Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 8 marzo 2014

La doppia sfida di Tsipras: cambiare l’Europa e la sinistra

       
La doppia sfida di Tsipras: cambiare l’Europa e la sinistra
         

Pubblicato il 7 mar 2014

di Teresa Pullano – il manifesto
Il leader greco è l’erede dell’eurocomunismo. La sua scommessa è quella di un’Europa antiliberista. La posta in gioco è la conquista dello spazio continentale. Superando l’euroscetticismo nazionalista di una parte delle sinistre
Ale­xis Tsi­pras, can­di­dan­dosi a pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea, fa una scom­messa: non ci sarà Europa se non sarà espres­sione di una sini­stra anti­li­be­ri­sta. Vice­versa, non c’è futuro per un pro­getto di demo­cra­zia radi­cale al di fuori dello spa­zio euro­peo. Per dimo­strare la vali­dità di que­sto assunto, Tsi­pras deve affron­tare due sco­gli: la dif­fi­coltà di un’azione poli­tica su scala con­ti­nen­tale e l’assenza di un popolo euro­peo. Se le forze riu­nite intorno a Syriza saranno capaci di ridare il potere di deci­dere ai cit­ta­dini, e di farlo su scala con­ti­nen­tale, allora si potrà chiu­dere una fase sto­rica comin­ciata nel 1989: quella del pen­siero unico neo­li­be­rale.
Defi­nire l’Europa come ter­reno di lotta non va da sé. Le isti­tu­zioni euro­pee sono viste come stru­menti al ser­vi­zio delle éli­tes libe­ri­ste. Lo si è visto al con­gresso della Linke, a metà feb­braio: la prima ver­sione del pro­gramma per le ele­zioni euro­pee indi­cava nella Ue del dopo Maa­stri­cht la causa di una delle «mag­giori crisi eco­no­mi­che degli ultimi 100 anni». Dopo le accuse di anti­eu­ro­pei­smo la frase incri­mi­nata è stata rimossa. Ma la spac­ca­tura, pro­fonda, rimane intatta, in Ger­ma­nia e nel resto delle sini­stre euro­pee. In Gre­cia, i comu­ni­sti del Kke hanno una posi­zione anti­eu­ro­pei­sta. A Roma il 12 aprile si terrà una mani­fe­sta­zione dei movi­menti con­tro le poli­ti­che di auste­rità. Alcune delle orga­niz­za­zioni che vi par­te­ci­pe­ranno, come Ross@, chie­dono la «rot­tura dell’Unione euro­pea», altre la fine dell’euro. Un esito affatto mal­vi­sto da un eco­no­mi­sta come Emi­liano Bran­cac­cio, che ne ha scritto sullo scorso numero di Sbi­lan­ciamo l’Europa.
La posi­zione di Tsi­pras è all’opposto. Nel suo pro­gramma si legge che la zona euro è lo spa­zio più appro­priato per rea­liz­zare poli­ti­che redi­stri­bu­tive e di pieno impiego. Que­sto per­ché «l’unione mone­ta­ria, come entità uni­ta­ria, ha mag­giore libertà nelle deci­sioni poli­ti­che rispetto ai sin­goli stati mem­bri presi sepa­ra­ta­mente». È il primo punto chiave: lo scon­tro a sini­stra è sul livello geo­gra­fico, eco­no­mico e poli­tico, sul quale porsi. Tsi­pras si tro­verà di fronte a una duplice sfida: riu­scire a unire i lavo­ra­tori, fram­men­tati a livello nazio­nale, e iden­ti­fi­care i con­torni dello spa­zio euro­peo, che è com­po­sito e ben diverso dall’omogeneità sia della nazione che dell’orizzonte glo­bale dell’internazionalismo clas­sico. Non si può dar torto a chi sostiene, come gli autori del libro En finir avec l’Europe (La Fabri­que edi­zioni, Parigi, 2013), a cura di Cedric Durand, che i lavo­ra­tori non sono orga­niz­zati a livello euro­peo: men­tre le classi domi­nanti sono potenti e coor­di­nate su scala con­ti­nen­tale e inter­na­zio­nale, i movi­menti sociali e le orga­niz­za­zioni della sini­stra sono anco­rati ai ritmi e agli spazi nazio­nali. Per Durand e i suoi co-autori i lavo­ra­tori non influen­zano il pro­cesso di inte­gra­zione e non dispon­gono dei mezzi per farlo. Il livello nazio­nale è dun­que l’unico al quale tor­nare. Si potrebbe obiet­tare che c’è un errore di pro­spet­tiva: come la nazione è stata il piano delle lotte di classe per gli ultimi due secoli, e i primi ad accor­ger­sene, e ad usarla in que­sto senso, furono pro­prio gli inte­ressi della bor­ghe­sia, allo stesso modo oggi que­sta fun­zione è svolta dallo spa­zio euro­peo. Nulla impe­di­sce di appro­priarsi di que­sta nuova forma dello stato e di tra­sfor­marla, com’è acca­duto per le nazioni. Nello stesso tempo, Tsi­pras deve riu­scire a coor­di­nare le lotte dei lavo­ra­tori in Europa. Deve costruire luo­ghi d’incontro e stru­menti di lotta che cam­bino le poli­ti­che euro­pee di cir­co­la­zione dei lavo­ra­tori e dei ser­vizi.
La seconda sfida è come ridare potere deci­sio­nale ai cit­ta­dini in man­canza di un popolo euro­peo. L’Europa sarà demo­cra­tica o non sarà. L’obiettivo poli­tico per eccel­lenza, scrive Tsi­pras, è la rior­ga­niz­za­zione demo­cra­tica dell’Unione euro­pea, che si declina in ter­mini di diritti sociali e poli­tici. Per garan­tirli biso­gnerà raf­for­zare il bud­get comune, dare potere ai par­la­menti nazio­nali di stan­ziare le risorse neces­sa­rie e rin­for­zare il ruolo del Par­la­mento euro­peo. Que­sto però non basta: un’Europa demo­cra­tica, nella quale i cit­ta­dini ricon­qui­stano un potere deci­sio­nale, si potrà avere solo se le masse popo­lari, e le loro lotte, rie­scono a inter­ve­nire sulla forma che lo Stato sta pren­dendo su scala euro­pea. Solo se i par­titi, i movi­menti, i cit­ta­dini riu­sci­ranno a fare pro­prio lo spa­zio euro­peo, a pro­durlo loro stessi, e non a subirlo o ad igno­rarlo ripie­gan­dosi sulla falsa que­stione dell’identità nazio­nale, allora si potrà avere una demo­cra­zia euro­pea in assenza di un popolo, nel senso moderno del ter­mine. Il popolo emer­gerà dalle lotte poli­ti­che, costi­tuenti sia dello spa­zio che del sog­getto demo­cra­tico. Il filo­sofo greco Nicos Pou­lan­tzas, che Tsi­pras ha citato non a caso nel suo tour ita­liano e nella visita al mani­fe­sto, la chia­mava «la via demo­cra­tica al socia­li­smo». Una visione che non ha nulla a che vedere con il socia­li­smo libe­rale: signi­fica che l’oggetto della lotta è la tra­sfor­ma­zione radi­cale dello spa­zio statuale.

venerdì 7 marzo 2014

Marco Travaglio: “La grande vuotezza”

Pubblicato su     


Toni_Servillo_La_grande_bellezza_foto_di_Gianni_Fiorito(Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Dopo gli Oscar per i migliori film, ci vorrebbe un Oscaretto per i migliori commenti italiani agli Oscar. Provinciali, retorici, cialtroni, pizzaemandolineschi. Un po’ come dopo le partite dei Mondiali quando vince l’Italia: il patriottismo ritrovato, l’orgoglio tricolore, il riscatto nazionale, l’ottimismo della volontà, la metafora del Paese che rinasce, il sole sui colli fatali di Roma. Questa volta però, con l’Oscar a La grande bellezza, c’è un di più: l’esultanza di chi s’è fermato al titolo, senza capire che è paradossale come tutto il film. Ecco: quello di Sorrentino è il miglior film straniero anche e soprattutto in Italia. Il Corriere fa dire al regista che “con me vince l’Italia”, ma è altamente improbabile che l’abbia solo pensato: infatti ha dedicato l’Oscar alla famiglia reale e artistica, al Cinema e agli idoli adolescenziali (compreso – che Dio lo perdoni – Maradona, inteso però come il fantasista del calcio, non del fisco). Eppure Johnny Riotta, sulla Stampa, vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio B., poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’“avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. Ora magari Ghedini e Coppi allegheranno l’Oscar all’istanza di revisione del processo al Cainano. “Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino – ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano sente “l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, erede diretto dei Vandali, Visigoti e Lanzichenecchi, vaneggia di “investire nella bellezza di Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”. Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande bellezza”. Il sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così difficile distinguere un film da una guida turistica della proloco?
In realtà, come scrive Stenio Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.

Guido Viale

La nostra lista nata dal basso e dei territori
risposta di Guido Viale alla lettera di Carlo Formenti su Alfabeta
C’è ovviamente una vena di disprezzo per gli “intellettuali” – da contrapporre alla “rude razza pagana” o alle “mani callose” degli operai - nell’appellativo “partito dei professori” che Carlo Formenti, in una “Lettera aperta ai compagni della sinistra radicale sulle elezioni europee”, pubblicata da Alfabeta, affibbia alla lista “L’altra Europa per Tsipras”.
 
