Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 4 agosto 2012

Si prepara la pastetta per Taranto

di Zag in ListaSinistra
Vecchi soldi stanziati , ma mai messi a disposizione, bruscolini raccattati qui e la, Ecco da dove vengono i 336 milioni per il risanamento di Taranto. E intanto Vendola si prepara per il suo grande giorno. Gestire il tesoretto. Come si bonificherà?
Ma alzando una rete di protezione per i parchi minerali, in modo da impedire , quando si alza il vento che la polvere si alzi e vada ad inquinare il rione Tamburi. ( Una rete che protegge dalla polvere !) Misure per il risanamento ambientale e la riqualificazione di Taranto, in particolare del quartiere di Tamburi. Non per non far inquinare più. Un pannicello caldo cioè . Diciamocela tutta.

Secondo la legge che chi inquina paga. Infatti lo Stato mette 329( cioè noi)  milioni e Riva 7 . Ma i soldi ancora non si trovano. Si prevedono "tesoretti " stanziati in precedenza e poi mai finanziati ( come i 180 milioni recuperati da una precedente delibera definanziata del 2011 che destinava le risorse sempre alla Puglia) Si parlava dell'ipotesi di anticipare subito 70 milioni da mettere a disposizione del commissario straordinario, ma sul testo ieri sono continuati gli approfondimenti.
Si ha l'impressione de "A muina a muina " tipica messa in scena meridionale Soldi che passano di qua e di la sopra e sotto , ma sono sempre quelli e che sono finti.

All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora: chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta: tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio passann’ tutti p’o stesso pertuso: chi nun tiene nient’ a ffà, s’aremeni a ‘ccà e a ‘llà”

Alla fine i resti de questa "A muina" sarà che Taranto resterà con il suo inquinamento. I cittadini, giovani e meno giovani scapperanno dalla Città dei due Mari ( dai 350 mila abitanti degli anni '80 i cittadini tarantini sono ormai 150 mila) . Anziani,  pensionati della vecchia Italsider andati in pensione perché intossicati di amianto rimarrano a presido della Città. Una città di bonzi è già ora , domani lo sarà ancor di più. Ogni giorno che passa un morto in più, un vivo che scappa.

Intanto quarantuno persone sono state denunciate dalla Polizia dopo quanto avvenuto giovedì mattina in piazza della Vittoria mentre era in corso la manifestazione sindacale  Le «41 persone - si legge in una nota stampa della Questura di Taranto - sono state identificate e saranno denunciate in stato di libertà all'autorità giudiziaria per aver turbato a vario titolo la manifestazione in atto, determinando la temporanea interruzione dei comizi ufficiali. L'attività degli investigatori si é focalizzata in particolare su coloro i quali si sono resi responsabili di violenza sulle cose, abbattendo le transenne poste a protezione del palco al fine di accedervi, e di accensione di fumogeni in luogo pubblico». Vi è , si dice, una denuncia per aver buttato carta straccia  e per aver anche sputato. Il Processo si terrà a rito abbreviato, visto la gravità dell'accusa. Meno grave è ittilevante invece per Ferrante area pidiellina ex candidato del PD a Sindaco di Milano ed attuale AD dell'ILVA di Taranto la frase:

'Dobbiamo legargli il culo alla sedia': e' il contenuto di un'intercettazione telefonica prodotta dalla Procura nell'udienza del Riesame sui ricorsi presentati dall'Ilva. La frase sarebbe stata pronunciata da un dirigente dell'Ilva in una conversazione con altri dirigenti e farebbe riferimento all'arrivo in fabbrica di funzionari regionali che dovevano compiere un sopralluogo sugli impianti ritenuti a rischio ambientale. Pagando e corrompendo i funzionari. Così si faceva bonifica ambientale e rispettavano le leggi sulla Diossina. Non solo ispezione telefonate, ma anche corruzione ai tecnici che dovevano preparare l'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per conto del ministero dell'Ambiente, nonche' un presunto episodio di corruzione del docente universitario ed ex preside del Politecnico di Taranto

"Clini è uomo nostro", dice Girolamo Archinà uomo della pubbliche relazioni del gruppo Riva, parlando, nel 2010, con un consulente del gruppo Riva, già funzionario del Cnr. "Insinuazioni inaccettabili. C'è bisogno di responsabilità', trasparenza e puntuale riscontro di fatti e dati". Così chiaramente il ministro che dovrebbe tutelare la salute degli italiani e dei tarentini. Si alza il firewall intanto da parte delle istituzioni . La ministro della Giustizia Paola Severino si è recato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per metterlo al corrente
Zag(c)
Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!

Commento a "La crisi"

di Valerio Bertello - sinistrainrete -

L’attuale crisi economica ha implicitamente attirato l’attenzione sulla questione di quale sia la forma attuale del capitale. Dato il carattere finanziario della crisi, viene dato per acquisito che la forma attuale del capitale sia quella del capitale finanziario. Forse è così, ma si può avanzare una obiezione dirimente a tale ipotesi. Cioè occorre rilevare che le contraddizioni di questa forma non portano ad un superamento del capitale, esattamente come nel medioevo il capitale usurario, in quanto elemento semplicemente parassitario della società, non poteva portare al di là del feudalesimo,. Allo stesso modo si può affermare che il capitale finanziario non è una forza storica progressiva. Lo stesso non si può dire per il capitale monopolistico. Qui le contraddizioni lasciano intravedere le forme del suo superamento. Questa è in sintesi la tesi sostenuta nelle note di lettura che seguono, che non intendono dimostrare nulla ma solo porsi come spunti di riflessione.

Per valutare correttamente l’attuale crisi economica occorre fare riferimento a due fatti fondamentali:

(1) La legge della caduta del saggio del profitto si riferisce ad una tendenza. Infatti essendoci molti fattori che si oppongono a tale fenomeno, non si può parlare di questo come di un fatto inevitabile. Infatti il saggio del profitto dipende direttamente o indirettamente da molte variabili rispetto alle quali può essere funzione crescente o decrescente. Già Marx aveva rilevato questa circostanza elencando una serie di cause che “annullano” la legge “in modo da lasciare ad essa solamente il carattere di una tendenza” (Il Capitale, Roma, 1956, III, 1, p.316-17

(2) Per contrastare efficacemente il fenomeno più che potenziare i fattori che si oppongono a tale tendenza, occorre agire sulle cause dirette del fenomeno stesso. Queste sono riducibili ad un’unica causa fondamentale: accrescere la produttività del lavoro, ciò che determina la ben nota tendenza all’aumento della composizione organica del capitale q, che è all’origine della depressione del tasso del profitto p (a condizione che un aumento del tasso del plusvalore s’ non compensi tale effetto), essendo p = s’(1 -q). Ma questa strategia viene imposta dalla concorrenza, che pertanto è la causa fondamentale della caduta del saggio di profitto. Quindi per contrastare tale tendenza per il capitale diviene necessario poter controllare i prezzi, cioè istituire in ciascun settore produttivo un regime di monopolio.

Con l’affermarsi del capitale monopolistico la caduta del tasso del profitto è posta sotto controllo. Dunque la crisi attuale è la crisi del capitale monopolistico, ma per questo suo carattere si prospetta come la crisi terminale del capitale in quanto tale. Infatti, l’eliminazione definitiva della tendenza del profitto a ridursi richiede la negazione del capitalismo nel suo aspetto essenziale: la concorrenza. Senza di essa non vi è più capitalismo, in quanto non è più operante la legge del valore, cioè le merci non si scambiano più tendenzialmente al loro valore. Quindi si accentua la socializzazione del capitale e si presentano le condizioni per il passaggio al socialismo. Infatti il capitale monopolistico è per alcuni aspetti fondamentali un capitale ibridato con il socialismo: pianificazione della produzione, economia regolamentata e stato sociale.

Il capitale monopolistico non ha più come fine la massimizzazione del profitto, ma la sua stabilità nel lungo periodo. A tal fine il capitale passa da una gestione puramente economica degli affari ad una prevalentemente politica. Cioè si passa da una regolazione degli affari sociali basata sulla valutazione di parametri economici (domanda, offerta, costi e prezzi), quindi dipendente dalle “oggettive” leggi del capitale, ad una fondata dai rapporti di forza sociali tra le classi (potere finanziario, politico, mediatico, militare e relative posizioni si comando nelle istituzioni). In tal modo il capitale si emancipa dal dominio dell’economia, ma così anche, di riflesso, il proletariato. Entrambi, ma soprattutto quest’ultimo, cessano di percepirsi come semplici fattori economici. In particolare il proletariato non si percepisce più solo come forza lavoro, ma comincia a considerarsi come classe per sé, come forza storica. Sul piano teorico tale livello di sviluppo è rappresentato dall’operaismo, teoria che pone la classe operaia come classe cosciente, che conosce la sua posizione sociale ed è in grado di darsi la sua strategia. Questa nuova coscienza si presenta certo in una forma ideologica, quella dei diritti del lavoro nella cornice del capitale, ma pone la questione non solo dei diritti ma anche della rottura di tale cornice.

La fine dell'euro

Dibattito sul Manifesto - sinistrainrete -

Interventi di Pitagora, Cesaratto e Halevi

La fine di una moneta
di Pitagora

Il disordine regna sovrano in Europa. Se il presidente della Bce Mario Draghi asserisce in un'intervista al quotidiano Le Monde che l'euro è irreversibile, il cancelliere tedesco Merkel si dichiara «ottimista» ma non sicura della sopravvivenza dell'euro. La scorsa settimana l'Eurosistema ha deciso di non accettare titoli di stato emessi o garantiti dalla Repubblica ellenica come collaterale per ottenere prestiti fino alla «conclusione dell'esame condotto dalla Commissione europea, in raccordo con la Bce e l'Fmi, sui progressi compiuti dalla Grecia»; il Fondo Monetario Internazionale, a sua volta, secondo quanto riportato da autorevoli fonti di stampa, starebbe valutando l'idea di bloccare gli aiuti alla Grecia. Il mese di luglio è ormai trascorso senza che siano state avviate misure concrete per rendere operativo il cosiddetto «scudo anti spread» che era stato approvato alla fine di giugno, con grande risalto mediatico, dai capi di stato e di governo dell'Unione europea.

