«Meno male che la popolazione non capisce il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo capisse, credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione». La voce dal sen fuggita è quella di uno che quel sistema lo capiva eccome: Henry Ford. Ma ben prima di lui molti “ben informati” già avevano chiaro in testa che l'interesse delle banche va di qua e quello delle nazioni, cioè dei popoli, di là. Per esempio Sherman Rothschild, di mestiere banchiere, così parlava nel 1863 alla Kliemer, Morton e Vandergould di New York: «Pochi comprenderanno questo sistema, coloro che lo comprenderanno saranno occupati nello sfruttarlo, il pubblico forse non capirà mai che il sistema è contrario ai suoi interessi». Ancora più lucido, benché agli albori del moderno sistema bancario, un altro Rothschild, Amschel Mayer, che nel 1773 così sentenziava: «Le guerre devono essere dirette in modo tale che le nazioni, coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre di più nel loro debito e, quindi, sempre di più sotto il nostro potere». Il fatto che sia passato qualche secolo, che in mezzo ci sia stata la nascita delle democrazie moderne e persino il New Deal, non tragga in inganno: più o meno le regole e la mission sono rimaste le stesse; la differenza è che gli strumenti sono oggi più raffinati (basta pensare ai derivati e ai subprime) e le conseguenze sono enormemente più catastrofiche a causa del fatto che il “finanzcapitalismo” (copyright di Luciano Gallino) opera su scala globale. Altrimenti non avrebbe alcun senso ciò che sta accadendo dal 2008, cioè dallo scoppio della crisi negli Usa, ad oggi. Ciò che sta accadendo è questo: in quattro anni, per “salvare” il sistema creditizio mondiale, quello stesso responsabile del disastro economico, sono stati spesi 3.500 miliardi, quanto basterebbe a pagare tutti i debiti di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo messi insieme. Si dice (e forse c'è anche del vero) che le banche servono alle economie: senza il credito le imprese si fermano e le famiglie arrancano. E dunque non le si può lasciar fallire, perché nel tracollo trascinerebbero con sé tutti gli altri. Il punto è: quali banche? E per quale scopo? Prendiamo l'ultimo caso, la spagnola Bankia. Si tratta di un colosso nato poco meno di un anno fa dalla fusione di varie casse di risparmio in gravi difficoltà per la bolla immobiliare, nel tentativo di risanare il sistema bancario iberico. L'operazione è salutata positivamente dagli esperti del settore: il gruppo è forte e risanato, si dice. Poiché però grandi investitori stranieri disposti ad accollarsi quote della banca non se ne trovano, parte la caccia disperata ai piccoli risparmiatori spagnoli che fanno arrivare nelle casse di Bankia poco più di tre miliardi, con il titolo valutato a 4,5-5 euro. Ma, al momento del debutto in Borsa, il 20 luglio scorso, il valore viene tagliato a 3,75 perché comincia ad emergere qualche dubbio sulla solidità di Bankia; undici mesi dopo il titolo crolla del 72% e la perdita per i raggirati risparmiatori spagnoli è di 2,2 miliardi di euro. La beffa? Ce n'è più di una. Il presidente Rodrigo Rato e il consigliere delegato Francisco Verdù Pons se ne sono andati incassando ciascuno un milione; Aurelio Izquierdo, direttore generale, ha lasciato Bankia con una buonuscita di 14 milioni; le grandi banche internazionali (da Jp Morgan a Deutsche Bank, da Unicredit a Barlays, da Bank of America-Merril Lynch a Lazard) si portano a casa quasi 146 milioni di euro per aver venduto le azioni di una banca nata fallita ai risparmiatori spagnoli (perché col cavolo che se le sono comprate loro...).
Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 23 giugno 2012
L'approfondimento. Lira sì, lira no, lira forse A colloquio con gli economisti Emiliano Brancaccio, Vladimiro Giacché, Guido Viale
Autore: Tonino Bucci
Christine Lagarde, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, ha pronosticato tre mesi di vita per la moneta europea, se non verranno prese misure adeguate. Anche George Soros, che di finanza s'intende, condivide la stessa previsione. Non sono profezie di sovversivi. Oggi come oggi, la principale causa di instabilità non sono né i movimenti di protesta né le sinistre radicali. Se nel giro di breve tempo la zona euro potrebbe deflagrare, ciò avverrà non per l'incombere di un “nemico esterno", ma per le contraddizioni sistemiche che caratterizzano l'assetto monetario dell'Ue. La valuta europea potrebbe crollare motu proprio, per via delle dinamiche conflittuali che si riproducono al suo interno. Tempo ce n'è poco, fosse pure soltanto per attuare quei correttivi in corso d'opera che anche i difensori dell'Ue ormai invocano. Tutti i provvedimenti attualmente oggetto di studio - fondi salvastati, eurobond, meccanismi blocca-spread, obbligazioni per finanziare grandi opere infrastrutturali, cessioni di sovranità dei paesi membri, integrazione del sistema bancario - richiederebbero riforme tutt'altro che trascurabili dei Trattati europei. E quindi tempo. Che manca.