La cosa curiosa è che tra i sette garanti della lista solo due sono professori, gli altri no. Lo è invece l’autore di quell’articolo. È un approccio al problema del lavoro intellettuale ancora diffuso negli ambiti più tradizionalisti di una sinistra ormai defunta, che può anche essere la manifestazione di una sana diffidenza. Ma quando è alimentato dall’alto mi ricorda l’intervento di un operaio (senza mani callose) che nel corso di una recente assemblea aveva così esordito: “Gli intellettuali, scusate la parola, ecc…”.
Conosco Carlo Formenti soprattutto attraverso i libri (scusate la parola…) che ha scritto, ma stavolta questo professore in incognito ha fatto cilecca. Non sa niente e crede di sapere tutto. Non sa niente perché nella fase della sua costituzione, della lista “L’altra Europa” non si può sapere quasi niente, se non parlando, ma Formenti non lo fa, del contesto in cui è nata o della domanda sociale, politica e culturale a cui cerca di dare risposta. Una risposta in gran parte da definire attraverso il concorso dei movimenti a cui la lista fa appello, mettendo a frutto la loro esperienza, le loro buone pratiche e anche, ovviamente, il contributo degli “intellettuali” che hanno dato la loro adesione.
Invece Formenti sembra già sapere che in quella lista, o verso quella lista, convergono Vendola, che ha appena affrontato – e perso - un congresso in cui proponeva esattamente il contrario, Civati e i cinque stelle dissidenti, che per ora stanno facendo tutt’altre operazioni, Toni Negri che ha detto che appoggia Tsipras ma le lezioni non gli interessano, Bifo che gli ha inviato un assist alla propria candidatura “di puro marchio democristiano”, Casarini (ma l’ha imbroccata per puro caso), ecc. E sbaglia persino sostenendo che Paolo Flores e Barbara Spinelli (che scrive su la Repubblica) fanno capo al Fatto Quotidiano.
Ma le critiche sostanziali di Formenti riguardano due questioni: l’idea di cercare una “terza via” tra mercatismo ed euroscetticismo e le modalità di scelta dei candidati. A Formenti non piace l’espressione “terza via” che gli ricorda Blair; ma è una questione nominalistica, perché la terza via di Blair e dei suoi epigoni rientra a pieno titolo nel mercatismo - o liberismo - mentre la strada proposta da Tsipras e dalla lista “L’altra Europa” respinge tanto il liberismo imperante nella governance europea, e non solo, quanto l’idea di salvarsi attraverso un recupero delle sovranità nazionali in campo monetario, fiscale, tariffario, ecc.
Formenti non dice se condivide o no questa “seconda via” (ben riassunta nella proposta di “uscire dall’euro”) e liquida la questione affermando che “questa Europa può solo essere distrutta per costruirne dal basso un’altra sulle sue ceneri”. Non si capisce però se per distruzione e ricostruzione “sulle ceneri” Formenti intende che dobbiamo passare anche noi per un disastro come quello della Grecia (“ceneri”); oppure sciogliere il vincolo europeo per tornare alle sovranità nazionali (“quest’Europa può solo essere distrutta”); però sa già che “i professori” di queste cose non vogliono parlare. E perché? Di che altro si dovrebbe parlare in questa campagna elettorale per definire un percorso che eviti sia il mercatismo imperante che l’euroscetticismo (e il fascismo) in ascesa?
In realtà, mettendo insieme l’appello dei “professori”, cioè dei promotori della lista e la dichiarazione programmatica di Tsipras, che i promotori (ora garanti) hanno condiviso, abbiamo un programma politico quasi completo, certamente da articolare, integrare, approfondire e correggere, con cui però Formenti non si confronta. In quelle dichiarazioni si parte proprio dal presupposto che oggi “gli Stati [europei] da soli non sono in grado di esercitare sovranità” e che per questo solo l’Europa può e deve cambiare fondamentalmente.
Deve darsi una nuova Costituzione, i mezzi finanziari per creare lavoro, con una politica ambientale adeguata alle dimensioni della crisi planetaria, con una riconversione del sistema produttivo dove si indicano anche i settori di più urgente intervento; deve respingere il fiscal compact, mettere al centro il superamento delle diseguaglianze e lo stato di diritto, promuovere la ricerca, l’istruzione e la cultura, affrontare mafia e criminalità organizzata e invertire rotta nelle politiche adottate contro i migranti.
Nella sua Dichiarazione programmatica, a sua volta, Tsipras precisa tre principi che impegneranno i parlamentari eletti nelle liste che lo appoggiano per offrire un punto di riferimento concreto alle lotte sociali sempre più intense contro le politiche liberiste adottate dall’UE. I tre principi riguardano la fine dell’austerità, attraverso misure che includono anche la rinegoziazione del debito e la messa in mora del suo rimborso; la trasformazione ecologica della produzione e una politica di inclusione, diretta innanzitutto ai migranti e ai diritti civili dei cittadini. Il tutto articolato in ben dieci punti che nel loro insieme costituiscono una ricostituzione dalle radici dell’Unione europea. Forse proprio quella che anche Formenti auspica, anche se, al di là del suo furore distruttivo, non ci dice che Europa vorrebbe e nemmeno se anche per lui è l’Europa il terreno fondamentale dove si decidono gli esiti di un conflitto che ancora non si è dispiegato pienamente, ma di cui si moltiplicano i focolai e che il nostro progetto cerca di consolidare in un fronte unitario.
Quanto alla scelta dei candidati, sfiderei Formenti a trovare un sistema più democratico di quello adottato per formare la lista L’altra Europa con Tsipras. Associazioni, comitati e organizzazioni varie, compresi i partiti che sostengono la lista, hanno presentato le loro proposte, dopo averle discusse al loro interno, a un comitato allargato a cui tutti gli interessati hanno potuto partecipare. Questo comitato ha sottoposto quelle proposte a uno screening per ricomporle secondo criteri di buon senso. In cui ha certamente un posto di riguardo la “visibilità” dei candidati per far parlare di una lista e di un programma su cui è calato il più assoluto silenzio di stampa e media. Ma i criteri sostanziali sono il rispetto di un equilibrio tra generi, di età, provenienza territoriale e appartenenza a mondi politico-culturali differenti (la lista si propone esattamente questo). Una serie di criteri che non lascia molto spazio alla discrezionalità.
D’altronde le elezioni europee consentono ben tre voti di preferenza, che possono ribaltare molte delle scelte compiute. Quanto ai “professori”, cioè ai garanti, non sono stati loro a formare le liste; il loro ruolo era quello di proporre al comitato alcune (poche) candidature di rilievo e di dirimere le questioni controverse. Formenti, ergendosi a paladino della selezione dei candidati in assemblea o tramite un voto on-line sembra aver dimenticato come si sono svolte e concluse le assemblee che hanno preceduto solo un anno fa il disastro di Rivoluzione Civile (le assemblee occupate per imporre i candidati di uno o dell’altro partito, che è quello che si voleva evitare), o come si svolgono i periodici voti on line del movimento cinque stelle, con cui, in questo caso, non si vuole avere niente da condividere.
In una non-organizzazione come la lista L’altra Europa, nata praticamente dal nulla per supplire alle carenze o rimediare alle divisioni di chi per anni si è autonominato rappresentante della sinistra, riuscendo a lasciare milioni di cittadine e cittadini senza alcuna rappresentanza e consegnandoli all’astensione, al movimento cinque stelle o a un voto al PD dato controvoglia, non credo che si potesse trovare un modo di scegliere i candidati migliore di questo.

Renzi??

Da megachip.info

**Renzi? Voluto dagli USA per svendere l'Italia**

Giulietto Chiesa: Renzi? il più adatto per una politica filo-USA. Lo
ha rivelato lui stesso quando si è paragonato a Tony Blair, un servo
degli Stati Uniti

mercoledì 5 marzo 2014 ilsussidiario.net

*Intervista di Fabio Franchini a Giulietto Chiesa*

/"È tutto spettacolo"/. Così Giulietto Chiesa, giornalista e
politico storicamente di sinistra, commenta l'operazione Renzi, spinto
a Palazzo Chigi dalla mano degli States per rispondere agli interessi
di Wall Street e per amicarsi Italia, preziosa pedina, nello
scacchiere che vede contrapposti gli Usa alla Germania della Merkel.
/"Io credo che Renzi sia la persona più adatta per fare una politica
filoamericana. D'altronde lo ha rivelato lui stesso quando si è
paragonato a Tony Blair, che è stato un servo degli Stati Uniti"/
continua Chiesa.

Dietro l'ascesa di Matteo Renzi a Palazzo Chigi non c'è solo De
Benedetti. Pare che una spinta importante sia arrivata anche dagli
States, direttamente dalla Casa Bianca.

Io credo che Renzi sia la persona più adatta per fare una politica
filoamericana. D'altronde lo ha rivelato lui stesso, senza esitazioni,
quando si è paragonato a Tony Blair, che è stato un servo degli
Stati Uniti: se lo vuole imitare vuol dire che ha questa intenzione.
Del resto il personaggio, per come si presenta, punta molto in alto e
siccome i padroni universali stanno là, dalle parti di Wall Street,
immagino che voglia puntare proprio verso quella direzione. È dunque
facile capire perché Obama è ben felice che Renzi sia al potere (e
che possibilmente vi rimanga).

Prima c'era Letta che è sempre stato etichettato come l'uomo delle
banche; a un certo punto non è più andato bene. Perché?

Enrico Letta era un uomo della vecchia guardia. Bisogna fare
attenzione ai particolari: Letta, a differenza di Obama, è andato a
Sochi. Queste cose, per chi ha il comando, sono molto interessanti; si
misurano tra di loro con i dettagli. Letta ha fatto un errore a
partecipare alle Olimpiadi invernali in Russia: ma come? Cosa ci è
andato a fare? Non si devono fare queste cose... Renzi non ci sarebbe
mai andato, ecco la differenza. Da queste piccole cose si possono
capire le preferenze dei padroni del vapore, che un tempo erano più
duttili e civili e adesso, invece, stanno diventando sempre più
prepotenti, pretendendo servitori molto più fedeli.

Renzi, come uomo "scelto" dagli Stati Uniti, va collocato nel puzzle
dello scontro politico economico Germania-Usa? Obama, più volte, ha
criticato la linea Merkel.

Io penso che lo scontro Germania-Stati Uniti sia in corso da tempo ed
entrambi i Paesi fanno i propri rispettivi interessi. Siccome la
Germania è molto forte in Europa, se io fossi al posto di Obama
cercherei di accerchiarla, togliendole ogni aiutante di campo,
isolandola. È un'operazione, ripeto, in corso da tempo. Per
esempio...

Prego.

La guerra di Libia è stato un episodio in cui i grandi alleati
americani, Francia e Gran Bretagna, si sono messi in campo, mentre la
Merkel non è andata in Libia a combattere al fianco degli Usa e della
Nato. Il terzo protagonista europeo - di un certo peso economico e
storico - è l'Italia. Conquistare pienamente l'Italia in una visione
esclusivamente atlantica è una mossa che può avere un grande
significato per il futuro. E io credo che a Washington stiano pensando
proprio a questo.

Dunque Renzi come pedina fondamentale in questo scacchiere di
rapporti di forza?

Io non ho un solo documento a sostegno di questa tesi - sono cose
che rimangono all'interno di colloqui segretissimi -, ma la mia
impressione generale è che se Enrico Letta fosse uguale a Renzi non
lo avrebbero certo cambiato; lo hanno fatto perché Renzi è molto
più filo-americano.

