di Vladimiro Giacché da Pubblico
Da tempo l’interpretazione dei discorsi dei governanti europei non ha nulla da invidiare, quanto a complessità, all’interpretazione dei discorsi dei leader sovietici ai quali si dedicavano dei veri e propri specialisti, i sovietologi. Da mesi, ormai ogni giorno, stuoli di eurologi si rompono la testa per capire il senso dell’ultima intervista della Merkel o dell’ultimo intervento di Draghi: e in base a quello che hanno capito comprano o vendono titoli di Stato. Anche in questo fine settimana gli eurologi hanno avuto il loro bel da fare con l’intervista rilasciata da Wolfgang Schäuble alla “Welt am Sonntag”.
L’impressione generale è che il ministro delle finanze tedesco si barcameni con difficoltà, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Da una parte Schäuble insiste sul fatto che l’impossibilità per la Grecia di conseguire gli obiettivi fissati dalla troika dipenda dal fatto che i programmi imposti da FMI, BCE e Unione Europea sono stati applicati male e non dalla loro insensatezza. Aggiunge poi che non ci sono spazi “per ulteriori concessioni” (sic) alla Grecia. Sulla Spagna tenta senza grande fortuna uno slalom, prima minimizzando l’entità del problema dei rendimenti – ormai elevatissimi – dei titoli di Stato spagnoli (“non viene giù il mondo se a un’asta di titoli di Stato si deve pagare un paio di punti percentuali in più”), poi dichiarando che gli aiuti sinora offerti sono sufficienti e negando, contro ogni evidenza, che ci sia del vero nei rumors di un’ulteriore prossima richiesta di aiuto da parte della Spagna. Queste parti dell’intervista di Schäuble sono di per sé tali da alimentare lo scetticismo sulla concreta possibilità per Draghi di intervenire “sino a dove necessario” per contrastare l’esplosione dei rendimenti dei titoli di Stato spagnoli e italiani. E da questo punto di vista non c’è niente di nuovo: è almeno da un anno e mezzo che i governanti tedeschi ci hanno abituato a dichiarazioni che gettano benzina sul fuoco, alimentando la convinzione che non potrà esserci alcun intervento risolutivo da parte europea nei confronti dei paesi che hanno difficoltà di approvvigionamento sui mercati dei capitali.
Ma nell’intervista c’è anche dell’altro. Ad esempio, Schäuble afferma a chiare lettere che “la Germania trae vantaggio dalla moneta comune più di ogni altro paese”. Conseguentemente, liquida con fastidio il dibattito sull’uscita della Grecia dall’euro (il vicepremier tedesco Rösler lo aveva riaperto pochi giorni fa), e soprattutto prende a schiaffi i professori del centro di ricerca tedesco Ifo, che avevano dichiarato che un’uscita della Grecia dall’euro costerebbe alla Germania “soltanto” 82 miliardi di euro, a fronte degli 89 necessari per mantenerla se restasse all’interno della moneta unica. Ecco la sua risposta: “credo che i conti della serva li facciano le serve. I professori si comportano diversamente. Da parte di chi ha titoli accademici e da istituti scientifici che sono sovvenzionati con molto denaro dei contribuenti ci si attende un senso di responsabilità particolare”. Questo senso di responsabilità qui è mancato, perché nel calcolo dell’Ifo “i rischi sono equiparati alle sole perdite del bilancio pubblico”, cosa “assolutamente non rispondente al vero”.
Schäuble qui ha pienamente ragione. E le sue parole sono rivelatrici. In Germania ormai sono in molti a fare i conti di cosa significherebbe una fine dell’euro. La risposta possibile è una sola: una catastrofe economica. È significativo che negli ultimi giorni qualche risultato di questi calcoli sia stato diffuso dai principali organi di stampa. La sola bancarotta della Grecia farebbe crescere l’indebitamento tedesco del 3,5%. Ma quello che spaventa è la possibile bancarotta di Spagna o Italia. Qui i calcoli sono semplici: questi due paesi da ora alla fine del 2013 devono procurarsi 750 miliardi di euro sui mercati. Si tratta di 110 miliardi in più di quanto abbiano nella loro disponibilità il Fondo Salva-Stati e il Meccanismo europeo di stabilità. Così Lars Feld, professore all’università di Friburgo, sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Ma il carico lo mette Michael Heise, chief economist del gruppo Allianz, che spiega cosa succederebbe alla Germania in caso di implosione dell’euro, ossia di ritorno al marco. Già la recessione negli altri paesi europei sarebbe un guaio, visto che il 40 per cento dell’export tedesco è diretto verso l’eurozona. Ma, soprattutto, la moneta tedesca si rivaluterebbe del 15-20 per cento, il che comporterebbe una perdita di export sino ad un quinto del totale. E siccome il contributo delle esportazioni al prodotto interno lordo è oggi del 50 per cento, anche considerando che i beni intermedi che entrano nella produzione dei prodotti esportati è pari al 40 per cento del valore di questi ultimi, ne seguirebbe una perdita di ricchezza prodotta del 5 per cento. Considerando il peggioramento della congiuntura e le crisi bancarie che si verificherebbero a seguito della fine dell’euro, entro 2 anni la perdita di prodotto cumulata raggiungerebbe il 15 per cento. Non solo: poiché ogni apprezzamento di una valuta comporta una crescita dei costi di produzione rispetto all’estero, molte imprese delocalizzerebbero o ritirerebbero i loro capitali dalla Germania. E oggi – osserva giustamente Heise – questo genere di movimenti avviene molto più rapidamente che in passato. La chiusura di molte imprese peggiorerebbe la situazione economica anche per le sue conseguenze negative sull’indotto e nelle zone circostanti.
