Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 14 luglio 2012

L’austerità è smentita dai fatti. Il manifesto di Krugman per il buon senso in economia

Posted by keynesblog
Pubblichiamo, tradotto in italiano, il manifesto di Paul Krugman e Richard Layard pubblicato oggi dal Financial Times e sul sito manifestoforeconomicsense.org. Sebbene nelle premesse si rivolga solo agli “economisti mainstream”, i contenuti sembrano convergenti con molte delle analisi e delle proposte avanzate anche in altre parti della teoria economica. Ma soprattutto è un attacco alla visione del rigore e dell’austerità in stile anni ’30 oggi tornata prevalente.

Un Manifesto per il [buon]senso economico

Più di quattro anni dopo l’inizio della crisi finanziaria, le principali economie avanzate del mondo restano profondamente depresse, una scena che ricorda fin troppo quella del 1930. E la ragione è semplice: ci affidiamo alle stesse idee che hanno governato le azioni di politica economica nel 1930. Queste idee, da tempo smentite, comprendono errori profondi sia sulle cause della crisi che sulla sua natura che sulla risposta appropriata.

Questi errori hanno messo radici profonde nella coscienza pubblica e forniscono il sostegno pubblico per l’eccessiva austerità delle attuali politiche fiscali in molti paesi. Quindi i tempi sono maturi per un manifesto in cui gli economisti mainstream offrano al pubblico una analisi dei nostri problemi maggiormente basata sulle evidenze.
Le cause. Molti responsabili politici insistono sul fatto che la crisi è stata causata dalla gestione irresponsabile del debito pubblico. Con pochissime eccezioni – come la Grecia – questo è falso. Invece, le condizioni per la crisi sono state create da un eccessivo indebitamento del settore privato e dai prestiti, incluse le banche sovra-indebitate. Il crollo della bolla ha portato a massicce cadute della produzione e quindi del gettito fiscale. Così i disavanzi pubblici di grandi dimensioni che vediamo oggi sono una conseguenza della crisi, non la sua causa.
La natura della crisi. Quando le bolle immobiliari su entrambi i lati dell’Atlantico sono scoppiate, molte parti del settore privato hanno tagliato la spesa nel tentativo di ripagare i debiti contratti nel passato. Questa è stata una risposta razionale da parte degli individui, ma – proprio come la risposta simile dei debitori nel 1930 – si è dimostrata collettivamente autolesionista, perché la spesa di una persona è il reddito di un’altra persona. Il risultato del crollo della spesa è stato una depressione economica che ha peggiorato il debito pubblico.
La risposta appropriata. In un momento in cui il settore privato è impegnato in uno sforzo collettivo per spendere meno, la politica pubblica dovrebbe agire come una forza di stabilizzazione, nel tentativo di sostenere la spesa. Per lo meno non dovremmo peggiorare le cose tramite grandi tagli della spesa pubblica o grandi aumenti delle aliquote fiscali sulle persone comuni. Purtroppo, questo è esattamente ciò che molti governi stanno facendo.
Il grande errore. Dopo aver risposto bene nella prima e acuta fase della crisi economica, la saggezza politica convenzionale ha preso una strada sbagliata, concentrandosi sui deficit pubblici, che sono principalmente il risultato di una crisi indotta dal crollo delle entrate, e sostenendo che il settore pubblico dovrebbe cercare di ridurre i suoi debiti in tandem con il settore privato. Come risultato, invece di giocare un ruolo di stabilizzazione, la politica fiscale ha finito per rafforzare gli effetti frenanti dei tagli alla spesa del settore privato.

Caro economista italiano, ti scrivo...

Caro economista italiano, ti scrivo...

di Yanis Varoufakis
Caro Collega, come te, suppongo, anch’io sono cresciuto con le immagini in bianco e nero di un’ Europa meridionale che lottava per emergere dalle miserie degli anni tra le due guerre.
Come te, la mia mente è ancora piena di immagini di gente duramente messe alla prova dalla vita, che cercava di rinascere emigrando in paesi lontani, come nel film “Ladri di biciclette” o film greci simili, in cui intere sequenze comiche giravano intorno alla figura di un uomo adulto che desiderava ardentemente una torta al formaggio o un dessert. Comunque, arrivò poi il tempo in cui questi ricordi ed immagini di profonda povertà e privazione svanirono al punto da annullare la forza comica di simili scenette.
Le nostre società, l’Italiana e la Greca, abbandonarono la tradizione culturale dei De Sica, Fellini, Koundouros e Kakoyiannis per scendere pian piano nel buco nero della volgare era Berlusconiana. Nel corso di questi anni di “crescita” e di consumismo, molti di noi speravano che le nostre società potessero trovare in se stesse la capacità di riscoprire l’equilibrio perduto; cercare cioè di far convivere la pancia piena con un cinema decente preferendolo al crasso stile di vita che la televisione ci mostrava.

Ahimè, non ci siamo riusciti. Prima di poter raggiungere un tale equilibrio (presumendo che lo si potesse raggiungere) si è abbattuto su di noi un nuovo 1929. E’ accaduto nel 2008 quando, proprio come nel 1929, crollò la Borsa di Wall Street, la valuta comune del tempo (nel 1930 era il Gold Standard, nel 2010 l’Euro) iniziò a rivelare le sue debolezze e in breve tempo le nostre ‘élites’ finanziarie fallirono clamorosamente nella capacità di rispondere razionalmente alla marcia trionfante della Crisi. Dopo soli due anni da quando la Crisi si è abbattuta sul mio Paese, la Grecia, ci siamo ritrovati nonostante tutto nella capacità di rapportarci adeguatamente a quelle sequenze comiche degli anni 50-60 dove persone bramavano una torta al formaggio e sognavano un dessert.

Da giovane, quando studiavo economia, ricordo che avevo difficoltà a capire perché i governi del periodo tra le due guerre, dal ’29 in poi, avessero così miseramente fallito nel bloccare il disagio economico che ci condusse poi tragicamente alla seconda guerra mondiale. Leggevo dell’impegno del Presidente Hoover nel ridurre drasticamente le spese pubbliche e nel tagliare salari in un momento in cui l’economia statunitense stava implodendo e proprio non riuscivo a capire come lui e i suoi allegri consiglieri potessero appoggiare una simile idiozia. Semplicemente mi rifiutavo di credere che fossero uomini malvagi che volevano il male della loro gente. Ma allo stesso tempo non riuscivo a capire come fecero a convincere se stessi che le loro azioni davvero potessero dare sollievo al loro sofferente elettorato.

Bene, sono passati tanti anni da allora ma poi ho capito. Guardando il nostro Governo in Grecia dall’inizio della crisi del debito in atto, osservando i capi europei approvare e adottare una politica rovinosa dopo l’altra, alla fine ho capito.

Se ci pensi, è un po’ quello che è accaduto negli Stati Uniti verso la fine degli anni ’60-inizio ’70. Al Pentagono, brillanti generali capirono perfettamente che la guerra nel Vietnam non poteva essere vinta. E che mandare altre truppe a combattere nella giungla, bombardare con il napalm le città vietnamite inasprendo ulteriormente lo sforzo bellico era del tutto inutile. Sappiamo benissimo, grazie agli sforzi eroici di Daniel Ellsberg, che ognuno di loro e anche gruppi di loro sapevano quali erano stati gli errori commessi. Eppure non riuscirono a coordinarsi tra loro e a sincronizzare le loro opinioni per concordare un cambiamento di rotta. Un cambiamento che avrebbe salvato migliaia di vite Americane, centinaia di migliaia di vite vietnamite, per non parlare delle ingenti somme di denaro speso.

Qualcosa di simile a quello che succede oggi ad Atene, a Roma, a Francoforte, a Berlino e a Parigi. Non è vero che la nostra classe dirigente è ignara del fatto che l’Europa sia come un treno che sta lentamente deragliando con in testa il vagone Grecia seguito dai vagoni Irlanda e Portogallo e, a seguire, i più grandi vagoni Spagna, Italia, Francia e, per finire, la stessa Germania. No, io credo che tutto questo loro lo hanno bene in mente, proprio come i generali americani avevano ben chiara l’immagine delle scene finali a Saigon – con gli elicotteri che caricavano gli ultimi americani dal tetto dell’Ambasciata USA. Ma proprio come i generali americani, essi non riescono a coordinare le loro opinioni in un’unica risposta politica intelligente. Nessuno di loro ha il coraggio di parlare quando entrano nelle sale conferenza dove si prendono decisioni importanti, per paura di essere accusati di troppa “morbidezza” o di essersi arresi. Così restano muti, mentre l’Europa brucia, sperando che il fuoco si estingua da solo, mentre sanno, nel profondo del loro cuore, che questo non potrà accadere.

E mentre esitano e Atene, Roma, Madrid, Lisbona e Dublino bruciano, le nostre società stanno sprofondando in un pantano dove muoiono le speranze e le prospettive, dove le esistenze si impoveriscono e dove i soli vincitori sono i misantropi, i cinici, quelli che cercano il capro espiatorio nella forma dell’ “alieno”, l’Ebreo, il “diverso”, l’ “altro”. Mentre si stanno letteralmente spegnendo le luci nel mio Paese, con famiglie che “scelgono” di avere la fornitura di elettricità discontinua in modo da poter comprare il cibo tutti i giorni, criminali pattugliano le strade in cerca del “nemico”. L’ideologia nazista sta avendo un’altra rinascita, come anche la fame e le privazioni, e infetta ancora una volta il nostro tessuto sociale. E mentre le nostre istituzioni, i nostri sindacati, le nostre organizzazioni e principi culturali si trasformano in gusci vuoti, il campo è libero per i bigotti, i razzisti, gli sfruttatori del disagio generale e della disperazione. Ahimè, l’uovo del serpente è riapparso di nuovo in Europa e per le stesse ragioni per cui apparve allora.

