresentato dal confine dello Stato nazionale: la disuguaglianza tra «noi» e i nostri concittadini è un problema politico rilevante, quella – spesso sconfinata – tra «noi» e i cittadini di altri Stati è una questione di ordine tuttalpiù filantropico, non certo politico. Ulrich Beck – in un recente, agile libretto pubblicato da Laterza dal titolo Disuguaglianza senza confini – ha il merito di porre la questione delle «frontiere della disuguaglianza». Un regime di disuguaglianze può reggere finché esso trova in qualche modo un principio che lo legitimi, rendendolo «tollerabile»: all’interno di un paese è il sistema economico e la struttura sociale che «legittima» la disuguaglianza nazionale, rendendola accettabile proprio finché essa non raggiunge un livello tale da mettere a repentaglio l’ordine e la coesione sociale.

E cos’è che legittima la disuguaglianza globale? «Il principio dello Stato nazionale», risponde Beck. Ma assumere il «principio dello Stato nazionale», sostiene il sociologo tedesco, è un errore metodologico che distorce la realtà, impedendoci di capire i fenomeni nella loro complessità. Guardare alla disuguaglianza globale in una prospettiva cosmopolitica – che dia peso «politico» alle disugaglianze al di là delle frontiere nazionali – è quindi per Beck una questione di realismo, prima ancora che di giustizia. Beck ce l’ha innanzitutto con la sociologia e con il suo «nazionalismo metodologico», incapace di dare forma e dunque di rendere comprensibili fenomi come le migrazioni (nel quale rientra anche la cosiddetta «fuga dei cervelli»), il terrorismo internazionale, il mutamento climatico. Tutti fenomeni che travalicano e spesso travolgono le frontiere nazionali e che solo una prospettiva cosmopolitica «che includa gli altri» può tentare di spiegare. Un cosmopolitismo metodologico dunque, che non è affatto detto che si porti dietro un «progetto cosmopolitico».

La «cosmopolitizzazione» – che, spiega Beck, «si riferisce agli effetti collaterali sociologicamente più rilevanti della globalizzazione, in primo luogo il confronto involontario con l’altro» – è un fatto, ma questo non significa che siamo diventati tutti cosmopoliti. Anzi, la cosmopolitizzazione di fatto ha provocato ondate di rinazionalizzazioni un po’ in tutto il mondo. Ciò non toglie che togliersi gli occhiali dello Stato nazione per indossare quelli del «cosmopolitismo metodologico» è un primo indispensabile passo verso la comprensione dei fenomeni globali. E senza la comprensione è impossibile anche l’azione.

Ulrich Beck, Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011, euro 9

(2 febbraio 2012)

C’è un futuro per il capitalismo: ma quale?

Il capitalismo ha un deficit mortale: di autostima. La crisi di fiducia in se stesso traspare dai dibattiti che animano due dei più influenti media economico-finanziari. Il Financial Times e The Economist dedicano inchieste, dibattiti e analisi a un interrogativo esistenziale: quella che viviamo è una crisi “terminale” o è ancora curabile all’interno delle regole di un’economia di mercato? Ha più probabilità di sopravvivenza il capitalismo di Stato che governa i Bric, cioè Cina India Brasile Russia?

Martin Wolf, l’economista più autorevole del Financial Times, ammette che l’idea di una “estinzione” del capitalismo oggi ha ancora più peso di quanto ne avesse quattro anni fa nell’epicentro della recessione. “Nel 2009 – osserva Wolf – dedicavamo una serie di inchieste al futuro del capitalismo, oggi abbiamo cambiato il titolo e il dibattito ruota sul capitalismo in crisi”. La ragione: cinque anni dopo il disastro sistemico del 2008, non ne siamo ancora usciti. Tramonta ogni illusione di avere a che fare con un normale evento ciclico, nella fisiologica “distruzione creatrice”.

Chiamando a raccolta i migliori intelletti del mondo angloamericano, il Financial Times conclude che per sopravvivere il capitalismo deve affrontare sette sfide. Sono sette temi familiari, in cima alle preoccupazioni dell’opinione pubblica, presenti nell’agenda dei governi e sugli schermi radar degli espertti. Al primo posto c’è la questione sociale: lavoro e diseguaglianze. Questo capitalismo ha generato società sempre più ineguali e la sua capacità di creare occupazione declina paurosamente. Le cause sono state individuate in passato nella globalizzazione e nel progresso tecnologico; più di recente si è rafforzata la scuola di pensiero secondo cui le diseguaglianze sono “fabbricate” da un sistema politico dove le oligarchie esercitano un’influenza spropositata.

A questo sono collegati altri tre temi. La questione fiscale, che ieri Barack Obama ha messo al centro del suo discorso sullo Stato dell’Unione: il finanziamento della spesa pubblica si è spostato in modo anomalo sul lavoro dipendente, alleggerendo il capitale. Il dinamismo dell’economia di mercato necessita di profonde riforme fiscali, tanto più in una fase di shock demografico per l’arrivo all’età pensionabile delle generazioni più popolose. Terza questione, il rapporto fra democrazia e denaro; non è solo politica ma anche economica, perché la deriva oligarchica è una “inefficienza” che distorce sistematicamente le decisioni collettive, vedi le lobby scatenate contro le riforme del governo Monti. Quarto tema nell’elenco del Financial Times è la riforma del sistema finanziario, un cantiere ancora largamente bloccato nonostante lo shock del 2008. La finanza ha sempre avuto una tendenza degenerativa, analizzata dal grande economista Hyman Minsky: dall’arbitraggio delle opportunità si scivola verso la speculazione, da questa si precipita nella frode. E’ una storia antica ma le potenzialità distruttive sono amplificate dalla dimensione e interconnessione dei mercati finanziari moderni.
MONTI CIRCUS
Prime minister still trying very hard to have art.18 accepted