L'instabilità del sistema è l'effetto delle risposte (inadeguate) che i vertici europei hanno dato nei confronti della crisi. Ed ecco l'interrogativo. Cosa accadrebbe se la zona euro dovesse implodere? A chi toccherebbe gestire l'uscita dall'area valutaria europea? E, soprattutto, sarebbe preparata la sinistra ad affrontare uno scenario del genere. Qualche giorno fa, dal suo blog, in un articolo a commento del voto greco, l'economista Emiliano Brancaccio ha aperto una discussione. «A pensarci bene non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità», quanto piuttosto per «l'assenza di una chiara opzione di uscita dall'euro». Cosa avrebbe fatto quel partito «se la Germania e le autorità europee avessero rifiutato di avviare una profonda rinegoziazione del debito»? Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, «ha evitato di ammettere che, a quel punto, sarebbe stato costretto ad affrontare la crisi abbandonando la moneta unica europea e mettendo in discussione, se necessario, anche il mercato unico dei capitali e delle merci. Numerosi elettori greci potrebbero aver percepito questa ambiguità». L’unico modo per rendere credibile la richiesta di rinegoziazione del memorandum «doveva allora esser quello di ammettere l’ipotesi di una riconquista della sovranità monetaria del paese in caso di fallimento della trattativa. Ossia, una uscita dall’euro e al limite dal mercato unico europeo».
Fino a oggi le posizioni principali che hanno trovato cittadinanza nel dibattito politico sono fondamentalmente due: da un lato, quella dell'ortodossia liberista che sostiene le misure di austerità e il rigorismo monetario dell'establishment Ue; dall'altro, quella dei critici dell'attuale assetto monetario che vorrebbero cambiarne le regole in direzione di un'Europa più equa e sociale. C'è solo un punto sul quale le due posizioni convergono: nessuna delle due pone all'ordine del giorno l'uscita dall'euro. Men che mai l'opzione del ritorno alla lira trova spazio nei programmi delle sinistre di alternativa europee e non ci vuol molto a comprenderne il motivo. L'abbandono dell'euro può risultare attraente per una parte del mondo imprenditoriale. L'effetto di svalutazione della moneta nazionale ch'esso comporta, favorirebbe le esportazioni, ma eroderebbe il potere d'acquisto dei salari, a detrimento dei redditi medio-bassi. Non a caso, in questi giorni sta prendendo quota nel Pdl - per iniziativa dello stesso Berlusconi - un fronte antieuropeista, pronto a cavalcare un certo consenso che esiste nel paese circa l'idea di tornare alla lira.
Non necessariamente dovrebbe avvenire così, sostiene però Brancaccio. «La storia ci dice che nel momento in cui viene a deflagrare un sistema di cambi fissi irrevocabili - e la zona euro è un sistema di questo tipo - vi sono diversi modi attraverso i quali si può uscire da esso. Semplificando al massimo, esistono modi che potremmo definire “di destra” e modi che potremmo definire “di sinistra”. Un modo di “destra” è quello di lasciare che i capitali possano liberamente fuggire dal paese, e di scaricare interamente sui salari il costo della svalutazione della moneta». E quali sarebbero i meccanismi di “sinistra” per evitare che il peso di un'eventuale fuoriuscita dall'euro gravi tutto sui lavoratori? «Si potrebbero recuperare i vecchi sistemi di limitazione della circolazione dei capitali e, al limite, delle merci, che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. L’attuale informatizzazione delle transazioni renderebbe oltretutto anche più facili i controlli. Sistemi di questo tipo consentirebbero di governare la svalutazione e il suo impatto sui salari. C’è poi una questione che attiene alla proprietà estera o nazionale dei capitali di un paese, a partire dai capitali bancari. Un’eventuale uscita dalla zona euro implica una svalutazione dei capitali e quindi la possibilità, per soggetti esteri, di effettuare “shopping a buon mercato”. Assecondare gli acquisti da parte di investitori esteri oppure limitarli non è una scelta indifferente per le condizioni future dei lavoratori».