La prolungata assenza di indicazioni precise, convergenti e realizzabili, oltre che di misure concrete, da parte di coloro che hanno il potere di prendere decisioni rilevanti per i mercati finanziari ha favorito l'attuale drammatica situazione.

Malgrado l'elevatissimo rendimento atteso, le decisioni di disinvestimento dai titoli degli stati periferici dell'area dell'euro sopravanzano sempre più largamente le decisioni di acquisto. Il divario tra il rendimento dei titoli decennali dello stato spagnolo e quelli analoghi tedeschi ha ampiamente superato i 600 punti base, quello sui titoli italiani ha nuovamente valicato la soglia dei 500 punti base; si tratta di livelli insostenibili per le finanze pubbliche e l'economia di entrambi gli stati che incorporano un'elevatissima probabilità di fallimento.

In questa situazione l'Europa e i governi degli stati nazionali non possono più tergiversare. L'economia reale e finanziaria dei paesi periferici dell'Eurozona è in via di smantellamento; in Grecia si intensificano i fenomeni di denutrizione di ampie fasce di popolazione, tra cui tanti bambini; dovunque la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili, anche se i salari e le pensioni sono stati drasticamente diminuiti e le tutele sociali smantellate. Il fallimento delle politiche economiche neoliberiste, che in Italia sono sostanzialmente proseguite senza soluzione di continuità rispetto al passato, sollecita un immediato cambiamento negli indirizzi di governo, ma purtroppo è probabile che sia troppo tardi perché possa avere effetto. La situazione è precipitata a un punto tale che in assenza di acquisti di quantità elevatissime di titoli di stato da parte dell'Eurosistema, non si può che predisporre un'uscita ordinata dalla moneta unica.

Non è detto che sia un dramma; l'euro non può essere un tabù. Con l'attuale livello di sviluppo delle tecnologie informatiche e delle reti telematiche, la moneta unica costituisce essenzialmente un mero valore simbolico, perché i vantaggi negli scambi sono trascurabili; viceversa, in assenza di un piano di convergenza verso un'unione istituzionale ed economica, la moneta unica costituisce un insuperabile fattore di rigidità.

L'esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che in situazioni di squilibrio negli scambi reali e finanziari tra nazioni, gli interventi sul costo del lavoro, anche drastici, tendono ad accentuare gli squilibri piuttosto che a superarli; ciò è stato tanto più vero quando non sono stati accompagnati da efficaci interventi redistributivi del reddito e della ricchezza. Ripristinare la leva del cambio consente non solo di agire sul livello dei prezzi relativi dei beni prodotti in paesi diversi ma anche sul valore delle attività e passività finanziarie senza influire sui rischi di rimborso del capitale. Anche sui mercati internazionali gli effetti sarebbero trascurabili perché l'euro è stato finora utilizzato in misura molto contenuta come moneta internazionale di riserva, funzione mantenuta in modo pressoché monopolistico dal dollaro.

Va poi considerato che l'uscita dalla moneta unica potrebbe accompagnarsi al potenziamento del sistema europeo di banche centrali del quale fanno parte gli stati che non hanno adottato l'euro (ad esempio Gran Bretagna, Danimarca, Svezia) per irrobustire il coordinamento delle politiche finanziarie tra i Paesi Ue. Di per sé, l'eventuale ritorno alle monete nazionali non è un ostacolo alla costruzione dell'Europa Unita e agli interventi di rafforzamento delle istituzioni comunitarie in una prospettiva democratica e meno tecnocratica.

Uscire dall'euro si può
di Sergio Cesaratto

Con l'inferno nei mercati e un’assordante assenza di leadership europea il destino anche per Italia e Spagna è segnato: un destino di inutili sacrifici prima, di uscita disordinata poi.

Bene dunque ha fatto ieri sul manifesto Pitagora [v. sopra] a invocare un'uscita ordinata del nostro paese. Questa non solo è possibile, ma realistica. Il realismo dipende dal fatto che un intervento della Bce oggi da tutti invocato sarebbe limitato dai tedeschi a riportare gli spread appena sotto i 500 punti, senza intaccare le cause della crisi.

Un timido guerrafondaio

di Emiliano Brancaccio - sinistrainrete -

I miei ultimi interventi sulla crisi della zona euro hanno suscitato alcune interessanti reazioni. Gli articoli e le interviste sulle ambiguità di Syriza, sul fatto che c’è modo e modo di abbandonare la moneta unica e sulla necessità che la sinistra inizi a dotarsi di una exit strategy dall’euro hanno animato dibattiti ai quali hanno partecipato vari studiosi ed esponenti politici.
Il segretario del PRC, ad esempio, ha ritenuto opportuno criticarmi sostenendo che della “bomba atomica” si può discutere solo dopo che sia esplosa, non prima. Questo atteggiamento tattico è prevalente tra gli attuali esponenti della sinistra, ma sembra trascurare un piccolo dettaglio: i tempi di innesco e la specifica traiettoria della “bomba” in questione non saranno affatto irrilevanti per i destini di coloro ai quali il PRC e il resto della sinistra vorrebbero chiedere voti. Eludere la questione sperando che nessuno si accorga dello stallo in cui versano le forze di sinistra temo sia illusorio, e potrebbe compromettere persino obiettivi modestissimi come la mera autoriproduzione di qualche residuo gruppo dirigente.
Ma non è finita qui. Nel corso di un seminario organizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, uno stimato collega economista, della scuola di Federico Caffé, si è lanciato in un’animosa invettiva contro il sottoscritto. Il collega mi ha sostanzialmente dato del “guerrafondaio” semplicemente perché ho sostenuto che i tempi dovrebbero ritenersi maturi affinché le forze di “sinistra” elaborino un autonomo punto di vista sulle diverse, possibili modalità di deflagrazione dell’eurozona.
Alla filippica del collega ho quindi ritenuto necessario rispondere con la nota Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro. In essa ho sostenuto che, da un esame un po’ meno superficiale del corso della Storia, non è difficile trarre la conclusione che proprio una reiterata soggezione alla camicia di forza dell’attuale Unione monetaria europea potrebbe render concreta, a un certo punto, l’agitata minaccia di un’onda bellicista.
L’esperienza insegna, però, che i montanti possono sempre giungere da entrambi i lati. Laddove il suddetto economista mi ha additato come un irresponsabile agitatore delle più nefande pulsioni guerresche, un altro collega invece mi ha rimproverato di essere ancora troppo “timido” nei confronti della prospettiva di un’uscita dall’euro. L’accusa di “timidezza” proviene da un post di Alberto Bagnai, docente di Politica economica presso l’Università di Chieti-Pescara e animatore del blog Goofynomics.
Una premessa: sono riconoscente a Bagnai per i suoi apprezzamenti verso la mia attività di ricerca, in particolare per avere attribuito a un mio paper il merito di esser stato tra i primi, in Italia, ad avanzare una critica alle tesi prevalenti di Blanchard, Giavazzi e altri sulla sostenibilità degli squilibri delle partite correnti in seno all’eurozona. In verità Augusto Graziani, prima di me e di altri, aveva già da tempo sollevato il problema. E’ vero tuttavia che fino a pochi anni fa la rilevanza di quegli squilibri veniva ancora negata da molti, sia in ambito mainstream che eterodosso. Se dunque oggi qualcuno mi attribuisce il merito di aver dato un piccolo contribuito alla messa in discussione della vecchia vulgata, incasso e ringrazio.
A sua volta, con Francesco Carlucci, Bagnai ha avuto la prontezza nel 2003 di pubblicare una delle primissime stime del moltiplicatore fiscale keynesiano per l’intera eurozona. A dirla tutta, non essendo stati folgorati sulla via di Sraffa, Bagnai e Carlucci adoperavano un modello che determinava l’equilibrio di “lungo periodo” su basi neoclassiche. Ciò nonostante, in una fase storica in cui ancora imperversavano le improbabili tesi sugli effetti espansivi delle politiche restrittive, la loro stima ha avuto il merito di tener viva l’attenzione sul problema keynesiano della domanda effettiva adoperando strumenti sufficientemente à la page. Di questo loro merito abbiamo dato conto anche nel nostro libro.
Bagnai ha scritto altri ottimi contributi scientifici, ma ora mi preme venire ai capi della sua accusa. In quel che segue eviterò di badare ai toni delle sue imputazioni, in fin dei conti irrilevanti, e vedrò di andare direttamente al sodo.

Assistenzialismo e' il massimo della fantasia politica

di Zag in ListaSinistra
A Taranto si ripeterà il solito copione di sempre. La difesa ad oltranza dell'esistente, un pò di soldi che arriveranno dal cielo da regalare al politico di turno che li spargerà a pioggia accontentato prime gli uni , ( i soliti) e qualcosa anche agli altri ( per accontentarli) E la storia si ripeterà drammaticamente, sempre più in tragedia. E' già successo altrove è già successo anche a Taranto in questi cinquant'anni di inquinamenti e disastri ambientali. Ma al di là del contentino in danaro , la logica non cambia. E' la conservazione dell'esistente , degli equilibri raggiunti, la mancanza di vedere il futuro diverso dall'oggi. La mancanza di una progettualità di una programmazione di una politica industriale, di un cammino . Quando una produzione industriale raggiunge la sua maturità , diventa obsoleta , si continua a foraggiarla di finanziamenti a fondo perduto, a tenerla in piedi pur di non affrontare la realtà. E' successo per le industrie del carbone e dell'alluminio in Sardegna è successo e succede per l'industria automobilistica è successo e succede per l'industria siderurgica di Taranto. La produzione dell'area a caldo di Taranto è tecnologicamente obsoleta. Il processo produttivo dell'altiforno( Taranto ne ha cinque di cui il quinto è il più grande d'Europa ) per la produzione della ghisa attraverso il passaggio dell'agglomerato per la pezzatura del calcare e della cokeria per la formazione dal carbon fossile in carbone coke è un processo degli anni '70. Produzione altamente inquinante , un processo altamente costoso in termini energetici e un processo rigido in quanto la produzione non può mai smettere , si può ridurre , ma non più di tanto,  deve andare.
Tecnica produttiva datata anni '70 fatta di megastrutture (Nota a margine), per la produzione di scala quando il mercato mondiale richiedeva grandi quantità di acciaio, anche di scarsa qualità.