giovedì 2 febbraio 2012

POSTO FISSO: IL SISTEMA E' FALLITO

di Simone Perotti - cadoinpiedi
Per anni ci hanno fatto credere che il modello capitalista avrebbe prodotto ricchezza e benessere diffuso. Se una gran parte di noi non avesse creduto che la felicità è in una lavatrice, in un'automobile, in un biglietto da visita, le cose non sarebbero andate così
Monti dice che il posto fisso è monotono, meglio il lavoro flessibile. Posso capire perché lo dice, solo che c'è un problema: cambiare le regole di un gioco mentre si gioca non è corretto. La promessa nata nel Novecento e poi riformulata con forza dal dopoguerra in avanti era: andrete via dalle campagne, poi perfino dall'industria, avrete tutti la cravatta, lavorerete in città, avrete posto fisso, macchinetta, casetta, 28 gradi d'inverno, farete shopping, avrete le vacanze... Il gioco era quello. E invece oggi si scopre che questa promessa non verrà mantenuta, il Sistema non ce la fa. Dunque si è trattato di una truffa, o quanto meno di un errore. Questo Capitalismo, che faceva quella promessa, è fallito, non può più garantire il benessere diffuso e chiede sacrifici per tornare uno o due passi indietro.

E' molto spiacevole la mancanza di autocritica da parte di Monti. Lui rappresenta quella cultura, quel pensiero. Lo ha studiato, formulato, insegnato. Mi aspettavo che dicesse "Abbiamo fallito, il Sistema non funziona, è fatto male. Dobbiamo rifondarlo nella missione e negli strumenti, cambiare prospettiva. In quest'ottica anche il lavoro va rivisto". Invece niente. E oggi chiede un cambiamento senza ammettere una parte degli errori culturali che hanno permesso questa situazione, senza dirci qual è il nuovo sistema, quali sono i nuovi principi, come dovrebbe funzionare.

Tuttavia, questa è la metà del ragionamento. Una truffa ha sempre due attori: chi promette una cosa irrealizzabile e chi crede in quella promessa perché gli fa comodo o gli va di rischiare. Qualcuno a quella truffa c'ha creduto. Molti. Tutti l'abbiamo fatto. Chi ha creduto in quella promessa fasulla ha sbagliato, a sua volta, e oggi mentre critica la truffa deve assumere una parte di responsabilità su di sé. Lavorare e basta, per guadagnare soldi che servono a sprecare, per aderire a un modello consumista che non produce benessere, era sbagliato. Lavorare tutti i giorni, pedissequamente, facendo denaro per consumare cose inutili, con denaro che spesso non abbiamo, per impressionare persone che non ci amano, per cinquant'anni di vita, è un modello che andava rifiutato, come ci dissero Bianciardi, Pasolini, perfino Berlinguer negli anni Sessanta e Settanta. Ma non li abbiamo ascoltati. Se una gran parte di noi non avesse creduto che la felicità è in una lavatrice, in un'automobile, in un biglietto da visita, le cose non sarebbero andate così. Anche noi dobbiamo fare autocritica, dunque. Noi abbiamo aderito a quel Sistema, dunque siamo correi.

Quel che sappiamo della crisi

Le falle del sistema economico finanziario mondiale si sono intrecciate con l’incompiuta integrazione europea. La soluzione esiste
di Giulio Sensi e Simona Piccato - altreconomia
Nell’ultimo anno si sono intrecciate due crisi: quella del sistema finanziario e monetario mondiale e quella del sistema di integrazione europea. Parte da questa premessa Antonio Tricarico, coordinatore della Campagna per la riforma della Banca mondiale (www.crbm.org), per ricostruire le radici e le conseguenze del periodo che stiamo vivendo.
Qual è stato l’elemento detonatore della crisi?
Il “contagio” derivato dalla crisi del debito della Grecia. Nel 2010 è stato proposto un pacchetto di salvataggio significativo in varie forme con misure di austerità che non hanno dato frutti. A metà del 2011 si è cominciato a discutere del default, cioè dell’incapacità “tecnica” di rispettare le condizioni con le quali la Grecia si è indebitata, convincendo le banche, che detengono la parte più consistente del debito, ad accettare di vedere non riconosciuto anche fino al 50% del proprio credito. Questa soluzione, su cui si sta ancora negoziando, ha introdotto la possibilità concreta di andare verso la “ristrutturazione” di parte di debito. Ristrutturare significa raggiungere accordi per modificare le condizioni originarie dei prestiti per alleggerire gli oneri. La Germania non ha voluto che si prendessero altre strade, come il salvataggio con i soldi della Banca centrale europea. La paura che l’insolvibilità si estendesse ad altri Paesi ha provocato il contagio, manifestatosi ad agosto.
L’indebitamento degli Stati europei sta crescendo a causa della recessione economica: le entrate diminuiscono e i tagli non sono sufficienti. Il sistema bancario detiene almeno la metà del debito pubblico e la crisi lo ha reso più vulnerabile. Le banche continuano a perdere valore e devono fare soldi speculando per non andare in bancarotta.
La finanza speculativa continua a crescere.
Ci sono strumenti della finanza che a livello internazionale cercano di fare due cose: generare nuovi titoli su cui speculare per raggiungere maggior profitto e accumulare capitale. Il cuore della finanziarizzazione è commerciare “denaro rischio” o prodotti collegati. I pericoli sono enormi perché questa crisi continua a propagarsi con il rischio di un collasso più sistemico. Gli strumenti finanziari si dividono in due grandi categorie. La prima riguarda i cosiddetti titoli (bond), i quali sono essi stessi commerciabili su mercati secondari. La seconda sono i prodotti “derivati”: sono contratti -a differenza degli altri sono titoli di carta che hanno un valore fissato- il cui valore deriva da quello di un altro titolo di carta. I prodotti derivati sono nati per assicurare il rischio, ma sono talmente commerciati che siamo al paradosso di avere un’economia “assicurata” fino a 12 volte. I Cds (credit default swap) sono l’esasperazione: contratti di assicurazione che scommettono sul fallimento di altri. Nei due mercati ci sono vari attori finanziari fra quelli non bancari. Fra questi gli “hedge fund”, fondi speculativi specializzati in scambi di breve termine, con indebitamento sul lungo termine.