L'instabilità del sistema è l'effetto delle risposte (inadeguate) che i vertici europei hanno dato nei confronti della crisi. Ed ecco l'interrogativo. Cosa accadrebbe se la zona euro dovesse implodere? A chi toccherebbe gestire l'uscita dall'area valutaria europea? E, soprattutto, sarebbe preparata la sinistra ad affrontare uno scenario del genere. Qualche giorno fa, dal suo blog, in un articolo a commento del voto greco, l'economista Emiliano Brancaccio ha aperto una discussione. «A pensarci bene non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità», quanto piuttosto per «l'assenza di una chiara opzione di uscita dall'euro». Cosa avrebbe fatto quel partito «se la Germania e le autorità europee avessero rifiutato di avviare una profonda rinegoziazione del debito»? Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, «ha evitato di ammettere che, a quel punto, sarebbe stato costretto ad affrontare la crisi abbandonando la moneta unica europea e mettendo in discussione, se necessario, anche il mercato unico dei capitali e delle merci. Numerosi elettori greci potrebbero aver percepito questa ambiguità». L’unico modo per rendere credibile la richiesta di rinegoziazione del memorandum «doveva allora esser quello di ammettere l’ipotesi di una riconquista della sovranità monetaria del paese in caso di fallimento della trattativa. Ossia, una uscita dall’euro e al limite dal mercato unico europeo».
Fino a oggi le posizioni principali che hanno trovato cittadinanza nel dibattito politico sono fondamentalmente due: da un lato, quella dell'ortodossia liberista che sostiene le misure di austerità e il rigorismo monetario dell'establishment Ue; dall'altro, quella dei critici dell'attuale assetto monetario che vorrebbero cambiarne le regole in direzione di un'Europa più equa e sociale. C'è solo un punto sul quale le due posizioni convergono: nessuna delle due pone all'ordine del giorno l'uscita dall'euro. Men che mai l'opzione del ritorno alla lira trova spazio nei programmi delle sinistre di alternativa europee e non ci vuol molto a comprenderne il motivo. L'abbandono dell'euro può risultare attraente per una parte del mondo imprenditoriale. L'effetto di svalutazione della moneta nazionale ch'esso comporta, favorirebbe le esportazioni, ma eroderebbe il potere d'acquisto dei salari, a detrimento dei redditi medio-bassi. Non a caso, in questi giorni sta prendendo quota nel Pdl - per iniziativa dello stesso Berlusconi - un fronte antieuropeista, pronto a cavalcare un certo consenso che esiste nel paese circa l'idea di tornare alla lira.
Non necessariamente dovrebbe avvenire così, sostiene però Brancaccio. «La storia ci dice che nel momento in cui viene a deflagrare un sistema di cambi fissi irrevocabili - e la zona euro è un sistema di questo tipo - vi sono diversi modi attraverso i quali si può uscire da esso. Semplificando al massimo, esistono modi che potremmo definire “di destra” e modi che potremmo definire “di sinistra”. Un modo di “destra” è quello di lasciare che i capitali possano liberamente fuggire dal paese, e di scaricare interamente sui salari il costo della svalutazione della moneta». E quali sarebbero i meccanismi di “sinistra” per evitare che il peso di un'eventuale fuoriuscita dall'euro gravi tutto sui lavoratori? «Si potrebbero recuperare i vecchi sistemi di limitazione della circolazione dei capitali e, al limite, delle merci, che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. L’attuale informatizzazione delle transazioni renderebbe oltretutto anche più facili i controlli. Sistemi di questo tipo consentirebbero di governare la svalutazione e il suo impatto sui salari. C’è poi una questione che attiene alla proprietà estera o nazionale dei capitali di un paese, a partire dai capitali bancari. Un’eventuale uscita dalla zona euro implica una svalutazione dei capitali e quindi la possibilità, per soggetti esteri, di effettuare “shopping a buon mercato”. Assecondare gli acquisti da parte di investitori esteri oppure limitarli non è una scelta indifferente per le condizioni future dei lavoratori».
La lezione di Syriza
Fonte: Ombrerosse | Autore: Paolo Ferrero
Il risultato delle elezioni greche segna una svolta nella situazione europea. Per la prima volta dopo la vittoria del neoliberismo, dopo gli anni ’80, una forza di sinistra, dichiaratamente antiliberista e anticapitalista, raggiunge una percentuale del 27%. Lo fa in nome di un’altra Europa, di una Europa democratica basata sui diritti sociali e civili, dove il rovesciamento delle attuali politiche europee non è finalizzato ad un nuovo nazionalismo ma ad una Europa dei popoli e dei lavoratori.
Dopo tante chiacchiere sull’importanza dei partiti socialisti, il punto vero, sul piano politico, lo sta ponendo Syriza in Grecia, cioè l’anello più debole della catena. Ed il punto è semplice: visto il palese fallimento delle politiche recessive basate sulla distruzione del welfare e dei diritti dei lavoratori, è sufficiente oggi per uscire dalla crisi affiancare a queste politiche un po’ di investimenti come chiedono i socialisti? E’ del tutto evidente che la risposta è no, mille volte no. Non solo perché il Fiscal Compact condannerebbe l’Europa ad una recessione senza fine, ma perché la crisi – innescata dalla speculazione – ha le sue radici in una ingiusta distribuzione del reddito e nei meccanismi di fondo di funzionamento della globalizzazione e dell’Unione Europea. Se non si mette mano alle questione di fondo, semplicemente dalla crisi non si esce.