Oggi questo tipo di impianti non sono più sul mercato. Infatti il gruppo Riva mantiene gli impianti a marcia ridotta e compra le bramme ( prodotto output del ciclo a caldo ed input del ciclo della laminazione) dall'estero . Compra  pani di ghisa da trasformare in acciaio nell'acciaieria (Taranto ha due acciaierie con tre forni Martin Siemens ciascuno) saltando così il ciclo degli altiforni.
Cosa fanno gli altri? Come si evoluto il processo produttivo per la produzione dell'acciaio?
Saltando a piè pari i processi che va dall'agglomerazione del calcare e del trattamento del carbone fossile e del processo attraverso gli altiforni attraverso i processi  Finex e Corex . Questo processi produttivi non solo sono vantaggiosi dal punto di vista energetico, e quindi di costi, ma sono notevolmente al di sotto dei valori di inquinamento del processo tradizionale.
Cosa significa trasformare un impianto a caldo tradizionale ai nuovi impianti?
Significa buttare giù tutto e ricostruire con un impegno finanziario di decina e decine di miliardi ed un tempo di qualche decina d'anni. Impensabile, sopratutto da parte di un privato e di questi tempi.
E allora?
Allora significa prendere atto della realtà. Fare i conti sia in termini politici che economici e fare un salto di fantasia realistica oltre che politica. Si fa a meno dell'area a caldo , cosa che di fatto già oggi la famiglia Riva fa. Si restituisce tutto il terreno attualmente accopato dagli impianti del ciclo a caldo alla città , si attua un piano di bonifica e di risanamento impegnando sia gli operai che attualmente sono impiegati in questo ciclo di lavorazione , riqualificandoli, sia tutte le forze giovani, laureati impegnati in scienze ambientali e ingegneristiche. Restituire qui terreni a verde pubblico, a parchi ecologici ad aziende e cooperative di allevamento del bestiame ( recuperando le migliaia di capi di ovini macellati perché inquinati di diossina) e coltivazione agroalimentari ( aziende fallite e chiuse a causa dell'inquinamento)
Restituire il mare al suo naturale e millenario utilizzo. La coltivazione dei mitili Anche qua restituendo la natura alla sua millenaria e storica destinazione d'uso da parte di questa popolazione.
Chi Paga?
Seconda la legge europea e secondo il buon senso popolare "Chi inquina Paga" Riva deve pagare almeno per il 60% delle spese per la bonifica nell'immediato e destinare il 5% del suo fatturato annuo per il progetto a lungo e medio termine. La restante parte lo Stato , corresponsabile di questo disastro ambientale deve provvedere.
Chi controlla?
Di sicuro fuori i partiti e i politicanti da questo gioco. Altrimenti la fine sarà quella di Cornigliano e di Bagnoli. Comitati di progettazione e di realizzazione, formate attraverso bandi di concorsi europei con la partecipazione dei lavoratori della fabbrica e della città attraverso presentazione di curriculum professionali che attestino la loro esperienza internazionale. La commissione aggiudicatrice dovrà anch'essa essere formato a livello internazionale attraverso un grande progetto di bonifica ecosostenibile , pubblico e trasparente.
E' possibile? E' realistico?
Con questo ceto politico , nel contesto dto assolutamente no! Persino le forze sociali e politiche che apparentemente sembrano avanzate non fanno che ripetere vecchi slogan del mantenimento dell'esistente e del mantenimento dei posti di lavoro.
E' una vecchia strada, un percorso già fatto. E ideologicamente succube alla logica capital assistenzialista e non ci fa fare nemmeno un passo avanti rispetto ad una logica ed un modo di produrre e di sviluppo diverso, altro. A Taranto non solo è il processo produttivo dell'area a caldo ad essere obsoleto, ma denuncia anche che è la logica politica di tutti, nessuno escluso, ad essere vecchio e stantio.

venerdì 3 agosto 2012

Taranto libera!

di Zag in ListaSinistra
Nella soluzione che propongo ( non è proposta dei cobas) vi è un breve e un medio lungo.
Nel breve , chiusura dell'area a caldo e cassa integrazione degli operai lì impiegati ( circa 2-3 mila ) Corsi di riqualificazione per operatori di riconversione industriale.
Lancio di un concorso a livello europeo e mondiale per un progetto di riconversione urbanistica con destinazione a parco verde e isola ecologica di quei terreni con l'impiego di giovani laureati e disoccupati cassa integrati e via discorrendo.
Nel breve quindi si ferma la produzione di inquinamento e non si crea disoccupazione , ma riqualificazione, non fermando la produzione che già oggi fa a meno per un 70-80% dell'area a caldo(Importa le bramme dall'estero) e il lavoro per Taranto e provincia. .
A medio lungo termine.
I terreni su cui insistono gli impianti a caldo ( altiforni, cokeria parchi minerali e via dicendo) vengono sequestrati e consegnati alla città per la bonifica e si creano le condizioni per una riqualificazione della manodopera sia specialistica che intellettuale nell'intervento di riconversione industriale
Man mano che i terreni e il mare vengono bonificati si ri-lanciano produzione di miticultura ( di cui i tarantini hanno storia, cultura e professionalità) e si incentivano la crescita delle masserie. Antica cultura contadina , cascinali, dove l'allevamento e l'agricoltura convivono . Insomma si approfitta del disastro ambientale per un nuovo modello di sviluppo in cui si coniuga la vocazione millenaria della popolazione locale con l'industrialismo ecosostenibile

Tutto questo però guidato e condotto non dal centralismo partitico, ma da un comitato di progetto ed uno di realizzazione. Entrambi composto da tecnici ambientalisti, giovani laureati, ingegneri , lavoratori. Reclutati attraverso un concorso europeo per meriti e presentazione di curriculum in cui titolo di merito è la residenza a Taranto. E via di questo passo......

Riva non vuole pagare?
E allora che se ne vada e lasci il maltolto! .
Gli impianti sono stati costruiti e lautamente finanziati in trent'anni con i soldi pubblici. Riva li ha acquistati per quattro danari ( 3 mila miliardi di vecchie lire in tre trance tutta l'Italsider italiana ( solo gli impianti di Taranto valevano 30 000 miliardi valutazione della Nippon Steel che si era proposta di comprare il solo stabilimento di Taranto) . grazie all'accondiscendenza di Prodi ( presidente dell'IRI) e il beneplacito di Dini ( presidente del consiglio e cognato dei Riva)
Il contratto di vendita dell'IRI nonostante diverse interpellanze parlamentare da parte di Battafarano ex senatore dei DS, mai è stato reso pubblico e ancora oggi è segreto di Stato!

Questi sono fatti concreti, progetti realizzabili. Crescita e sviluppo, ambiente e lavoro Non parole populistiche e demagogiche

Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!

Paolo Ferrero

«Bisognerebbe ripartire dal basso, non da Pd e Udc»
Intervista a Paolo Ferrero
di Giorgio Salvetti
Paolo Ferrero, adesso che il matrimonio tra Bersani e Vendola è ufficiale, e Casini prima o poi sembra destinato a convolare a nozze con il centrosinistra, non rischiate l'isolamento?
Il governo Monti per noi non è una parentesi ma un governo costituente. E' il tentativo di uscita a destra dalla crisi della seconda repubblica, basta guardare allo smantellamento dello stato sociale, all'accettazione oggettiva delle politiche neoliberiste, al rapporto con l'Europa e i poteri forti, e al lavoro. Alcuni di questi provvedimenti sono binari per il futuro, costringono i prossimi governi a seguire la stessa linea: il fiscal compact obbliga l'Italia a tagliare 45 miliardi all'anno per venti anni. L'idea del Pd secondo cui adesso si dice sempre di sì a Monti ma finita la legislatura si riaprirà il gioco democratico è vuota di contenuti se non si chiarisce fin da ora che certi provvedimenti verrano totalmente rivisti: il fiscal compact, la riforma delle pensioni, l'attacco all'articolo 18. Altrimenti il fatto che al governo ci saranno le destre o il centrosinistra costituirà solo una variante ad un quadro prefissato. Per questo Nichi fa un grave errore ad aderire alla proposta del Pd.
Vendola però sostiene che non c'è un accordo con l'Udc.
La proposta del Pd è chiara e di questo gli va dato atto. Bersani vuole costruire un alleanza tra moderati e progressisti. Se poi questo avvenga prima delle elezioni o dopo le elezioni in base all'attuale legge elettorale o a una nuova questo cambia poco. Si tratta di tattiche inessenziali. La sostanza è che la proposta del Pd non pone alcuna discontinuità con Monti e penso che molti dei sostenitori di Sel si aspettavano un altra cosa.
E voi adesso che fate?
Intanto Sel poteva fare un altra scelta e quindi continueremo a chiederle di cambiare idea. Abbiamo chiaro cosa fare. Si tratta di costruire una coalizione alternativa sia alle destre che al centrosinistra. Ci rivolgiamo all'Idv e a tutte le forze che hanno fatto opposizione a questo governo. Parlo dei comitati come quello per l'acqua pubblica, della sinistra sindacale, di Alba e anche dei compagni di Sel che vogliono seguirci.
Ma l'Idv potrebbe starci?
Non c'è due senza tre, a Napoli e Palermo abbiamo vinto insieme senza Sel. Dò atto all'Idv di non essere una forza di sinistra ma ha fatto opposizione a questo governo da sinistra.
In Italia siamo lontani dall'emerge di un fronte de gauche, perché?
Viviamo come in sospensione chimica e il composto non è ancora precipitato, ma la crisi è destinata a cambiare i rapporti di forza anche tra le formazioni politiche. La sinistra italiana sconta il disastro del governo Prodi e della sinistra arcobaleno. Dobbiamo costruire il contrario di quell'esperienza. Non quattro persone in una stanza che decidono, ma un percorso aperto, dal basso, dentro alla quale il Prc e la sinistra siano parte di un movimento ampio. A settembre apriremo questa fase e metteremo in campo un manifestazione contro le politiche di Monti propedeutica alla costruzione di un fronte unitario e in grado di rafforzare l'opposizone sociale lasciata solo dal sindacato.
il manifesto 3 agosto 2012

GIORGIO CREMASCHI – Taranto, espropriare l’Ilva!

gcremaschi“A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” Articolo 43 della Costituzione. Innanzitutto bisogna dire che hanno ragione i giudici. Ad essi casomai si può solo rimproverare il ritardo nelle decisioni, non le decisioni. Quando la nocività produce morti su morti, fuori e dentro la fabbrica, e i bambini di dieci anni del quartiere Tamburi hanno nei polmoni l’equivalente di quaranta sigarette al giorno, la magistratura deve intervenire per fermare il massacro.