Il tuo Paese ed il mio condividono molto di più di questa triste storia anche se dimentichiamo di ammetterlo. Prima della guerra, entrambe le nostre società diedero vita e tollerarono regimi fascisti. Il tuo Mussolini ed il mio Metaxas possono anche esser finiti a farsi la guerra uno con l’altro, ma entrambi erano il prodotto di fallimenti politici e disastri economici molto simili al comune destino che assilla attualmente i nostri due paesi. Sento che oggi in Europa è al lavoro una strana geografia: l’Irlanda continua a dire che non è come la Grecia, il Portogallo ripete che non è come l’Irlanda, la Spagna urla che non è come il Portogallo e, ovviamente, l’Italia vuole credere di non essere come la Spagna. Faccio appello a te: dobbiamo smettere di negare i nostri comuni disagi. Ovviamente, l’Italia non è la Grecia, ma nonostante questo, i guai crescenti in cui l’Italia si trova oggi, proprio mentre ti scrivo, è inutile separarli o distinguerli dai guai in cui versa oggi il mio Paese. La nostra “malattia” ha provocato forse una febbre maggiore di quella che avete voi ora ma, credimi, si tratta dello stesso virus. Domani, forse, la vostra febbre salirà ai livelli della nostra febbre di oggi.

Molte persone che conosco al di fuori della Grecia, compresi colleghi economisti, fanno l’errore di pensare che la Grecia stia vivendo attualmente una profonda recessione. Lasciami dire che questa non è una recessione. Questa è una depressione. Qual è la differenza? Le recessioni sono semplici flessioni. Periodi di attività economica ridotta e di maggiore disoccupazione. Come noi insegniamo ai nostri studenti, le recessioni stanno al capitalismo come l’Inferno sta alla Cristianità: sgradevole ma essenziale perché il “sistema” funzioni. Periodi di recessione possono risultare risolutivi e provvidenziali poiché “spazzano via” dall’ecosistema economico tutto ciò che non è efficiente, tutte le aziende che non dovrebbero esistere, i prodotti non più di moda, le tecniche di produzione obsolete, insomma, per usare una metafora, tutti i dinosauri.

Ma quello che avviene oggi in Grecia non è affatto una recessione! In Grecia, oggi, tutti stanno andando giù: l’efficiente e l’inefficiente, il produttivo e l’improduttivo, le imprese redditizie e quelle in perdita. Conosco fabbriche che esportano tutto quello che producono a clienti soddisfatti, carichi di commesse, con un’invidiabile tradizione di utili; ebbene, oggi si trovano sull’orlo della bancarotta. Perché? Perché i fornitori esteri non accettano più le loro garanzie bancarie necessarie perché si riforniscano di materie prime, poiché nessuno ha più fiducia delle Banche Greche. Con i circuiti bancari ormai spezzati, questa crisi sta affondando ogni possibile imbarcazione, buona o meno buona che sia, come per assicurarsi che niente resti più in superficie.

E più si riducono i salari, più aumentano le tasse, più si riducono gli aiuti alla disoccupazione, più grande si fa la voragine in cui tutti stanno sprofondando. Se qualcuno volesse spiegare il concetto del “circolo vizioso”, la Grecia di oggi è un perfetto oggetto di studio.

Tra me e te, da professore economista a professore economista, devo confessarti un profondo senso di vergogna per la mia professione. Tu sai che altri accademici spesso ci definiscono dei “sismologhi”, insinuando che siamo come loro inutili ed incapaci nel prevedere il fenomeno che studiamo.

E’ proprio così. Come professione, non siamo mai stati capaci di avvisare il mondo di un imminente cataclisma. Forse alcuni economisti isolati lo hanno anche fatto ma, purtroppo, un orologio rotto segna l’ora giusta solo due volte al giorno. No, come corpo di scienziati ci siamo dimostrati incapaci tanto quanto i sismologhi nel saper dire dove, quando e con quale intensità colpirà il prossimo terremoto.

Pensaci un momento: dietro ogni nefasta operazione CDO di cartolarizzazione del debito (CDO - collateralized debt obligation), dietro qualsiasi operazione d’ingegneria finanziaria, s’intravedeva l’ombra di qualcuno di noi. Dietro ogni politica economica responsabile della crescita a “schema di Ponzi” (cioè “falsa”) prima del 2008, troviamo sempre la figura di un qualche rinomato e rispettato economista che stava lì a dare la copertura ideologica alla politica adottata.

Dietro tutte le misure di austerità che vengono prese oggi, misure che soffocano le nostre società, ancora una volta troviamo nostri colleghi accademici, i cui modelli e teorie conferiscono autorevolezza e giustificazione alle politiche che vengono imposte alla popolazione. In breve, io e te siamo colpevoli di ciò che stanno soffrendo le persone in Grecia e in Italia. Anche se non condividevamo quei modelli economici in particolare, non abbiamo fatto abbastanza per avvertire il mondo della loro potenziale “tossicità”. Davvero, noi siamo colpevoli.

La settimana scorsa una mia ex-studentessa, malata di cancro, non riusciva più a trovare i farmaci per la chemioterapia di cui ha bisogno, a causa della rottura dell’accordo tra lo stato e l’ordine dei farmacisti (sono in sciopero perché lo stato non li paga da diciotto mesi). Un gruppo di noi suoi ex-professori (tutti economisti) ci siamo messi d’accordo e abbiamo raccolto il denaro necessario per pagare i suoi farmaci a prezzo intero. Per quanto utile sia stato questo gesto, non ci esonera. La nostra colpa resta, uguale a com’era prima di questo gesto. Perché noi eravamo quelli che insegnavano agli studenti l’efficacia dei mercati finanziari, noi avevamo permesso all’era del sistema finanziario “alla Ponzi” di essere definita “La Grande Moderatrice”, noi avevamo chiesto ai nostri studenti di aver fiducia nella capacità delle istituzioni finanziarie di dare il giusto prezzo al rischio. Noi ci siamo seduti lì a guardare mentre i nostri studenti leggevano nei loro libri di testo la grande menzogna che i mercati si autoregolano e che la miglior cosa che uno stato possa fare è di liberare il campo e lasciare che i mercati compiano il loro miracolo. Sì, caro collega, le nostre teste dovrebbero penzolare al pubblico ludibrio. Anche se, individualmente, abbiamo talvolta messo in discussione la “saggezza” convenzionale del nostro mestiere.

Prima di concludere questa lettera, vorrei evocare un’immagine duratura con cui descrivere il modo in cui si sente oggi la mia gente, la gente della Grecia. Ti ricordi il brillante film di Fellini E la nave va? Ti ricordi i profughi di guerra sul ponte, che l’equipaggio trattava con sufficienza? Mi fermo qui nella loro descrizione. Sono certo che ricordi il modo in cui Fellini li dipinse magistralmente. Ecco, è così che si sentono oggi i Greci, e per un motivo preciso anche, dato il ruolo di capro espiatorio che gli è stato affibbiato, come fosse il primo pezzo del domino che cade portandosi appresso una lunga catena di altri pezzi, minacciando l’intera Europa con una versione post-moderna di un tempo passato.

Con tristezza.
Sinceramente tuo.
Yanis Varoufakis

Madrid 11 luglio 2012





THE 14th of JULY
THE REGAIN OF LA BASTILLE
5 protesters at the G.8 in Genoa convicted for 50 years in jail
None of the police officers responsible of the massacre at Diaz school will go to prison

venerdì 13 luglio 2012

L’elemosina

Fonte: il manifesto | Autore: Francesco Piccioni
           Francoforte vede «incertezza» e «peggioramento» nell’economia, problemi enormi sui mercati finanziari, ma si preoccupa di «flessibilizzare» e svalorizzare il lavoro. La volatilità delle obbligazioni «ai livelli di prima di Lehmann Brothers»
Lo sguardo che la Bce posa sulle popolazioni d’Europa all’inizio del terzo millennio è ancora quello di chi decideva – tre secoli fa – di recintare in enclosures le «terre comuni» d’Inghilterra. C’è infatti un passaggio del Bollettino mensile, pubblicato ieri, che «consiglia» ai vari governi di «incoraggiare la flessibilità dei mercati del lavoro e la moderazione salariale, in modo da agevolare la riallocazione settoriale dei lavoratori in esubero, favorire la creazione di posti di lavoro e ridurre così la disoccupazione». Il suggerimento arriva subito dopo la constatazione che «in vari paesi la correzione al ribasso dei salari è stata modesta, e ciò malgrado l’aumento della disoccupazione, a indicazione della necessità di ulteriori riforme che favoriscano la flessibilità dei salari».
Non c’è quasi bisogno di tradurre: i salari si sono abbassati troppo poco e questo non aiuta la «riallocazione» di chi perde il lavoro, quindi dovreste agire sul piano legislativo. L’«apprezzamento» per una controriforma del mercato del lavoro che taglia – tra le altre cose – gli ammortizzatori sociali non potrebbe essere più sincera; tutta quella gente che non potrà più contare su una cassa integrazione o mobilità «lunga» sarà costretta ad accettare qualsiasi lavoro e qualsiasi salario. E infatti l’Aspi (nuova denominazione dell’indennità di disoccupazione) disegnato da Elsa Fornero può esser revocato se non si accetta un lavoro retribuito il 20% in meno dell’Aspi stesso (in pratica, a seconda dei periodi, tra i 600 e gli 800 euro lordi).
Come ai tempi delle enclosures, dunque, si creano a tavolino, lucidamente e senza una lacrima, quei recinti e corridoi che dovrebbero incanalare le greggi umane verso «datori di lavoro» che potranno pagarli pochissimo. Allora si cacciavano i contadini dalle campagne e li si spingeva verso le nascenti manifatture cittadine; oggi si «flessibilizza» chi aveva un «posto fisso», lo si rende facilmente licenziabile, per fare di tutti – «equamente» – dei precari disposti a tutto, per pochi euro.
È il passaggio socialmente più scabroso di un documento come al solito molto cauto nel fotografare il momento economico. L’«incertezza» regna sovrana, con una «congiuntura» che resta debole o in aperta recessione (ma la Bce preferisce parlare di «stagnazione nel primo trimestre»). Ma in ogni caso gli indicatori segnalano che nel secondo, appena concluso, c’è stato «un nuovo indebolimento dell’espansione economica». Un eufemismo per dire contrazione.
Naturalmente, in questo quadro le «pressioni inflazionistiche» sono pressoché nulle, al punto che unici pericoli possono arrivare dal prezzo dell’energia (specie se dovesse aumentare la tensione in Medioriente) e, non troppo paradossalmente, da «ulteriori incrementi delle imposte dirette, dovuti all’esigenza di risanare i conti pubblici».
I rischi veri vengono dal «mercato obbligazionario», quindi fondamentalmente dai titoli di stato di tutta Europa (esclusa la Germania e pochi altri piccoli paesi del grande Nord). Qui «la volatilità» di prezzi e rendimenti «rimane elevata e attualmente si colloca su livelli vicini a quelli prevalenti poco prima del fallimento di Lehmann Brothers». L’unico conforto, per la Bce, viene dal fatto che questo livello preoccupante resta comunque inferiore a quello registrato a fine 2011, quando – per esempio – lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi raggiunse quota 575 punti, imponendo a Berlusconi l’inevitabile passo indietro.
A medio periodo, l’istituto di Francoforte spera in una «graduale ripresa della zona euro», ma non può ignorare che questa «dinamica» è condizionata dalle «tensioni in alcuni mercati del debito sovrano» (in parole povere: Grecia, Portogallo, Spagna e Italia), che inevitabilmente pesano anche su «condizioni di credito», «processi di aggiustamento dei bilanci» ed «elevata disoccupazione».
Rispetto all’Italia, per esempio, i «processi di aggiustamento» rischiano di impattare duramente il settore delle costruzioni, indebolito dall’introduzione dell’Imu e dalla «graduale cancellazione delle detrazioni fiscali a favore dell’investimento nel settore residenziale». Un effetto immediatamente recessivo, dunque, ma che può trasformarsi a breve in una svalutazione generale del patrimonio immobiliare. Ovvero l’esplosione di un’altra «bolla» che peserebbe non solo sulle famiglie, ma anche sui bilanci delle banche, che hanno proprio gli immobili, in genere, come «garanzia» dei prestiti erogati.

