A otto mesi dall’insediamento del governo Monti bisognerebbe chiedersi: l’economia italiana sta meglio o peggio? E sta meglio o peggio la democrazia ad essa legata a doppio filo? Quanto a occupazione, redditi popolari e del lavoro, servizi sociali stiamo sicuramente peggio; ma siamo ripagati in termini di migliori prospettive? Abbiamo subito un decreto Salvaitalia, ma, usando gli indicatori di chi ci governa, spread e rapporti debito/Pil e deficit/Pil, il paese non si è allontanato di un centimetro dal baratro. Abbiamo subito due decreti per la crescita – il terzo è in arrivo – che hanno massacrato servizi, pensioni e lavoratori del privato e del pubblico impiego; ma, a parte le cifre a suo tempo sparate dal premier tecnico (le ricordo: Pil +11% per cento; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti +18), ci stiamo avvicinando – per usare la sua metafora – più alla Grecia che alla Germania. O forse anche la Germania sta avvicinandosi a noi.
Infatti la differenza rispetto a otto mesi fa c’è: allora era in bilico un ristretto numero di Stati dell’Ue, tra cui non si sapeva se includere o no anche l’Italia. Oggi è l’intera costruzione dell’Unione Europea a trovarsi sull’orlo di un baratro, senza che la sua governance si mostri disposta o capace di imporre una svolta: meno che mai in termini di sostenibilità o di equità. Ma non va più tanto bene neanche l’economia tedesca, che pure è stata la principale beneficiaria dell’euro: sono sue le banche che avevano lucrato di più sull’indebitamento pubblico e privato dei paesi oggi stremati dal debito; e quei debiti hanno finanziato quasi metà del suo export, mentre l’altra metà di quell’export è stata facilitata da una moneta svalutata dalla debolezza di altri paesi dell’eurozona. Poi le cose non vanno bene nemmeno nel resto del mondo. L’economia degli Stati Uniti non recupera e quelle dei paesi emergenti ripiegano: sfuma così per l’Europa la speranza di una ripresa indotta dall’esterno. Peggio ancora se introduciamo nello scenario anche la crisi ambientale: Rio+20 ha reso evidente quanto la crisi economica abbia fatto arretrare le prospettive di sostenibilità messe all’ordine del giorno dal summit di venti anni fa.
La seconda cosa da chiedersi è se tutto ciò sia solo frutto di politiche sbagliate, restrittive invece che espansive, cioè dell’applicazione di una cattiva teoria, come sembrano sostenere molti economisti di matrice keynesiana; o se non emerga invece un’intrinseca insostenibilità dell’economia-mondo così come si è andata configurando nel corso degli ultimi decenni. La finanziarizzazione dell’economia è conseguenza diretta del progressivo allontanamento dei centri di comando del capitale dal lavoro e dalle sedi in cui esso si svolge. Delocalizzazioni e diffusione di subappalto, subfornitura e precariato hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema nel corso degli ultimi decenni; un processo reso possibile dalla libera circolazione di merci e capitali e dal web, che consente il governo a distanza di progetti, impianti, fornitori e clienti.
Questa trasmigrazione del potere dall’economia reale alla finanza ha coinvolto, non senza la loro complicità, anche Stati e governi, che hanno visto in questa delega il mezzo più efficace per contenere i salari e la spesa pubblica impegnata nel welfare. Di qui quel trasferimento di una quota consistente di Pil (mediamente il 10 per cento) dai redditi da lavoro ai profitti e alla rendita registrato in tutte le economie occidentali nei tre ultimi decenni. Ma è un vicolo cieco: la compressione dei redditi da lavoro riduce la domanda e deprime produzione e Pil mentre il sostegno della domanda con politiche salariali e monetarie espansive comprime i profitti e mette in forse i trasferimenti di risorse mediati dal debito. Un equilibrio tra queste spinte contrapposte non è stato trovato; né aiutano a trovarlo la crisi ambientale e l’aumento delle diseguaglianze territoriali sociali e di genere.