Quei tecnicismi che "giustificano" il debito

Il 4 ottobre 1984, di fronte ai rappresentanti dell’Onu, Thomas Sankara disse:“Il debito non può essere rimborsato! Prima di tutto, quelli che ci hanno condotto all’indebitamento hanno giocato come al casinò; finché guadagnavano non c’era nessun dibattito, ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No! Hanno giocato. Hanno perduto. È la regola del gioco”. Sankara era stato eletto presidente del Burkina Faso appena due mesi prima. Tre anni dopo sarebbe stato ucciso.

di Pietro Raitano Fonte: altreconomia
Di questi tempi la citazione è stata spesso ripresa, e non a torto. Sankara parlava del debito internazionale che schiacciava i Paesi africani a favore delle potenze occidentali. Oggi un’analogo debito schiaccia le “potenze” occidentali a favore però di anonimi “mercati finanziari”. La dimensione dei quali è tale da non crederci.

Oggi assistiamo allo sconquasso, che tra le altre cose ha bloccato il flusso di denaro verso quella che chiamiamo “economia reale”, ovvero l’insieme delle aziende nelle quali più o meno tutti lavoriamo (o vorremmo farlo). E che con le loro tasse garantiscono il funzionamento dello Stato. Le misure prese dalle istituzioni finanziarie sovranazionali, come la Banca centrale europea, non migliorano la situazione: prestare soldi agli istituti finanziari con tassi di interesse minimi e aumentare la liquidità del sistema non ha giovato alle imprese e alle loro possibilità di farsi prestare soldi dalle banche. Ha invece aumentato la speculazione, in un circolo vizioso che ricorda chi cerca di fronteggiare una tossicodipendenza aumentando le dosi di sostanza stupefacente. Peraltro, la Bce non ha fatto nulla di originale, ma ha ribadito una mossa che era già stata fatta dalla Fed americana l’anno prima. Almeno poteva imparare dagli errori altrui.

Se poi guardiamo al sistema bancario italiano, oggi dobbiamo dire con chiarezza e onestà che è tecnicamente fallito, e che sta in piedi solo grazie a favori normativi e ad architetture finanziarie. Oggi dovremmo anche dire con onestà che l’Italia sta nel gruppo dei “grandi” come un imbucato alla festa. Uno che chiama “crescita” costruire case che rimangono sfitte, autostrade che si riempiono di camion in coda, e perfino bruciare rifiuti. E se ne vanta.
“Il capitalismo stesso sta bruciando -ha commentato il giurista Guido Rossi dalle pagine de Il Sole 24Ore- , incrinato da conflitti di interesse epidemici, che obbediscono solo a un potere dominato dalla speculazione e dalla ricerca del profitto a ogni costo”.
Basta, andiamo oltre.

Il fiscal compact europeo – il più monotono caso di suicidio mai conosciuto nella Storia?

di James Meadway, Senior Economist - neweconomics.org. Fonte: megachip
I cittadini europei dovrebbero volgere il loro sguardo altrove per avere una soluzione della crisi.

Non c’è un altro modo di descriverlo. Una volta che abbiamo strappato il velo del gergo tecnico dei burocrati europei, il fiscal compact della UE non rappresenta altro che una disperata accettazione del declino terminale. L'austerità si farà ora carico della forza della legge. Dimenticate la democrazia, come Angela Merkel ha inflessibilmente annunciato, sarà la Corte Europea di Giustizia ora a determinare le politiche economiche, e «non potrai più cambiarle attraverso una maggioranza parlamentare». L'Europa del sud sta per essere dilaniata dai programmi di austerità. Semplicemente non ci sono prospettive realistiche di ripresa se nel frattempo si prosegue con le politiche dei tagli.

Un fatale meccanismo è all'opera: i tagli riducono la domanda. La caduta della domanda significa che le imprese venderanno meno. Le minori vendite delle imprese comportano il calo dei salari e l'aumento della disoccupazione, e quindi ulteriori riduzioni della domanda. Questo è il circolo vizioso dentro il quale l'Europa sta rinchiudendo sé stessa.

Altrove il commentatore del Financial Times Wolfang Munchau, che non è certamente un'anima bella keynesiana, ha descritto il trattato come “piuttosto pazzo”. È fin troppo generoso: è totalmente folle, un’imbecillità economica su grande scala continentale. L'austerità sta trascinando l'Europa verso uno stato di perenne stagnazione. La crisi non è stata causata dalla spesa pubblica, ma dal collasso del sistema bancario e dai persistenti squilibri nella bilancia dei pagamenti. E invece tutta la discussione è ancora incentrata, almeno per le élite europee, intorno alla necessità di effettuare tagli via via più aspri.

La diagnosi è sbagliata, e la prescrizione seriamente pericolosa. Nell’accordarsi volontariamente su ciò, come nel trattato che i 25 hanno firmato, è un suicidio.

La crisi, nel frattempo, peggiora. La disoccupazione nella zona euro ha raggiunto un nuovo picco. I negoziati sulla riduzione del debito greco continuano, i detentori delle obbligazioni sul debito del settore privato del paese danno battaglia per tenersi stretto anche il più piccolo pezzo di valore dei loro prestiti che rischiano di perdere. La Banca Centrale Europea, mostrando tutta la compassione e la solidarietà per le quali è famosa, si è autoesclusa da qualsiasi riduzione volontaria, insistendo nel chiedere che il pieno valore dei prestiti che ha concesso alla Grecia sia rimborsato.
IT WAS A BALL

Mario Monti è lì per costruire l’Europa unita (?)