La finanza non cambia, la società va difesa.

di Claudio Gnesutta

"Non esistono soluzioni facili e immediate alla crisi". Nella relazione della Banca dei regolamenti internazionali, una conferma del fatto che la crisi è strutturale e che non ci sono margini nel sistema per riattivare la crescita. È per questo che l'unica strada è cambiare strada

“Chi spera in una soluzione facile e immediata continuerà a essere deluso: soluzioni di questo tipo non esistono.” L’affermazione è della Banca dei Regolamenti Internazionali (82a Relazione annuale, 24 giugno 2012, p. 8), istituzione internazionale il cui compito è di promuovere la collaborazione tra le banche centrali.
L’interpretazione delle Bri è di particolare interesse poiché scaturisce da un’analisi attenta e convincente del processo in atto. Il punto cruciale del quadro interpretativo è individuato – in modo non inedito – nel fatto che la crisi sia una crisi di indebitamente generalizzato e che il processo in atto e le prospettive future derivano dai comportamenti “normali” dei singoli soggetti indotti a privilegiare a ricostituire il proprio equilibrio patrimoniale. Non è certo una novità che le famiglie siano indebitate e siano costrette a risparmiare per rientrare dai loro debiti; che le imprese utilizzino i loro profitti per ridurre l’indebitamento piuttosto che finanziare nuovi investimenti; che il settore pubblico sia sotto pressione per realizzare avanzi correnti e ridurre il debito accumulato nel passato; che le banche e le altre istituzioni finanziarie, appesantite da titoli tossici e dalla perdita di valore di crediti e titoli, siano indotte a utilizzare i redditi correnti per ammortizzare le perdite prima di pensare ad espandere il credito all’economia. Il fatto che tutti i settori dell’economia registrino la medesima situazione segnala che non vi sono margini all’interno del sistema in grado di riattivare la crescita; la crisi è sistemica, di un intero sistema economico e sociale dai carenti meccanismi autoregolatori.
Non si tratta certamente di una novità, se non per il fatto che proviene da un’autorevole istituzione mainstream. Non dovrebbe sorprendere nemmeno l’implicazione che “lentezza del processo di deleveraging in tutti i maggiori settori dell'attività economica contribuisce a spiegare perché la ripresa nelle economie avanzate sia stata così debole”. È evidente che “i tentativi di aggiustamento di ciascun gruppo peggiorano la posizione degli altri” dato che “il settore finanziario esercita pressioni sui governi e rallenta la riduzione dell'indebitamento da parte di famiglie e imprese. I governi, a causa del deterioramento della loro affidabilità creditizia e dell'esigenza di risanare conti pubblici, stanno minando la capacità di recupero degli altri settori. Infine, il processo di deleveraging di famiglie e imprese incide negativamente sulla ripresa di governi e banche”. Una crisi da indebitamento generalizzato comporta inevitabilmente una compressione generalizzata della domanda e quindi dei redditi creando una situazione paradossale in cui l’obiettivo prioritario di ridurre l’indebitamento comporta una compressione dei redditi che impedisce la riduzione del debito. Un’osservazione che, ampiamente sviluppata per il debito pubblico, vale per tutti i settori generando non uno ma “molteplici circoli viziosi.” Un messaggio più chiaro di così non si potrebbe avere per una classe dirigente europea che, incapace di vedere gli effetti complessivi del meccanismo in atto, si trincera dietro a giudizi moralistici (talvolta fondati) sulla correttezza dei comportamenti altrui e propone (in maniera infondata) come prioritario un intervento per mettere ordina in casa propria.
Le difficoltà non si esauriscono qui, poiché nonostante quanto è successo vi è la preoccupazione che le principali banche continuino “ad accrescere la leva finanziaria” (espandendo le operazioni in derivati, ovvero le loro posizioni speculative) “senza prestare la debita attenzione alle conseguenze di un possibile fallimento”. Pare che stiano “gradualmente riassumendo il profilo di elevata rischiosità che le caratterizzava prima della crisi”, ovviamente sempre nella convinzione che, qualsiasi cosa succeda, sarà il settore pubblico a farsi carico della loro insolvenza.
Dall’analisi presentata, tre aspetti dovrebbero balzare immediatamente all’attenzione di qualsiasi autorità di politica economica.