Dovrà dare qualcosa in cambio?

È al potere con tutti i vantaggi del caso. Lo scambio è: /"tu stai
al potere e noi facciamo quello che vogliamo fare"/. In questi casi
non è mai questione di gratitudine: quanto dai, tanto avrai.

Qualche settimana fa il Financial Times e il Wall Street Journal
hanno speso belle parole per Renzi. Ultimamente il fondo (americano)
Blackstone ha acquistato partecipazioni in Versace e Intesa San Paolo
e il magnate (americano) George Soros il 5% di Immobiliare grande
distribuzione. È un caso?

Mi sembra che, appunto, siano tutti elementi che vadano in questa
direzione. I grandi proprietari universali - come li chiama Luciano
Gallino - si consultano, si parlano e si danno segnali. Ecco, questi
sono tutti segnali in questo senso: maggiore simpatia e sicurezza
verso un governo (meno tedesco e più americano) che dà garanzie più
precise e complete.

Quello degli Stati Uniti potrebbe essere una sorta di nuovo "Piano
Marshall"?

Ma qui non c'è alcuna politica di investimenti a difesa della
libertà. Adesso si devono fare le privatizzazioni, a questo starà
pensando il nostro premier. Si deve vendere l'Italia: questo è il
progetto. I grossi pescecani della finanza aspettano proprio questo. A
dire il vero, lo aveva detto anche Letta, ma siamo al discorso di
prima: ci sono quelli che eseguono gli ordini senza tirare le briglie
e chi - poco gradito - le tira. Semmai...

Dica.

L'unico Piano Marshall possibile in questo momento sarebbe cambiare
le regole della finanza internazionale: mettere fuori legge gli
off-shore, congelare per i prossimi 50 anni un'ingente massa di
derivati e così via. Insomma, tutta una serie di medicine -
inevitabili e inesorabili - che naturalmente modificherebbero il
quadro degli equilibri finanziari a svantaggio di Wall Street, motivo
per il quale non si faranno mai.

Cosa si farà invece?

All'ordine del giorno, ribadisco, ci sono le immediate
privatizzazioni di quasi tutto il patrimonio industriale (e anche
immobiliare e artistico-culturale) italiano: è questo che ci dobbiamo
aspettare secondo la strategia dei 50 miliardi del Fiscal Compact. Gli
orizzonti sono questi. Renzi è qui per eseguire i compiti che furono
assegnati a Mario Monti.

È un bene o un male per l'Italia?

Se ci si riferisce alla finanza internazionale è un bene, ma se ci
si riferisce alla condizione umana e materiale del popolo italiano è
un male. Non può essere un fatto positivo, la gente si aspetta
tutt'altro. Naturalmente molti non hanno ancora capito, perché le
dinamiche mediatiche con le quali si promuovono queste operazioni
convincono milioni di persone che questo sia un uomo nuovo, giovane e
affascinante che mette otto donne del governo. Figuriamoci...

Il suo giudizio è dunque negativo.

È tutto uno spettacolo, e la gente, che non ne conosce le regole, ci
casca. Poi piange, a danno fatto. Nell'immediato Renzi prenderà un
sacco di voti, tutti dovuti alla speranza disperata della gente di
cavarsela. Una volta per svelare gli altarini ci volevano 5 o 6 anni,
oggi in molto meno tempo: fra un anno saremo già lì a fare i conti.
L'accelerazione della crisi rende il tutto molto trasparente...

Fonte:
http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2014/3/5/RETROSCENA-Giulietto-Chiesa-Renzi-lo-hanno-voluto-gli-Usa-per-vendere-l-Italia/475958/

mercoledì 5 marzo 2014

Syriza, lezioni greche

Fonte: micromega | Autore: Matteo Pucciarelli, Giacomo Russo Spena               
                        
po spesso la sinistra italiana si perde in futili polemiche e tende a frazionarsi. Mentre da Atene ci arriva un altro esempio. I contenuti prima di tutto: "Non conta cosa ci conviene. Conta quel che è giusto".

A un certo punto dell'intervista, che in realtà si è trasformata in una discussione sulla sinistra e sul futuro, ci sorge un sospetto rivolto verso noi stessi però: ma davvero ci siamo ridotti così male, in Italia? A valutare sempre tutto col metro della convenienza, del sospetto, senza una visione che vada oltre il proprio piccolo recinto di dubbi o certezze. Nikos Karadillion, sindacalista e segretario di Syriza ad Atene, a volte risponde così, un po' stupefatto: ok, e quindi? Non capisce, non può capire il senso di certe domande. Qui - nel bene e nel male - si professa la semplicità: nelle idee e nella pratica politica.

Un esempio? La legge elettorale. Karadillion si infervora: "Il principio della rappresentanza proporzionale per noi non deve essere relegato ad una norma. Deve essere inserito nella Costituzione". Allora ribattiamo: "Ma Syriza è prima nei sondaggi, in questo momento non vi conviene, con l'attuale maggioritario governereste senza problemi". Risposta, senza esitazione: "Conviene alla democrazia, quindi è giusto così".

Il viaggio dentro Syriza, alla ricerca dell'alchimia perfetta per la sinistra del domani, è fatto di molte sorprese. Un mito assoluto da queste parti è Pietro Ingrao. Ma in generale le vicende e le intelligenze dei vari Lucio Magri, Luigi Pintor, Rossana Rossanda e più recentemente Fausto Bertinotti sono tenute in grande considerazione. "Ci fa un po' di tristezza vedervi adesso, così divisi", ammettono e sembra un dispiacere vero. Sono ancora (quasi) tutti comunisti e non se ne vergognano affatto, "però cambiano le stagioni e il modo di affrontare i problemi, nulla resta immutabile e non ci si può fossilizzare sulle identità".

Ci sono le elezioni europee, gli iscritti si sono votati le liste con un referendum interno ed è stata la prima volta. Chiediamo con una certa malizia del perché un ex esponente del Pasok (i socialisti, ora praticamente spariti dopo quasi 40 anni di strapotere) è stato candidato con Syriza alla carica di governatore del Peloponneso. "Perché è una persona di valore. E ha ammesso di aver fatto delle valutazioni sbagliate. Nella vita si cambia idea. Che male c'è?". Ma siccome non ci basta, allora la buttiamo lì: "Non è che siccome i consensi aumentano cercate sponde al centro?". Siamo pur sempre italiani no? Noi parliamo del centro sin dalla culla. Ci risponde di nuovo Karadillion, perentorio: "Di fronte a una crisi del genere, economica e culturale, moderare la radicalità nella richiesta di cambiamento può solo essere perdente".

martedì 4 marzo 2014

Elezioni europee

Pubblicato il · in alfapiù, società · 15 Commenti
claire fontaine, change3Andrea Fumagalli
Sul fatto che queste elezioni Europee non modificheranno nulla non è difficile immaginarlo. Basta una semplice analisi della struttura del biopotere oggi esistente. L’Euro di Maastricht – così come è stato costruito – è come un manganello che ti pesta violentemente quando vai in piazza. Prendersela con il manganello, senza pensare a chi lo usa, e perorare la causa di vietare il manganello (ovvero, fuor di metafora, uscire dall’Euro) non solo è inutile ma potrebbe dare adito a soluzioni peggiori (l’uso della pistola?).
Ma prendersela con il poliziotto che usa il manganello non risolve comunque il problema. Draghi e la Bce, insieme alla troika, non sono altro che fedeli esecutori (come lo è il poliziotto zelante, che sempre più spesso, a Genova 2001 come in Grecia oggi, va anche al di là del suo mandato). Il cuore del problema è l’oligarchia finanziaria a livello globale. Èa questo livello, sfuggevole, non definibile, non immedesimabile in un “nemico” in carne ed ossa (il padrone) o in una istituzione pseudo-sovrana (lo Stato o l’UE) che occorre porsi e dal quale occorre partire per poter immaginare scenari diversi e alternative future. Come scalfire, ridurre, combattere questo potere finanziario, moderno Golia di fronte a tanti piccoli potenziali David ma impossibilitati nell’agire?
Sono possibili circuiti finanziari alternativi in grado di fare “esodo” all’interno e contro i dispositivi di comando, controllo e ricatto che oggi vengono agiti contro le popolazioni e le varie moltitudini dell’Europa e del Mondo? Sul blog di Effimera, è iniziata una discussione su questo tema e sulla possibilità di pensare, come strumento di contro-potere all’oligarchia finanziaria, un’Istituzione finanziaria del comune e una moneta del comune, per la cui analisi si rimanda a: http://quaderni.sanprecario.info/category/effimera/comune-reddito-moneta/. Qui si gioca la partita e da qui si comincia a discutere, come premessa e analisi prepolitica dal cui esito dipende poi lo sviluppo di forme organizzative, di modelli di comunicazioni e di rappresentanza che siano adeguate alla posta in gioco e non semplici retaggi di un passato che oggi non c’è più.
È facile criticare il tentativo della Lista Tsipras da chi si fregia di fare il purista (come Formenti) senza preoccuparsi di individuare alcuna alternativa, perché troppo impegnato a criticare tutto e tutti. Stare seduto sulla collinetta della purezza potrà pure permettere di osservare le tristi vicissitudini umane di questi anni, i singulti di reazione, le meschine operazioni di repressione sociale, l’opportunismo culturale e politico, ecc., ma finché non si avrà il coraggio di scendere nell’agone, sporcarsi le mani, tentare e sbagliare, ritentare e risbagliare, nulla cambierà.
La Lista Tsipras è uno di questi tentativi, probabilmente il meno adeguato per noi in Italia, probabilmente importante per la Grecia dove gli equilibri politici sono diversi, ma credo che sia un tentativo che possa essere laicamente fatto. Purché non sia l’unica proposta in campo e non sia a sua volta il prodotto della triste nomenklatura che ha portato alla morte la sinistra radicale italiana.
Ciò che conta, infatti, a partire dalla critica del presente, è la ricerca di una prospettiva per il futuro. Questo obiettivo – qui da noi (può essere diverso in altre parti del mondo) – non può essere solo pensato all’interno dell’istituzionalizzazione (elettorale) della necessità di trasformazione radicale che il presente ci impone (in quanto si sviluppa su un terreno, quello istituzionale, che non lo consente), ma non lo è neanche all’interno di una ideologia pura sganciata dalla praxis e autoreferenziale.
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Carlo Formenti, Lettera aperta ai compagni della sinistra radicale sulle elezioni europee

Il trionfo del capitale industriale in Italia

 

di Pasquale Cicalese

“Se si guarda il costo del lavoro reale, salari più oneri sociali al netto dell’inflazione, fatto 100 il 2007 ora siamo a 87. Una riduzione di 13 punti, la stessa che c’è stata in Spagna, tanto celebrata per la sua riforma del lavoro, dove la disoccupazione è però doppia di quella italiana. Diminuire le ore lavorate e i salari può avere un senso in un momento di crisi, ma non consente di far ripartire la domanda interna” Enrico Giovannini, ex Ministro del Lavoro del Governo Letta, intervista a Il fatto quotidiano dell’11 febbraio 2014.