Fonte: byoblu
Mario Monti è lì per costruire l’Europa unita. Politicamente unita, sfruttando le condizioni propizie per la cessione della nostra sovranità. La persegue lui, la persegue Draghi, la persegue la Merkel, Papademos, la perseguono tutti tranne i popoli, che ogni volta cui è stato concesso di esprimersi sul tema hanno bocciato il progetto. Un referendum in Irlanda ha bocciato il Trattato di Lisbona.
I referendum francesi e olandesi hanno bocciato la nuova Costituzione Europea. Ogni volta che questo accade, la UE trova un modo nuovo per aggirare la volontà popolare. La Costituzione Europea, gettata dalla finestra, è rientrata dalla porta dentro al Trattato di Lisbona.
L’Irlanda è stata costretta a ripetere il referendum e a votare sì. In Grecia, il referendum sull’austerity è stato impedito dalle banche prima ancora di riuscire ad essere indetto. Come dice Nigel Farage
: l’Europa conosce solo due risposte possibili alle consultazioni
popolari: “Sì” e “Sì, per favore!”.

In Italia un referendum sulla questione è tabù. Nessuno lo chiede.
Nessuno lo concede. Il Trattato di Lisbona è stato ratificato dal Parlamento a Ferragosto del 2008, quando la gente era ebbra di vino.
Una questione di mera precauzione, quasi inutile. Se lo avessero ratificato in qualsiasi altro giorno sarebbe stato lo stesso: i media avrebbero parlato della Champions o degli acquisti di Natale in forte calo.

Mercoledì scorso, nel silenzio generale, il Parlamento italiano all’unisono ha conferito a Mario Monti il mandato ufficiale di costruire Gli Stati Uniti d’Europa. Un passaggio di consegne dopo le dimissioni del professore
dalla Commissione Trilaterale, che lo impegnava allo stesso obiettivo. Nessuno vi ha chiesto niente. Siamo una democrazia rappresentativa, è vero, ma sulle questioni di grande interesse – e questa non può che esserlo – una vera democrazia consulta il popolo. Noi invece siamo considerati incapaci di comprendere. Forse per questo nessun dibattito pubblico è stato alimentato sul tema.
Meglio Schettino e i plastici della Concordia.

mercoledì 1 febbraio 2012

Stanno privatizzando il diritto del lavoro

Umberto Romagnoli ilmanifesto
L'articolo 8 della manovra anti-crisi di ferragosto (legge 148/2011) spiana la strada alla disseminazione di una quantità imprecisabile di particolarismi regolativi incistati nelle periferie aziendali e/o territoriali del sistema paese. Il che lascia prevedere l'incontrollata disgregazione di un corpus normativo come il diritto del lavoro che, sia pure con fatica, aveva acquistato ed era riuscito a conservare una propria organicità e una propria identità. Per questo tutti i commentatori concordano che l'articolo 8, anche se la mentalità perversa del suo autore gli attribuisce una valenza liberatoria, ha materializzato un incubo da Apocalisse. Finora, però, non è stato notato che in greco questa parola non significa soltanto distruzione. Significa anche rivelazione di cose nascoste.
In effetti, è come se l'art. 8 sollevasse un velo, rendendo palese quel che celava una prassi circondata da vasti consensi. La norma cioè estremizza la logica privatistica sulla quale si è venuto costruendo con dogmatica durezza, nel dopo-Costituzione, l'impianto politico-culturale di un settore cruciale dell'esperienza giuridica. Pur non essendone a rigore la conseguenza necessitata e inevitabile, non segna nemmeno una netta cesura. Tutt'al contrario, si colloca lungo una linea di continuità col processo di de-costituzionalizzazione che ha fatto defluire ed ha allontanato il lavoro, le sue regole e il sindacato, dalla sfera dell'interesse pubblico rappresentato dallo Stato e presidiato dalle leggi. Essendone l'approdo finale, la norma ne svela l'interna coerenza di svolgimento fino a celebrarne l'apologia. Peraltro, l'autore dell'art. 8 si propone di andare oltre la dissoluzione in ambito privatistico del diritto del lavoro. Si propone di esorcizzare programmi di politica del diritto che, come lo Statuto dei lavoratori, sono uno sviluppo deduttivo del seguente principio: senza la libertà dei privati il lavoro non può spostare in avanti l'equilibrio dei rapporti di forza col capitale, ma la libertà dei privati da sola non basta a metterlo in sicurezza. Ecco, allora, il messaggio trasmesso dall'art. 8: lo Stato con le sue leggi e i suoi apparati coercitivi o di controllo deve rimpicciolire il suo ruolo, ritrarsi e poi sparire dall'orizzonte del diritto sindacale e del lavoro - irrilevante essendo che lo Stato abbia la forma di «una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Fondata sul lavoro legale, la cui accessibilità essa medesima si obbliga a promuovere (art. 4), retribuito con un salario «sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa» (art. 36), protetto da un welfare idoneo a fornire mezzi adeguati per fronteggiare situazioni di bisogno (art. 38), munito del diritto di auto-organizzarsi, sia per negoziare i trattamenti minimi inderogabili (art. 39), che per gestire la lotta sindacale (art. 40).

A che punto è la crisi?

di Rino Malinconico. sinistrainrete
A che punto è la crisi economica?
La domanda ha senso perché una crisi è sempre un percorso. E’ costituita di momenti diversi, pur dentro un'unica, più o meno lunga fase di difficoltà o di vera e propria recessione economica. D’altra parte, ogni crisi è anche un nuovo inizio, come suggerisce l'etimologia stessa (krìsis in greco vuol dire “scelta”, “decisione”, oltre che “separazione”). Si tratta, perciò, di una dinamica di disequilibrio e, contemporaneamente, di ricerca di nuovi equilibri. Ed è bene non sottovalutare questo carattere costituente della crisi, il fatto, cioè, che essa prelude e prepara un nuovo assetto delle relazioni capitalistiche, tanto all'interno dei singoli sistemi-paese quanto a livello delle più complessive relazioni tra i diversi Stati nazionali.