L’alternativa all’austerità

il manifesto | Autore: Guido Viale
       
A otto mesi dall’insediamento del governo Monti bisognerebbe chiedersi: l’economia italiana sta meglio o peggio? E sta meglio o peggio la democrazia ad essa legata a doppio filo? Quanto a occupazione, redditi popolari e del lavoro, servizi sociali stiamo sicuramente peggio; ma siamo ripagati in termini di migliori prospettive? Abbiamo subito un decreto Salvaitalia, ma, usando gli indicatori di chi ci governa, spread e rapporti debito/Pil e deficit/Pil, il paese non si è allontanato di un centimetro dal baratro. Abbiamo subito due decreti per la crescita – il terzo è in arrivo – che hanno massacrato servizi, pensioni e lavoratori del privato e del pubblico impiego; ma, a parte le cifre a suo tempo sparate dal premier tecnico (le ricordo: Pil +11% per cento; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti +18), ci stiamo avvicinando – per usare la sua metafora – più alla Grecia che alla Germania. O forse anche la Germania sta avvicinandosi a noi.
Infatti la differenza rispetto a otto mesi fa c’è: allora era in bilico un ristretto numero di Stati dell’Ue, tra cui non si sapeva se includere o no anche l’Italia. Oggi è l’intera costruzione dell’Unione Europea a trovarsi sull’orlo di un baratro, senza che la sua governance si mostri disposta o capace di imporre una svolta: meno che mai in termini di sostenibilità o di equità. Ma non va più tanto bene neanche l’economia tedesca, che pure è stata la principale beneficiaria dell’euro: sono sue le banche che avevano lucrato di più sull’indebitamento pubblico e privato dei paesi oggi stremati dal debito; e quei debiti hanno finanziato quasi metà del suo export, mentre l’altra metà di quell’export è stata facilitata da una moneta svalutata dalla debolezza di altri paesi dell’eurozona. Poi le cose non vanno bene nemmeno nel resto del mondo. L’economia degli Stati Uniti non recupera e quelle dei paesi emergenti ripiegano: sfuma così per l’Europa la speranza di una ripresa indotta dall’esterno. Peggio ancora se introduciamo nello scenario anche la crisi ambientale: Rio+20 ha reso evidente quanto la crisi economica abbia fatto arretrare le prospettive di sostenibilità messe all’ordine del giorno dal summit di venti anni fa.
La seconda cosa da chiedersi è se tutto ciò sia solo frutto di politiche sbagliate, restrittive invece che espansive, cioè dell’applicazione di una cattiva teoria, come sembrano sostenere molti economisti di matrice keynesiana; o se non emerga invece un’intrinseca insostenibilità dell’economia-mondo così come si è andata configurando nel corso degli ultimi decenni. La finanziarizzazione dell’economia è conseguenza diretta del progressivo allontanamento dei centri di comando del capitale dal lavoro e dalle sedi in cui esso si svolge. Delocalizzazioni e diffusione di subappalto, subfornitura e precariato hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema nel corso degli ultimi decenni; un processo reso possibile dalla libera circolazione di merci e capitali e dal web, che consente il governo a distanza di progetti, impianti, fornitori e clienti.
Questa trasmigrazione del potere dall’economia reale alla finanza ha coinvolto, non senza la loro complicità, anche Stati e governi, che hanno visto in questa delega il mezzo più efficace per contenere i salari e la spesa pubblica impegnata nel welfare. Di qui quel trasferimento di una quota consistente di Pil (mediamente il 10 per cento) dai redditi da lavoro ai profitti e alla rendita registrato in tutte le economie occidentali nei tre ultimi decenni. Ma è un vicolo cieco: la compressione dei redditi da lavoro riduce la domanda e deprime produzione e Pil mentre il sostegno della domanda con politiche salariali e monetarie espansive comprime i profitti e mette in forse i trasferimenti di risorse mediati dal debito. Un equilibrio tra queste spinte contrapposte non è stato trovato; né aiutano a trovarlo la crisi ambientale e l’aumento delle diseguaglianze territoriali sociali e di genere.
Ma – terza domanda – se così è, se riprendere la strada dell’espansione economica percorsa decenni fa non è più possibile, dove si va? Dove ci portano l’euro e la governance dell’Ue? Ovvero, che differenza c’è tra questa austerità senza crescita imposta dai vincoli finanziari – che peggiora sempre più la vita di chi lavora, dei tanti senza lavoro né reddito, e la tenuta stessa di un numero crescente di imprese – e le conseguenze di una bancarotta di Stato (il default)? Sono cose che si intrecciano in modo sempre più stretto, come in Grecia, che un default negoziato l’ha già attraversato (anche se hanno cercato di non chiamarlo così) e altri ne ha in vista. Ma se questa è la prospettiva per i cosiddetti Pigs, e per gli altri Stati che ogni giorno si aggiungono alla lista, non sarebbe il caso di affrontare tutti insieme, con una piattaforma comune, un inevitabile scontro con il potere ex lege dell’alta finanza (vedi caso Barclays)?
Per questo le politiche espansive e le loro ipotetiche conseguenze benefiche non possono essere trattate come opzioni disponibili alle compagini politiche in campo. Bisognerebbe studiare piuttosto i problemi connessi alla costruzione di un’alternativa radicale al potere della finanza. Per esempio: con che strumenti e quali conseguenze si possono affrontare situazioni estreme, come quelle già in atto in Grecia, o che vanno delineandosi in Portogallo – e domani, chissà? – in assenza delle leve tradizionali di politica economica? Cioè senza accesso al deficit spending, con la paralisi degli investimenti privati, con una contrazione di redditi da lavoro e consumi, alle prese con continui tagli della spesa pubblica. Possono servire, per contrastare queste situazioni, il prelievo sulle transazioni finanziarie, maggiori tasse su redditi e patrimonio dei ricchi e una redistribuzione della spesa pubblica tra capitoli diversi del bilancio. Ma è urgente aprire un dibattito su possibilità, potenzialità e modalità di un processo di riconversione radicale, promosso dal basso, in forma partecipata, visto che dall’alto niente di buono è in arrivo. Che è poi una road map per riprendere in mano le proprie vite.
Partendo dal fondo: una vera spending review per eliminare gli sprechi – ma anche per stabilire che cosa è spreco e che cosa non lo è – e per decidere adeguamenti occupazionali e formativi e, eventualmente, trasferimenti da servizi ridondanti a servizi carenti di personale dovrebbe coinvolgere in un dibattito articolato servizio per servizio tutto il personale della Pubblica amministrazione e una adeguata rappresentanza delle diverse platee di utenti. Nelle aziende in crisi e in quelle che non hanno più mercato o che producono cose inutili o nocive come armi o Suv, è urgente avviare un pubblico confronto con le maestranze, ma che coinvolga anche le comunità, i governi locali e l’imprenditoria tutta – pubblica, privata, cooperativa, sociale o potenziale – dei territori di riferimento su possibilità e potenzialità (soprattutto occupazionali) di una riconversione. Non si tratta solo di progettare nuovi processi produttivi, ma anche e soprattutto di trovare in quegli stessi territori, o altrove, la domanda necessaria a sostenere le nuove produzioni. I mezzi del trasporto pubblico – di massa e personalizzato – gli impianti e i materiali per lo sfruttamento delle fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica, la difesa degli assetti idrogeologici e la prevenzione antisismica, il recupero degli edifici dismessi, la valorizzazione dei beni culturali e, soprattutto, un’agricoltura ecologica a km0 e un’alimentazione più sana possono essere i motori di questi processi. Si può cominciare subito a porre il problema, azienda per azienda, o in ogni territorio. Oppure si deve aspettare, come in Argentina, che i padroni abbandonino impianti e lavoratori per poi ricominciare faticosamente a produrre nelle fabbriche requisite quello che si sarebbe potuto continuare a fare prevenendone la chiusura? Ma è nei servizi pubblici locali (servizio idrico, rifiuti, energia, mobilità, mense e mercati, nidi e assistenza) che vanno innescate già ora le prime forme di riconversione gestionale. Certo per tutte queste cose ci vogliono risorse; ma senza programmi e progetti chiari non ha nemmeno senso rivendicarle.
Poi, anche e soprattutto nella vita quotidiana è possibile avere di più con meno: il paniere dei nostri consumi è pieno di sprechi, dal cibo che scartiamo a molti imballaggi, dai gadget agli stili di vita imposti; ma una conversione in questo campo non può essere affidata solo alle scelte individuali; deve essere oggetto di progetti di autoeducazione collettiva e di accordi diretti tra produzione e consumo in cui i governi locali possono giocare un ruolo decisivo. Infine, per alimentare l’economia di un territorio, l’introduzione di monete locali non convertibili – o di sistemi di scambio fondati su crediti e debiti certificati – può concorrere a contenere gli effetti depressivi delle strette fiscali, creditizie e salariali: si tratta di soluzioni già in vigore in diverse comunità colpite dalla crisi e ampiamente diffuse nel periodo tra le due guerre del secolo scorso. Oggi il ricorso alle tecnologie elettroniche potrebbe renderle più efficaci e diffuse. Se si intraprendono tutte queste cose diventa possibile sostenere le conseguenze di una moratoria o di una ristrutturazione unilaterali del debito pubblico, comunque preferibili a un’austerità senza sbocco, al termine della quale non c’è che una catastrofe di tipo greco. O no?

Le due austerità: Berlinguer vs Monti


L’austerità è un modo di essere. In questo senso Enrico Berlinguer e Mario Monti hanno, almeno in apparenza, non poco in comune in termini di garbo e sobrietà.Ma l’austerità è stata, e resta oggi, anche un progetto politico. In quanto progetto economico e culturale l’austerità berlingueriana degli anni Settanta e quella montiana dei Giorni nostri non hanno assolutamente nulla in comune.
“Austerità occasione per trasformare l’Italia”, così venne intitolato l’intervento di Berlinguer, ristampato anche di recente, in un convegno al teatro Eliseo nel 1977. Fu un intervento criticato da intellettuali di larghe vedute come Norberto Bobbio
e in modo particolarmente duro dai socialisti dell’epoca che vi leggevano il segno di un’ispirazione pretesca e moralizzatrice assolutamente fuori sintonia con lo spirito dei tempi.
Quali erano le premesse dalle quali prendeva le mosse il leader comunista? L’idea di fondo era che nella prima metà degli anni Settanta tre cambiamenti epocali avevano sconvolto la società italiana ed europea: in primo luogo le travolgenti conquiste del movimento operaio nel secondo biennio rosso del ’68-’69; poi la fine del sistema di Bretton Woods con il ridimensionamento della centralità del dollaro; e infine l’uscita dei Paesi del Terzo Mondo dallo stato di minorità, così come reso evidente dalla shock petrolifero del ’73. Queste tre sfide necessitavano di risposte all’altezza. Occorreva muovere verso un nuovo modello di sviluppo basato su una riduzione della crescita dei consumi e della produzione in modo da lasciar spazio ai popoli emergenti e concentrarsi verso gli investimenti nella cultura, nei servizi alla persona, nella mobilità pubblica. Il processo avrebbe potuto comportare qualche sacrificio salariale per la classe operaia, ma in cambio di una rivoluzione produttiva che non avrebbe intaccato ma semmai accresciuto i diritti dei lavoratori e di una trasformazione produttiva dell’economia che avrebbe posto l’accento sulla qualità piuttosto sulla quantità. Tutto ciò si legava a discorsi che in parallelo facevano i più innovativi fra i leader socialdemocratici dell’epoca – da Palme a Brandt a Kreisky – nonché intellettuali in tutto il mondo, da Ivan Illich allo stesso Pasolini della critica al neofascismo dei consumi.
A ben vedere si trattava anche di una critica al tradizionale impostazione socialdemocratica che era, e ancora oggi sembra restare, più interessata alla redistribuzione dei proventi della crescita che alla qualità di questa crescita e alla partecipazione diretta alla gestione di produzione e servizi.Cos’è invece l’austerità di Monti? L’austerità montiana non è altro che la presa d’atto delle classi dirigenti finanziarie e produttive europee che il modello di crescita occidentale, ed europeo in particolare, non è più in grado di sostenere in tutto il Continente la spesa statale in stipendi e servizi pubblici.
L’idea è dunque quella che i Paesi europei “periferici” tirino la cinghia in termini salariali, occupazionali, nonché in termini di riduzione della spesa pubblica fino al punto di invogliare nuovamente i capitalisti ad investire. Come locuste i capitalisti dovrebbero allora calare in massa nell’Europa periferica, o semplicemente sbloccare le ricchezze accumulate in attesa di tempi migliori, grazie ad un abbassamento delle tutele dei lavoratori, del peso della tassazione e a nuove opportunità innescate con la privatizzazione di servizi e concessioni in precedenza forniti dalla Stato. La politica dell’austerità montiana, dettata da una miscela ideologica proposta in primo luogo dalla Banca centrale europea e dalla Germania, diventa così il coronamento del trentennio neoliberista.


FRANCE HAVING A SECOND THOUGHT ABOUT THE CONTROVERSIAL LYON-TURIN HIGH SPEED TRAIN

Soft o hard ...

Soft o hard, il memorandum arriverà anche qui in Italia. Parola di Monti
Sta suscitando grande inquietudine nei palazzi della politica lo spettro evocato dal presidente del Consiglio subito dopo l'Ecofin: il fantasma del Memorandum. Monti non ha per nulla escluso che, nel caso di spread fuori controllo, l'Italia possa chiedere soccorso al Fondo salvastati; anzi, per la prima volta ieri ha dato l'impressione che prima o poi ciò potrà accadere. Una cosa che si attende ormai da tempo. Prima ti costringono a tagliare e a fare le riforme per comprimere i diritti, poi ti stringono definitivamente il cappio al collo con il Memorandum.