Il numero magico è 30%, questo è il livello di svalutazione salariale che ha in mente il padronato italiano, un numero che Letta non garantiva: da qui il feroce attacco di Confindustria. In termini numerici parliamo di una cifra compresa tra 30 e 35 miliardi di euro, tale da pareggiare la deflazione salariale tedesca degli ultimi 12 anni, e ridurre il gap della produttività. La cifra è stata fornita da Cottarelli, ex Fondo Monetario, incaricato di approntare la Spending Review. La guerra di Confindustria ha ormai spostato il tiro. Dopo aver massacrato le “terze persone” che si annidano nel terziario e nella rendita immobiliare, l’oggetto di attacco sono le “terze persone” che affollano la pubblica amministrazione, soprattutto i livelli medio-alti.

Facile sopprimere le Province, ora l’attacco è diretto, e fulmineo, contro le Regioni, i veri centri di spesa pubblica che dominano dal 2001, da quando cioè il centro-sinistra varò la riforma del Titolo V. Da settimane il loro organo di stampa, Il Sole 24 Ore, spara bordate pazzesche contro il federalismo, omettendo di dire che negli anni novanta furono proprio gli industriali a volerlo. Altri tempi, altri imbecilli che dirigevano Viale dell’Astronomia. Da 3 anni il centro studi è diretto da Luca Paolazzi, che sulle regioni spara da anni bordate paurose. Lo stesso, nelle sue varie Congiunture Flash, ritiene che la deflazione in corso nel nostro Paese serva per riallineare i prezzi e i salari al “core” europeo, vale a dire tedesco, e per riguadagnare “competitività”. Giovannini, ex Ocse, già Presidente dell’Istat e profondo conoscitore delle dinamiche economiche italiane, la pensava diversamente e non mancava occasione, da ministro, per accusare le imprese dei loro pluridecennali scarsi investimenti in ricerca e innovazione, vero simbolo della scarsa competitività dell’apparato manifatturiero italiano. Al suo posto va Poletti, uno che la deflazione salariale la sa applicare nelle sue cooperative. Si profila dunque il trionfo del capitale industriale associato al capitale monetario. C’è però da fare una precisazione. E’ solo una parte del capitale industriale che può cantare vittoria: settori legati alla costruzione o fortemente dipendenti dal mercato interno arretrano paurosamente, per lasciare il posto a settori dell’agroalimentare, dei macchinari, della meccanica di precisione e dell’elettrotecnica che riescono a respirare con il commercio estero, in ogni caso stazionario nel 2013. Leggendo cronache locali dei giornali del nord pare inoltre che si stia assistendo ad un parziale processo di concentrazione manifatturiera, con i piccoli divorati dalle imprese del “quarto capitalismo” o dal capitale estero, principalmente tedesco. Il modello della subfornitura pare essere giunto al tramonto definitivo, buona parte della perdita della capacità produttiva, dell’ordine del 25%, sembra addebitarsi alla loro scomparsa, seguiti in questo dalla marea di artigiani e persone legate al terziario industriale ormai massacrati, serbatoio della destra italiana futura. La parte più arretrata del settore produttivo italiano è ormai marginale, chi resiste ha come prospettiva il credit crunch, dunque una vita breve. La centrale finanziaria italiana, Banca d’Italia, ritiene che questo processo di “ristrutturazione” debba essere definitivamente completato, esortando le banche a concedere prestiti solo a chi lo “merita”, con gli imprenditori che ci mettono capitali propri. Rimane dunque il fronte d’attacco al settore pubblico per reperire quelle masse di capitali utili alla deflazione salariale e a quello che può essere ritenuto a tutti gli effetti “ protezionismo fiscale”, con la formula “più Stato per il mercato”. Alla concentrazione manifatturiera si risponde con la centralizzazione dei processi decisionali pubblici, più rispondenti alle esigenze degli industriali giacché tolgono sovrapposizioni decisionali e possono incidere maggiormente con attività di lobbying. Il numero magico da raggiungere, ripetiamo, è 30% di riduzione salariale, da una parte per via monetaria, attraverso il nuovo modello di contrattazione di secondo livello, che annulla di fatto il contratto nazionale grazie al neocorporativismo della triplice sindacale, l’altra per via fiscale, attraverso enormi masse di denaro pubblico per imprese proiettate verso il mercato mondiale: il 13%, come accennava Giovannini, è stato raggiunto, rimane un ulteriore 17%. Le fonti finanziarie sono gli incentivi a fondo perduto di gestione regionale, le spese delle regioni e i fondi strutturali europei, che verranno utilizzati per “grandi progetti” utili alle imprese ben introdotte nelle commesse pubbliche (Federica Guidi è la donna adatta a questo scopo), finendola con le migliaia di micro progetti che hanno fatto la fortuna negli ultimi vent’anni dei dirigenti delle regioni, a cui si assesterà un colpo micidiale con la riforma del “Titolo V”: e anche queste “terze persone” saranno accompagnate all’uscio per dare spazio solo i profitti industriali. Il direttore generale di Confindustria vede un altro capitolo dove trovare risorse: la lorra all’evasione fiscale. Dopo aver sbattuto fuori dall’arena le micro e piccole imprese, gli artigiani e le “terze persone” del capitale commerciale, Viale dell’Astronomia pensa di rastrellare da loro le risorse per ridurre la fiscalità del lavoro. Dunque si ripropone la lotta tra capitale industriale e capitale commerciale, in vigore dal 2008.

Da un punto di vista marxiano il capitale industriale italiano ha finora adottato tre controtendenze alla caduta del saggio di profitto: la riduzione del capitale costante, sia attraverso delocalizzazioni, sia mediante il ricorso a fornitori dei paesi emergenti, a scapito di quelli interni ( processo iniziato a partire su per giù dal 2006); la svalorizzazione della forza lavoro, che colpisce ora anche fasce medie del settore pubblico; la concentrazione manifatturiera, che dal 2013 inizia i primi passi.

Mancano all’appello il ricorso al mercato azionario e la conquista del mercato estero, due pilastri della controtendenza alla caduta del saggio di profitto in assenza dei quali, specie il primo, la strategia del capitale industriale italiano sarà fallimentare. Sempre la centrale finanziaria italiana, succursale della Bce, la Banca d’Italia, ribadisce in ogni occasione pubblica il ricorso al “mercato dei capitali”, anche attraverso emissioni obbligazionarie. E’ per tale motivo che il vice direttore Panetta lo scorso mese ha quantificato in 150 miliardi di capitali la massa che le imprese italiane dovranno reperire nei mercati azionari e obbligazionari. Qualcuno lo sta facendo, Confindustria stessa invita i suoi associati a farlo, ma detto processo non coinvolge la masse del quarto capitalismo, ragion per cui la riduzione salariale da loro prospettata si rivelerà per loro un boomerang via crollo ulteriore della domanda interna.

Il capitale industriale italiano scopiazza un po’ il marxismo e per certi versi gli riesce. Il proletariato italiano si affida invece ad un comico. La tragicommedia italiana è tutta qua.

Impostura mondiale

Impoverimento e ineguaglianza nel mondo negli ultimi 40 anni

Riccardo Petrella

Negli ultimi mesi a seguito anche della risoluzione finale di Rio + 20 “il futuro che vogliamo” sono apparse una serie di rapporti e documenti da parte di organi pubblici mondiali (ONU, Banca Mondiale, OCSE,…) e privati (World Economic Forum, rapporti di banche, fondazioni private e altri organismi) i quali tentano di veicolare chi più e chi meno esplicitamente, la tesi che il mondo starebbe andando sulla buona strada per giungere verso il 2030 all’eliminazione totale della povertà “estrema”. Lo scopo del testo pubblicato qui di seguito è di fornire conoscenze e alcuni dati essenziali per rendersi conto della impostura mondiale rappresentata da tale tentativo.