Per questo la Grecia è importante, perché Syriza (che fa parte del Partito della Sinistra Europea come Rifondazione Comunista, il Front de Gauche, Izquierda Unida, la Linke) ha posto i nodi di fondo che l’Europa deve affrontare. Dicendosi indisponibile ad accettare il memorandum che sta demolendo l’economia greca, ha posto la questione centrale per il nostro futuro ed ha su questo raccolto il 27% dei consensi.
Va anche sottolineato che Syriza è il primo partito in tutte le città e tra le persone con meno di 55 anni. Nuova Democrazia ha vinto grazie al voto dei contadini e dei centri rurali dove la crisi ha meno sconvolto i legami sociali e anche il tenore di vita. Dove i legami sociali e le clientele passate hanno continuato ad agire anche oggi. Il voto di Nuova Democrazia è quindi il rimasuglio di cosa c’era prima mentre il voto a Syriza è il voto sull’oggi, sulla nuova situazione determinatasi con la crisi. Quello che abbiamo davanti non è quindi un risultato definitivo ma solo la prima tappa di un percorso di cambiamento.
Voglio sottolineare che il risultato di Syriza non era iscritto nella situazione oggettiva, non era un fatto dovuto. Fino a poco prima delle elezioni Syriza era data a percentuali attorno al 6-7% e la parte del leone nei sondaggi la faceva Sinistra Democratica, una formazione nata pochi anni fa da una scissione da destra di Syriza – su motivazioni del tutto analoghe a quelle della scissione che abbiamo subito come Rifondazione tre anni fa – che proponeva l’alleanza con il Pasok. Le elezioni hanno ribaltato questo risultato e poi Syriza è arrivata addirittura al 27%. Questo è stato possibile perché il suo gruppo dirigente, a partire da Alexis Tsipras, ha tenuto ferma la rotta, non ha accettato di andare al governo dopo le prime elezioni e ha riportato il paese alle elezioni. Syriza non ha avuto paura delle minacce. Syriza non ha avuto paura di mettere in gioco il suo 16% che aveva conquistato nelle prime elezioni: Syriza è andata fino in fondo come si confà ad un gruppo dirigente di rivoluzionari e non di quaquaraquà. Tanto di cappello a Syriza e al suo gruppo dirigente.
Dopo tante chiacchiere sull’importanza dei partiti socialisti, il punto vero, sul piano politico, lo sta ponendo Syriza in Grecia, cioè l’anello più debole della catena. Ed il punto è semplice: visto il palese fallimento delle politiche recessive basate sulla distruzione del welfare e dei diritti dei lavoratori, è sufficiente oggi per uscire dalla crisi affiancare a queste politiche un po’ di investimenti come chiedono i socialisti? E’ del tutto evidente che la risposta è no, mille volte no. Non solo perché il Fiscal Compact condannerebbe l’Europa ad una recessione senza fine, ma perché la crisi – innescata dalla speculazione – ha le sue radici in una ingiusta distribuzione del reddito e nei meccanismi di fondo di funzionamento della globalizzazione e dell’Unione Europea. Se non si mette mano alle questione di fondo, semplicemente dalla crisi non si esce.
Per questo la Grecia è importante, perché Syriza (che fa parte del Partito della Sinistra Europea come Rifondazione Comunista, il Front de Gauche, Izquierda Unida, la Linke) ha posto i nodi di fondo che l’Europa deve affrontare. Dicendosi indisponibile ad accettare il memorandum che sta demolendo l’economia greca, ha posto la questione centrale per il nostro futuro ed ha su questo raccolto il 27% dei consensi.
Va anche sottolineato che Syriza è il primo partito in tutte le città e tra le persone con meno di 55 anni. Nuova Democrazia ha vinto grazie al voto dei contadini e dei centri rurali dove la crisi ha meno sconvolto i legami sociali e anche il tenore di vita. Dove i legami sociali e le clientele passate hanno continuato ad agire anche oggi. Il voto di Nuova Democrazia è quindi il rimasuglio di cosa c’era prima mentre il voto a Syriza è il voto sull’oggi, sulla nuova situazione determinatasi con la crisi. Quello che abbiamo davanti non è quindi un risultato definitivo ma solo la prima tappa di un percorso di cambiamento.