Ovviamente coloro che pensano di essere alla vigilia del vero e proprio crollo del sistema capitalistico non hanno affatto bisogno di interrogarsi sul decorso della crisi, tantomeno sul suo andamento costituente. Se si stabilisce in maniera apodittica che siamo di fronte a un'agonia, l'unica trasformazione possibile diventa il passaggio dall'agonia alla morte. E però, un tale convincimento a me pare non solo immotivato nei suoi termini teorici, ma anche linearmente contraddetto da quanto avviene in vaste aree del mondo, dalla Cina al Brasile all'India, che presentano ancora consistenti trend di crescita, capitalistica appunto, e sono soltanto marginalmente sfiorati dalla crisi economica, la quale si incentra tutta, invece, tra le due sponde dell’Atlantico. Lo stesso Giappone, pur drammaticamente colpito dal disastro nucleare dei mesi scorsi, e penalizzato nelle esportazione da uno yen troppo forte, mantiene un trend economico più che accettabile, tanto che la borsa di Tokyo ha già sostanzialmente recuperato rispetto alla caduta del 2008.

In realtà, se lo consideriamo nel suo complesso, è davvero difficile sostenere che il capitalismo, in questo primo scorcio del secolo XXI, sia moribondo. E seppure fossimo di fronte ad una nuova dislocazione geografica dei suoi centri di gravità, solamente un inguaribile eurocentrismo ci potrebbe far parlare di superamento storico del rapporto sociale di capitale. Anzi, proprio la diversa condizione della sua salute nei diversi angoli del mondo ci conferma come il capitalismo, in quanto sistema, sia ben lontano dalla sua ultima ora - a meno di non sostenere, come pure alcuni fanno, ma si tratta di argomenti davvero inconsistenti, che in Cina, Brasile, India, ecc., esisterebbero ormai una struttura economica e dei rapporti sociali già “post-capitalistici”…

Lettera alla mia ex-professoressa Elsa Fornero

di Emiliano Brancaccio
Mentre Eugenio Scalfari scrive una lettera a Susanna Camusso per esortarla a sostenere la causa della flessibilità del lavoro con argomenti analiticamente discutibili, io mi permetto di scrivere alla mia ex professoressa Elsa Fornero, attuale ministro del Lavoro e del Welfare.

Elsa Fornero è stata la mia docente di Macroeconomia nel 1998, durante i corsi del Master in Economics del CORIPE Piemonte di Torino, l’attuale Real Collegio. Ricordo una donna chiara, determinata, volitiva, capace di introdurci con perizia ad “Understanding Consumption” di Angus Deaton e ai relativi problemi della cosiddetta “ottimizzazione intertemporale”. Se ci imbattevamo in un esercizio più ostico del solito, Fornero amava spronarci con un monito, una curiosa mescola di americanismo e spirito mediterraneo: “It’s up to you”, ci diceva, con l’aria un tantino materna, nonché lievemente marziale, di chi ha fiducia ma al tempo stesso si attende molto dai suoi studenti.

Dal canto nostro non eravamo una classe agevole… Devo dire che tra noi regnava un notevole scetticismo, riguardo ai modelli neoclassici di ottimizzazione intertemporale. Facendo parte di una delle ultime generazioni “eterodosse” di dottorandi, eravamo stati abituati a guardare con sospetto ad analisi che davano per scontato che il livello del reddito nazionale fosse sempre quello di piena occupazione, e che si limitavano ad esaminare solo il modo in cui la popolazione potesse ripartire quel reddito tra consumo presente e risparmio per il consumo futuro. Fornero tuttavia non sfuggì ai nostri rilievi critici: riconobbe che i modelli che studiavamo erano delle mere astrazioni concettuali, e che nella realtà il problema keynesiano della carenza di domanda effettiva e della conseguente disoccupazione mantiene tutta la sua rilevanza.
LITTORIALI OF THE ARTS (an old university fascist art show)
Elsa Fornero, labour minister, trying very hard to present variations of the Article 18, the bulwark of the syndicates liberty

martedì 31 gennaio 2012

Ue: Ferrero(Prc), vogliamo referendum sul fiscal compact

asca
(ASCA) - Roma, 31 gen - ''Il fiscal compact varato ieri a Bruxelles per l'Italia e' un vero disastro. Con il taglio del 3% annuo portera' ad una spirale tagli di spesa /recessione /tagli di spesa da cui l'Italia non riuscira' ad uscire.

Monti mente sapendo di mentire quando afferma che l'Italia potra' reggere queste misure attraverso la crescita: e' proprio il patto che rendera' matematicamente impossibile la crescita perche' l'entita' dei tagli -oltre 40 miliardi all'anno- impedisce la crescita. L'adesione a questa porcheria ideologica rappresenta inoltre un irreversibile e completo esproprio della sovranita' italiana: per questo chiediamo che il popolo italiano si possa pronunciare attraverso un referendum popolare. Sarebbe un vero colpo di stato che un governo non deciso dagli italiani firmasse un trattato che abolisce per i prossimi decenni la sovranita' dello stato italiano e riporta l'Italia in condizioni di poverta'''.

Lo afferma Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista.