1. Il contesto: dopo lo smantellamento dello Stato
del welfare, il salvataggio del capitalismo allo sbando. Il grande cambio in quaranta anni.
Nel secolo scorso, la lotta contro la povertà e lo sfruttamento dei lavoratori e dei contadini trovò in Occidente uno sbocco piuttosto positivo nel Welfare, il sistema di ricchezza/sicurezza sociale generalizzata fondato sulla piena occupazione ed il ruolo motore dell’investimento pubblico per la produzione e l’accesso ai beni e servizi comuni essenziali per la vita ed il vivere insieme (acqua, scuole, ospedali, trasporti pubblici, case popolari, polizia, magistratura, sicurezza energetica…). 
La variante scandinava del Welfare si dimostrò la più avanzata, seguita a distanza dalle varianti olandese, tedesca, inglese, belga e francese. Nei paesi dell’Europa del Sud, il Welfare è rimasto su posizioni meno progressiste anche se ben superiori alla variante nordamericana statunitense, caratterizzata da un welfare individualista basato sull’assistenza (e non la sicurezza sociale) ed un mutualismo capitalista. (1)
A livello mondiale, una volta ultimati (negli anni ’60) i processi di decolonizzazione, soprattutto in Africa ed in Asia, la politica di “aiuto allo sviluppo” da parte dell’Occidente auto-definitosi “sviluppato” e quindi modello da adottare per le ex-colonie, permise ai paesi “aiutanti” di “estendere” alle ristrette classi privilegiate locali il nostro modo di sviluppo facilitando così l’appropriazione/esproprio delle ricchezze prodotte dalle ex- colonie a nostro vantaggio e a quello delle “élites” locali. A partire dagli anni ’70, le politiche dette di ” aggiustamento strutturale” resero “lo sviluppo” dei paesi “aiutati” ancor più “integrato”, cioè sottomesso agli interessi dei poteri economici e finanziari forti dell’Occidente, indebolendo persino le classi privilegiate locali in un contesto di crescente e definitivo indebitamento dei paesi ” in via di sviluppo” nei confronti della finanza mondiale occidentale. La liberalizzazione ineguale e sbilanciata del commercio internazionale, la generalizzazione dei diritti di proprietà intellettuale sui semi e, in generale, sul capitale biotico terrestre, in mano delle grandi imprese multinazionali occidentali, e lo spostamento della produzione “industriale” dai paesi dell’Occidente verso gli altri continenti in condizioni vantaggiose per l’Occidente, hanno completato i meccanismi di produzione ed espansione delle ineguaglianze socio-economiche e politico-culturali nel mondo. Ciò, nel contesto di una pretesa ” integrazione economica globale (2).
L’ emergenza ” di isole forti di ricchezza in Cina, India, Russia,Brasile all’insegna dell’economia di mercato, dei consumi di massa e dell’espansione della finanza capitalista globale, in congiunzione al mantenimento e/o rafforzamento di profonde e crescenti disuguaglianze interne, rappresentano il consolidamento dell’«integrazione» di detti paesi, anche in posizione di forza, nel sistema economico di mercato capitalista “globale”. Un sistema strutturalmente produttore d’ineguaglianze e d’ingiustizia, specie in assenza di un Welfare mondiale (all’europea). (3) Si é trattato della concretizzazione dello scenario “Arcipelago Mondo” identificato come uno scenario fra i più plausibili e probabili agli inizi degli anni ’90 dall’équipe FAST (Forecasting and Assessment in Science and Technology ) della Commissione europea (Comunità europee) a Bruxelles, da me diretta tra il 1979 ed il 1994. (4) In effetti, è successo pari-tempo in Occidente, che i principi, le regole e gli strumenti del Welfare di tipo europeo sono stati, a partire dagli anni ’70, messi in discussione, poi rigettati e smantellati, anche nei paesi scandinavi. Gli anni ’90 ed il primo decennio di questo secolo sono stati gli anni della definitiva demolizione non solo dello Stato del Welfare ma anche della Società del Welfare . In Occidente, la “rabbia” dei gruppi dominanti contro lo Stato del Welfare è stata e resta più grande nei paesi caratterizzati da grandi diseguaglianze sociali quali gli Stati Uniti, l’Italia, la Spagna, il Regno Unito. Così, oggi, i costi della crisi in cui versa da un ventennio il capitalismo finanziario di mercato globale non sono stati pagati dai gruppi sociali all’origine della crisi – i proprietari e i managers mandatari del capitale finanziario (gli azionisti che contano, i grossi ” shareholders”) e del capitale “industriale” e commerciale (“i portatori d’interesse”, gli” stakeholders”) – ma dalla frangia più bassa delle classi medie e soprattutto dalla grande maggioranza dei cittadini, di coloro la cui sola ricchezza è il lavoro, il loro tempo di vita (gli operai, i contadini, gli impiegati, i pensionati). (5)
Imponendo l’imperativo “salviamo le banche” (cioè “salviamo la ricchezza dei ricchi”), i gruppi dominanti, colpevoli della crisi, non hanno nemmeno cercato di nascondersi dietro formule ipocrite quali “salviamo l’economia dei nostri paesi”. Inoltre, l’idea “salviamo i più deboli, i più poveri”non è mai passata loro per la testa. Il che è del tutto logico nell’attuale sistema dominante. Si tratta di una storia fatta paradossalmente di rotture e di continuità che mostra che i fattori all’origine dei processi di creazione della povertà possono essere eliminati (i paesi scandinavi fino agli anni ’70) ma ritornano forti e potenti in azione quando l’ineguaglianza e l’ingiustizia dominano i sistemi di valore dellasocietà (sistema economico e finanziario attuale). (6) Una storia che si traduce, ai giorni nostri, in tante falsità e contraddizioni che hanno avvinghiato e asfissiato le nostre coscienze e capacità di azione in una grande impostura mondiale consistente a far credere che le nostre società sarebbero sulla buona strada verso la realizzazione dell’obiettivo dell’eliminazione della povertà nel mondo.
L’impostura sulla povertà
Possiamo identificare tre espressioni principali dell’impostura sulla povertà che sono, a mio parere, da tenere distinte dalle tesi e credenze all’origine delle fabbriche della povertà descritte nell’ ”opera collettiva”, Le fabbriche della povertà, del 2013 (7)
L’impostura scientifica, monetarista e mercantile
Essa si é imposta attraverso la pretesa di poter misurare scientificamente in maniera adeguata lo stato di povertà di una persona e, da lì, di una categoria sociale, di un’economia nazionale, di un paese, di una regione o città, unicamente attraverso un indicatore semplice, monetario, la quantità di dollari disponibili al giorno pro capite per l’acquisto di beni e di servizi ai prezzi di mercato (locale), definita “soglia della povertà”. Ciò, malgrado le ammissioni ed i riconoscimenti teorici ed empirici da parte di tutti, esperti e non, che la povertà non è né può essere ridotta ad una questione di reddito monetario, ancor meno di “potere d’acquisto”. La povertà – o, meglio, l’impoverimento – è un fenomeno multidimensionale complesso, dovuto a molteplici fattori strutturali non esprimibili in termini monetari. Esso abbraccia ed integra dimensioni economiche, sociali, culturali, politiche, antropologiche,umane. In proposito, c’è un lavoro importante realizzato a partire (solamente) dal 2010, dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (in inglese UNDP) per la definizione e la misura di un Indicatore della Povertà Multidimensionale (IMP), nel contesto più vasto della misura e pubblicazione annuale di un Indicatore dello Sviluppo Umano (ISU), già operativo fin dal 1980. (8) L’utilità dell’IMP e dell’ISU è dimostrata dal fatto che la “classifica” dei paesi in funzione dell’ISU e, ancor più dell’IMP, è differente da quella stilata in funzione di indicatori monetari quali il PIL (Prodotto Interno Lordo) pro capite (che continua ad essere considerato, ancora oggi, dai gruppi dominanti, come l’indicatore principe della misura della ricchezza di un paese). (9)
Di fronte a tale discrepanza, l’interrogativo che ci si deve porre è come mai la Banca Mondiale, l’ONU, i governi , le grandi organizzazioni internazionali, i sindacati, le Chiese delle varie confessioni religiose, le “prestigiose” università del mondo, rimangono incollate all’indicatore della “soglia monetaria della povertà”?
Una possibile spiegazione sta nel fatto che gli “altri” indicatori (fra i quali l’IMP e lo ISU) sono costruiti su postulati culturali/ideologici parzialmente critici rispetto al primato dato alla crescita economica ed ai parametri finanziari, e cercano di “misurare” obiettivi di “sviluppo” e di “giustizia” socioeconomici che verosimilmente possono creare qualche problema ai gruppi dominanti. Quando quest’ultimi pretendono di misurare la ricchezza in dollari ( non dimentichiamo che sul dollaro cartaceo v’è stampata l’affermazione “We trust with God”. Interessante il collegamento al divino di una fede nella ricchezza monetaria) compiono un atto evidente di colonialismo culturale. Escludono la possibilità stessa che possano esistere altri modi di vita e di organizzazione sociale diversi dal nostro, non fondati sul denaro e in particolare su una moneta unica “universale” . Economie del dono, il principio di gratuità della vita, la responsabilità collettiva dei costi monetari e non monetari dei beni e servizi per la vita, la non monetizzazione degli scambi fondati su relazioni umane dirette, fiduciarie, reciproche e paritarie. Autoproduzione, auto sussistenza, lavoro di cura, gestione e fruizione condivisa dei beni comuni… non vengono presi in considerazione. Inoltre, senza l’esistenza di modi di economia informali e di lavori non retribuiti (ma produttori di valori d’uso) non vi sarebbe sopravvivenza nelle favelas, nelle townships, nelle bidonvilles e nemmeno nel nostro Sud d’Italia. (10)
Ma anche all’interno delle più floride economie capitalistiche (vedi i dati del Wuppertal Institute sulla Germania) (11) ci dicono che ancor oggi più della metà del tempo di vita delle persone è dedicato ad attività lavorative non retribuite (cioè non monetizzate e mercificate). Se dovessimo conteggiare queste attività in termini monetari salterebbero i bilanci delle nazioni! Se poi dovessimo includere anche il “valore” del flusso delle risorse naturali metabolizzate dal processo di produzione della mega-macchina tecno-industriale il risultato più pernicioso sarebbe la totale monetizzazione e finanziarizzazione borsistica della Natura e della vita. (12)
Eppure, fin dal 1974, quando a seguito della crisi generaledel sistema economico finanziario messo in atto dopo la seconda guerra mondiale con gli accordi di Bretton Woods (USA) nel 1945, la comunità internazionale decise di concepire e realizzare delle politiche di riduzione e/o di eliminazione totale della povertà nel mondo, i poteri forti dell’epoca decisero, su proposta della Banca Mondiale, di fondare le loro analisi, diagnosi e soluzioni, della povertà nel mondo sul duplice concetto di povertà assoluta (o estrema) e di povertà relativa. Per “povertà assoluta (o estrema)” essi definirono la situazione di una persona avente meno di 1 $ USA per giorno pro capite, e per ” povertà relativa” la persona con meno di 2$ al giorno. (13 )
Ancora oggi, tutti i discorsi e le politiche dei gruppi dominanti in merito alla povertà si fondano su detta distinzione. Unica piccola modifica: la Banca mondiale ha proposto nel 2008 di portare le soglie di povertà a 1,25 $ per la povertà assoluta e a 2,50 quella per la povertà relativa. Beninteso, per quanto concerne i paesi detti “sviluppati” (quelli dell’area OCSE) la definizione della povertà assoluta e relativa varia da paese a paese. Ogni paese è libero di fissare la soglia della povertà. In Italia, per esempio, la soglia della povertà assoluta per una famiglia di due componenti corrisponde (nel 2012) alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi essenziali per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. La soglia della povertà relativa corrisponde a 990,88 euro per famiglia (ISTAT, rapporto del luglio 2013). Per quanto la distinzione fra povertà assoluta e relativa possa sembrare utile per i confronti internazionali e le serie temporali, i due sistemi proposti (l’uno per i paesi detti “poveri” e l’altro per i paese detti “ricchi”) hanno seccato e mistificato il senso intrinseco della realtà che si cerca di “misurare”. Errare humanum est, sed perseverare diabolicum.
Un grande errore, fondamentale, resta il fatto che le misure quantitative monetarie adottate non tengono conto della differenza della condizione dei sessi. La condizione femminile non è affatto paragonabile a quella maschile. Ancora oggi, la cultura predominante attraverso il mondo, “ fatta e imposta dagli uomini” è che i due generi non sono differenti ma inuguali. Ora , le teorie e le pratiche legate al “principio dell’ineguaglianza” sono una delle principali fabbriche di creazione dei fattori strutturali dell’impoverimento. Il che spiega che il 70% delle persone povere sono donne. Il 78% delle persone analfabete sono donne. Le donne svolgono il 67% del lavoro e ottengono il 10% del reddito e compiono la gran parte delle attività necessarie alla sussistenza, come dettagliato nel volume “Le fabbriche della povertà” dai testi sull’argomento scritti da Patrizia Sentinelli.(14) La loro condizione è destinata a peggiorare ancora di più nel passaggio ad una economia monetaria, speculativa, globale. E’ noto che i denari li gestiscono gli uomini!
L’impostura politica. I giochetti con i numeri non sono sufficienti per nascondere i processi di rafforzamento dell’impoverimento nel mondo esemplificati, fra i tanti fenomeni strutturali di aggravamento, dalla nascita dei “working poor” e dal ritorno della “predazione delle terre” su scala mondiale.
L’impostura politica sta nella duplice pretesa, primo, di considerare che un enorme risultato politico fondamentale è ottenuto azzerando il numero delle persone in stato di povertà assoluta (< 1,25 $) pur mantenendo un livello elevato di persone in stato di povertà relativa (< 2,50 $) e, secondo , di proclamare che la povertà nel mondo sarebbe interamente debellata il giorno in cui nessun abitante del pianeta vivesse con meno di 2,50 $ ! E’ l’impostura operata da tempo da parte della Banca mondiale con l’accordo dell’ONU e di alcune delle sue principali agenzie direttamente coinvolte nella “lotta” contro la povertà. Inoltre, specie a partire a partire dal 2005, l’impostura si é espressa attraverso la tesi che le politiche condotte in questi ultimi venti anni avrebbero dimostrato di essere buone ed efficienti. Esse avrebbero realizzato in anticipo l’obiettivo fissato nel 2000 con gli Obiettivi dello Sviluppo del Millennio (ridurre di metà i poveri assoluti).