Voglio sottolineare che il risultato di Syriza non era iscritto nella situazione oggettiva, non era un fatto dovuto. Fino a poco prima delle elezioni Syriza era data a percentuali attorno al 6-7% e la parte del leone nei sondaggi la faceva Sinistra Democratica, una formazione nata pochi anni fa da una scissione da destra di Syriza – su motivazioni del tutto analoghe a quelle della scissione che abbiamo subito come Rifondazione tre anni fa – che proponeva l’alleanza con il Pasok. Le elezioni hanno ribaltato questo risultato e poi Syriza è arrivata addirittura al 27%. Questo è stato possibile perché il suo gruppo dirigente, a partire da Alexis Tsipras, ha tenuto ferma la rotta, non ha accettato di andare al governo dopo le prime elezioni e ha riportato il paese alle elezioni. Syriza non ha avuto paura delle minacce. Syriza non ha avuto paura di mettere in gioco il suo 16% che aveva conquistato nelle prime elezioni: Syriza è andata fino in fondo come si confà ad un gruppo dirigente di rivoluzionari e non di quaquaraquà. Tanto di cappello a Syriza e al suo gruppo dirigente.
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venerdì 22 giugno 2012
L’esperimento Grecia
di Raffaele Sciortino
La Grecia è stata usata finora come un vero e proprio laboratorio di “terrorismo fiscale” da parte dei poteri forti europei e internazionali. Bene, l’esperimento non è riuscito: questo il significato principale del voto di domenica.Una vittoria di Pirro dei fautori del memorandum, così i commentatori ufficiali meno costretti nel ruolo di imbonitori. In effetti, non solo la sinistra avanza di brutto, non solo più del 50% dei voti è esplicitamente contro l’accettazione della politica lacrime e sangue. Lo stesso voto al centro-destra ha per l’elettorato di ceto medio-piccolo -non parliamo ovviamente di borghesia compradora, clientele politiche e apparati di sicurezza- una valenza soft di ricontrattazione verso Bruxelles cui si è tolta l’arma di ricatto “non volete l’euro”. Riconoscendo tutto questo, non a caso il WSJ lamenta che la mancata affermazione odierna di Syriza paradossalmente potrebbe favorirne prossime vittorie.
L’esperimento non è riuscito non perchè la società greca non si sia impoverita enormemente, con rischio di implosione e sconforto, o perché la blanda ricontrattazione del memorandum cui a questo punto sia Berlino che il nuovo-vecchio governo ad Atene potrebbero accedere cambierà di molto le cose. Ma i greci non si sono piegati, e l’hanno manifestato anche sul piano elettorale dopo, attenzione, l’esplosione sociale del 12 febbraio scorso (quando, durante il voto parlamentare per il memorandum, ci fu una vera e propria battaglia di strada intorno a piazza Sintagma portata avanti da un fronte sociale realmente trasversale di mezzo milione di persone solo nella capitale).
In effetti, questo voto viene dopo due anni di dure lotte contro un attacco generale che ha tolto qualunque illusione a chi a diverso titolo si era fatto trascinare dall’economia del debito fino a interiorizzarne i dispositivi. Ma è anche un voto attraversato dai primi tentativi di ricostruzione dal basso di reti sociali di riproduzione, spesso di vera e propria sopravvivenza, precedentemente risucchiate nel gioco della “finanza facile”.
Tre elementi cruciali emergono. Primo, la spinta a farsi maggioranza-di rimando anche sul piano elettorale- di chi si oppone, da diverse condizioni sociali, alla devastazione seguita allo scoppio della bolla speculativa e alle ricette lacrime e sangue. È questa una polarizzazione per salti assai promettente.
Secondo: è divenuta percorribile nella coscienza dei più l’idea che ricontrattare dal basso i “crediti” non solo si può ma, a differenza dei piani di risanamento che uccidono il malato, è l’unica strada effettivamente realistica. Per sopravvivere, non fuori ma dentro l’euro -ogni altra ricetta è solo un’agonia più o meno lenta- e per far leva intelligentemente sul punto in cui l’avversario è più fragile: la paura di un nuovo Lehman moment. Così, contro la propaganda main stream che vuole i greci contro l’euro e, del caso, responsabili del crollo della costruzione europea -al coro si è unito anche il neogalletto Hollande- il voto ha saputo rovesciare questo ricatto nel punto cruciale: non siamo noi a voler uscire dall’Europa, siete voi a distruggerla.