Anche se Monti ha precisato che per l'Italia non sarebbe comunque un'umiliazione, cioè che a differenza della Grecia dovremmo sottoscrivere con l'Europa una lista di impegni molto meno gravosa, in pratica la conferma di «un memorandum in versione light», si tratta sempre di cedere ai ricatti dei 'capi' d'Europa, dalla Bce all'Ue.

Proprio come accadde in Grecia, l'eventuale Memorandum dovrebbe essere sottoscritto non solo dal Parlamento uscente, ma da tutti i leader impegnati nella campagna elettorale... Ci sarà da divertirsi...

giovedì 12 luglio 2012

VOTI A PERDERE

Fonte: il manifesto | Autore: Andrea Fabozzi
       
Il più sguaiato dei tribuni e il più felpato degli editorialisti di questi tempi hanno una cosa in comune. Si lamentano che i politici, tutti, non lavorano abbastanza. Bene. Per una volta possono darsi pace, dando uno sguardo ai calendari della camera e del senato. Stanno lavorando. Per la precisione stanno votando a testa bassa un decreto via l'altro, una fiducia e un'altra ancora. Questo è il «lavoro» che è ridotto a fare il parlamento, e dovrà farlo per tutto luglio e anche agosto. Il presidente della Repubblica che con altri governi tuonava contro l'eccesso dei decreti e delle fiducie e che, con i tecnici già in sella, aveva promesso «un vaglio rigoroso», non interviene. Anzi, quando interviene lo fa per rimproverare il parlamento e respingere ogni critica al governo.

Tra la camera e il senato c'è una fila di undici decreti da convertire, con argomenti che variano dal terremoto agli italiani all'estero, dalla crescita alla sanità alle dismissioni e con scadenze che non vanno oltre la fine del mese venturo. Poi ci sono anche un paio di leggi delega. Deputati e senatori della strana maggioranza sono lì che votano. Dissentire non possono, perché altrimenti sale lo spread. Modificare neppure, perché piomba la questione di fiducia. Si va avanti così ed è interessante verificare - dal sito del ministro per i rapporti con il parlamento - come il governo abbia sempre avuto bisogno della fiducia sui suoi provvedimenti tranne che per la ratifica dei trattati internazionali o la proroga delle missioni militari.

Questo è lo stato dei rapporti di forza tra l'esecutivo e il parlamento oggi, questa è la condizione reale del Palazzo: dove la retorica anticasta disegna il centro del (malvagio) potere c'è invece un seggio elettorale permanente che può solo accendere la luce verde. Poi uno si domanda cosa abbiano in testa quelli che questa situazione vogliono perpetuare, e chiedono a Monti di restare a palazzo Chigi anche dopo le elezioni. O, peggio, quelli che vogliono riformare la Costituzione perché il governo ha troppo pochi poteri e dev'essere «rafforzato».

Naturalmente, i più impegnati in quest'opera di devastazione del potere legislativo sono proprio alcuni parlamentari. Quello che avviene a proposito di riforme istituzionali e legge elettorale lo dimostra. E non sempre sono i peggiori a fare danni. Per esempio, l'idea di sciogliere il dilemma della forma di governo chiamando i cittadini a un bel referendum sul semipresidenzialismo di antico sapore craxiano è un'idea del Pd. Democratica è anche un'altra trovata di genio, stavolta sulla legge elettorale. Il parlamento non decide? Male, anzi bene. Si può affidare ai cittadini il compito di scegliersi la legge elettorale con un referendum «deliberativo» (un altro) che metta in gara i vari sistemi: volete voi l'uninominale? il doppio turno? lo scorporo? preferite il metodo D'Hondt o quello Hare? Dopo di che il parlamento potrebbe anche chiudere per inutilità. Con dei difensori così non ha bisogno di altri nemici.

ENOUGH! WE CAN'T HELP THE BANKS WITH OUR BLOOD
BASTA!  NON POSSIAMO AIUTARE LE BANCHE COL NOSTRO SANGUE

mercoledì 11 luglio 2012

La vera dittatura

Fonte: il manifesto | Autore: Alberto Burgio
        In nome della grande crisi si sta configurando un’Europa a due velocità. Sul piano economico e su quello sociale. Obiettivo: spremere il lavoro fino all’ultima goccia di sudore. Perché una parte della sinistra lo avalla senza riserve?
Le parole sono pietre, pensava uno dei nostri maggiori, non per caso dimenticato. E sono importanti, aggiunse Nanni Moretti in un memorabile dialogo di Palombella rossa. Per questo non convincevano, nei recenti anni bui del Cavaliere, le analisi che discorrevano a giorni alterni di un nuovo regime e di un nuovo fascismo, ferma restando, ovviamente, l’estrema gravità di quanto è accaduto in questo paese nell’ultimo ventennio. È discutibile che sia una buona idea alzare i toni e forzare i concetti. Ed è tutt’altro che ovvio che spararla grossa aiuti a far comprendere e a sensibilizzare l’opinione pubblica. Più probabilmente gli eccessi sortiscono l’effetto opposto, come scoprì a proprie spese il pastorello di Esopo che si divertiva a terrorizzare il villaggio urlando per scherzo «Al lupo! Al lupo!».
Oggi però qualche dubbio insorge. Si provi a riflettere sul nuovo ordine europeo che sta prendendo forma sotto i nostri occhi con il pretesto della grande crisi. L’Europa a due velocità che sta nel cuore e nella mente dell’establishment tedesco prevede una rigida gerarchia tra i paesi forti (che esportano merci e capitali aggiogando gli altri alla catena del debito e sfruttando sul mercato finanziario i vantaggi della propria potenza) e i paesi deboli, intrappolati nella prigione di una moneta unica costruita su misura nell’interesse dei più ricchi, e privati della possibilità di sfruttare la debolezza della propria valuta e di utilizzare la spesa in debito come meccanismo di redistribuzione e di sviluppo.
Le due velocità non riguardano soltanto i rapporti internazionali, ma anche quelli sociali, all’interno dei singoli paesi. Come ci rammenta Luciano Gallino, la lotta di classe funziona ancora, anche se sembra ricordarsene solo il capitale. Ricchi e poveri (detentori di capitale e gente costretta a campare di salario, stipendio o pensione) esistono, in proporzioni diverse, in tutti i paesi. E corrono ovunque a velocità diverse. Un capitalista greco (o italiano o spagnolo) andrà sempre molto più veloce di un operaio tedesco, anche se Atene sta sprofondando all’inferno per colpa di Berlino. Troppo spesso si perde di vista l’intreccio tra piano nazionale e piano internazionale, nonostante sia uno snodo cruciale della dominazione coloniale, sulla quale la storia degli ultimi due secoli avrebbe dovuto renderci edotti. La metropoli europea (la Germania, sino a ieri con l’attivo sostegno di Francia e Stati uniti) domina il continente anche attraverso i proconsoli (o i Gauleiter) di cui dispone in periferia. I quali governano, per così dire, su suo mandato, col compito di garantire, se non il consenso, almeno l’obbedienza delle popolazioni ai diktat della cosiddetta Unione europea.
Ma veniamo alla sostanza. A che cosa serve questo nuovo ordine? Detto in volgare, a spremere il lavoro (le classi medie, oltre a quello che un tempo si chiamava proletariato) sino all’ultima goccia di sudore e di sangue. Se la si smettesse una buona volta di cianciare di ripianamento del debito e si cominciasse a dire pane al pane, si parlarebbe di una gigantesca rapina a mano armata. Indubbiamente molto adatta a governanti virili, decisi, freddi e insensibili agli scrupoli di un melenso umanitarismo. Quando si dice «debito pubblico», si lascia intendere che siamo tutti indebitati, ma la verità è che una parte di questo paese, a cominciare dai padroni delle banche, possiede il 63% del debito italiano. Questi sono creditori, non debitori. Ci si vuol spiegare una volta per tutte come hanno fatto costoro ad accumulare questo credito, chi e perché glielo ha consentito? E si vuol dire con chiarezza agli italiani che l’Italia non è affatto povera, ma un paese diviso tra moltissimi sempre più poveri e pochi, pochissimi, sempre più ricchi, che oggi impongono agli altri il proprio volere? Si vuol chiarire che tutte le scelte del governo (contro sanità e pensioni, salvo quelle d’oro, per esempio) e tutte le sue non-scelte (contro i patrimoni) dipendono dalla ferma volontà di tutelare i grandi creditori?
Chiamando in causa entità celesti («i mercati», «l’Europa») ed evocando lo «stato d’eccezione», si prendono decisioni «per il bene del paese» che incidono drammaticamente sulla vita e forse sulla morte di milioni di persone e che non hanno altra logica fuor che quella di remunerare a tassi usurari il capitale privato concentrato nelle mani di una oligarchia (una casta di cui non si parla mai) sempre più ristretta. Sino a ieri la sporca faccenda degli «esodati» è parsa il non plus ultra. Dopo le farneticazioni della Fornero sul non-diritto al lavoro e la ripresa del piano Brunetta contro gli statali sappiamo che dobbiamo aspettarci ben di peggio. Chi crede ancora che esistano argini o tabù non ha davvero capito con chi abbiamo a che fare. A noi l’idea di una società che prevede stermini per fame o malattia (si vedano i tassi di mortalità infantile negli Stati uniti) fa orrore, ma non dovremmo essere tanto sicuri che essa non appaia a qualcuno l’immagine più adeguata della modernità. Dopo tutto, fu uno dei padri della sociologia contemporanea a sostenere che la «sovrabbondanza numerica degli uomini» rispetto ai mezzi di sussistenza «rende necessaria l’eliminazione ininterrotta di coloro ai quali appartiene una meno forte capacità di conservarsi».
Non ci sono stivali né olio di ricino. E nemmeno campi di prigionia, salvo per i migranti. Ma quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è precisamente ciò di cui parlava Gramsci quando si domandava perché l’Europa tornasse «alla concezione dello Stato come pura forza» e chiamava in causa la «saturazione della classe borghese». La quale, incapace di coniugare remunerazione del capitale e sviluppo sociale, «non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa» recuperando «la concezione di casta chiusa» propria dell’aristocrazia feudale.
Certo, considerando le cose sul medio-lungo periodo, le scelte della cosiddetta classe dirigente italiana appaiono folli. Chi ha capitale e potere si sta arricchendo a tutto spiano grazie alla crisi, ma ritrovarsi in un paese allo stremo non sarà comodo per nessuno. Di questo passo, la periferia europea (l’Europa mediterranea e orientale, oltre all’Irlanda) sarà popolata da eserciti di poveri, disposti a lavorare per un’elemosina ma incapaci di comprarsi le merci prodotte in cambio di un salario da fame. E non è affatto detto che sarà tanto facile governare un’Europa così. Questi non sono gli Stati uniti: non ci sono i dividendi di un impero da distribuire alla plebe né un radicato individualismo (oltre che una lunga frequentazione con la schiavitù) a legittimare la miseria di massa. Non è un caso che in Italia per mettere in riga il movimento operaio si sia dovuto ricorrere al fascismo, e che per ridurre in servaggio mezza Europa Hitler abbia scatenato la guerra.
Ad ogni modo, che la destra sociale e politica avalli, legittimi e mascheri ideologicamente questa nuova guerra civile, è del tutto naturale. Non lo è affatto che a stare al gioco e a nobilitarlo con la retorica del «risanamento» e del «rigore» sia una parte della sinistra, ancorché la più moderata. E qui bisogna che ci si capisca una buona volta. Sono trent’anni che si racconta la favola della responsabilità e dei «sacrifici» che presto finiranno e poi sarà meglio per tutti. Cominciarono la Cgil ai tempi di Lama e il Pci di Berlinguer. Vogliamo fare finalmente i conti di questa brillante operazione? I conti economici, ma anche quelli sociali e politici, considerato che in trent’anni il lavoro ha perso – a stare bassi – oltre 150 miliardi di euro e gran parte dei diritti conquistati con le lotte; che le retribuzioni lorde in Italia sono sotto la media dell’Europa a 27 (non parliamo di quella a 17); che l’Italia ha privatizzato beni e imprese pubbliche per oltre 110 miliardi (più o meno quanto la Thatcher); che la componente maggioritaria della sinistra politica si è ridotta a coabitare nello stesso partito con quella che per oltre cinquant’anni è stata la sua controparte.
C’entra questa storia con quello che stiamo vivendo in questi giorni? C’entra eccome, perché delle due, l’una. O l’on. Bersani la smette di avallare le scorrerie della speculazione, le pretese della troika europea e la «macelleria sociale» del governo (Squinzi) e comincia finalmente a dire che il suo partito sosterrà solo misure che vadano nel senso della restituzione al lavoro della ricchezza sociale che gli è stata sottratta in questi decenni. Oppure è davvero inutile che si scaldi per convincerci che il Pd sostiene Monti nell’interesse generale o che corra dagli operai della Fiom a promettere che si batterà per una maggiore giustizia sociale. Oggi il principale compito della politica è rispondere alle persone che chiedono lavoro e rispetto dei propri diritti. Ma per poterlo assolvere si deve cominciare a dire le cose come stanno e smetterla di fabbricare veli d’ignoranza che impediscono al 99% della società di capire questa crisi cos’è, da dove nasce e chi veramente la sta pagando. Mai come in questo momento la verità è stata una necessità politica, se non proprio una forza rivoluzionaria.
Ps. Il presidente del Consiglio ha reagito alle critiche di quello della Confindustria accusandolo di essere un pericolo pubblico. Che cosa avrebbe detto la «grande stampa» se a reagire in modo così tollerante e civile fosse stato Berlusconi? Possibile che a nessuno più stia a cuore almeno la libertà di opinione?