Tirate le somme, Heise calcola che la perdita di prodotto interno lordo per la Germania dopo 4-5 anni dalla fine dell’euro sarebbe dell’ordine del 25 per cento. E conclude: “non si fa allarmismo se si osserva che la disgregazione dell’euro sarebbe uno shock ben peggiore della crisi successiva al fallimento di Lehman Brothers”. Le cose stanno precisamente così, e del resto già oggi i problemi economici di molti partner europei stanno minacciando seriamente la crescita tedesca: la fiducia delle imprese è in calo per il terzo mese consecutivo, e a questo punto le stesse previsioni di crescita per il 2012, pur molto modeste (+0,7 per cento), sono probabilmente ottimistiche. Di fatto, con l’atteggiamento oltranzistico tenuto sinora, i tedeschi stanno tagliando il ramo su cui sono seduti.
Ma noi, rileggendo l’intervista a Schäuble, riusciamo a trovarci d’accordo soprattutto sul titolo: “Non tutti hanno ancora compreso la nostra strategia”. Vero. Ma la cosa non è priva di effetti. Se ai tempi dei sovietologi gli esperti si dividevano sul significato da dare ad alcune sibilline affermazioni dei membri del politburo, e i governi occidentali agivano di conseguenza, tra lunedì (asta Btp) e giovedì (asta di Bonos) qualcuno comprerà o no titoli italiani e spagnoli anche a seconda delle frasi di questa intervista che riterrà decisive.
Se i mancati acquisti prevarranno, i rendimenti dei titoli di Stato italiani e spagnoli saliranno ulteriormente. E la fine dell’euro sarà più vicina.
Da tempo l’interpretazione dei discorsi dei governanti europei non ha nulla da invidiare, quanto a complessità, all’interpretazione dei discorsi dei leader sovietici ai quali si dedicavano dei veri e propri specialisti, i sovietologi. Da mesi, ormai ogni giorno, stuoli di eurologi si rompono la testa per capire il senso dell’ultima intervista della Merkel o dell’ultimo intervento di Draghi: e in base a quello che hanno capito comprano o vendono titoli di Stato. Anche in questo fine settimana gli eurologi hanno avuto il loro bel da fare con l’intervista rilasciata da Wolfgang Schäuble alla “Welt am Sonntag”.
L’impressione generale è che il ministro delle finanze tedesco si barcameni con difficoltà, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Da una parte Schäuble insiste sul fatto che l’impossibilità per la Grecia di conseguire gli obiettivi fissati dalla troika dipenda dal fatto che i programmi imposti da FMI, BCE e Unione Europea sono stati applicati male e non dalla loro insensatezza. Aggiunge poi che non ci sono spazi “per ulteriori concessioni” (sic) alla Grecia. Sulla Spagna tenta senza grande fortuna uno slalom, prima minimizzando l’entità del problema dei rendimenti – ormai elevatissimi – dei titoli di Stato spagnoli (“non viene giù il mondo se a un’asta di titoli di Stato si deve pagare un paio di punti percentuali in più”), poi dichiarando che gli aiuti sinora offerti sono sufficienti e negando, contro ogni evidenza, che ci sia del vero nei rumors di un’ulteriore prossima richiesta di aiuto da parte della Spagna. Queste parti dell’intervista di Schäuble sono di per sé tali da alimentare lo scetticismo sulla concreta possibilità per Draghi di intervenire “sino a dove necessario” per contrastare l’esplosione dei rendimenti dei titoli di Stato spagnoli e italiani. E da questo punto di vista non c’è niente di nuovo: è almeno da un anno e mezzo che i governanti tedeschi ci hanno abituato a dichiarazioni che gettano benzina sul fuoco, alimentando la convinzione che non potrà esserci alcun intervento risolutivo da parte europea nei confronti dei paesi che hanno difficoltà di approvvigionamento sui mercati dei capitali.