- micromega -
Certo se a Taranto non ci fosse stato in campo il colossale fallimento di una politica sindacale egemonizzata da cisl e uil. Se le istituzioni locali, tutte, non avessero avuto un atteggiamento acquiescente e consociativo con l’azienda. Se i governi avessero fatto il loro dovere invece che piegarsi a Riva, il governo Berlusconi concedendo le deroghe sugli adempimenti prescritti dalla legge e il governo Monti, con il suo ridicolo Ministro dell’ambiente, confermandole.
Se l’arroganza di Riva avesse trovato quei contrappesi che sono previsti in un paese realmente democratico, la situazione non sarebbe giunta a questo punto e gli operai non sarebbero di fronte alla scelta se morire di cancro o di fame.
Gli operai dell’Ilva non sono quella plebe ottusa a difesa del padrone che ha presentato la grande informazione. Quella stessa informazione che si è innamorata del ricatto permanente di Marchionne contro chi vuol sperare di lavorare nelle sue fabbriche e che ha scambiato il medioevo per progresso.
Gli operai dell’Ilva han lottato duramente per la salute. Ed è bene ricordare che ognuno dei tanti scioperi a difesa della la vita è stato penalizzato dall’azienda con il taglio del premio, oltre che delle ore perdute. La rappresaglia per chi fa valere i suoi diritti è sempre stata una costante di padron Riva. Dai reparti confino, al regime delle punizioni di massa e dei licenzimenti. Solo pochi anni fa gli operai dell’acciaieria si fermarono per gravi rischi di esplosione nel reparto. Due delegati allora in fiom, furono licenziati in tronco. La fabbrica si ribellò e anche allora i giovani operai occuparono il ponte girevole della città. Fu la magistratura a riammettere con l’articolo 18 i due delegati, difesi da massimiliano del vecchio che oggi difende l’operato dei giudici.
E anche oggi, solo una stampa ancora innamorata della marcia dei 40000 può confondere le acque in modo così scandaloso. Quando in una delle ultime manifestazioni si sono presentati lavoratori con uno striscione contro i giudici, un gruppo di operai l’ha strappato e buttato giù dal ponte. Erano capetti e dirigenti quelli che hanno impedito alle telecamere di riprendere il gruppo dirigente aziendale tradotto in tribunale. Nelle assemblee i dirigenti cisl e uil che hanno proposto la solidarietà al padrone contro la magistratura sono stati sonoramente fischiati. In fabbrica ci sono tanti lavoratori che non vogliono subire il ricatto che contrappone lavoro a salute e diritti. Ma sta al sindacato e alla politica dare ad essi una risposta, invece che crogiolarsi nella propria subalterna impotenza.
Bisogna garantire lavoro e salario agli operai dell’ Ilva e procedere subito al risanamento ambientale . Questo significa che Riva ci deve mettere tutti i soldi che ha. Che sono tanti visto che in un solo anno di profitti si è ripagato il piccolo costo di aver ricevuto l’azienda dallo stato e visto che recentemente ha trovato anche danaro da spendere in Alitalia.
Riva deve pagare tutto. E se continua a menare il can per l’aia come ha fatto in tutti questi anni, allora da un lato ci deve essere, come c’è, la magistratura: Dall’altro il governo dovrebba applicare la Costituzione. L’articolo 43 prevede l’esproprio di una azienda proprio per casi come questo. La politica, compresa quella di sinistra, non faccia come al solito la parte di chi parla d’altro. O Riva paga, o viene espropriato, il resto è quello che ci ha portato al disastro attuale.
Giorgio Cremaschi
(01-08-2012)

Loro a Cernobbio, noi a Capodarco

Al via la decima edizione del Forum “L’impresa di un’economia diversa” a Capodarco di Fermo (FM), Comunità di Capodarco, 7-9 settembre 2012
Il Forum di quest’anno si terrà a Capodarco di Fermo e sarà ospitato dalla Comunità di Capodarco, protagonista da più di quarantacinque anni dell’impegno in Italia per i diritti, la solidarietà, la cittadinanza, il lavoro e l’integrazione sociale.
Il Forum sarà dedicato alla crisi economica e al ruolo dell’Europa, e in particolare al deficit di democrazia e di unità politica nei processi di costituzione e allargamento dell’Unione e all’assenza di politiche incisive per fronteggiare la crisi, far ripartire una crescita economica sostenibile e di qualità capace di creare lavoro, dare speranza ai giovani, assicurare diritti e solidarietà. Saranno analizzati criticamente il ruolo e le scelte dell’Europa e dell’Italia di fronte alla crisi economica e verranno avanzate proposte concrete, specifiche e puntuali – a partire dalle recenti iniziative di Sbilanciamoci! come “La rotta d’Europa” e i convegni sui temi dell’economia sostenibile e sociale – per uscire dalla crisi cambiando le politiche europee e italiane.

Interverranno tra gli altri:
Don Vinicio Albanesi, Laura Balbo, Pietro Vittorio Barbieri, Paolo Beni, Mauro Beschi, Susanna Camusso, Alessandro Coppola, Federico Del Giudice, Monica Di Sisto, Carlo Donolo, Luigi Ferrajoli, Claudio Gnesutta, Stefano Laffi, Stefano Lenzi, Angelo Marano, Giulio Marcon, Mariagrazia Midulla, Grazia Naletto, Licio Palazzini, Mario Pianta, Claudia Pratelli, Luigino Quarchioni, Stefano Trasatti, Michele Raitano, Elvira Ricotta Adamo, Linda Laura Sabbadini, Gianni Tognoni, Antonio Tricarico, Guido Viale

Le sessioni del forum:

• Oltre l’austerity. Le politiche per cambiare l’Italia e l’Europa

• Lavoro, ora! Per i diritti, per i giovani, contro la precarietà, nuova occupazione

• Un’economia verde per un’Europa sostenibile

• La crisi e la sofferenza della società: povertà, solitudine, precarietà. Perchè il welfare non è un costo, ma una risorsa

• Un nuovo modello di sviluppo per l’Italia e l’Europa. Intervento pubblico, conoscenza, beni comuni, redistribuzione della ricchezza per nuove produzioni e consumi

• Gioventù sprecata? Le politiche per il futuro

• Uscire dalla crisi, subito! Oltre il neoliberismo, le proposte di un’economia diversa

A breve on line sul sito www.sbilanciamoci.org il programma definitivo della tre giorni e le schede per la registrazione al forum

Per info: info@sbilanciamoci.org - 06 8841880

Con l'euro, senza l'euro, contro l'euro?

L'uscita dal tunnel non c'è stata. Restano i dilemmi del "calabrone" euro, che non poteva volare e molti vogliono continuare a far volare. Alternative di cui valutare le conseguenze politiche, oltre che economiche

Il tanto atteso “sblocco” della situazione europea non c’è stato. Nel presentare la recente decisione di non variare i tassi, il governatore della Bce Mario Draghi ha riconosciuto che la presenza di premi al rischio estremamente elevati per alcuni paesi e la conseguenze segmentazione dei mercati finanziari mina l’efficacia della politica monetaria. Ha altresì affermato che la Bce prenderà in considerazione le misure necessarie per affrontare il problema (leggi, acquisto di bond sul mercato secondario) ma ha anche segnalato che si tratta di direttive che andranno poi concretizzate in un disegno preciso nel prossimo mese. Inoltre ha sottolineato sia il disaccordo tedesco, sia il richiamo al consolidamento fiscale per quanto riguarda i paesi in difficoltà. Significativa in tal senso l’affermazione in conferenza stampa secondo cui in presenza di insostenibilità fiscale per i paesi delle periferia, l’unica opzione sul campo per attivare un intervento - della Banca Centrale o dei due Fondi di Stabilità – è una richiesta formale del Paese e una accettazione della conditionality che a tale intervento è usualmente associata [1].
Il problema della stabilità dell’euro è tutt’altro che risolto, in sostanza, e alcune domande più di fondo si pongono.
Nel discorso di Londra di Mario Draghi del 26 luglio, che tanto ha fatto esultare i mercati, c'erano un paio di passaggi che a mio avviso non sono stati sufficientemente discussi. Innanzitutto, il presidente della Bce afferma che l’euro ha le caratteristiche di un bumblebee (un calabrone) che riesce a volare, anche se non dovrebbe. In secondo luogo, prima di affermare che farà di tutto per salvare l’euro, vuole rimarcare l’investimento politico fatto nella moneta unica.
Krugman, che è lettore attento, riprende entrambi i punti in un suo recente editoriale sul NY Times. Traducendo in un linguaggio più chiaro, afferma che l’euro è stato un errore (punto 1), ma sostiene che un suo fallimento comporterebbe un colpo all’unificazione politica (punto 2).
È davvero così?
Sulla creazione dell’euro, giacché pensare a un controfattuale (cosa sarebbe successo senza l’euro) a questo livello di aggregazione è francamente complicato, si può dare una risposta dal punto di vista strettamente economico, con riferimento alla definizione di un’area monetaria ottimale. Senza entrare troppo nel tecnico, è oramai palese che le economie dell’area euro mostrino persistenti elementi di diacronia nell’andamento del ciclo e che non abbia quei requisiti di mobilità e flessibilità che sarebbero richiesti in teoria. Detto in altri termini, a fronte di differenze di competitività, eliminata la variabile del cambio come meccanismo di ripristino dell’equilibrio esterno (e inesistente un meccanismo fiscale di compensazione tra aree), non resta che un aggiustamento sul lato dei prezzi (inclusi i salari). I fattori devono essere mobili a sufficienza da andare dove sono più produttivi e i prezzi devono dare i segnali corretti.
I problemi sono due: la mobilità interna del lavoro è molto bassa, visti i costi di aggiustamento molto alti legati a differenze linguistiche, culturali e amministrativo-burocratiche, ma soprattutto, esiste un problema opposto legato ai capitali. Mentre i capitali si sono mossi dal centro alla periferia, come racconta il modello standard, l’afflusso di capitali non ha portato a crescita della produttività nella periferia (promuovendo convergenza nella competitività), ma ha finanziato bolle speculative che hanno poi portato alla crisi [2].
È evidente che i requisiti di mobilità dei fattori si possono anche modificare endogenamente, ma visto il tempo trascorso dalla creazione dell’euro e visti gli orizzonti temporali su cui è necessario risolvere i problemi, si può affermare abbastanza tranquillamente che questa opzione non è sul tavolo in questo momento.
Atteso che in punta di teoria l’euro non era sostenibile, rimane da esplorare il secondo punto.