La base di SEL: "Unità a sinistra"

La base di SEL: "Unità a sinistra"

di ***
Siamo un gruppo di persone simpatizzanti, militanti, iscritti di SEL, preoccupati e disorientati dal percorso politico in atto, caratterizzato da tatticismi e cautele incomprensibili.
La situazione nazionale è complicata, viviamo una fase di emergenza democratica e sociale. Mentre non conosciamo ancora tutte le conseguenze che la crisi ci riserverà nel prossimo futuro, sempre più lavoratori, studenti, pensionati, comuni cittadini stanno sperimentando sulla loro pelle gli effetti dell’austerità e della recessione.
La politica (quella dei partiti) è stata annullata, sepolta dall’indifferenza delle persone, molte delle quali ora “giocano” l’ultima carta puntando sul nuovo pifferaio grillino
, altri rifiutando di “giocare” ricorreranno all’astensionismo. Ma la politica si è auto-sepolta, in larga parte a causa dell’autoreferenzialità presente in ogni partito.
Dunque la prospettiva non è buona. I Partiti politici allo sbando e i poteri forti che ne approfittano per conquistare altre quote di potere aumentando la forbice sempre più ampia tra i pochi che detengono la maggioranza delle risorse economiche e i tanti che soccombono impoverendosi in maniera esponenziale.
In questa fase SEL dimostra di non essere affatto quel “PARTITO NUOVO” che aveva promesso di diventare al congresso. I propositi di evitare i tatticismi e di abbandonare la vecchia politica, non sono stati portati avanti.
Non dobbiamo aver paura, dicevamo. Invece se non la paura, è l’eccessiva “cautela” che ci sta facendo perdere quella credibilità che nel giro di un anno avevamo faticosamente conquistato.
Mentre il Paese naviga a vista in balìa delle tempeste finanziarie, destinato a sopportare un lungo periodo di austerità e sacrifici, il dibattito politico ora è arenato sull’alleanza del centro sinistra, bloccato sulle difficoltà del PD il quale sembra aver preso la strada della composizione tra moderati; di fatto la riformulazione della mai estinta Democrazia Cristiana. Un dibattito surreale se confrontato con le reali esigenze del Paese dal punto di vista di chi crede che al liberismo sia giusto rispondere con un’alternativa. Pensiamo che l’idea alternativa al governo delle destre, sia totalmente incompatibile con un qualsiasi Partito che garantisce continuità e fedeltà al Governo Monti.
Nei giorni scorsi il coordinatore della segreteria nazionale di SEL Claudio Fava, candidato alla presidenza della Regione Sicilia, ha affermato che il centro sinistra in Sicilia è svuotato di contenuti e che non intende stare seduto nelle segreterie di partito per “costruire patti politici che non possano dare un’alternativa ai siciliani”.
Condividiamo quella scelta, la Regione Sicilia ha bisogno di un cambio di passo, ma quell’analisi calza a pennello anche con tante altre realtà territoriali e soprattutto con l’attuale situazione politica nazionale.
L’ipotesi di centrosinistra in campo ora, non è in grado di dare un’alternativa al Paese. Crediamo che sia ormai tempo di considerare il PD un partito di centro, moderato e vicino alle politiche liberiste. Pensiamo che nel PD ci siano militanti, dirigenti, elettori che mal sopportano questa condizione; possiamo aiutarli ad uscire da questa contraddizione solo mettendo in campo una credibile alternativa di Governo. Dobbiamo farlo nel pieno della nostra autonomia e coerenza in continuità alle nostre enunciazioni congressuali, aprendo alla sinistra diffusa, quella dei movimenti, condividendo l’esperienza di ALBA, accogliendo le istanze della Fiom, del forum dell’acqua, cercando il dialogo con l’IDV e con la FdS, ovviamente in un confronto che preveda il massimo rispetto reciproco, indispensabile premessa per una condivisione corretta di un eventuale progetto comune.
Dimenticare la foto di Vasto, e ripartire dalle foto dei volti delle persone che in questo periodo patiscono le conseguenze austere e ciniche del Governo della grande coalizione italiana. Crediamo che si debba mettere in campo una grande assemblea, gli stati generali della sinistra subito per affrontare e condividere imprescindibili punti programmatici: riforma della finanza; annullamento della riforma del lavoro; no al pareggio di bilancio; tassa patrimoniale e adeguamento scaglioni su redditi elevati; lotta all’evasione fiscale; riforma scolastica e universitaria; reddito minimo garantito; diminuzione spese militari; riforma elettorale; rispetto dell’esito del referendum sull’acqua; modello economico ambientalmente sostenibile…

*** Primi firmatari: Claudio Paolinelli, assemb. regionale SEL Marche – Attilio Casagrande assemb. federale SEL Ancona- Francesco Mancini, Coordinatore circolo SEL Senigallia – Patrizio Giuliante, circolo SEL Falconara – Angela Ciaccafava, assemb. federale SEL Ancona – Emanuele Rossi, Cons. comunale SEL Fabriano Bene Comune – Riccardo Brunelli – Tiziano Polidori, coordinatore circolo SEL Fabriano – Antonio Crocetti, coordinatore circolo SEL Falconara – Marcello Pesarini ass. Antigone, Forum SEL diritti e immigrazione – Manuela Bartolucci, assemb. regionale SEL Marche – Paola Stacchietti, circolo SEL Falconara – Francesco Rubini, gruppo SEL giovani Ancona – Diego Quattrini, circolo SEL Ancona – Isidoro Bacchiocchi, circolo SEL Senigallia – Erio Nobili, circolo SEL Falconara – Barbara Bravi, circolo SEL Falconara – Matteo Cognini, tesoriere federale SEL Ancona – Aurelio Notarstefano, Circolo SEL Loreto Osimo – Giancarlo Centanni forum diritti e immigrazione SEL, circolo Laboratorio Sociale Ancona, Scuola di Pace Ancona

La spending review contro il Welfare State

Posted by keynesblog on  
La spending review cui sta lavorando il governo ha ben poco a che vedere con un’operazione finalizzata solo a ridurre gli sprechi. Il pericolo è che si metta in campo un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del welfare legittimando l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza.
di Guglielmo Forges Davanzati da Micromega on line