Ma – terza domanda – se così è, se riprendere la strada dell’espansione economica percorsa decenni fa non è più possibile, dove si va? Dove ci portano l’euro e la governance dell’Ue? Ovvero, che differenza c’è tra questa austerità senza crescita imposta dai vincoli finanziari – che peggiora sempre più la vita di chi lavora, dei tanti senza lavoro né reddito, e la tenuta stessa di un numero crescente di imprese – e le conseguenze di una bancarotta di Stato (il default)? Sono cose che si intrecciano in modo sempre più stretto, come in Grecia, che un default negoziato l’ha già attraversato (anche se hanno cercato di non chiamarlo così) e altri ne ha in vista. Ma se questa è la prospettiva per i cosiddetti Pigs, e per gli altri Stati che ogni giorno si aggiungono alla lista, non sarebbe il caso di affrontare tutti insieme, con una piattaforma comune, un inevitabile scontro con il potere ex lege dell’alta finanza (vedi caso Barclays)?
Per questo le politiche espansive e le loro ipotetiche conseguenze benefiche non possono essere trattate come opzioni disponibili alle compagini politiche in campo. Bisognerebbe studiare piuttosto i problemi connessi alla costruzione di un’alternativa radicale al potere della finanza. Per esempio: con che strumenti e quali conseguenze si possono affrontare situazioni estreme, come quelle già in atto in Grecia, o che vanno delineandosi in Portogallo – e domani, chissà? – in assenza delle leve tradizionali di politica economica? Cioè senza accesso al deficit spending, con la paralisi degli investimenti privati, con una contrazione di redditi da lavoro e consumi, alle prese con continui tagli della spesa pubblica. Possono servire, per contrastare queste situazioni, il prelievo sulle transazioni finanziarie, maggiori tasse su redditi e patrimonio dei ricchi e una redistribuzione della spesa pubblica tra capitoli diversi del bilancio. Ma è urgente aprire un dibattito su possibilità, potenzialità e modalità di un processo di riconversione radicale, promosso dal basso, in forma partecipata, visto che dall’alto niente di buono è in arrivo. Che è poi una road map per riprendere in mano le proprie vite.
Partendo dal fondo: una vera spending review per eliminare gli sprechi – ma anche per stabilire che cosa è spreco e che cosa non lo è – e per decidere adeguamenti occupazionali e formativi e, eventualmente, trasferimenti da servizi ridondanti a servizi carenti di personale dovrebbe coinvolgere in un dibattito articolato servizio per servizio tutto il personale della Pubblica amministrazione e una adeguata rappresentanza delle diverse platee di utenti. Nelle aziende in crisi e in quelle che non hanno più mercato o che producono cose inutili o nocive come armi o Suv, è urgente avviare un pubblico confronto con le maestranze, ma che coinvolga anche le comunità, i governi locali e l’imprenditoria tutta – pubblica, privata, cooperativa, sociale o potenziale – dei territori di riferimento su possibilità e potenzialità (soprattutto occupazionali) di una riconversione. Non si tratta solo di progettare nuovi processi produttivi, ma anche e soprattutto di trovare in quegli stessi territori, o altrove, la domanda necessaria a sostenere le nuove produzioni. I mezzi del trasporto pubblico – di massa e personalizzato – gli impianti e i materiali per lo sfruttamento delle fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica, la difesa degli assetti idrogeologici e la prevenzione antisismica, il recupero degli edifici dismessi, la valorizzazione dei beni culturali e, soprattutto, un’agricoltura ecologica a km0 e un’alimentazione più sana possono essere i motori di questi processi. Si può cominciare subito a porre il problema, azienda per azienda, o in ogni territorio. Oppure si deve aspettare, come in Argentina, che i padroni abbandonino impianti e lavoratori per poi ricominciare faticosamente a produrre nelle fabbriche requisite quello che si sarebbe potuto continuare a fare prevenendone la chiusura? Ma è nei servizi pubblici locali (servizio idrico, rifiuti, energia, mobilità, mense e mercati, nidi e assistenza) che vanno innescate già ora le prime forme di riconversione gestionale. Certo per tutte queste cose ci vogliono risorse; ma senza programmi e progetti chiari non ha nemmeno senso rivendicarle.
Poi, anche e soprattutto nella vita quotidiana è possibile avere di più con meno: il paniere dei nostri consumi è pieno di sprechi, dal cibo che scartiamo a molti imballaggi, dai gadget agli stili di vita imposti; ma una conversione in questo campo non può essere affidata solo alle scelte individuali; deve essere oggetto di progetti di autoeducazione collettiva e di accordi diretti tra produzione e consumo in cui i governi locali possono giocare un ruolo decisivo. Infine, per alimentare l’economia di un territorio, l’introduzione di monete locali non convertibili – o di sistemi di scambio fondati su crediti e debiti certificati – può concorrere a contenere gli effetti depressivi delle strette fiscali, creditizie e salariali: si tratta di soluzioni già in vigore in diverse comunità colpite dalla crisi e ampiamente diffuse nel periodo tra le due guerre del secolo scorso. Oggi il ricorso alle tecnologie elettroniche potrebbe renderle più efficaci e diffuse. Se si intraprendono tutte queste cose diventa possibile sostenere le conseguenze di una moratoria o di una ristrutturazione unilaterali del debito pubblico, comunque preferibili a un’austerità senza sbocco, al termine della quale non c’è che una catastrofe di tipo greco. O no?