Pertanto, continuando sulla loro linea si arriverà, affermano la Banca mondiale e l’ONU, a eliminare del tutto nel 2030 il miliardo di persone ancora oggi in povertà assoluta.(15) Anzitutto occorre insistere sull’estrema fragilità scientifica della differenza tra le due soglie. Secondo i suoi promotori la differenza di 1,25 $ raffigurerebbe la differenza tra la miseria e la povertà. Non sono convinto che sia serio di brindare come se fosse una grande vittoria contro la povertà il giorno in cui il numero dei poveri assoluti sparisse ma rimanessero ancora circa tre miliardi di poveri relativi (con meno di 2,50$) ! Inoltre, come ben sanno tutti i dirigenti del mondo, la tanto proclamata riduzione di metà del numero dei poveri assoluti nel mondo è il risultato della situazione in Cina la quale ha informato che tra il 1981 ed il 2010 essa aveva fatto uscire dal campo dei poveri assoluti circa 700 milioni di cinesi.
Secondo il governo cinese le persone con meno di 1,25$ al giorno sarebbero scese al distotto dei 300 milioni dal miliardo di 25 anni fa. Molti conoscitori della Cina hanno dubbi sulla veridicità delle cifre e stimano che i poveri (senza casa e senza accesso all’acqua potabile, ai servizi igienico-sanitari, alla salute, ad un lavoro retribuito e dignitoso …) resterebbero sui 700-800 milioni. Inoltre, é opinione piuttosto diffusa fra i conoscitori della Cina che il grande boom economico cinese ha certamente fatto “esplodere” 300 a 400 milioni di persone che hanno raggiunto un livello di benessere economico e di consumi vicino a quello medio europeo del Sud (lo stesso dicasi dei 200 a 300 milioni di indiani). Ma, lasciando da parte ogni riferimento all’enorme degrado e devastazione dell’ambiente in Cina (lo smog urbano delle numerosi e grandi metropoli cinesi ha superato di gran lungo i già micidiali smog di Londra, della Ruhr o di Pittsburg degli anni ’60), si stima che le condizioni di salute, di lavoro e di vita di ancora 700 milioni di cinesi si siano relativamente peggiorate in un contesto di mantenimento e crescita di antiche e nuove grandi disuguaglianze socio-economiche e di potere inimmaginabili trenta anni fa. L’ineguaglianza e il rafforzamento delle ineguaglianze anche e malgrado la crescita economica è il punto centrale della questione della povertà nel mondo. E’ quel che confermano i dati qui di seguito sull’accentuazione delle ineguaglianze di reddito, dati utilizzati perché essi indicano la crescita di forti ineguaglianze non solo economiche ma anche sociali, politiche e civili.
Dai dati raccolti da Alvaredo, Atkinson, Piketty e Saetz (16) si può constatare che nel periodo 1980-2012 le ineguaglianze tra l’1% più ricco di un paese ed il restante 99% (in seno ai paesi detti ricchi) sono considerevolmente cresciute.
La ricchezza dello 1% dei più ricchi supera i 110 mila miliardi di$ pari alla ricchezza totale della metà meno ricca della popolazione mondiale. Quasi la metà della ricchezza mondiale é quindi detenuta solo dallo 1% della popolazione. Per rendersi conto delle proporzioni, si pensi che la ricchezza prodotta dal mondo nel 2012 è stata di poco superiore ai 62 mila miliardi di $ (quella italiana hasuperato di poco i 1.800 miliardi).
Il mondo è diventato più ricco, dicono i turiferari della crescita economica! E’ vero ma sette persone su dieci vivono in paesi dove l’ineguaglianza economica è aumentata nel corso degli ultimi trenta anni e l’1% più ricco della popolazione mondiale ha visto crescere la sua parte di reddito in 24 sui 26 paesi per i quali disponiamo di dati affidabili tra il 1980 ed il 2012. Inoltre, come è riportato nell’ultimo rapporto sulla povertà nel mondo di Oxfam International, presentato il 24 gennaio 2014, (17) la metà meno ricca della popolazione mondiale possiede la stessa ricchezza delle 85 persone più ricche del mondo. (18) In realtà, non è vero che quando la marea cresce tutte le barche nel porto salgono. Ci sono barche che continuano a salire anche quando la marea cala. Fuori da metafora: le crisi economiche allargano la forbice tra ricchi e poveri e quando c’è la “ripresa” i più ricchi ( cioè i gruppi economici più forti, i gruppi sociali più potenti, i paesi già dominanti) si avvantaggiano ancora di più. E’ vero che la liquidità monetaria (che veste la divisa di dollaro, yen, yuan,…) è in espansione vertiginosa e che quindi a causa del “”trickle down effect” (sgocciolamento) qualche cosa cade anche tra i contadini indiani e dell’Africa, ma ciò avviene in cambio della perdita della loro capacità di sostentamento autonoma e aumento della dipendenza dai generi di importazione.
Nel 2013, secondo la lista redatta dall’agenzia finanziaria Bloomberg, il numero dei miliardari è ancora cresciuto e le 300 persone più ricche al mondo hanno guadagnato 524 miliardi pari a poco meno di un terzo del ricchezza (PIL) prodotta nel 2013 da circa 60 milioni di italiani. La fortuna cumulata delle 300 persone più ricche al mondo (3.459 miliardi di $ ) corrisponde a due volte e mezzo il reddito disponibile dei 900 milioni di esseri umani definiti “poveri assoluti”. Ancora oggi, l’80% della popolazione mondiale vive con un reddito inferiore a 10 $ al giorno.
Da solo, Bill Gates, ha visto nel 2013 la sua ricchezza personale crescere di 15 miliardi senza aver realizzato alcun lavoro, unicamente grazie alla crescita del valore delle azioni Microsoft di cui possiede il 41%. Un altro miliardario ha “guadagnato” 14,4 miliardi di $ in quanto ricavi netti prodotti dalle sue catene di gioco (casino’) specie a Macao in Cina. A parte il commento giustificato sul fatto inaccettabile e da rigettare che un’enorme “ricchezza” (15,0 + 14,4 miliardi di $) possa essere “creata” in termini di reddito da capitale senza alcun lavoro reale compiuto dal beneficiario (caso di Bill Gates) o derivato dagli utili da casino’ (caso del proprietario dei casino’ di Macao), come si fa ad accettare come efficiente ed efficace l’esistenza e la promozione di un’economia nella quale per guadagnare i 15 miliardi di Bill Gates ci vuole un anno di lavoro a tempo pieno di 920.000 insegnanti di scuole elementari in Italia ed un operaio specializzato della FIAT deve lavorare 113 anni per guadagnare lo stipendio netto dell’Amministratore delegato della sua impresa e circa 230 anni per lo stipendio equivalente del PDG della Peugeot? E che economia mondiale razionale e giusta è quella attuale che stima efficiente e corretto che Bill Gates guadagni 15 miliardi di $ da reddito, senza lavorare, ma non é capace di permettere a milioni di affamati del mondo di incidere sulle decisioni economiche per ottenere che l’economia destini 3 miliardi di $ annui (5 volte meno dell’arricchimento di un anno di Bill Gates) durante 10 anni , investimento che secondo la FAO consentirebbe ai detti affamati, che resterebbero tuttavia dipendenti dall’aiuto dei “ricchi”, di avere almeno accesso ad un cibo sufficiente in termini di proteine al giorno? Secondo il “Quarto rapporto sulla coesione sociale in Italia”presentato il 20 dicembre 2013 dal Ministero del Lavoro, l’ISTAT l’INPS, il numero delle famiglie italiane al disotto della soglia di povertà (990 euro al mese per due adulti pari a 16,5 euro al giorno per persona) è nel 2013 raddoppiato rispetto al 2005. Oggi in Italia i poveri relativi sono circa 9 milioni di abitanti (19). Anche in Francia, il numero degli impoveriti è cresciuto negli ultimi anni raggiungendo nel 2012 più di 9 milioni. In Germania, considerata l’eldorado dell’Europa e l’allievo modello dell’economia di mercato, capitalista, finanziaria e globale, la povertà infantile è cresciuta molto più rapidamente di quella della povertà in generale, specie la categoria dei bambini residenti ma non di cittadinanza tedesca, dei bambini di famiglie con bambini e di famiglie monoparentali. Lo stesso vale per la città di Londra dove si stima che siano circa 4000 i bambini al disotto dei 6 anni in stato di povertà. (20).
Ancor più significativo delle ultime cifre è il grafico riprodotto in “Le fabbriche della povertà” (p.33) che mostra che la mobilità sociale intergenerazionale (misurata in rapporto alla non elasticità intergenerazionale al reddito) è molto bassa nei paesi caratterizzati da un elevato coefficiente di ineguaglianza di reddito quali gli Stati Uniti, l’Italia , il Regno Unito, la Spagna la Francia… Altrimenti detto, la probabilità che un padre con basso livello di reddito avrà dei discendenti “poveri” è molto elevata. I genitori ricchi, al contrario, tendono ad essere “perpetuati” da discendenti ricchi. Solo nei paesi scandinavi dove le ineguaglianze sono basse, la mobilità sociale è più alta. L’ineguaglianza nella capacità di definire le regole e di governarle, o farle rispettare dai rappresentanti democraticamente eletti, in materia di proprietà, controllo, disponibilità, accesso ed uso dei beni e servizi essenziali ed insostituibili per la vita ed il vivere insieme, significa sostanzialmente l’esclusione di molti dalla vita ad opera di valori, scelte ed azioni dei pochi , potenti, influenti, più forti.
Questo è il nocciolo della questione. I giochetti sui numeri sono uno strumento mistificatore in mano ai gruppi dominanti per manipolare la percezione della realtà. La realtà è pero’ più forte dei giochetti come dimostrano altresì due importanti “cambi epocali”, fra molti altri, ma che a mio avviso illustrano in maniera forte la natura e le modalità di espressione dell’impostura sulla povertà. Il primo é rappresentato dai “working poor“. L’impoverimento strutturale non è più un fenomeno per coloro che non hanno o non trovano lavoro e, quindi, in assenza di sicurezza sociale, non hanno accesso ad un reddito “decente”. Per decenni, vuoi secoli, lavoro e reddito sono stati strettamente collegati. Niente lavoro “remunerato”, niente reddito. Oggi anche coloro che hanno un lavoro remunerato sono considerati “poveri”. Perché anche il lavoro remunerato è diventato insicuro, mal o inadeguatamente remunerato, precario, flessibile, indifeso dalle leggi e da istituzioni corrispondenti, La loro percentuale sulle famiglie considerate povere è piuttosto elevata specie negli Stati Uniti, in Italia, in Canada, in Spagna (21). Si continua a parlare di lavoro ma si riconosce che il lavoro non garantisce più l’accesso ad un reddito “decente” per vivere. Inoltre, è raro che le classi dirigenti di oggi affermino che i “working poor” possano o siano destinati rapidamente o a termine di (ri) diventare “working rich”. Anzi i pontefici dell’economia dichiarano che le società “sviluppate” non sono più in grado di assicurare la piena occupazione e che occorre accettare il fatto che la “crescita economica” si farà nel corso dei prossimi tre/quattro decenni con una disoccupazione strutturale tra il 10 ed il 15% della popolazione in età lavorativa, ammettendo così che la “crescita” non sarà la crescita del reddito da lavoro ma del reddito da capitale. Si ha l’impressione che “i working poor” siano diventati una forma di status sociale come “i disoccupati”, ‘i disabili’, i “lavoratori stagionali”, gli “anziani” (22). In Italia, l’impostura è un atto di cui noi tutti possiamo essere considerati autori e responsabili perché il nostro paese è uno dei pochi al mondo che ha stabilito nella sua legge fondamentale, la Costituzione, che esso è una repubblica fondata sul lavoro (sui diritti ed i doveri del lavoro) Non v’è altro termine più appropriato di “impostura collettiva” per designare la situazione attuale dell’Italia che da anni ha demolito l’intero assetto legislativo, economico, sociale e politico fondato sul lavoro e sul diritto/dovere del lavoro.
Il ritorno in forza delle pratiche della predazione delle terre da parte dei più forti, costituisce il secondo fatto “epocale” intrinsecamente legato all’impostura. Mi riferisco alla legittimità con la quale operano i ‘nuovi” processi di “land grabbing” (accaparramento delle terre) nel mondo che non sono affatto legittimi. In effetti, come documentato e denunciato da anni da importanti ONG quali Via campesina, FIAN, Grain, ed anche Oxfam International, (23) l’accaparramento delle terre è strutturalmente legato a fenomeni violenti di acquisto o di appropriazione di vaste porzioni di terreno via la forza dei potenti, la furbizia, la corruzione, e molto spesso senza il consenso delle comunità che vi abitano. L’aspetto scandaloso dell’accaparramento delle terre attuale è che i terreni tolti alle popolazioni che li coltivavano per il cibo o altre attività produttive per vivere, sono utilizzati raramente per il cibo destinato alle popolazioni locali ma soprattutto per prodotti alimentari all’export, per la cultura di OGM e di alimenti per animali, e per la produzione di biocarburanti. Non solo, ma addirittura sono spesso lasciati inutilizzati. Il furto dei diritti di molte comunità e villaggi (le cui popolazioni sono costrette all’esodo) all’uso delle loro risorse naturali è aggravato dal furto delle stesse risorse utilizzate per fare profitto e non per produrre il benessere umano collettivo. L’impatto sulla creazione d’impoverimento è considerevole.
La pratica dell’appropriazione privata della terra, con le famose recinzioni delle terre (le “enclosures” dell’Inghilterra del XVII e XVIII secolo, che furono all’origine del capitalismo agrario e poi urbano), è di ritorno su scala mondiale. L’“accumulazione originaria” del capitale è un processo permanente di appropriazione di beni comuni, di una colonizzazione progressiva di tutte le sfere del vivente, comprese quelle “private”, familiari. L’impostura risiede nell’abuso compiuto in questi anni dalle classi dirigenti del mondo occidentale (in particolare dalla Banca mondiale e altre istituzioni finanziarie internazionali pubbliche e para-pubbliche), ma anche dalle “élites ” locali dei paesi vittime del “grabbing”, nell’autorizzare, appoggiare o lasciare liberi, gli atti di compra e di utilizzo che sono notoriamente forme effettive di esproprio delle risorse delle popolazioni più deboli e di predazione delle risorse naturali al servizio di logiche di arricchimento finanziario e speculativo. Il tutto nel quadro di una manipolazione imbellimento puramente ideologica per non far vedere che “il re è nudo”. Veniamo cosi alla terza impostura, quella ideologica.