Aristotele concepiva l’Economia come “governo della casa”. Nell’ideare la c.d.spending review (revisione della spesa), il Governo deve evidentemente aver attinto al pensiero aristotelico, indossando i panni di un buon padre di famiglia impegnato a far quadrare i conti. Sul sito della Presidenza del Consiglio si legge che: “con la spending review il Governo è intervenuto analizzando le voci di spesa delle pubbliche amministrazioni, per evitare inefficienze, eliminare sprechi e ottenere risorse da destinare allo sviluppo e alla crescita. La razionalizzazione e il contenimento dei costi sono infatti fondamentali per garantire, da un lato il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, dall’altro l’ammodernamento dello Stato e il rilancio del circuito economico”, e che, nel complesso, la spesa pubblica cosiddetta rivedibile (leggi: tagli) ammonta a quasi 300 miliardi di euro.
Nello stesso documento, viene precisato che questo importo “potrebbe servire, per esempio, a evitare l’aumento di due punti dell’IVA previsto per gli ultimi tre mesi del 2012”. I tagli verranno effettuati anche tendendo conto delle numerosissime mail spedite da cittadini italiani, che si sono avvalsi dell’opzione “esprimi la tua opinione”, segnalando sprechi e inefficienze. Fra queste, si cita il caso di un ospedale nel quale verrebbero tenuti accesi i riscaldamenti anche nel periodo estivo: caso piuttosto inverosimile, sebbene ancora da verificare, dal momento che ragionevolmente sarebbe nell’interesse di tutti coloro che lì lavorano chiedere che i riscaldamenti vengano spenti. A prescindere dall’incidentale “per esempio” al quale il Governo fa riferimento (non essendo noto a cosa si sia pensato in alternativa all’aumento dell’IVA), occorre innanzitutto rilevare – in linea generale – che è assai arduo ritenere che con 300 miliardi di minori spese si possa generare sviluppo e crescita, soprattutto considerando che questi risparmi verranno utilizzati per accrescere l’avanzo primario, potenziando – come si legge ancora nel comunicato governativo – “la linea di risparmio seguita dal Governo nei primi mesi di attività”.
Il documento, nella sezione di analisi, parte da un assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania.
Il documento ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una tesi opinabile, per due ragioni.
1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE, in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male.
2. Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica e non dal rapporto spesa/PIL, che è l’indicatore al quale – per i vincoli europei – occorre far riferimento ai fini del rispetto del vincolo del bilancio pubblico. D’altra parte, l’andamento del valore assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva – su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Puà essere sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori sociali.
La spending review interviene soprattutto sulle spese della pubblica amministrazione e sulle spese sanitarie. Si stima, a riguardo, che, entro il 31 dicembre 2012, verranno soppresse circa 11mila sedi ospedaliere. L’obiettivo appare chiaro, anche considerando alcune significative dichiarazioni dei Ministri di questo Governo (come è noto, “anche gli statali siano licenziabili” è il leitmotiv del Ministro Fornero): ridurre (ulteriormente) i presunti privilegi dei lavoratori del settore pubblico, come fine in sé e come strumento per depotenziare (ulteriormente) il Welfare, e contenere le spese per la sanità pubblica, riducendo la quantità e la qualità dei servizi offerti, così da lasciar spazio a imprese private anche in questo settore. Su quest’ultimo aspetto, le conseguenze sono facilmente prevedibili: poiché le spese delle famiglie per servizi sanitari sono ovviamente considerate di primaria importanza, la riduzione dell’offerta pubblica – e la conseguente necessità di pagare i servizi sanitari – non può che tradursi in una (ulteriore) decurtazione dei redditi, soprattutto dei redditi più bassi e soprattutto nelle aree del Paese – Mezzogiorno in primo luogo – dove i salari medi sono più bassi. Così come la “razionalizzazione” della spesa delle pubbliche amministrazioni può facilmente tradursi in un (ulteriore) peggioramento della qualità dei servizi offerti, se non si accoglie l’eroica tesi – peraltro tutta da dimostrare – secondo la quale è solo rendendo le risorse sempre più scarse che si incentiva a farne un uso efficiente.
Sulla questione della licenziabilità dei dipendenti pubblici, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco. Il Testo Unico del 2001 ha sostanzialmente “privatizzato” il rapporto di lavoro nella Pubblica Amministrazione, rendendo esplicitamente possibili i licenziamenti collettivi e non escludendo i licenziamenti individuali. Dunque, la normativa vigente già prevede la possibilità di licenziare dipendenti pubblici. Seguendo la linea Fornero, occorrerebbe fare un passo in più, ovvero incentivare le amministrazioni pubbliche a licenziare. A che fine? La sola ratio economica che può porsi alla base di questa proposta consiste nell’imporre – come nel settore privato – un dispositivo di ‘disciplina’ che incentivi i dipendenti pubblici a erogare maggiore produttività. Il problema, in questo caso, è che, a differenza del settore privato, non è chiaro chi e sulla base di quali criteri dovrebbe licenziare. Al di là della percezione diffusa secondo la quale molti settori della Pubblica Amministrazione funzionano male, il punto teorico che occorre sottolineare riguarda la difficoltà (se non l’impossibilità) di costruire criteri razionali – o anche solo ragionevoli – che orientino le decisioni di licenziamento nel settore pubblico .
Vista in quest’ottica, la spending review ha ben poco a che vedere con un’operazione tecnicamente neutrale finalizzata a ridurre gli sprechi. Si tratta di un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del Welfare State che si intende legittimare con l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza.

«Senz'acqua su un barcone, morti in 54»

Dopo la tragedia in mare, in cui sono morti 54 migranti, un'altra imbarcazione con a bordo 50 persone, tra cui 11 donne e una bimba di due anni, è stata soccorsa 60 miglia a sud di Capo Passero (Me) da un guardacoste veloce del gruppo aeronavale della guardia di finanza di Messina. Sull'imbarcazione di circa 10 metri, probabilmente proveniente dalla Libia, si trovavano migranti provenienti dall'area sub-sahariana. Gli immigrati, una volta trasbordati sull'unità navale della fiamme gialle, sono stati condotti al porto di Pozzallo. Si tratta del terzo sbarco di migranti in tre giorni nel Siracusano.
UNICO SOPRAVVISSUTO - L'evento più drammatico è stato reso noto martedì dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Attraverso la testimonianza dell'unico superstite, un cittadino eritreo, si è appreso che cinquantaquattro migranti sono morti nei giorni scorsi su un barcone in balia delle onde, in viaggio dalla Libia verso l'Italia. L'eritreo sarebbe il 55esimo passeggero dell'imbarcazione e avrebbe visto i suoi compagni di viaggio morire per disidratazione, «uno dopo l'altro», dopo un calvario di 15 giorni.
LA STRAGE - L'uomo è stato salvato dalla Guardia Costiera tunisina, lunedì notte. Subito trasportato in ospedale a Zorzis ha cominciato a raccontare la strage. Una tragedia, l'ennesima, che si è consumata nel canale di Sicilia. A fine giugno, lui e altre 54 persone, la maggior parte di origini eritree, si sono imbarcate su un gommone. Direzione: Italia. Dopo un giorno avrebbero cominciato a vedere le coste del nostro Paese. Poi i venti li hanno spinti indietro, verso la Tunisia. E, nel giro di pochi giorni, il gommone ha cominciato a sgonfiarsi. Il sole a picco, il mare, senza più una goccia d'acqua da bere. Molti hanno cominciato a morire per disidratazione, ha raccontato il superstite. Tutto sotto i suoi occhi. Ad andarsene anche tre parenti partiti con lui.
LE NAZIONI UNITE - Dopo le prime cure, rappresentanti dell'Unchr, l'alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, hanno raccolto la sua testimonianza. «È una vera tragedia», ha spiegato T. Alexander Aleinikoff, vice alto commissario delle Nazioni Unite. Per poi aggiungere: «Mi appello ai comandanti delle imbarcazioni nel Mediterraneo affinché prestino la massima attenzione a possibili casi di migranti e rifugiati in difficoltà che necessitano di essere soccorsi. Il Mediterraneo è uno dei tratti di mare più trafficati del mondo ed è fondamentale che l'antica tradizione del salvataggio in mare continui a essere rispettata». Dall'inizio dell'anno a oggi circa 1.300 persone sono giunte via mare in Italia dalla Libia. Un'imbarcazione con 50 fra eritrei e somali sarebbe tuttora in mare aperto dopo che i passeggeri hanno rifiutato nelle ultime ore il soccorso delle forze armate maltesi. Nel 2012 fino a ora sono giunte a Malta circa 1.000 persone, in 14 sbarchi. L'Unchr stima che quest'anno siano circa 170 le persone morte o disperse in mare nel tentativo di giungere in Europa dalla Libia.

martedì 10 luglio 2012

Il pozzo afghano senza fondo


di Manlio Dinucci - rifondazione -
«È meraviglioso udire gli uccelli che salutano col loro canto questa bella giornata qui a Kabul»: sono le romantiche parole con cui Hillary Clinton ha aperto la cerimonia ufficiale tra gli alberi del blindatissimo palazzo presidenziale nella capitale afghana. Mentre parlava, altri uccelli con la coda a stelle e strisce volavano nei cieli afghani: i caccia F/A 18 che, decollati dalla portaerei Stennis nel Mare Arabico, volteggiano sull'Afghanistan. Scelta la preda, la attaccano con missili e bombe a guida laser e la mitragliano col cannone da 20 mm, che a ogni raffica spara 200 proiettili a uranio impoverito.