Sinistra, ci vuole una strategia per uscire dall'euro
Intervista all'economista Emiliano Brancaccio di Tonino Bucci
Dovevano essere un test fondamentale per l'euro. Invece le elezioni greche, neanche finito di contare i voti, sono passate in second'ordine. Come se niente fosse, dal giorno dopo sono ripartiti gli attacchi speculativi ai titoli di stato spagnoli. Persino il fatto che in Grecia abbia vinto un partito programmaticamente favorevole all'austerità, non ha prodotto alcun effetto tranquillizzante sui mercati finanziari. Da quanto accaduto bisogna trarre due conclusioni: la prima è che i fattori di crisi dell'euro non vengono dai movimenti di protesta o dalle sinistre radicali come Syriza. La crisi viene dall'instabilità sistemica e dalle contraddizioni interne allo stesso assetto monetario esistente. Secondo, il successo delle forze politiche che intendono perseguire programmi di austerità, non è affatto risolutivo di quella crisi, la quale anzi si riproduce nella zona euro secondo dinamiche proprie. Da qui allo scenario di un'eventuale deflagrazione - diciamo motu proprio - della moneta unica, il passo è breve. Detto in altri termini, il rischio che l'assetto monetario possa crollare su stesso nel giro di pochi mesi è un'ipotesi verosimile.Cosa succederebbe in uno scenario del genere? Quali forze e nell'interesse di chi governerebbero eventualmente l'uscita dall'euro? L'economista Emiliano Brancaccio, commentando l'esito del voto greco, ha lanciato sul proprio blog una tesi che spariglia le carte in tavola. «A pensarci bene - scrive l'economista - non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità». La mancata vittoria di Syriza, secondo Brancaccio, sarebbe dovuta all'assenza di una chiara opzione di uscita dall'euro. Cosa avrebbe fatto quel partito «se la Germania e le autorità europee avessero rifiutato di avviare una profonda rinegoziazione del debito»? Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, «ha evitato di ammettere che, a quel punto, sarebbe stato costretto ad affrontare la crisi abbandonando la moneta unica europea e mettendo in discussione, se necessario, anche il mercato unico dei capitali e delle merci. Numerosi elettori greci potrebbero aver percepito questa ambiguità».
La fragilità sistemica interna rende probabile il rischio di deflagrazione della moneta unica da qui a un paio di mesi. Dobbiamo cominciare a ragionare su questo scenario?
"Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali. Nel corso degli anni tale concorrenza è andata accentuandosi, e ha provocato una crescita degli squilibri nei rapporti commerciali tra paesi europei. La Germania, in particolare, ha accumulato surplus commerciali verso l’estero, vale a dire eccessi sistematici di esportazioni sulle importazioni. Di converso, l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione hanno accumulato deficit commerciali, cioè eccessi di importazioni sulle esportazioni. Questi squilibri hanno determinato un accumulo di crediti verso l’estero da parte della Germania e una corrispondente crescita dei debiti verso l’estero da parte dei paesi periferici dell’Unione. Debiti, è bene ricordarlo, sia pubblici che privati. Prima del 2008 la crescita economica mondiale trainata dalla finanza statunitense rendeva questi squilibri tollerabili. Ma da quando il regime di accumulazione globale trainato da Wall Street è entrato in crisi, le divaricazioni interne all’Unione monetaria europea si sono rivelate insostenibili. E le politiche restrittive che sono state finora adottate non hanno contribuito ad attenuare le divaricazioni. Anzi, in alcuni casi le hanno accentuate".
"Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali. Nel corso degli anni tale concorrenza è andata accentuandosi, e ha provocato una crescita degli squilibri nei rapporti commerciali tra paesi europei. La Germania, in particolare, ha accumulato surplus commerciali verso l’estero, vale a dire eccessi sistematici di esportazioni sulle importazioni. Di converso, l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione hanno accumulato deficit commerciali, cioè eccessi di importazioni sulle esportazioni. Questi squilibri hanno determinato un accumulo di crediti verso l’estero da parte della Germania e una corrispondente crescita dei debiti verso l’estero da parte dei paesi periferici dell’Unione. Debiti, è bene ricordarlo, sia pubblici che privati. Prima del 2008 la crescita economica mondiale trainata dalla finanza statunitense rendeva questi squilibri tollerabili. Ma da quando il regime di accumulazione globale trainato da Wall Street è entrato in crisi, le divaricazioni interne all’Unione monetaria europea si sono rivelate insostenibili. E le politiche restrittive che sono state finora adottate non hanno contribuito ad attenuare le divaricazioni. Anzi, in alcuni casi le hanno accentuate".