L’impostura dogmatico-ideologica
Questa afferma che la lotta per la riduzione della povertà ha ottenuto risultati notevoli nel corso degli ultimi quindici, e che i successi riscontrati sono stati realizzati grazie alla capacità del sistema capitalista e dei meccanismi di mercato di generare la crescita economica e quindi far regredire l’ineguaglianza nel mondo. Sostenere e tentar di far credere alle popolazioni che la riduzione della metà dei poveri assoluti contabilizzata al 2012 è il frutto della crescita economica del sistema capitalista globale e dei mercati mondiali e che l’azzeramento della povertà assoluta sarà realizzabile entro il 2030 solo grazie all’ulteriore liberalizzazione totale dei mercati, è pura falsità. Il fatto che tali affermazioni siano sostenute anche da giornali quali The Economist (settimanale britannico di fama mondiale) ed il quotidiano, anch’esso britannico, The Financial Times, (due tra i più potenti e “autorevoli” megafoni mondiali della “teologia universale capitalista”), non le rende plausibili né corrette sul piano teorico ed empirico.
Ricordiamo anzitutto che, lanciate nel 1974 all’insegna dell’obiettivo “Zero povertà 2000″, le politiche di riduzione e di eliminazione della povertà si erano date come obiettivo l’eliminazione della povertà assoluta già nel 2000. Nel 1995 a Copenhagen (Conferenza ONU sulla povertà e l’esclusione sociale), rendendosi conto che l’obiettivo fissato non sarebbe stato raggiunto, la Banca mondiale propose di cambiare strategia e di passare dall’eliminazione totale a quella della riduzione della povertà assoluta , obiettivo rinviato al 2015 , cosa poi confermata nel 2000 con l’approvazione da parte dell’ONU degli Obiettivi dello Sviluppo del Millennio (2000-2015). Anche secondo la Banca mondiale, fino al 2000 si è trattato di un fallimento. La pretesa che si sia passati dal fallimento delle politiche messe in opera al loro successo tra il 2000 ed il 2015, addirittura con due/tre anni di anticipo rispetto alle cadenze, si basa sui soliti giochetti sui numeri. Al di là del limitato ruolo svolto da tassi di crescita economici annui superiori al 6% tra il 2000 e il 2010 in Cina, Russia, India, Brasile, Vietnam, Etiopia, Zambia, il fatto chiave determinante è stato, come già segnalato, lo strepitoso calo dei poveri assoluti in Cina che, secondo le statistiche ufficiali, ha portato la percentuale della povertà assoluta in Cina da 84% della popolazione a meno del 10%. Cosi, tenendo conto solo della Cina, i poveri assoluti nel mondo stimati dalla Banca mondiale a 1,4 miliardo nel 2000 sono scesi nel 2010 a 720 milioni.
Essendo piuttosto difficile verificare le cifre date dalla Cina, e per evitare le eventuali mistificazioni introdotte dall’effetto Cina, la Banca mondiale stessa pubblica oramai i dati sulla povertà assoluta con e senza le cifre relative alla Cina. Senza la Cina, l’obiettivo del 2015 resta ancora non realizzato per il 15%. Parlare quindi di “impressive achievements”, come fa The Economist, è evidentemente abusivo. (24)
Peraltro come si fa a parlare di risultati considerevoli, impressionanti, sotto tutti i punti di vista, in materia di “riduzione di povertà” quando tutti gli indicatori d’ineguaglianza socio-economica sono in crescita? Oltre i dati ed i “cambi epocali”menzionati, è bene ancora di ricordare agli “esperti” di The Economist che la disoccupazione, specie giovanile, non ha fatto che crescere (ed é ritornata a livelli inaccettabili anche nei paesi detti “ricchi”) e concerne più di 1,5 miliardi di persone; che la popolazione (più di 1,4 miliardi di esseri umani) che abita nelle baraccopoli continua a crescere, lo stesso dicasi delle persone che non hanno accesso ad alcun servizio igienico-sanitario di base (più di 2,6 miliardi di persone), che il numero dei “rifugiati” nel mondo che fuggono da persecuzioni, esclusioni e dai danni all’ambiente sono aumentati in proporzioni “impressionanti” negli ultimi quindici anni e che, infine, per ritornare sul caso cinese, la Cina non ha per nulla adottato le strategie proposte dall’Occidente specie in materia di liberalizzazione del commercio e degli investimenti di capitale.
Nessuna impresa nè fondo d’investimento non cinesi può possedere il 51% della proprietà del capitale di un’’impresa cinese. La Cina non ha mai fatto riferimento agli Obiettivi dello Sviluppo del Millennio… L’influenza delle concezioni dell’economia capitalistica e dei mercati finanziari speculativi sull’economia cinese ed il suo strepitoso sviluppo negli ultimi trenta anni é incontestabile. Ma è altrettanto vero che la Cina ha realizzato il suo “successo” perseguendo strategie che non sono mai state quelle imposte o proposte dal capitalismo e dal neoliberalismo all’occidentale. La maionese propriamente cinese è stata predominante e determinante. Prima di concludere queste riflessioni sull’impostura dogmatico-ideologica è altresì necessario liberare il terreno da un’ultima falsa “giusta idea”, propagata nei circoli della Banca mondiale e dagli “economisti dei dominanti”. Mi riferisco alla tesi secondo la quale “sarebbe bastato e basterebbe che una piccola parte dei miliardi delle 100 persone più ricche del mondo fosse ridistribuita in aiuto, in favore delle persone povere affinché non ci sarebbero più persone con meno di 2,50 $ al giorno e la parola povertà fosse finalmente messa nel museo delle parole morte, sparite dal vocabolario’” L’idea è fallace perché riporta in auge tesi smentite da tanto tempo dalla realtà, e dimentica verità invece confermate, quali:
- il problema della povertà è un problema di distribuzione di reddito (tesi smentita dalla realtà). Il problema della povertà, invece, è essenzialmente un problema di finalità e di modi di produzione e uso della ricchezza (confermata dai fatti). Non si tratta di dare più reddito alla gente affinché possa spendere di più (essere un”consumatore intelligente”) per permettere ai detentori di capitale di accaparrarsi della fetta più grande della ricchezza prodotta, se il principio ispiratore della produzione competitiva della ricchezza è la corsa all’arricchimento individuale perché “colui che è ricco può”, ‘il ricco può’ comprare tutto” (anche il diritto di appropriarsi e la licenza di devastare i beni comuni naturali della Terra essenziali per la vita di tutti!). La soluzione risiede nella promozione e la salvaguardia dei beni e servizi comuni pubblici nell’interesse del diritto alla vita per tutti e del vivere bene tutti insieme;
- è sufficiente aiutare il povero, dargli quel tanto di mezzi economici che gli mancano perché possa rimbalzare e costruire lui stesso la propria “fortuna” (tesi alla base della diffusione del micro- credito e largamente smentita dalla realtà da alcuni studi su migliaia di esperienze di micro-credito nel mondo). ( 25). L’aiuto all’imprenditorialità individuale ed all’impresa “sociale” è importante ma non è sufficiente per eliminare i fattori strutturali di creazione di macro-fenomeni e processi di ineguaglianza di potere economico, sociale e politico rispetto alle decisioni sulle priorità ed i modi di allocazione delle risorse comuni disponibili (tesi confermata dai fatti);
- è indispensabile aiutare i poveri dando loro del denaro affinché anche loro possano sentirsi capaci di “potere d’acquisto” e quindi di scelta, di status sociale, per permettere a tutti di sentirsi “protagonisti” e “avere dei sogni”. Questa tesi, legata al “sogno americano di ricchezza”, ha enormemente influenzato da più di 60 anni l’immaginario collettivo. Essa mantiene ancora un grande potere di attrazione anche se, sempre più numerosi sono gli abitanti della Terra che non credono più nel suo valore e cercano di ri-orientare la loro vita e quella degli esseri umani verso una visione più responsabile e sobria, intergenerazionale e condivisa, a livello planetario, della ricchezza e del benessere intesi come prosperità e sicurezza di esistenza comuni. E’ possibile lottare contro l’impostura descritta? Certo, non si può pensare di ottenere risultati significativi a breve e medio termine. E’ pero’ possibile di affermare che, se un movimento di cittadini riesce a fare adottare nel 2018 (70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo), come speriamo, una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU con la quale gli Stati membri s‘impegnano a mettere fuori legge i fattori strutturali all’origine dei processi d’impoverimento nel mondo”, una tale risoluzione rappresenterà un risultato di grande valore non solo simbolico ma anche politico-isituzionale. Su queste basi le azioni rivolte alla messa fuorilegge dei fattori strutturali dell’impoverimento acquisteranno una forza operativa maggiore e potranno avere una probabilità più alta d’influenza e d’incisione sulle dinamiche sociali. Un risultato di non poco conto! 
 