Reddito garantito: un appello per prendere parola

Andrea Fumagali ilmanifesto
In questa fase di dibattito nazionale sulla riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali abbiamo voluto lanciare un "appello" attraverso le pagine de Il Manifesto cosi da avviare un dibattito aperto ed una presa di parola in merito al tema del reddito garantito.
Invitiamo, tutti coloro che ritengano che in questa fase sia utile ed importante sostenere il tema del reddito garantito ad inviare il proprio contributo o articolo inviando una mail ad info@bin-italia.org con nome cognome (o nome collettivo se scritto a più mani) http://www.bin-italia.org/

Il diritto naturale all'insolvenza Di Andrea Fumagalli

Un libro collettivo sulla «Debitocrazia». Un'accurata analisi su come si possa contestare le politiche di austerity a partire dalle esperienze internazionali di contrattazione del debito dei paesi nel Sud del mondo L'attuale crisi europea, fra i tanti effetti negativi sulla vita di milioni di persone, ha avuto però il merito di sviluppare una nuova letteratura eterodossa e alternativa, in grado di fornire utili strumenti per una analisi e una politica economica non liberista. Un buon esempio in tal senso è costituito al libro collettivo Debitocrazia. Come e perché non pagare il debito pubblico (Edizioni Alegre, pp. 172, euro 15, a cura di D.Millet e E.
Toussant, con post-fazione di Salvatore Cannavò). I due autori appartengono al Comitato per l'annullamento del debito al Terzo Mondo (Cadtm), fondato nel 1990 e non sono economisti stretti: il primo è professore di matematica, il secondo è dottore di ricerca in Scienze Politiche. Il non essere economisti di professione, consente loro di affrontare il tema della crisi del debito in modo meno astruso e servile, con una lente più interdisciplinare e non per questo meno rigoroso.
Un audit internazionale
Il testo è una raccolta di brevi saggi molto chiari e comprensibili anche per un pubblico non addetto, per lo più scritti da Eric Toussant, che ripercorrono le tappe della crisi del debito dagli anni Novanta ad oggi, mettendo in luce come questo sia passato dall'essere una prerogativa dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo (secondo l'accezione dell'epoca) a una costante dei paesi occidentali (del Nord, secondo un'accezione un po'
retrò), dopo il 2007. In questo paradigmatico passaggio di testimone, si sottolineano i cambiamenti giuridico-costituzionali che hanno caratterizzato l'evoluzione in senso democratico di molti paesi dell'America Latina. In particolare risulta interessante il caso dell'Equador: nella costituzione di questo Stato (art. 291-292), adottata a suffragio universale nel settembre 2008, vengono definite le condizioni alle quali le autorità del paese possono contrarre dei prestiti, si consente la non restituzione dei debiti illegittimi (per esempio, quelli costituiti dalla capitalizzazione di interessi in ritardo - anatocismo -, pratica corrente dei creditori membri del Club di Parigi).
TRAIN HIGH VORACITY (TRAIN HIGH SPEED, Treni Alta Velocita’)

lunedì 30 gennaio 2012

Il nome della “nostra” crisi

di Vicenzo Comito. Fonte: finansol
In passato ho pubblicato diversi articoli, su questo stesso sito, sul tema della crisi. Poi ho sostanzialmente smesso, concentrandomi su altre questioni; ora vorrei tornare su questo argomento cercando di recuperare almeno in parte l’attenzione perduta. E comincio con queste note.

La crisi per molti aspetti ancora in atto nonostante un miglioramento, che appare peraltro precario, dei dati economici e finanziari in molti dei paesi occidentali, non ha sorprendentemente, almeno sino ad oggi, un nome “ufficiale” e riconosciuto, anche se ne ha ricevuti diversi nel corso del suo ormai abbastanza lungo percorso. Questo ha molto a che fare anche con i suoi continui cambiamenti di registro e di direzione sia a livello di settori colpiti che di aree geografiche, che infine di soggetti coinvolti, nel corso di questi tre anni e più. Così non si sa spesso quale aggettivo far seguire alla parola crisi se essa viene fuori in qualche discorso o in qualche articolo.

Ma siccome si può forse anche credere a quello che diceva qualcuno, non ricordo chi, nell’antichità, che cioè “nomen est essentia rerum”, che nel nome c’è l’essenza stessa, il senso profondo, delle cose, proviamo a partire alla ricerca di quello che può sembrare più adeguato per il fenomeno in atto.

Nel rintracciare i mutevoli percorsi della crisi e i suoi cambiamenti di denominazione facciamo in particolare riferimento ad un articolo di Marc-Olivier Padis, apparso nel numero di ottobre 2010 sulla bella rivista francese Esprit, rispetto alle cui classificazioni abbiamo peraltro apportato alcuni mutamenti.

Ecco Riforma del Mercato del Lavoro, il gioco da tavolo che cancella i diritti

Alessandro Robecchi. Pubblicato in Il Misfatto
Più entusiasmante di Risiko! Più divertente di Monopoli! Finalmente un gioco che bastona i lavoratori senza usare la polizia! – Il ministro Fornero è già una campionessa: basta un tiro di dadi per eliminare l’articolo 18 e la cassa integrazione – Il gioco in realtà è antichissimo, ma Monti lo presenta in Europa come una grande novità italiana – Sergio Marchionne è raggiante: “Ottimo! Si possono fregare i lavoratori italiani anche vivendo a Detroit!”