Quando succede che il padrone ti licenzia perché sei donna
di Linda Santilli
Il padrone oggi può tutto o quasi. Può pretendere che tu lavori 12 ore al giorno per 2 lire. Può licenziarti senza giusta causa perché ti sei assentato quando avevi l’influenza o perché sei troppo vecchio e il mercato si sa è competitivo, o perché sei minimamente sindacalizzato e rappresenti un pericolo. Questo è la scenario sociale in cui viviamo. Ma quando succede che il padrone ti licenzia senza tanti complimenti perché sei un donna stiamo parlando di un’altra storia. Quando succede che ti viene sbattuta la porta in faccia perché hai un corpo riproduttivo, la cifra di quel gesto, che pare sbucare dall’androne più buio di epoche passate, si carica di significati terribili. E comunque in Italia può succedere anche questo. E’ successo a tante, tantissime, di vivere quello che è capitato solo alcuni giorni fa ad una giovane donna di Silvi Marina in Abruzzo. Aveva il contratto in mano, un misero contratto interinale di quelli che non garantiscono nulla se non qualche manciata di euro giusto per un paio di mesi come è in uso oggi. Mancava solo la sua firma, era tutto a posto per l’agenzia Gi Group (l’agenzia che prende a prestito i lavoratori per l’azienda di turno, in questo caso l’azienda pubblica Aptr), ma il tipo addetto a confermare l’assunzione le strappa dalle mani il foglio quando si accorge che la ragazza è incinta. Sei incinta? Non se ne parla di darti il lavoro. Punto e a capo e avanti il prossimo. Come nulla fosse. Umiliazione? Discriminazione? Punizione? Tutte e tre le cose in un colpo solo? Fate voi. Certo è che ciò che si addensa in quel secco no è una enormità. Come fosse un magma di contraddizioni antiche, ingiustizie arcaiche appunto, le stesse contro cui le donne hanno fatto la loro rivoluzione cambiando il mondo. Ma il mondo a ben vedere non è poi cambiato così tanto se possono accadere ancora episodi simili. Non si tratta di schegge sporadiche, di piccoli fatti di cronaca isolati sebbene ripetuti. Si tratta del fatto che la nostra contemporaneità liquida e velocissima e fragilissima, posa su un substrato culturale che al contrario è roccioso e profondo che si chiama patriarcato, che innerva dei suoi meccanismi perversi, dei suoi dispositivi punitivi, ogni pezzetto di ciò che è in superficie, primo tra tutti il mercato e le sue regole. Insomma, quello che Fitoussi definisce come lo “scandalo etico del capitalismo contemporaneo” si basa proprio su questa alleanza a doppio filo tra il capitalismo ed il sistema di dominio più antico e sofisticato che la Storia conosca. E’ uno scandalo che qui da noi assume la caratteristica aggiuntiva della doppia morale, un tratto antropologicamente distintivo della nostra tradizione. Infatti come altro chiamarla se non doppia morale la maniera in cui il mercato ingloba le donne come merce privilegiata e disponibile al cannibalismo capitalista ma poi le risputa a pezzettini non appena il loro corpo si sottrae ai dispositivi di controllo e contrattacca e si mostra riproduttivo? E’ proprio questo corpo femminile potente e fuori dal controllo maschile, per il cui controllo storicamente ha origine il patriarcato, a rappresentare oggi un intralcio alle leggi che regolano l’economia dominante. Perché? Perché così come il mercato non ammette freni né vincoli a statuti e leggi che impediscano al suo flusso impetuoso di raggiungere ogni sfera dell’esistenza per divorarla, allo stesso modo non ammette rigidità di tempi e di spazi e di nulla. Come può ammettere quindi il corpo riproduttivo femminile che impone tempi e regole che rispondono solo alla vita?
E sempre di doppia morale nostrana trattasi – sebbene in salsa differente- quando una donna si trova costretta a vivere la maternità: o come fardello se la sceglie, o come possibile disonore se non la sceglie. Ma quasi sempre non può scegliere un bel nulla perchè, benché viviamo nel paese più cattolico e familista del mondo che straparla di madri, esso fa meno di nulla per sostenerle anzi al dunque si accanisce contro di loro.
Tornando alla donna di Silvi Marina. E’ possibile che abbia considerato di aver commesso un errore per non aver utilizzato, in occasione dell’incontro per la fatidica firma del contratto di lavoro, un ampio abito per nascondere la maternità come facevano le ragazze “disonorate” dell’800. Ma certo di fronte al no vigliacco del tipo non si è lasciata zittire, scegliendo la parola al silenzio. E’ un gesto importantissimo. Fondamentale. Non tacere. Lottare. Pretendere che l’agenzia che ha praticato una simile discriminazione venga penalizzata e ad esempio non abbia più accesso a contratti di appalti pubblici, come è il caso della GiGroup attualmente.
E ottenere quel lavoro che spettava e spetta a lei. Sarebbe la vittoria di un principio di civiltà.