 
Ringrazio vivamente Paolo Cacciari (cui debbo l’idea di una riflessione critica sulla tendenza dei gruppi dominanti a far credere che nel 2030 il sistema attuale eliminerà la povertà estrema nel mondo) non solo per aver letto il testo ma anche per avermi suggerito una sere di spunti e commenti preziosi che ho incorporato nella presente versione finale.
 
NOTE
1.Cfr. Riccardo Petrella. Il bene comune. Elogio della solidarietà, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 1997
2 Vedi Gruppo di Lisbona, I limiti della competitività. Edizioni Ilmanifestolibri, Roma, 1995
3 Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza, Einaudi, 2013 e Riccardo Petrella, Una nuova narrazione del mondo, EMI, Bologna, 2007
4 Cfr. i risultati dell’insieme delle ricerche europee condotte da vari istituti nazionali della Comunità europea tra il 1992 ed il 1994 e coordinati da Anders Hingel, membro dell’équipe FAST, U. Hilpert, Archipelago Europe, Synthesis Report, 290 pagine, Fast Occasional Paper (FOP) n.242, Commissione della Comunità Europea, Bruxelles, maggio 1997
5 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011
6 Riccardo Petrella e Bruno Amoroso, Liberare la società dall’impoverimento, Gruppo promotore DIP, Sezano, settembre 2012
7 Le fabbriche della povertà, opera collettiva pubblicata dal Gruppo promotore DIP, Sezano (Verona), ottobre 2013
8 Vedi United Nations Development Program (UNDP), Human Development Report (HDR), pubblicazione annuale, ed in particolare lo HDR- 2010
9 Da anni, l’indicatore del PIL è stato l’oggetto di numerose critiche in tutti gli ambienti persino da parte della Commissione europea. Per esempio, il 19 ed il 20 novembre 2007 si è tenuta a Bruxelles una conferenza internazionale “Going beyond GDP “(“Oltre il PIL”). Molto rumore, ma il seguito non ha dato alcun risultato concreto verso un mutamento di rotta.
10 Ciò vale anche per le città dei paesi “ricchi”, “sviluppati”. Supponete che d’un colpo cessassero definitivamente tutte le iniziative svolte dalle migliaia di associazioni o gruppi d’individui su basi unicamente volontarie, senza alcuna remunerazione diretta legata alle attività svolte. Ebbene, le nostre città diventerebbero dei luoghi invivibili di conflitti, “guerre”, esclusioni, ghetti, di ogni genere. La violenza per la sopravvivenza sarebbe la norma.
11 Menzionati da Paolo Cacciari, corrispondenza privata con l’autore del presente scritto.
12 Eppure è quel che da quasi dieci anni sta cercando di fare la Commissione europea attraverso i progetti di ricerca ECBA (Environment Costs and Benefits Assessment) al fine di dare un valore economico all’acqua. Per una critica rigorosa di tate tentativo, vedi Riccardo Petrella, Mémorandum sur la politique éuropéenne de l’eau, IERPE, presentato il 3 dicembre 2013 ad un gruppo di parlamentari europei al Parlamento europeo a Bruxelles. violenza per la sopravvivenza sarebbe la norma.
!3 World Bank, Measuring poverty, http://web.worldbank.org Gli sforzi concettuali e metodologici compiuti dalla Banca mondiale per legittimare e accreditare gli indicatori/soglie della duplice povertà monetaria specie per quanto riguarda i paesi “non sviluppati”, sono fumo negli occhi, un arrampicarsi sugli specchi inutile.
14 Le fabbriche della povertà, op.cit. pp.28-29
15 Cfr. siteresources.worldbank,org/…rces/Global Poverty, An update to the World Bank’s estimates of consumption poverty in the developing world, 2013
16 La tavola a cui si fa riferimento ha come titolo L’1% più ricco del mondo, sempre di più ricco (1980—2012). La fonte The World Top Incomes Database, F. Alvaredo, A. B. Atkinson, T. Piketty et E. Saez, (2013)
17 Oxfam International, En finir avec les inégalités extrêmes. Confiscation politique et inégalités économiques , pubblicato il 24 gennaio 2014 di cui i principali dati sulla concentrazione delle ricchezze sono presi dal Rapporto annuale del Crédit Suisse, Research Institute, Global Wealth Report 2013, Zurich. 2013
18 Oxfam International, op.cit
19 www.istat.it/…/NotastampaCoesione.pdf
20 The Poor in Developed CountriesWestern Europe: Poverty In The United Kingdom and Germany, Library Index “Social Issues and Debate Topics”
21 Percentuale delle famiglie povere con e senza “lavoratori poveri” nei paesi occidentali. Fonte: Brady, David; Andrew Fullerton and Jennifer Moren Cross (2010). “More Than Just Nickels and Dimes: A Cross-National Analysis of Working Poverty in Affluent Democracies”. Social Problems (4): 559–585.2010
22 Una fonte preziosa di analisi accurate e approfondite sui temi del lavoro è rappresentata dalla rivista Inchiesta, diretta da Vittorio Capecchi, trimestrale, Bologna
23 A livello mondiale, cfr. la campagna di Oxfam International “Grow. Food, Life, Planet, www.oxfam.org/landgrabs. Per quanto riguarda l’Europa vedi, Via Campesina (European coordination) and Hands off the Lands, Land concentration, land grabbing and people’s struggles TNI, 2013
24 Toward the end of poverty”,The Economist, 1 giugno 2013. Vedere l’analisi dei risultati delle ricerche in Paul Lagneau-Ymonet et Philippe Mader, “Du microcredit aux subprime pour les pauvres”, Le Monde diplomatique, settembre 2013. 

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