Francoforte vede «incertezza» e «peggioramento» nell’economia, problemi enormi sui mercati finanziari, ma si preoccupa di «flessibilizzare» e svalorizzare il lavoro. La volatilità delle obbligazioni «ai livelli di prima di Lehmann Brothers»
Lo sguardo che la Bce posa sulle popolazioni d’Europa all’inizio del terzo millennio è ancora quello di chi decideva – tre secoli fa – di recintare in enclosures le «terre comuni» d’Inghilterra. C’è infatti un passaggio del Bollettino mensile, pubblicato ieri, che «consiglia» ai vari governi di «incoraggiare la flessibilità dei mercati del lavoro e la moderazione salariale, in modo da agevolare la riallocazione settoriale dei lavoratori in esubero, favorire la creazione di posti di lavoro e ridurre così la disoccupazione». Il suggerimento arriva subito dopo la constatazione che «in vari paesi la correzione al ribasso dei salari è stata modesta, e ciò malgrado l’aumento della disoccupazione, a indicazione della necessità di ulteriori riforme che favoriscano la flessibilità dei salari».
Non c’è quasi bisogno di tradurre: i salari si sono abbassati troppo poco e questo non aiuta la «riallocazione» di chi perde il lavoro, quindi dovreste agire sul piano legislativo. L’«apprezzamento» per una controriforma del mercato del lavoro che taglia – tra le altre cose – gli ammortizzatori sociali non potrebbe essere più sincera; tutta quella gente che non potrà più contare su una cassa integrazione o mobilità «lunga» sarà costretta ad accettare qualsiasi lavoro e qualsiasi salario. E infatti l’Aspi (nuova denominazione dell’indennità di disoccupazione) disegnato da Elsa Fornero può esser revocato se non si accetta un lavoro retribuito il 20% in meno dell’Aspi stesso (in pratica, a seconda dei periodi, tra i 600 e gli 800 euro lordi).
Come ai tempi delle enclosures, dunque, si creano a tavolino, lucidamente e senza una lacrima, quei recinti e corridoi che dovrebbero incanalare le greggi umane verso «datori di lavoro» che potranno pagarli pochissimo. Allora si cacciavano i contadini dalle campagne e li si spingeva verso le nascenti manifatture cittadine; oggi si «flessibilizza» chi aveva un «posto fisso», lo si rende facilmente licenziabile, per fare di tutti – «equamente» – dei precari disposti a tutto, per pochi euro.
È il passaggio socialmente più scabroso di un documento come al solito molto cauto nel fotografare il momento economico. L’«incertezza» regna sovrana, con una «congiuntura» che resta debole o in aperta recessione (ma la Bce preferisce parlare di «stagnazione nel primo trimestre»). Ma in ogni caso gli indicatori segnalano che nel secondo, appena concluso, c’è stato «un nuovo indebolimento dell’espansione economica». Un eufemismo per dire contrazione.
Naturalmente, in questo quadro le «pressioni inflazionistiche» sono pressoché nulle, al punto che unici pericoli possono arrivare dal prezzo dell’energia (specie se dovesse aumentare la tensione in Medioriente) e, non troppo paradossalmente, da «ulteriori incrementi delle imposte dirette, dovuti all’esigenza di risanare i conti pubblici».
I rischi veri vengono dal «mercato obbligazionario», quindi fondamentalmente dai titoli di stato di tutta Europa (esclusa la Germania e pochi altri piccoli paesi del grande Nord). Qui «la volatilità» di prezzi e rendimenti «rimane elevata e attualmente si colloca su livelli vicini a quelli prevalenti poco prima del fallimento di Lehmann Brothers». L’unico conforto, per la Bce, viene dal fatto che questo livello preoccupante resta comunque inferiore a quello registrato a fine 2011, quando – per esempio – lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi raggiunse quota 575 punti, imponendo a Berlusconi l’inevitabile passo indietro.
A medio periodo, l’istituto di Francoforte spera in una «graduale ripresa della zona euro», ma non può ignorare che questa «dinamica» è condizionata dalle «tensioni in alcuni mercati del debito sovrano» (in parole povere: Grecia, Portogallo, Spagna e Italia), che inevitabilmente pesano anche su «condizioni di credito», «processi di aggiustamento dei bilanci» ed «elevata disoccupazione».