I TOLD YOU SO...

giovedì 2 agosto 2012

E la Grecia sta ancora peggio ...

Spagna, sempre più povera e assistita da Croce Rossa  
La Spagna è sempre più povera. Secondo la Croce Rossa infatti rispetto al 2010 sono 100.000 in più le persone a cui l'organizzazione ha fornito assistenza distribuendo alimenti, vestiti e insieme a questi altri generi di prima necessità.
Solo nel 2011 la Croce Rossa spagnola ha assistito un milione di persone colpite dalla crisi economica, come emerge dai dati sulla 'Vulnerabilità sociale' diffusi oggi.
L'82% degli assistiti viveva sotto la soglia della povertà con un reddito inferiore a 627 euro al mese, mentre il 64,86% era disoccupato. Il 51% di essi, inoltre, non godeva di alcun tipo di sussidio statale di disoccupazione. La maggior parte delle persone assistite sono uomini, ma, avverte l'organizzazione, è costante la crescita della popolazione femminile che deve ricorrere a programmi di assistenza sociale.

Caro Nichi, ripensaci


di Aldo Giannuli - rifondazione -
Caro Nichi,
leggo del tuo incontro con Bersani e del conseguente annuncio di una coalizione Pd-Udc-Sel. So che sei un politico accorto e poco incline ai colpi di testa, immagino che abbia fatto i tuoi calcoli politici e ti stia orientando in questo senso sulla base di essi. Come sempre rispetto le tue scelte, pur nel dissenso e non mi sogno di gridare al tradimento o di dare giudizi sprezzanti. Tuttavia, non credo che i giochi siano fatti e che tu abbia fatto scelte irreversibili. Vorrei dunque farti presente, con molta pacatezza, alcune considerazioni che mi sembrano utili anche nel caso tu volessi proseguire su questa strada.
Il programma: tu stesso ci dici che l’alleanza che vai a stipulare con il Pd deve basarsi su una intesa programmatica, che possibilmente -aggiungo io- sia un po’ meno vaga di quell’informe pasticcio su cui si fece il blocco nel 2006 e si disfece tutto (haimè anche la sinistra radicale) nel 2008.

Allora, senza starci a girare tanto attorno, mi pare che su questa strada ci sia un macigno che si chiama “Agenda Monti”. Sin qui, anche se fuori dal Parlamento, Sel si è sempre schierata contro le politiche recessive di Monti di cui ha sempre denunciato il carattere classista, iniquo ed anche fallimentare e tu sei sempre stato il portavoce di questi orientamenti. Ebbene, ora che il tentativo di Monti registra il suo pieno insuccesso, come fai ad allearti con chi dice di voler continuare in quella politica e di far sua l‘“agenda Monti”? Magari nel programma concordato quella espressione non ci sarà (anche se ho idea che soprattutto l’Udc punterà i piedi a terra perché ci sia esplicitamente), ma cosa cambierebbe? Gli orientamenti sono quelli del taglio indiscriminato della spesa sociale, della pressione fiscale fuori misura e di zero risorse alla crescita. Ovviamente Bersani e Casini si sbracceranno a dire che “occorre coniugare i tagli con la crescita, spolvereranno quella sciocchezza senza pari che è “l’austerità espansiva” (che non significa nulla), ma la sostanza è molto semplice: con tagli alla spesa pubblica e con più tasse la crescita non si fa. Non si è mai fatta.

Ti conosco da oltre 30 anni e so che (anche se la politica economica e finanziaria non è esattamente il tuo tema preferito) non sei di cultura neo liberista, non lo sei mai stato e non credo lo sarai mai a meno di una capriola da doppio salto mortale (e mi sa che non abbiamo più l’età per queste acrobazie, anche se tu sei più giovane di me e porti meglio gli anni). Allora, ci spieghi che ci fai in una coalizione che del neo-liberismo non mette in dubbio neanche il trattino?

Dici di volerti candidare alle primarie, probabilmente per far pesare un tuo successo e sulla base di questo forzare a sinistra il programma della coalizione. Certamente nelle primarie ci sarà il “valore aggiunto” del tuo prestigio personale, senz’altro più vasto dei consensi di Sel, ma sei sicuro che le primarie ci saranno e saranno di coalizione? Già, perché noi non sappiamo con quale sistema elettorale andremo a votare e, se dovesse passare il premio al singolo partito di maggioranza relativa, le coalizioni non ci sarebbero come dato formalizzato, ma solo come intesa politica. A quel punto, però, non si capisce perché tu non ti tenga le mani libere andando alle elezioni da solo, decidendo di scegliere dopo, quando si faranno le alleanze parlamentari. Poi c’è un altro problema: ma sei sicuro che l’Udc (che, peraltro, non so se anche tu definiresti “progressista” ed, in caso affermativo mi farebbe piacere che mi spiegassi in che lo è) non ponga come condizione di NON fare le primarie o, al massimo di farle di partito e non di coalizione? E non credi che anche la destra Pd chiederebbe una consultazione di partito? Ma ammettiamo che le primarie ci siano e non di partito: in che condizioni affronteresti questa consultazione? Sei sicuro che gli elettori e gli iscritti di Sel ti seguirebbero compatti? Sei sicuro di non perderti un sostanzioso pezzo per strada? Come sai non sono di Sel, ma ho troppa stima dei compagni di Sel per pensare che si facciano portare in giro così docilmente. Mi pare che i tempi del “Contrordine compagni!” siano definitivamente passati. E con la Fiom come la mettiamo, dopo che il Pd ha fatto passare le “riforme” della Fornero?

Peraltro tu affronteresti quella competizione in condizioni di assoluta marginalità politica, perché il sottinteso sarebbe che tu non possa vincere in nessun caso. Già, perché è ovvio che, se l’Udc può anche acconciarsi ad accettare Sel come alleata, sarebbe un po’ troppo farglielo fare con te come candidato Premier (riconosciamolo!). Dunque, programmaticamente tu andresti a fare il cespuglietto e la copertura a sinistra di una coalizione che di sinistra non avrebbe proprio niente.

Ti ricordo che la stessa mossa la fece Bertinotti nel 2006 e non andò mica tanto bene. A proposito di Fausto: leggo qua e là che stia incoraggiandoti a scegliere l’alleanza con il Pd. Non so quanto sia vero, spero di no. Ho ancora nelle orecchie la sua voce nel salone della Camera del Lavoro di Milano, a novembre scorso, quando sbertucciava il povero Gennaro Migliore che proponeva l’alleanza con il Pd, dicendogli che lui voleva “entrare nel recinto”, quando invece bisognava spezzare la staccionata. Fausto: benedetto uomo! Se si decidesse a stare fermo otto mesi di seguito e farci capire cosa vuole dalla vita, noi saremmo tanto più contenti!

Ma torniamo a noi ed arriviamo alla campagna elettorale: mi sai dire come gestirai i temi di rottura con la Chiesa (fecondazione assistita, unioni civili, finanziamento alle scuole confessionali ecc.) con alleati come Casini, Renzi e Fioroni? Per non dire dei temi di politica economica, della partecipazione alle missioni internazionali, la Tav… ogni passo una caduta!

Siccome, però, siamo scatenatamente ottimisti, diciamo che tutto questo non conta e che alla fine la coalizione Pd-Sel-Udc vincerà clamorosamente le elezioni e per governare. Il primo problema sarà l’elezione del Presidente della Repubblica. Ammettiamo che spunti una candidatura Monti, tu che fai, lo voti? E se il Pd lo vota e tu no, bell’inizio di coalizione di governo! Poi si fa il governo, e lì non stiamo nemmeno a dire di quale via crucis si aprirebbe. Sei sicuro di non preparare un bis del 2008? Nichi, in che pasticcio ti stai andando a cacciare? Pensaci bene. Con l’amicizia di sempre, tuo Aldo Giannuli
aldogiannuli.it

Coniugare ambiente e lavoro a Taranto e' un ossimoro!

di Zag in ListaSinistra
Coniugare ambiente e lavoro. A Taranto non è possibile! E' un ossimoro! Ma ormai è di moda Per dire facciamo "ammoina" per non fare nulla! O il ciclo a caldo si chiude e si lascia solo il ciclo della laminazione ( che è la più remunerativa dato l'alto livello tecnologico e il grande valore aggiunto), quello che impiega il più alto livello di occupazione, oppure è solo demagogia.
La sinistra , quel che ormai resta della sinistra( ma ne è rimasto qualcosa?) dice chiaro e tondo questa semplice verità o si continua a giocare sull'equivoco, per poi fra qualche anno riscoppiare nuovamente il bubbone.
La struttura dello stabilimento di Taranto, quello del ciclo a caldo, è altamente inquinante.
Il parco minerali genera polveri sottili di ferro e carbone; il sinteraggio e pellettizzazione del minerale di ferro genera diossina e piombo; i forni di cottura del carbon coke producono idrocarburi policiclici aromatici, in particolare benzene, ma anche toluene e xileni; i fumi di altoforno sono densi di monossido di carbonio e zolfo, mentre la ghisa liquida che ne esce produce slopping; il trattamento Lf (ladle furnace) produce solfuro di magnesio e zolfo; i convertitori ad ossigeno che trasformano la ghisa liquida in acciaio generano monossido di carbonio ed anidride carbonica. L’acqua di raffreddamento dell’altoforno e di raffreddamento delle colate di lingottiera si contamina di metalli pesanti, ammoniaca, fenolo, cianuri.