Un gioco da tavolo entusiasmante, un passatempo perfetto per riempire le pause in Consiglio dei Ministri, per dilettare banchieri e sottosegretari. Si tratta del nuovissimo Riforma del Mercato del Lavoro®, un gioco che unisce strategia, abilità, cinismo ed economia. La struttura ricorda quella dei giochi tradizionali: un tabellone, pedine colorate, dadi e carte. Ma il segreto del successo è che ognuno fa le regole come cazzo vuole. Per abolire l’articolo 18, per esempio, basta fare sei con i dadi e dire che si tratta di giustizia sociale. Lo stesso vale per la cassa integrazione. Per i sussidi ai disoccupati e il reddito minimo garantito, invece, sarà necessario fare quindici volte consecutive uno tirando due dadi: nessuno c’è mai riuscito. Riforma del Mercato del Lavoro® è in commercio da meno di un mese e già ci sono campioni conclamati. “Il ministro Fornero è molto forte – dice un esperto – soprattutto per il suo cinismo. Pare sia imbattibile , ha ordinato un tabellone in pelle umana e dadi di osso di metalmeccanico”. Intanto si affinano tecniche e strategie di gioco. La migliore è fingere di occuparsi dei precari. “Con la scusa di aiutare i precari si cancellano i diritti a tutti gli altri, e il gioco è fatto – dice un sottosegretario – spesso i sindacati ci cascano alla grande”. Molto preziosa, nel gioco, la carta “diritti acquisiti”: chi la pesca la butta nel cesso ed è favorito per la vittoria. Come ogni gioco di strategia, richiede buona predisposizione alla menzogna. Per esempio convincere tutti che licenziare i lavoratori faccia bene all’economia aiuta molto, così come leggere gli articoli di Alesina e Giavazzi sul Corriere. Vince, alla fine, chi fa più regali alle banche e ai padroni, riuscendo però a passare per un riformista di stampo europeo che modernizza il Paese. Un gioco bellissimo, insomma. Unico neo, il prezzo: Riforma del Mercato del Lavoro® costa infatti tre punti di Pil e cinque di inflazione. Ma anche qui, nessun timore: se i giocatori sono abili, pagheranno i lavoratori.

A.A.A. politica cercasi

Adriana Pollice - ilmanifesto
Sala gremita per il dibattito, posti in piedi ai tavoli tematici. E' stato un successo il forum dei "Beni comuni" che si è svolto ieri a Napoli.
«A sinistra ci siamo abituati a dire pochi ma buoni, però poi si vincono le amministrative, poi anche i referendum e allora, come al forum di Napoli 'Comuni per i beni comuni', dobbiamo abituarci a dire buoni e tantissimi». Norma Rangeri apre i lavori dell'appuntamento partenopeo che ieri ha riunito amministrazioni, associazioni, movimenti, cittadini e tutte le realtà del territorio intorno alle possibili declinazioni del benecomunismo. Tocca alla direttrice de il manifesto «perché il nostro giornale dà voce e forma al cambiamento a cominciare dal referendum sull'acqua, su cui abbiamo condotto una battaglia quando erano in pochi a crederci. E poi siamo stati noi a scovare il comma dell'articolo 25, nelle liberalizzazioni di Monti, che avrebbe reso impossibile convertire le Spa in società speciali di diritto pubblico per gestire i servizi idrici», a partire da Abc Napoli - Acqua bene comune. «Ci siamo battuti e abbiamo ottenuto il ritiro della misura».
La sala del teatro Politeama, il più grande di Napoli, è gremita già dalle 11, arrivano anche gli scettici, non si sottraggono al confronto. Nei corridoi i banchetti per le firme per far tornare la Fiom sui luoghi di lavoro ma anche per la petizione popolare per cambiare il Trattato economico europeo. Dalla direttrice del manifesto, due bacchettate: «Come spesso accade, manca una presenza femminile più ampia perché viene disconosciuta l'importanza del contributo delle donne al rinnovamento della politica italiana. Manca l'attenzione all'informazione. I giornali indipendenti, come Liberazione, hanno già cominciato a chiudere, quando resteranno le multinazionali delle news quale sarà la qualità dell'informazione? Anche noi potremmo a breve non esserci più. Vogliamo assistere al funerale o scongiurarlo in nome della stampa Bene comune?».

Matrimonio CINO-AMERICANO

IMMANUEL WALLERSTEIN - il Manifesto - Fonte: dirittiglobali
In Occidente le relazioni tra il principale dei paesi «emergenti» e la superpotenza in declino viene di solito definita come una «sfida». Ma a chi e in che senso? E soprattutto, sarà proprio così?Le relazioni tra Cina e Stati uniti sono oggetto di grande preoccupazione nei discorsi che attraversano il mondo (bloggers, media, politici, burocrati internazionali). L'analisi dominante interpreta la relazione come quella tra una superpotenza in declino, gli Stati uniti, e un paese «emergente» in rapida crescita, la Cina. Nel mondo occidentale, questa relazione è di solito definita in termini negativi, la Cina viene vista come una «sfida». Ma sfida a chi e in che senso? Alcuni vedono l'«emergenza» cinese come il ritorno a una posizione centrale nel mondo, che questo paese aveva nel passato e che ora starebbe recuperando. Altri considerano che sia un avvenimento molto recente - la Cina acquisirebbe un ruolo nella geopolitica in movimento e nelle relazioni economiche mondiali del sistemamondo moderno. Dalla metà del XIX secolo, le relazioni tra i due paesi sono state ambigue. Da un lato, in quel periodo, gli Stati uniti avevano cominciato ad espandere le proprie vie commerciali verso la Cina. Avevano iniziato ad inviare dei missionari cristiani. Alla svolta del XX secolo, avevano proclamato la politica della «porta aperta», che più che contro la Cina era diretta contro le potenze europee. Gli Stati uniti volevano la loro parte del bottino. Comunque, poco dopo, gli Usa parteciparono, a fianco delle altre potenze occidentali, a sedare la ribellione dei Boxer contro l'imperialismo esterno. In patria, il governo Usa (e i sindacati) cercarono di impedire che i cinesi immigrassero negli Stati uniti. Dall'altro lato, a malincuore, c'era un certo rispetto nei confronti della civiltà cinese. L'estremo oriente (Cina e Giappone) era la destinazione preferita per l'opera missionaria, più dell'India e dell'Africa, e questa scelta veniva giustificata con la supposizione che la cinese fosse una civiltà «più alta». Deve aver pesato anche il fatto che né la maggior parte della Cina né del Giappone furono mai colonizzate direttamente e che di conseguenza non c'era nessuna potenza coloniale europea che cercasse di fare proseliti per riservare la colonia ai propri cittadini. Dopo la rivoluzione cinese del 1911, Sun Yat-Sen, che aveva vissuto negli Stati uniti, nei discorsi pubblici era diventato un personaggio simpatico. E all'epoca della seconda guerra mondiale, la Cina era vista come un alleato nella guerra al Giappone. Per questo, furono gli Stati uniti ad insistere perché la Cina ottenesse un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Certo, quando il partito comunista cinese ha conquistato la Cina continentale e fondato la Repubblica popolare cinese (Rpc), la Cina e gli Stati uniti sembravano diventati feroci nemici.
F.35 fighters (caccia)
THROW THEM AWAY (CACCIAteli)
OUT of NATO !