Questi e altri aerei, il cui prezzo supera i 100 milioni di dollari, costano 20mila dollari per ogni ora di volo: dato che ogni missione dura circa otto ore, essa comporta una spesa di oltre 150mila dollari, cui si aggiunge quella delle armi impiegate. E l'anno scorso, secondo le cifre ufficiali, gli aerei Usa/Nato hanno effettuato 35mila missioni di attacco sull'Afghanistan. Non stupisce quindi che solo gli Stati uniti abbiano speso finora, per questa guerra, circa 550 miliardi di dollari. Un pozzo senza fondo, che continuerà a inghiottire miliardi di dollari ed euro.
A Kabul la Clinton ha annunciato la buona novella: «Ho il piacere di annunciare che il presidente Obama ha ufficialmente designato l'Afghanistan maggiore alleato non-Nato degli Stati uniti». Ciò significa che esso acquista lo status di cui gode Israele e che, in base all'«Accordo di partnership strategica», gli Usa si impegnano a garantire la sua «sicurezza». Secondo funzionari dell'amministrazione, gli Usa manterranno in Afghanistan 10-30mila uomini, soprattutto delle forze speciali, affiancati da compagnie militari private. E continueranno a impiegare in Afghanistan la propria forza aerea, compresi i droni da attacco. Il «maggiore alleato non-Nato» riceverà dalla Nato un aiuto militare di oltre 4 miliardi di dollari annui. L'Italia, che si impegna a versare 120 milioni annui, continerà a fornire, secondo le parole del ministro della difesa Di Paola, «assistenza e supporto alle forze di sicurezza afghane».
Il governo afghano riceverà inoltre, come deciso dalla conferenza dei «donatori» a Tokyo, altri 4 miliardi annui per le «esigenze civili». E anche in questo campo, ha dichiarato il ministro degli esteri Terzi, «l'Italia farà la sua parte». Secondo la motivazione ufficiale, si aiuterà in tal modo la «società civile afghana».
Secondo l'esperienza reale, ogni dollaro ed euro, speso ufficialmente a fini civili, sarà usato per rafforzare il dominio militare Usa/Nato su questo paese. La cui posizione geografica è di primaria importanza strategica per le potenze occidentali e i loro gruppi multinazionali, che si spingono sempre più ad est, sfidando Russia e Cina. Per convincere i cittadini statunitensi ed europei, pesantemente colpiti dai tagli alle spese sociali, che occorre prelevare altri miliardi di dollari ed euro dalle casse pubbliche per destinarli all'Afghanistan, si racconta che essi servono a portare migliori condizioni di vita al popolo afghano, in particolare alle donne e ai bambini.
La favola che Hillary Clinton ha raccontato, accompagnata dal cinguettio degli uccellini di Kabul e dal coro di quanti gioiscono per tale munificenza.

da il manifesto

Previsioni elettorali di Grillo

Con il Porcellum, del quale per tutta una legislatura non è fregato nulla a nessuno, il M5S potrebbe ottenere il premio di maggioranza. Per i partiti sarebbe notte. Pece nera. Da qui al 2013 ci sono quindi vari scenari possibili all'esame dei partiti:
Primo scenario: due coalizioni, Pdl+Lega, Pdmenoelle+UDC+SEL+ "chiunque altro ci voglia stare" si presentano con il Porcellum. I leader dei due raggruppamenti si combattono aspramente in campagna elettorale, raccattano tutti i voti possibili e, subito dopo, danno vita a un governo di unità nazionale per "il bene della nazione". Unica opposizione in Parlamento il MoVimento 5 Stelle. Questa ipotesi presenta una controindicazione. Se il M5S facesse il botto e risultasse primo, il piano fallirebbe.
Secondo scenario: pungolati da Napolitano, i partiti riscrivono finalmente la legge elettorale. La scrivono ovviamente pro domo loro, disegnandola sull'esclusione del M5S dal Parlamento o per una sua ridottissima rappresentanza. Questa ipotesi non ha controindicazioni, ma è di difficile attuazione per la mancanza di tempo e la ritrosia dei segretari di partito a mollare il Porcellum che consente di eleggere madri, amanti, figli e cognati.
Terzo scenario: le elezioni vengono rinviate di un anno di fronte all'aggravamento della crisi economica (tra un anno sarà fortemente peggiorata). Uno scenario possibile sia per le attuali leggi che per la Costituzione. Rigor Montis viene quindi confermato nella sua carica di presidente del Consiglio dalla BCE, l'attuale rappresentanza parlamentare guadagna (in tutti i sensi) un altro anno ed elegge una donna, come auspicato da Napolitano, Emma Bonino, ultra liberista e frequentatrice del Bildeberg. Questa ipotesi ha come controindicazione l'esplosione di scontri sociali, ma in cambio consente l'assoluto controllo del Parlamento.
Quarto scenario: una coalizione Pdl, Pdmenoelle, Udc con Rigor Montis come candidato premier, si presenta alle elezioni con il Porcellum. Ottiene il premio di maggioranza. Tutto cambia perché nulla cambi rispetto ad ora per altri 5 anni. Nessuna controindicazione se non la presenza del MoVimento 5 Stelle in Parlamento.
Per ognuna di queste ipotesi va considerata comunque la possibilità di una crisi economica anticipata senza precedenti. In questo caso varrebbe una quinta ipotesi che contempla l'uso di centinaia di elicotteri per la fuga della classe politica che oggi, di fronte allo sfascio del Paese, di cui ha la totale responsabilità, discute soltanto di alchimie elettorali e di alleanze.
Quale ipotesi pensate sia più probabile?
....................
[il quarto scenario con Syrisa al posto di M5 si sarebbe potuto chiamare scenario greco]

La battaglia del solstizio di Mario Monti


Solo gli storici ricordano la battaglia del solstizio, del giugno del 1918, combattuta tra le truppe italiane e quelle austro-ungariche. Eppure si tratta forse della più sanguinosa battaglia combattuta in territorio italiano dal periodo postunitario ad oggi. Circa duecentocinquantamila tra morti, feriti e dispersi in una settimana, una tragedia di proporzioni epocali, di cui quasi centomila italiani. Si vede che la memoria collettiva coltiva processi di selezione degli eventi che non hanno nulla a che vedere con il senso delle proporzioni. E nemmeno con quello del ridicolo basti dire che una immane tragedia come quella del giugno 1918 è ancora oggi celebrata ufficialmente come festa dell’artiglieria. Nei manuali di storia militare, dove i morti appartengono ad uno score quasi sportivo, la battaglia del solstizio è classificata come uno scontro in campo aperto dove il perdente (in questo caso l’impero austroungarico) aveva attaccato con la certezza della vittoria persino stampando in anticipo il materiale amministrativo per la gestione delle zone italiane occupate.
E’ così è andata a Mario Monti nello scorso fine settimana a Bruxelles per quanto riguarda la trattativa sui dispositivi di regolazione dello spread, quelli di futura gestione delle banche e dei fondi di “stabilizzazione” finanziaria europea. Monti è arrivato in Belgio con i tedeschi praticamente convinti di ratificare le loro condizioni di “salvataggio” delle banche ancorato ai tagli dei bilanci pubblici, di fatto imponendo a tre quarti di Europa il taglio radicale dei servizi e degli investimenti pubblici come obbligo per risanare le perdite di qualche lustro di finanza d’assalto delle banche europee. Monti, agendo di concerto con Spagna e Francia, ha imposto alla Germania un’altra strada, che non risolve alcuna questione sociale, che tende a separare il destino delle banche da quello dei bilanci pubblici. Le prime, secondo l’intesa negoziale raggiunta a Bruxelles, saranno direttamente finanziate separando il loro stato contabile da quello dei conti delle nazioni. Almeno nelle intenzioni, perchè far entrare a regime un accordo del genere non è affatto cosa scontata, si tratta un rovesciamento di una politica la cui ratifica era data per fatta dalla Germania. Niente di eccezionale il lavoro di Monti, perchè a tagliare la spesa sociale ci penserà il mercato finanziario in ogni caso, ma di sicuro utile per far sopravvivere qualche grossa banca.
A differenza di quanto ha detto e scritto la propaganda italiana, drogata dall’effetto Balotelli, sul vertice di Bruxelles Monti non ha vinto “per l’Italia” la sua battaglia del solstizio. Ma per quella parte di sistema bancario europeo messo a crisi dal primato tedesco (politico, economico, finanziario) nella governance europea. Sistema italiano, spagnolo, francese al quale non è certo dispiaciuta l’alleanza con le banche che parlano inglese (anche oltreoceano) le quali gradivano la strategia Monti che, sulla carta, garantisce maggiori immissioni di liquidità nella finanza globale. Ma che la vittoria del solstizio non porti buone notizie per l’economia è praticamente scontato. Per capirlo basta seguire non solo le statistiche istat ma anche le dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria Squinzi che sembra un capo dell’opposizione (se mai esistesse) al governo Monti.
In definitiva in Italia si sono imposte delle priorità della negoziazione politica direttamente ispirate dalla big finance (trattare sul rifinanziamento delle banche e sul finanziamento degli stati) ad un livello tale da lasciare persino indietro le esigenze del capitalismo industriale. Il mainstream dei media italiani si è semplicemente adeguato per cui oramai la politica viene rappresentata come esistesse solo su quel terreno. Per cui il risultato, la cui tenuta nel tempo è da verificare, ottenuto da Monti a Bruxelles è stato venduto dai media italiani come uno score politico “per l’Italia”. Quando la politica, e meno che mai la politica economica, e “l’Italia” non avevano molto a che vedere con quanto accaduto.
E’ anche bene ricordare che, come precondizione per partecipare alla battaglia di Bruxelles, l’Italia ha dovuto approvare senza dibattito parlamentare la sostanziale abolizione dell’articolo 18. La battaglia del solstizio di Monti è quindi costata cara agli italiani, dal punto di vista simbolico, quanto quella del 1918. E non è finita: sempre per tenere il livello di combattimento, sul piano finanziario, Monti si sta apprestando a tagliare la spesa amministrativa, deprimendo ulteriormente l’economia (se ne è accorta anche Repubblica), per una decina di miliardi di euro e l’occupazione di qualche decina di migliaia di unità. Le campagne europee di Monti stanno costando a questo paese il benessere o, forse, la sopravvivenza ma che importa: già si sono aperti i giochi per la presidenza del consiglio del 2013 e per l’elezione del presidente della repubblica sempre per il prossimo anno. E, si sa, chi protesta è un populista senza senso di responsabilità.
Allo stesso tempo, fossimo in Monti, eviteremmo di gioire una volta raggiunta Vittorio Veneto (il pareggio di bilancio). E’ proprio quando una guerra è vinta che i regimi cambiano. Ma questo è un insegnamento della storia politica che sembra lontano, tra un’intervista a D’Alema su Corriere sulla composizione del prossimo governo e una a Casini su Repubblica sullo stesso tema. Eppure c’è qualcosa di anomalo, un convitato di pietra per tutti questi giochi che sembra così lontano, così vicino come diceva Wim Wenders.

per Senza Soste, nique la police

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