In altri paesi che hanno impianti moderni utilizzano tecnologia FINEX, impiegata dalla sud coreana Posco (quarto maggiore produttore mondiale) nell’acciaieria di Pohang (il cui volume produttivo è addirittura superiore a quello di Taranto; ha radicalmente cancellato dal ciclo produttivo due delle fasi più pericolose in termini di inquinamento: il sinteraggio del minerale di ferro e la cokefazione del carbone. Tale tecnologia, infatti, che impiega direttamente il minerale di ferro e la polvere di carbone, riduce l'inquinamento (90% in meno di sostanze tossico-nocive e 98% in meno di contaminazione dell'acqua), ma ha anche un risvolto positivo per l’azienda, poiché riduce anche il consumo di energia e i costi di produzione (meno 15%)

Un’altra tecnologia, la COREX, che impiega direttamente il minerale ferroso grezzo, come esce dalla miniera, e il carbone grezzo, è installata nello stabilimento cinese di Shangai. Garantisce una riduzione dei costi fino al 20% ed un notevole vantaggio ambientale con l'eliminazione, come nel caso della tecnologia Finex, dei due impianti più inquinanti in assoluto: cokerie. Per dare un dato concreto, mentre il processo tradizionale cokerie - sinterizzazione - altoforno produce circa 1,4 Kg di anidride solforosa per ogni tonnellata di ghisa, il processo Corex ne produce solo 40 grammi Misurazione fatte in continuo on line e non su commissione come a Taranto.

Adottare tali tecnologie a Taranto le uniche capaci di ridurre drasticamente il livello di inquinamento non è nemmeno ipotizzabile, A meno di buttare tutto giù e ricostruire! Altro che 330 milioni di Euro Occorrerebbero miliardi di euro di investimento con un tempo di qualche decina di anni ed un ritorno economico di qualche altra decina di anni. Senxa parlare della bonifica dei terreni tutt'intorno che sono irrimediabilmente inquinati A meno di qualche altra decina d'anni di bonifica con costi e manodopera specializzata
Queste semplici verità devono essere dette!. Altrimenti si fa solo demagogia. Gridare Lavoro e Ambiente a Taranto è solo populismo!
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La magistratura è intervenuta numerose volte. La prima manifestazione ambientalista del 1971, la prima condanna in
tribunale per "getto di polveri" è del 1982 ( allora amministrazione Finsider e lo Stabilimento in saldamente in mano dei Craxiani ). Furono istituite commissioni e rappresentanti dei lavoratori ai quali furono impartite nozione ambientaliste ( Commissione ambiente e sicurezza) che vigilavano sul rispetto delle normativa. Furono in quegli anni che si scopri l'utilizzo di un solvente il Gamlen altamente tossico contenente Toluolo e Xilolo per la pulizia dei motori elettrici e vietato in tutti i paesi europei. Furono gli anni, in cui si scopri che l'Apirolio ( olio di raffreddamento) utilizzato per i raffreddamento dei trasformatori elettici conteneva PCB e che ad alte temperature produceva diossina. In quell'olio gli operai si immergevano protetti solo da una tuta di tela per la pulizia periodica e l'olio si versava negli scarichi naturali. Dopo l'inchiesta dei lavoratori del reparto Officina Elettrica si ottenne un accordo che consentiva nel breve l'affidamento ad una ditta tedesca specializzata la manutenzione dei trasformatori e nel medio lungo periodo la sostituzione con trasformatori moderni ( con l'arrivo di Riva questo accordo è diventata carta straccia.) L'inchiesta si allargò anche agli altri centri industriali ( Cantierni navali, Arsenale militare, raffineria ecc ecc ) . In questa inchiesta notevole fu l'aiuto della la Procura di Taranto e Lecce che ci supportò per la consulenza giuridica

La prima condanna a Emilio Riva arriva per i "parchi minerali" nel 2002, nel 2007 Emilio Riva e suo figlio Claudio furono anche interdetti dall'esercizio dell'attività industriale, e fu loro inibita la possibilità di contrattare con la pubblica amministrazione.
Ma la cronistoria vede nel 2001 il tribunale di Taranto dichiarò Emilio Riva, il figlio Claudio e altri dirigenti Ilva colpevoli di tentata violenza privata, per avere demansionato un gruppo di impiegati dell'Ilva nel 1998 (palazzina Laf). La sentenza per mobbing , la prima in Italia, venne confermata nel 2006 in Cassazione.
Nel febbraio del 2007 Emilio Riva fu condannato a tre anni di reclusione e Claudio Riva a 18 mesi per omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro e violazione di norme antinquinamento, con riferimento alla gestione della cokeria dell'impianto tarantino.
Il 10 ottobre 2008 la Corte d'Appello di Lecce condannò alla pena di due anni di reclusione Emilio Riva e a un anno e otto mesi il direttore dello stabilimento tarantino, Luigi Capogrosso, entrambi accusati di getto pericoloso di cose, danneggiamento aggravato, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro nel reparto cokerie.

La politica in tutti questi anni è stata a guardare connivente e sonnachiosa. Da Riva riceveva aiuti, finanziamenti. Il sindaco Stefano ha avuto parole di elogio per Riva che a sue spese provvide a fornire il cimitero di fontanelle di acqua per la pulizie delle tombe (che nel frattempo provvedeva a riempirle di uomini! )
Zag.

LICIO GELLI
grey eminence of the italian masonry suggested that the Bologna bombing massacre
(2 august 1980,85 dead),
was due to a cigarette stub.

mercoledì 1 agosto 2012

La lettura sbagliata della crisi

Autore: luciano gallino        - controlacrisi -
Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.
Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.
In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.
La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio.
Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario.
I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria. Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro.

Luigi Cavallaro: "Stanno smantellando lo Stato di diritto con la scusa dello spread"

      

Autore: fabio sebastiani        Tutti che guardano allo spread, intanto questa crisi ha cambiato completamente i connotati ai fondamenti dello Stato di diritto…
Più esattamente, questa crisi sta cambiando i connotati a quella peculiare declinazione dello Stato di diritto che è lo Stato sociale, a cominciare dalla sua pretesa di governare i processi economici. Si tratta in effetti della maturazione di un trend che ormai data da lontano. Per capirci, quando i nostri costituenti vararono la Costituzione, inserirono nel terzo comma dell’articolo 41 il principio secondo cui lo Stato doveva indirizzare e coordinare sia l’economia pubblica sia quella privata. Lo Stato, ai loro occhi, non doveva essere solo il “regolatore” dell’iniziativa economica e nemmeno il produttore di beni e servizi da offrire in alternativa alle merci capitalisticamente prodotte: doveva porre sia l’iniziativa economica pubblica sia quella privata nell’ambito di un proprio disegno globale, che individuava priorità, strategie, mezzi. Un obiettivo del genere, sebbene fermamente voluto sia dai cattolici che dai comunisti, era particolarmente inviso ai liberali, che erano ben disposti a godere dei benefici della spesa pubblica, ma certo non volevano saperne di cedere allo Stato poteri di indirizzo e controllo sulla loro attività. Si optò allora per un compromesso che – grazie alla mediazione di Luigi Einaudi, capofila dei liberali tra i costituenti – prese la forma dell’art. 81 della Costituzione: ogni legge di spesa doveva indicare la corrispondente fonte di entrata. Era un modo per dire che nemmeno lo Stato poteva sottrarsi al principio del pareggio di bilancio, perché Einaudi sapeva bene che, se si fosse consentito allo Stato di indebitarsi (come invece predicavano i keynesiani ortodossi), l’economia pubblica, che già si trovava collocata su una posizione di primazia, avrebbe preso il sopravvento sull’economia privata.
Un compromesso per la proprietà e il capitale…
Sì, ma nel 1966 la Corte costituzionale lo fece saltare, perché in una sentenza stabilì che anche il debito costituiva una forma di entrata. A quel punto – ricordiamo che in quel periodo il 90% del sistema bancario e un’elevatissima percentuale di quello industriale erano di proprietà pubblica – c’erano tutte le premesse perché anche l’economia italiana potesse avviarsi lungo i temuti (da Confindustria, beninteso) sentieri della “bolscevizzazione”: nel corso degli anni ’70 Guido Carli lo denunciò a più riprese e trovò ascolto, oltre che nelle classi proprietarie, in una nuova leva di economisti e giuristi che presto ne divennero gli intellettuali organici: penso a Eugenio Scalfari, Nino Andreatta, Romano Prodi, Giuliano Amato. In effetti, quando finalmente si scriverà la storia degli anni ’70, bisognerà pur dire che quella che andò in scena dietro il paravento delle crisi petrolifere, del balzo dell’inflazione, delle stragi e del terrorismo fu una vera e propria guerra civile, innescata dai tentativi di “rivoluzione dall’alto” che furono portati avanti dai tanto vituperati governi di solidarietà nazionale e del compromesso storico voluti da Moro e Berlinguer. Ma lasciamo stare, perché quel che ci interessa qui è la reazione capitalistica. La quale, più ancora che nella marcia dei 40.000, si manifestò nel cosiddetto “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Su iniziativa di Andreatta e Ciampi (appena asceso al soglio di Governatore della Banca d’Italia), la nostra Banca centrale venne esonerata dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico che fossero rimasti invenduti in asta. Quell’obbligo, in pratica, significava che lo Stato poteva indebitarsi al tasso desiderato, perché tutti i Buoni del tesoro che i privati non avessero acquistato finivano alla Banca centrale. Era il modo in cui lo Stato “comandava” il capitale monetario. Con il divorzio, invece, lo Stato venne costretto a indebitarsi ai tassi d’interesse correnti sul mercato, i quali giusto in quel periodo schizzavano verso l’alto a causa della svolta monetarista impressa da Paul Volcker all’azione della Federal Reserve, la banca centrale americana. Può essere interessante ricordare che un giovanotto di nome Mario Monti scrisse allora che il correlato inevitabile del “divorzio” doveva essere la dismissione progressiva delle aree d’intervento pubblico: se lo Stato non poteva più indebitarsi ai (bassi) tassi precedenti, c’era il rischio che la sua azione provocasse un aumento del debito pubblico. Ma la maggioranza pentapartito fu di diverso avviso, e così il nostro debito pubblico, che nel 1981 era pari al 58% del Pil (nonostante il profluvio di spese anticicliche sopportate nei sei anni precedenti), arrivò nel 1992 al 124% del Pil. E bada bene, non perché ci fosse un eccesso di spese sociali rispetto alle entrate: il debito raddoppiò solo per effetto dell’aumento della spesa per interessi causato dal “divorzio”.