domenica 29 gennaio 2012

Terra, acqua e fame: uccidere la Grecia azzerando lo Stato

(Argiris Panagopoulos, “La lettera della troika che strangola la Grecia”, da “Il Manifesto” del 28 gennaio 2012). Fonte: libreidee
Richieste due grandi privatizzazioni subito, licenziamenti di massa nel settore pubblico, enorme flessibilità del lavoro nel settore privato, un nuovo taglio di pensioni e stipendi e altre montagne di soldi per le banche. «Terra e acqua», come nell’antichità, ha chiesto ieri la troika (Fmi-Bce-Ue) per concedere il nuovo maxi prestito al governo tecnico di Lucas Papademos, mentre ancora è in trattative con i creditori privati per il taglio del debito dei bot greci. In dodici fitte pagine la troika ha avanzato dure condizioni alla Grecia per la concessione del secondo prestito (130 miliardi di euro), che suonano come un chiaro avvertimento per gli altri “maiali”, i piigs della eurozona che aspettano un secondo prestito, come Portogallo e Irlanda, o i paesi che hanno problemi a finanziare i loro debiti, come Spagna, Italia e più a lungo il Belgio.

La troika vuole due grandi privatizzazioni nel periodo breve, licenziamenti di massa nel settore pubblico, enorme flessibilità del lavoro nel settore privato, un nuovo taglio delle pensioni e degli stipendi e ancora montagne di soldi per le banche, esautorando lo Stato da ogni decisione. Il sistema bancario sarà salvo con i prestiti che pagheranno i greci delle prossime generazioni, con il loro governo che prenderà in cambio solo azioni privilegiate, senza diritto di voto e di controllo sulle politiche dei banchieri. L’unica “concessione” della troika è la diminuzione del deficit per il 2012 (dell’1%) con tagli alla spesa pubblica e non con nuove tasse: il buco nero dei 2 miliardi per il 2011 sarà coperto con tagli alla spesa farmaceutica e alla difesa.

Ue, Bce e Fmi chiedono nello specifico 150.000 licenziamenti o pensionamenti nel settore pubblico fino al 2015, un nuovo taglio delle pensioni integrative e dei salari, con la scomparsa di tredicesima e quattordicesima, l’abolizione del sistema della contrattazione del lavoro con la sepoltura dei contratti collettivi in cambio di contratti individuali privati o al massimo a livello di impresa, la diminuzione del salario minimo e l’abolizione dei contratti settoriali nelle banche, negli enti e nelle imprese statali e parastatali. Vogliono anche tasse più salate per i proprietari di case e l’aumento del 25% del valore nelle compravendite degli immobili. Impongono la flessibilità salariale più assoluta, la diminuzione dei contributi delle imprese al 5%, la liberalizzazione completa del settore dei trasporti stradali, delle farmacie, di notai e avvocati.

Nel ricatto della troika c’è la volontà di “neutralizzare” il controllo politico della direzione delle entrate fiscali e delle dogane, con la creazione di una speciale segreteria generale e, per combattere la corruzione, pretende il cambio degli alti funzionari delle direzioni del fisco ogni due anni e la sostituzione dei funzionari che non raggiungono gli obbiettivi. Naturalmente il nuovo pesantissimo memorandum dovrà essere firmato dai leader dei tre partiti (il partito socialista Pasok, Nea Dimocratia di centrodestra e Laos di estrema destra) che sostengono il governo Papademos di coalizione nazionale. Una “firma” che è diventata prassi anche in Grecia dopo l’esempio dei partiti di governo in Irlanda e Portogallo per assicurarsi i prestiti.

Il premier ha fretta di concludere la partita per il taglio del debito con i creditori privati per finire il prima possibile le trattative per il secondo maxi prestito, attraverso il massacro dei diritti dei lavoratori. La stessa fretta hanno anche Angela Merkel, l’Ue e il Fondo monetario internazionale visto che Portogallo e Irlanda aspettano con ansia in anticamera per seguire il triste destino della Grecia. C’è da credere che tra la popolazione, dopo due anni di inutili sacrifici, montino ancora rabbia e indignazione destinate a sfociare in una nuova ondata di proteste. Basta guardare l’atmosfera che si respira ad Atene. Migliaia di cittadini in coda, mercoledì scorso, per accaparrarsi le 25 tonnellate di patate distribuite gratis dagli agricoltori di Boiotia-Thiva a piazza Syntagma. Migliaia di lavoratori della sanità che hanno preso d’assedio il ministero per protestare contro i tagli e lo sfasamento dei sistema sanitario pubblico. Una folla arrabbiata e triste come quella che ieri pomeriggio ha accompagnato il regista Theo Angelopoulos per il suo ultimo viaggio.

(Argiris Panagopoulos, “La lettera della troika che strangola la Grecia”, da “Il Manifesto” del 28 gennaio 2012).
HUGE DEMONSTRATIONS AGAINST T.A.V. unnecessary high speed trains

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