Ma nell’intervista c’è anche dell’altro. Ad esempio, Schäuble afferma a chiare lettere che “la Germania trae vantaggio dalla moneta comune più di ogni altro paese”. Conseguentemente, liquida con fastidio il dibattito sull’uscita della Grecia dall’euro (il vicepremier tedesco Rösler lo aveva riaperto pochi giorni fa), e soprattutto prende a schiaffi i professori del centro di ricerca tedesco Ifo, che avevano dichiarato che un’uscita della Grecia dall’euro costerebbe alla Germania “soltanto” 82 miliardi di euro, a fronte degli 89 necessari per mantenerla se restasse all’interno della moneta unica. Ecco la sua risposta: “credo che i conti della serva li facciano le serve. I professori si comportano diversamente. Da parte di chi ha titoli accademici e da istituti scientifici che sono sovvenzionati con molto denaro dei contribuenti ci si attende un senso di responsabilità particolare”. Questo senso di responsabilità qui è mancato, perché nel calcolo dell’Ifo “i rischi sono equiparati alle sole perdite del bilancio pubblico”, cosa “assolutamente non rispondente al vero”.
Schäuble qui ha pienamente ragione. E le sue parole sono rivelatrici. In Germania ormai sono in molti a fare i conti di cosa significherebbe una fine dell’euro. La risposta possibile è una sola: una catastrofe economica. È significativo che negli ultimi giorni qualche risultato di questi calcoli sia stato diffuso dai principali organi di stampa. La sola bancarotta della Grecia farebbe crescere l’indebitamento tedesco del 3,5%. Ma quello che spaventa è la possibile bancarotta di Spagna o Italia. Qui i calcoli sono semplici: questi due paesi da ora alla fine del 2013 devono procurarsi 750 miliardi di euro sui mercati. Si tratta di 110 miliardi in più di quanto abbiano nella loro disponibilità il Fondo Salva-Stati e il Meccanismo europeo di stabilità. Così Lars Feld, professore all’università di Friburgo, sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Ma il carico lo mette Michael Heise, chief economist del gruppo Allianz, che spiega cosa succederebbe alla Germania in caso di implosione dell’euro, ossia di ritorno al marco. Già la recessione negli altri paesi europei sarebbe un guaio, visto che il 40 per cento dell’export tedesco è diretto verso l’eurozona. Ma, soprattutto, la moneta tedesca si rivaluterebbe del 15-20 per cento, il che comporterebbe una perdita di export sino ad un quinto del totale. E siccome il contributo delle esportazioni al prodotto interno lordo è oggi del 50 per cento, anche considerando che i beni intermedi che entrano nella produzione dei prodotti esportati è pari al 40 per cento del valore di questi ultimi, ne seguirebbe una perdita di ricchezza prodotta del 5 per cento. Considerando il peggioramento della congiuntura e le crisi bancarie che si verificherebbero a seguito della fine dell’euro, entro 2 anni la perdita di prodotto cumulata raggiungerebbe il 15 per cento. Non solo: poiché ogni apprezzamento di una valuta comporta una crescita dei costi di produzione rispetto all’estero, molte imprese delocalizzerebbero o ritirerebbero i loro capitali dalla Germania. E oggi – osserva giustamente Heise – questo genere di movimenti avviene molto più rapidamente che in passato. La chiusura di molte imprese peggiorerebbe la situazione economica anche per le sue conseguenze negative sull’indotto e nelle zone circostanti.
Tirate le somme, Heise calcola che la perdita di prodotto interno lordo per la Germania dopo 4-5 anni dalla fine dell’euro sarebbe dell’ordine del 25 per cento. E conclude: “non si fa allarmismo se si osserva che la disgregazione dell’euro sarebbe uno shock ben peggiore della crisi successiva al fallimento di Lehman Brothers”. Le cose stanno precisamente così, e del resto già oggi i problemi economici di molti partner europei stanno minacciando seriamente la crescita tedesca: la fiducia delle imprese è in calo per il terzo mese consecutivo, e a questo punto le stesse previsioni di crescita per il 2012, pur molto modeste (+0,7 per cento), sono probabilmente ottimistiche. Di fatto, con l’atteggiamento oltranzistico tenuto sinora, i tedeschi stanno tagliando il ramo su cui sono seduti.
Ma noi, rileggendo l’intervista a Schäuble, riusciamo a trovarci d’accordo soprattutto sul titolo: “Non tutti hanno ancora compreso la nostra strategia”. Vero. Ma la cosa non è priva di effetti. Se ai tempi dei sovietologi gli esperti si dividevano sul significato da dare ad alcune sibilline affermazioni dei membri del politburo, e i governi occidentali agivano di conseguenza, tra lunedì (asta Btp) e giovedì (asta di Bonos) qualcuno comprerà o no titoli italiani e spagnoli anche a seconda delle frasi di questa intervista che riterrà decisive.
Se i mancati acquisti prevarranno, i rendimenti dei titoli di Stato italiani e spagnoli saliranno ulteriormente. E la fine dell’euro sarà più vicina.
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