martedì 31 luglio 2012

Sto con i tartassati. Non è demagogia

di Moni Ovadia
La macelleria sociale continua senza dare segni di stanchezza. Lo spread, che non dipende dalle volontà politiche dei governanti di oggi, fa un po’ quello che gli pare, prediligendo il comportamento ciclotimico tipico dei flussi speculativi. Così facendo tiene sotto ricatto Stati e governi perché non venga loro in mente di decidere e di legiferare contro l’interesse dei mercati. I feroci costi di questo stato di cose, si scaricano, come sempre, su lavoratori, pensionati, disoccupati e precari.
Ma come potrebbe essere diversamente? Coloro che decidono, in proprio, o sulla base di «autorevoli» sollecitazioni esterne, versano in condizioni economiche molto lontane a volte lontane anni luce, da quelle dei tartassati o massacrati dai provvedimenti dell’austerità.
I redditi annui di leader politici e di governo, di manager di banche e istituzioni finanziarie, sono spesso talmente spropositati rispetto al reddito dei cittadini di cui sono chiamati a determinare le sorti economiche, da impedire loro di cogliere la prospettiva della realtà, anche con quella partecipazione personale che permette ad una persona di saper vagliare la verità viva dei problemi che madri e padri di famiglia si trovano ad affrontare.
Non voglio con questo dire che per capire i problemi, le frustrazioni e i travagli di un pensionato a settecento euro al mese si debba essere poveri. Quelli attenti al prossimo e alle sue condizioni esistenziali sono in grado di essere solidali a prescindere dalla consistenza del loro reddito.
Ma purtroppo tale sensibilità non è così diffusa tra chi non conosce sulla propria carne i disagi e le notti bianche degli afflitti dai morsi delle difficoltà economiche.
Forse sarebbe ora di avviare una riflessione seria e ponderata sul livello di reddito di chi è chiamato a elaborare riforme che peggiorano le condizioni esistenziali ed economiche dei meno abbienti. E non ci vengano a dire che questa è demagogia perché dell’uso squallidamente intimidatorio di questo termine fatto proprio dai peggiori demagoghi, ne abbiamo piene le tasche. L’ideologia dell’intimidazione demagogica contro chi chiede giustizia sociale, dignità e diritti, è figlia di una precisa pedagogia che per secoli e secoli ha costruito il mondo a misura dei potenti e dei loro privilegi. Dalla Rivoluzione francese in avanti, questa pedagogia è stata contrastata con crescente forza fino a tutti gli anni Settanta del Novecento, con conquiste significative e con un orizzonte di speranza.
Ma dal crollo del cosiddetto comunismo in poi, la demagogia del privilegio si è riaffermata con questo messaggio: «Vi eravate illusi, lo Stato sociale è morto, vi spetta una vita grama, chinate la testa!».

leparole-ipensieri.comunita.unita.it

Io iscritto al Pd, straccio la tessera


La politica non è un mero esercizio di ragionamenti asettici e razionali. Prende più giù della testa e anche del cuore. Ma quando arriva alla pancia son dolori e crampi ingovernabili. È quello che mi succede proprio in questi giorni, in queste ore. Io sono sempre stato nel Partito (come si chiamava di volta in volta) o lì attorno come le falene con le lampadine.Ma quello che mi succede ora è ancora inedito per me. Non avendo più il cemento ideologico di un mondo migliore promesso dalla rivoluzione pacifica, all’italiana, democratica ecc. un partito vale per quello che fa e gli uomini che lo rappresentano valgono per quello che fanno vedere di sé.
Ma le azioni e gli scopi ora mi sfuggono.
Gli ultimi avvenimenti riguardanti le indagini sugli accordi Stato-Mafia di 20 anni fa e, in particolare, il suo aspetto laterale come quello del coinvolgimento di Napolitano mi hanno sorpreso e anche indignato parecchio. Napolitano si è infognato chiaramente e alla luce del sole. Ha commesso un errore chiaro e palese (difendere il suo portavoce che dichiarava che il Presidente aveva “preso a cuore” la richiesta di un ex Ministro di manipolare le indagini dei pm che indagano su fatti molto gravi) e, per trarsene fuori, ne ha commesso un altro più grave (il conflitto di attribuzione alla corte costituzionale) ed infine, dopo la morte di D’Ambrosio per infarto, accusare, nel suo necrologio, esplicitamente Ingroia e gli altri (oltre ad alcuni giornali) di avere causato la morte del suo collaboratore. Il titolo dei giornali di destra è “Napolitano: pm assassini”.Oggi nulla, attendo domani se Napolitano avrà qualcosa da ridire, distinguere il suo giudizio, difendere i pm palermitani… Dopodomani sarà già troppo tardi. E Bersani e il suo PD appoggiano in toto, a priori, Napolitano in una vicenda dove è chiaro ed evidente l’errore del Presidente, mettendosi con ciò a fianco della peggior feccia politica di destra.Quella lampadina attorno a cui ronzavo in cerca di lumi si è proprio spenta. Non si può essere ipocriti fino a questo punto. Se uno sbaglia occorre dirlo e farlo capire a tutti. Tutti possono sbagliare ma accanirsi nell’errore è diabolico e letale. È così che si difende l’istituzione e la democrazia e non con l’accusa di lesa maestà.Io non nutro più molte speranze di svolte del PD e non vedo luci. Ci ho provato per alcuni anni fino a far parte della Assemblea Nazionale dalla quale mi sono dimesso dopo un paio di riunioni così come, definitivamente, dal Partito. E mi sembra ora di essere non più tanto a fianco del PD ma all’opposizione dopo che quel partito governa l’Italia sostenedo un Governo assieme al PDL. Inaudito e intollerabile. Monti è di destra e va lasciato alla destra che almeno sarebbe dignitosa. Anche solo battersi per contenderselo con la destra è per me un assurdo inconcepibile. Monti fa una politica cieca, toglie soldi e consumi e servizi alla popolazione, comprimendo diritti acquisti nel tempo con dure lotte di classe, pensando di risanare l’economia portandoci invece vicino al baratro. È una politica capitalistica semplice e chiara ma lontana da quella illuminata, keinesiana, degli anni trenta in America.Una situazione che rende anche più semplice e chiaro che una politica di sinistra è un’altra: di opposizione. Un partito di sinistra non ha paura di vincere le elezioni e di governare. Direi che esattamente quello è il suo compito! E avrebbe dovuto almeno cercare di farlo mesi fa. con le elezioni avremmo vinto a man bassa e avremmo avuto l’onore e l’onere di dovere governare una crisi con scelte impopolari ma forse accettate dalla popolazione che sa accettare sacrifici se fatti con il loro concorso e per un futuro migliore. La gente andava anche in galera durante il fascismo e moriva per un avvenire migliore. Invece abbiamo un governo retto dal PD, UDC e PDL. Ecco… non in mio nome.
ilfattoquotidiano.it

La fine del tunnel vicina? Purtroppo no!


di Paolo Ferrero
«Monti che parla della fine del tunnel vicina è purtroppo l’ennesima menzogna del premier “tecnico” che “sobriamente” ci ha portato in questa recessione pazzesca: con le sue politiche neoliberiste che aggravano la crisi altro che tunnel, alla fine cadremo dritti dritti nel precipizio! La realtà è che le sue ricette hanno fallito: pur di fare il cameriere della Merkel e degli speculatori, il governo ha penalizzato pesantemente solo lavoratori e pensionati, con il conseguente crollo della domanda e dell’occupazione.
Il numero record di persone disoccupate è un dato allarmante, contro il quale bisogna fare subito qualcosa:
noi proponiamo l’istituzione di un reddito minimo garantito (pari a 600 euro al mese) e l’avvio di un piano pubblico di rilancio dell’occupazione, nel settore della riconversione ambientale, del riassetto idrogeologico e delle energie alternative, da finanziare con una tassa sui grandi patrimoni, il taglio delle spese militari, della Tav, il tetto a pensioni e redditi anche dei parlamentari, per cominciare. Insieme a movimenti, associazioni e altri partiti abbiamo aderito alla campagna per una proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del reddito minimo garantito, per informazioni e adesioni: www.redditogarantito.it».