Infatti la differenza rispetto a otto mesi fa c’è: allora era in bilico un ristretto numero di Stati dell’Ue, tra cui non si sapeva se includere o no anche l’Italia. Oggi è l’intera costruzione dell’Unione Europea a trovarsi sull’orlo di un baratro, senza che la sua governance si mostri disposta o capace di imporre una svolta: meno che mai in termini di sostenibilità o di equità. Ma non va più tanto bene neanche l’economia tedesca, che pure è stata la principale beneficiaria dell’euro: sono sue le banche che avevano lucrato di più sull’indebitamento pubblico e privato dei paesi oggi stremati dal debito; e quei debiti hanno finanziato quasi metà del suo export, mentre l’altra metà di quell’export è stata facilitata da una moneta svalutata dalla debolezza di altri paesi dell’eurozona. Poi le cose non vanno bene nemmeno nel resto del mondo. L’economia degli Stati Uniti non recupera e quelle dei paesi emergenti ripiegano: sfuma così per l’Europa la speranza di una ripresa indotta dall’esterno. Peggio ancora se introduciamo nello scenario anche la crisi ambientale: Rio+20 ha reso evidente quanto la crisi economica abbia fatto arretrare le prospettive di sostenibilità messe all’ordine del giorno dal summit di venti anni fa.
La seconda cosa da chiedersi è se tutto ciò sia solo frutto di politiche sbagliate, restrittive invece che espansive, cioè dell’applicazione di una cattiva teoria, come sembrano sostenere molti economisti di matrice keynesiana; o se non emerga invece un’intrinseca insostenibilità dell’economia-mondo così come si è andata configurando nel corso degli ultimi decenni. La finanziarizzazione dell’economia è conseguenza diretta del progressivo allontanamento dei centri di comando del capitale dal lavoro e dalle sedi in cui esso si svolge. Delocalizzazioni e diffusione di subappalto, subfornitura e precariato hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema nel corso degli ultimi decenni; un processo reso possibile dalla libera circolazione di merci e capitali e dal web, che consente il governo a distanza di progetti, impianti, fornitori e clienti.
Questa trasmigrazione del potere dall’economia reale alla finanza ha coinvolto, non senza la loro complicità, anche Stati e governi, che hanno visto in questa delega il mezzo più efficace per contenere i salari e la spesa pubblica impegnata nel welfare. Di qui quel trasferimento di una quota consistente di Pil (mediamente il 10 per cento) dai redditi da lavoro ai profitti e alla rendita registrato in tutte le economie occidentali nei tre ultimi decenni. Ma è un vicolo cieco: la compressione dei redditi da lavoro riduce la domanda e deprime produzione e Pil mentre il sostegno della domanda con politiche salariali e monetarie espansive comprime i profitti e mette in forse i trasferimenti di risorse mediati dal debito. Un equilibrio tra queste spinte contrapposte non è stato trovato; né aiutano a trovarlo la crisi ambientale e l’aumento delle diseguaglianze territoriali sociali e di genere.
Ma – terza domanda – se così è, se riprendere la strada dell’espansione economica percorsa decenni fa non è più possibile, dove si va? Dove ci portano l’euro e la governance dell’Ue? Ovvero, che differenza c’è tra questa austerità senza crescita imposta dai vincoli finanziari – che peggiora sempre più la vita di chi lavora, dei tanti senza lavoro né reddito, e la tenuta stessa di un numero crescente di imprese – e le conseguenze di una bancarotta di Stato (il default)? Sono cose che si intrecciano in modo sempre più stretto, come in Grecia, che un default negoziato l’ha già attraversato (anche se hanno cercato di non chiamarlo così) e altri ne ha in vista. Ma se questa è la prospettiva per i cosiddetti Pigs, e per gli altri Stati che ogni giorno si aggiungono alla lista, non sarebbe il caso di affrontare tutti insieme, con una piattaforma comune, un inevitabile scontro con il potere ex lege dell’alta finanza (vedi caso Barclays)?