Rispetto all’Italia, per esempio, i «processi di aggiustamento» rischiano di impattare duramente il settore delle costruzioni, indebolito dall’introduzione dell’Imu e dalla «graduale cancellazione delle detrazioni fiscali a favore dell’investimento nel settore residenziale». Un effetto immediatamente recessivo, dunque, ma che può trasformarsi a breve in una svalutazione generale del patrimonio immobiliare. Ovvero l’esplosione di un’altra «bolla» che peserebbe non solo sulle famiglie, ma anche sui bilanci delle banche, che hanno proprio gli immobili, in genere, come «garanzia» dei prestiti erogati.
Non c’è quasi bisogno di tradurre: i salari si sono abbassati troppo poco e questo non aiuta la «riallocazione» di chi perde il lavoro, quindi dovreste agire sul piano legislativo. L’«apprezzamento» per una controriforma del mercato del lavoro che taglia – tra le altre cose – gli ammortizzatori sociali non potrebbe essere più sincera; tutta quella gente che non potrà più contare su una cassa integrazione o mobilità «lunga» sarà costretta ad accettare qualsiasi lavoro e qualsiasi salario. E infatti l’Aspi (nuova denominazione dell’indennità di disoccupazione) disegnato da Elsa Fornero può esser revocato se non si accetta un lavoro retribuito il 20% in meno dell’Aspi stesso (in pratica, a seconda dei periodi, tra i 600 e gli 800 euro lordi).
Come ai tempi delle enclosures, dunque, si creano a tavolino, lucidamente e senza una lacrima, quei recinti e corridoi che dovrebbero incanalare le greggi umane verso «datori di lavoro» che potranno pagarli pochissimo. Allora si cacciavano i contadini dalle campagne e li si spingeva verso le nascenti manifatture cittadine; oggi si «flessibilizza» chi aveva un «posto fisso», lo si rende facilmente licenziabile, per fare di tutti – «equamente» – dei precari disposti a tutto, per pochi euro.
È il passaggio socialmente più scabroso di un documento come al solito molto cauto nel fotografare il momento economico. L’«incertezza» regna sovrana, con una «congiuntura» che resta debole o in aperta recessione (ma la Bce preferisce parlare di «stagnazione nel primo trimestre»). Ma in ogni caso gli indicatori segnalano che nel secondo, appena concluso, c’è stato «un nuovo indebolimento dell’espansione economica». Un eufemismo per dire contrazione.
Naturalmente, in questo quadro le «pressioni inflazionistiche» sono pressoché nulle, al punto che unici pericoli possono arrivare dal prezzo dell’energia (specie se dovesse aumentare la tensione in Medioriente) e, non troppo paradossalmente, da «ulteriori incrementi delle imposte dirette, dovuti all’esigenza di risanare i conti pubblici».
I rischi veri vengono dal «mercato obbligazionario», quindi fondamentalmente dai titoli di stato di tutta Europa (esclusa la Germania e pochi altri piccoli paesi del grande Nord). Qui «la volatilità» di prezzi e rendimenti «rimane elevata e attualmente si colloca su livelli vicini a quelli prevalenti poco prima del fallimento di Lehmann Brothers». L’unico conforto, per la Bce, viene dal fatto che questo livello preoccupante resta comunque inferiore a quello registrato a fine 2011, quando – per esempio – lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi raggiunse quota 575 punti, imponendo a Berlusconi l’inevitabile passo indietro.
A medio periodo, l’istituto di Francoforte spera in una «graduale ripresa della zona euro», ma non può ignorare che questa «dinamica» è condizionata dalle «tensioni in alcuni mercati del debito sovrano» (in parole povere: Grecia, Portogallo, Spagna e Italia), che inevitabilmente pesano anche su «condizioni di credito», «processi di aggiustamento dei bilanci» ed «elevata disoccupazione».
Rispetto all’Italia, per esempio, i «processi di aggiustamento» rischiano di impattare duramente il settore delle costruzioni, indebolito dall’introduzione dell’Imu e dalla «graduale cancellazione delle detrazioni fiscali a favore dell’investimento nel settore residenziale». Un effetto immediatamente recessivo, dunque, ma che può trasformarsi a breve in una svalutazione generale del patrimonio immobiliare. Ovvero l’esplosione di un’altra «bolla» che peserebbe non solo sulle famiglie, ma anche sui bilanci delle banche, che hanno proprio gli immobili, in genere, come «garanzia» dei prestiti erogati.
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