Ancora da Taranto

di Zag in [ListaSinistra]
Agli operai , nella stragrande maggioranza tra loro e nella città tutta, l'opzione è il Lavoro! A taranto vi è una delle più alte percentuali di giovani laureati che o emigrano o lavorano a spalare carbone e loppa sugli altoforni a 50 gradi di temperatura. C'è anche la più alta percentuale di concentrazione, al rione tamburi di malati per cancro alle vie respiratorie. Ma il cancro è lento e invisibile, la disoccupazione è vissuta quotidianamente.
La chiusura dell'area a caldo , fatta passare come chiusura di tutta l'ILVA, per la città è morta sicura . il giorno dopo. Con il cancro ci convivono da cinquant'anni.
Questa è l'alleanza , la strana comunione di interessi , fatta passare come tale. La stessa barca fra padroni e lavoratori.
I lavoratori e la città , sanno di essere strumentalizzati, sanno che il padron Riva fa i suoi interessi,che non sono gli stessi dei lavoratori, se non nell'immediato, li ha sempre fatti , come tutti i padroni, e che sta utilizzando i lavoratori per il suo fine ultimo. Lo sanno anche i lavoratori. Ma intorno tutti dicono che questa è l'unica strada. Inevitabile. Sanno che i 300 milioni sono come una goccia nel mare ( inquinato di Taranto) Altro che 300 milioni di soldi pubblici. Un meccanismo virtuoso deve essere costruito intorno a questa attività di risanamento. Intelligenze, tecnologie e saperi. Bonificare quel territorio, quell'economia distrutta, non basteranno anni e anni di lavoro di bonfica!
Una percentuale della ricchezza prodotta dovrà essere riversata in questa attività .Intorno a loro hanno visto la morte del bestiame, delle aziende agricole, della pastorizie dell'agricoltura la miticultura vanto e pregio di Taranto in tutto il Mondo. Le cozze di Taranto li ho viste esposte anche a Bergen in Norvegia! .
Migliaia di agricoltori, pastori, cozzaroli, allevatori che hanno perso masserie, aziende . Hanno chiuso e sono emigrati.
Non vogliono fare la loro stessa fine.
Quel che viene viene, l'importante è il posto del lavoro.
Se gli chiedi " per te cosa è più importante il lavoro o la salute? " loro ti rispondono "prima il lavoro e poi anche la salute. COn il lavoro posso dare da mangiare ai miei figli. Anche se mi ammalo , ma finché ho il lavoro posso far vivere i miei figli, fargli crescere e mandarli via da Taranto"

FAr saltare il tavolo da gioco significa far rispettare quel che in tutta europa vale come legge. Chi inquina paga e metterlo in condizione di non nuocere più- Vuol dire far pagare a Riva tutto la bonifica del territorio, sequestrare la fabbrica, chiudere l'area a caldo e nazionalizzare l'ILVA. In mano alla Politica, non in mano ai partiti. Condotta dalle organizzazioni dei lavoratori, senza la diretta ingerenza dei partiti.

lunedì 30 luglio 2012

La Germania incomincia a fare i conti sull’Euro

Posted by keynesblog 
di Vladimiro Giacché da Pubblico
Da tempo l’interpretazione dei discorsi dei governanti europei non ha nulla da invidiare, quanto a complessità, all’interpretazione dei discorsi dei leader sovietici ai quali si dedicavano dei veri e propri specialisti, i sovietologi. Da mesi, ormai ogni giorno, stuoli di eurologi si rompono la testa per capire il senso dell’ultima intervista della Merkel o dell’ultimo intervento di Draghi: e in base a quello che hanno capito comprano o vendono titoli di Stato. Anche in questo fine settimana gli eurologi hanno avuto il loro bel da fare con l’intervista rilasciata da Wolfgang Schäuble alla “Welt am Sonntag”.

L’impressione generale è che il ministro delle finanze tedesco si barcameni con difficoltà, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Da una parte Schäuble insiste sul fatto che l’impossibilità per la Grecia di conseguire gli obiettivi fissati dalla troika dipenda dal fatto che i programmi imposti da FMI, BCE e Unione Europea sono stati applicati male e non dalla loro insensatezza. Aggiunge poi che non ci sono spazi “per ulteriori concessioni” (sic) alla Grecia. Sulla Spagna tenta senza grande fortuna uno slalom, prima minimizzando l’entità del problema dei rendimenti – ormai elevatissimi – dei titoli di Stato spagnoli (“non viene giù il mondo se a un’asta di titoli di Stato si deve pagare un paio di punti percentuali in più”), poi dichiarando che gli aiuti sinora offerti sono sufficienti e negando, contro ogni evidenza, che ci sia del vero nei rumors di un’ulteriore prossima richiesta di aiuto da parte della Spagna. Queste parti dell’intervista di Schäuble sono di per sé tali da alimentare lo scetticismo sulla concreta possibilità per Draghi di intervenire “sino a dove necessario” per contrastare l’esplosione dei rendimenti dei titoli di Stato spagnoli e italiani. E da questo punto di vista non c’è niente di nuovo: è almeno da un anno e mezzo che i governanti tedeschi ci hanno abituato a dichiarazioni che gettano benzina sul fuoco, alimentando la convinzione che non potrà esserci alcun intervento risolutivo da parte europea nei confronti dei paesi che hanno difficoltà di approvvigionamento sui mercati dei capitali.
Ma nell’intervista c’è anche dell’altro. Ad esempio, Schäuble afferma a chiare lettere che “la Germania trae vantaggio dalla moneta comune più di ogni altro paese”. Conseguentemente, liquida con fastidio il dibattito sull’uscita della Grecia dall’euro (il vicepremier tedesco Rösler lo aveva riaperto pochi giorni fa), e soprattutto prende a schiaffi i professori del centro di ricerca tedesco Ifo, che avevano dichiarato che un’uscita della Grecia dall’euro costerebbe alla Germania “soltanto” 82 miliardi di euro, a fronte degli 89 necessari per mantenerla se restasse all’interno della moneta unica. Ecco la sua risposta: “credo che i conti della serva li facciano le serve. I professori si comportano diversamente. Da parte di chi ha titoli accademici e da istituti scientifici che sono sovvenzionati con molto denaro dei contribuenti ci si attende un senso di responsabilità particolare”. Questo senso di responsabilità qui è mancato, perché nel calcolo dell’Ifo “i rischi sono equiparati alle sole perdite del bilancio pubblico”, cosa “assolutamente non rispondente al vero”.
Schäuble qui ha pienamente ragione. E le sue parole sono rivelatrici. In Germania ormai sono in molti a fare i conti di cosa significherebbe una fine dell’euro. La risposta possibile è una sola: una catastrofe economica. È significativo che negli ultimi giorni qualche risultato di questi calcoli sia stato diffuso dai principali organi di stampa. La sola bancarotta della Grecia farebbe crescere l’indebitamento tedesco del 3,5%. Ma quello che spaventa è la possibile bancarotta di Spagna o Italia. Qui i calcoli sono semplici: questi due paesi da ora alla fine del 2013 devono procurarsi 750 miliardi di euro sui mercati. Si tratta di 110 miliardi in più di quanto abbiano nella loro disponibilità il Fondo Salva-Stati e il Meccanismo europeo di stabilità. Così Lars Feld, professore all’università di Friburgo, sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Ma il carico lo mette Michael Heise, chief economist del gruppo Allianz, che spiega cosa succederebbe alla Germania in caso di implosione dell’euro, ossia di ritorno al marco. Già la recessione negli altri paesi europei sarebbe un guaio, visto che il 40 per cento dell’export tedesco è diretto verso l’eurozona. Ma, soprattutto, la moneta tedesca si rivaluterebbe del 15-20 per cento, il che comporterebbe una perdita di export sino ad un quinto del totale. E siccome il contributo delle esportazioni al prodotto interno lordo è oggi del 50 per cento, anche considerando che i beni intermedi che entrano nella produzione dei prodotti esportati è pari al 40 per cento del valore di questi ultimi, ne seguirebbe una perdita di ricchezza prodotta del 5 per cento. Considerando il peggioramento della congiuntura e le crisi bancarie che si verificherebbero a seguito della fine dell’euro, entro 2 anni la perdita di prodotto cumulata raggiungerebbe il 15 per cento. Non solo: poiché ogni apprezzamento di una valuta comporta una crescita dei costi di produzione rispetto all’estero, molte imprese delocalizzerebbero o ritirerebbero i loro capitali dalla Germania. E oggi – osserva giustamente Heise – questo genere di movimenti avviene molto più rapidamente che in passato. La chiusura di molte imprese peggiorerebbe la situazione economica anche per le sue conseguenze negative sull’indotto e nelle zone circostanti.
Tirate le somme, Heise calcola che la perdita di prodotto interno lordo per la Germania dopo 4-5 anni dalla fine dell’euro sarebbe dell’ordine del 25 per cento. E conclude: “non si fa allarmismo se si osserva che la disgregazione dell’euro sarebbe uno shock ben peggiore della crisi successiva al fallimento di Lehman Brothers”. Le cose stanno precisamente così, e del resto già oggi i problemi economici di molti partner europei stanno minacciando seriamente la crescita tedesca: la fiducia delle imprese è in calo per il terzo mese consecutivo, e a questo punto le stesse previsioni di crescita per il 2012, pur molto modeste (+0,7 per cento), sono probabilmente ottimistiche. Di fatto, con l’atteggiamento oltranzistico tenuto sinora, i tedeschi stanno tagliando il ramo su cui sono seduti.
Ma noi, rileggendo l’intervista a Schäuble, riusciamo a trovarci d’accordo soprattutto sul titolo: “Non tutti hanno ancora compreso la nostra strategia”. Vero. Ma la cosa non è priva di effetti. Se ai tempi dei sovietologi gli esperti si dividevano sul significato da dare ad alcune sibilline affermazioni dei membri del politburo, e i governi occidentali agivano di conseguenza, tra lunedì (asta Btp) e giovedì (asta di Bonos) qualcuno comprerà o no titoli italiani e spagnoli anche a seconda delle frasi di questa intervista che riterrà decisive.
Se i mancati acquisti prevarranno, i rendimenti dei titoli di Stato italiani e spagnoli saliranno ulteriormente. E la fine dell’euro sarà più vicina.

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