Per questo le politiche espansive e le loro ipotetiche conseguenze benefiche non possono essere trattate come opzioni disponibili alle compagini politiche in campo. Bisognerebbe studiare piuttosto i problemi connessi alla costruzione di un’alternativa radicale al potere della finanza. Per esempio: con che strumenti e quali conseguenze si possono affrontare situazioni estreme, come quelle già in atto in Grecia, o che vanno delineandosi in Portogallo – e domani, chissà? – in assenza delle leve tradizionali di politica economica? Cioè senza accesso al deficit spending, con la paralisi degli investimenti privati, con una contrazione di redditi da lavoro e consumi, alle prese con continui tagli della spesa pubblica. Possono servire, per contrastare queste situazioni, il prelievo sulle transazioni finanziarie, maggiori tasse su redditi e patrimonio dei ricchi e una redistribuzione della spesa pubblica tra capitoli diversi del bilancio. Ma è urgente aprire un dibattito su possibilità, potenzialità e modalità di un processo di riconversione radicale, promosso dal basso, in forma partecipata, visto che dall’alto niente di buono è in arrivo. Che è poi una road map per riprendere in mano le proprie vite.
Partendo dal fondo: una vera spending review per eliminare gli sprechi – ma anche per stabilire che cosa è spreco e che cosa non lo è – e per decidere adeguamenti occupazionali e formativi e, eventualmente, trasferimenti da servizi ridondanti a servizi carenti di personale dovrebbe coinvolgere in un dibattito articolato servizio per servizio tutto il personale della Pubblica amministrazione e una adeguata rappresentanza delle diverse platee di utenti. Nelle aziende in crisi e in quelle che non hanno più mercato o che producono cose inutili o nocive come armi o Suv, è urgente avviare un pubblico confronto con le maestranze, ma che coinvolga anche le comunità, i governi locali e l’imprenditoria tutta – pubblica, privata, cooperativa, sociale o potenziale – dei territori di riferimento su possibilità e potenzialità (soprattutto occupazionali) di una riconversione. Non si tratta solo di progettare nuovi processi produttivi, ma anche e soprattutto di trovare in quegli stessi territori, o altrove, la domanda necessaria a sostenere le nuove produzioni. I mezzi del trasporto pubblico – di massa e personalizzato – gli impianti e i materiali per lo sfruttamento delle fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica, la difesa degli assetti idrogeologici e la prevenzione antisismica, il recupero degli edifici dismessi, la valorizzazione dei beni culturali e, soprattutto, un’agricoltura ecologica a km0 e un’alimentazione più sana possono essere i motori di questi processi. Si può cominciare subito a porre il problema, azienda per azienda, o in ogni territorio. Oppure si deve aspettare, come in Argentina, che i padroni abbandonino impianti e lavoratori per poi ricominciare faticosamente a produrre nelle fabbriche requisite quello che si sarebbe potuto continuare a fare prevenendone la chiusura? Ma è nei servizi pubblici locali (servizio idrico, rifiuti, energia, mobilità, mense e mercati, nidi e assistenza) che vanno innescate già ora le prime forme di riconversione gestionale. Certo per tutte queste cose ci vogliono risorse; ma senza programmi e progetti chiari non ha nemmeno senso rivendicarle.
Poi, anche e soprattutto nella vita quotidiana è possibile avere di più con meno: il paniere dei nostri consumi è pieno di sprechi, dal cibo che scartiamo a molti imballaggi, dai gadget agli stili di vita imposti; ma una conversione in questo campo non può essere affidata solo alle scelte individuali; deve essere oggetto di progetti di autoeducazione collettiva e di accordi diretti tra produzione e consumo in cui i governi locali possono giocare un ruolo decisivo. Infine, per alimentare l’economia di un territorio, l’introduzione di monete locali non convertibili – o di sistemi di scambio fondati su crediti e debiti certificati – può concorrere a contenere gli effetti depressivi delle strette fiscali, creditizie e salariali: si tratta di soluzioni già in vigore in diverse comunità colpite dalla crisi e ampiamente diffuse nel periodo tra le due guerre del secolo scorso. Oggi il ricorso alle tecnologie elettroniche potrebbe renderle più efficaci e diffuse. Se si intraprendono tutte queste cose diventa possibile sostenere le conseguenze di una moratoria o di una ristrutturazione unilaterali del debito pubblico, comunque preferibili a un’austerità senza sbocco, al termine della quale non c’è che una catastrofe di tipo greco. O no?
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