Il padrone oggi può tutto o quasi. Può pretendere che tu lavori 12 ore al giorno per 2 lire. Può licenziarti senza giusta causa perché ti sei assentato quando avevi l’influenza o perché sei troppo vecchio e il mercato si sa è competitivo, o perché sei minimamente sindacalizzato e rappresenti un pericolo. Questo è la scenario sociale in cui viviamo. Ma quando succede che il padrone ti licenzia senza tanti complimenti perché sei un donna stiamo parlando di un’altra storia. Quando succede che ti viene sbattuta la porta in faccia perché hai un corpo riproduttivo, la cifra di quel gesto, che pare sbucare dall’androne più buio di epoche passate, si carica di significati terribili. E comunque in Italia può succedere anche questo. E’ successo a tante, tantissime, di vivere quello che è capitato solo alcuni giorni fa ad una giovane donna di Silvi Marina in Abruzzo. Aveva il contratto in mano, un misero contratto interinale di quelli che non garantiscono nulla se non qualche manciata di euro giusto per un paio di mesi come è in uso oggi. Mancava solo la sua firma, era tutto a posto per l’agenzia Gi Group (l’agenzia che prende a prestito i lavoratori per l’azienda di turno, in questo caso l’azienda pubblica Aptr), ma il tipo addetto a confermare l’assunzione le strappa dalle mani il foglio quando si accorge che la ragazza è incinta. Sei incinta? Non se ne parla di darti il lavoro. Punto e a capo e avanti il prossimo. Come nulla fosse. Umiliazione? Discriminazione? Punizione? Tutte e tre le cose in un colpo solo? Fate voi. Certo è che ciò che si addensa in quel secco no è una enormità. Come fosse un magma di contraddizioni antiche, ingiustizie arcaiche appunto, le stesse contro cui le donne hanno fatto la loro rivoluzione cambiando il mondo. Ma il mondo a ben vedere non è poi cambiato così tanto se possono accadere ancora episodi simili. Non si tratta di schegge sporadiche, di piccoli fatti di cronaca isolati sebbene ripetuti. Si tratta del fatto che la nostra contemporaneità liquida e velocissima e fragilissima, posa su un substrato culturale che al contrario è roccioso e profondo che si chiama patriarcato, che innerva dei suoi meccanismi perversi, dei suoi dispositivi punitivi, ogni pezzetto di ciò che è in superficie, primo tra tutti il mercato e le sue regole. Insomma, quello che Fitoussi definisce come lo “scandalo etico del capitalismo contemporaneo” si basa proprio su questa alleanza a doppio filo tra il capitalismo ed il sistema di dominio più antico e sofisticato che la Storia conosca. E’ uno scandalo che qui da noi assume la caratteristica aggiuntiva della doppia morale, un tratto antropologicamente distintivo della nostra tradizione. Infatti come altro chiamarla se non doppia morale la maniera in cui il mercato ingloba le donne come merce privilegiata e disponibile al cannibalismo capitalista ma poi le risputa a pezzettini non appena il loro corpo si sottrae ai dispositivi di controllo e contrattacca e si mostra riproduttivo? E’ proprio questo corpo femminile potente e fuori dal controllo maschile, per il cui controllo storicamente ha origine il patriarcato, a rappresentare oggi un intralcio alle leggi che regolano l’economia dominante. Perché? Perché così come il mercato non ammette freni né vincoli a statuti e leggi che impediscano al suo flusso impetuoso di raggiungere ogni sfera dell’esistenza per divorarla, allo stesso modo non ammette rigidità di tempi e di spazi e di nulla. Come può ammettere quindi il corpo riproduttivo femminile che impone tempi e regole che rispondono solo alla vita?
E sempre di doppia morale nostrana trattasi – sebbene in salsa differente- quando una donna si trova costretta a vivere la maternità: o come fardello se la sceglie, o come possibile disonore se non la sceglie. Ma quasi sempre non può scegliere un bel nulla perchè, benché viviamo nel paese più cattolico e familista del mondo che straparla di madri, esso fa meno di nulla per sostenerle anzi al dunque si accanisce contro di loro.
Tornando alla donna di Silvi Marina. E’ possibile che abbia considerato di aver commesso un errore per non aver utilizzato, in occasione dell’incontro per la fatidica firma del contratto di lavoro, un ampio abito per nascondere la maternità come facevano le ragazze “disonorate” dell’800. Ma certo di fronte al no vigliacco del tipo non si è lasciata zittire, scegliendo la parola al silenzio. E’ un gesto importantissimo. Fondamentale. Non tacere. Lottare. Pretendere che l’agenzia che ha praticato una simile discriminazione venga penalizzata e ad esempio non abbia più accesso a contratti di appalti pubblici, come è il caso della GiGroup attualmente.
E ottenere quel lavoro che spettava e spetta a lei. Sarebbe la vittoria di un principio di civiltà.
Il rischio dell'implosione dell'Europa
di Alfonso Gianni - rifondazione -
Il primo ce lo abbiamo sotto gli occhi. La situazione economica nell’Eurozona è pessima e le previsioni future pure. Si oscilla dalle valutazioni più ottimiste dell’Iwf, l’importante centro di ricerca dell’università di Kiel in Germania – che prevedono una discesa del Pil nell’Europa a 17 dello 0,4% nel 2012 (per l’Italia -1,7%) e una modesta crescita dello 0,9% nell’anno successivo (+0.4% per l’Italia) – a quelle ancora più pessimistiche di Oxford Economics che vede il nostro paese in calo quest’anno del 2,3% e di un ulteriore 0,2% nel 2013. E’ evidente che in un quadro così fosco più d’uno si interroga se conviene ancora al nostro paese rimanere nella moneta unica, quando è chiaro che chi ne trae il massimo vantaggio è solo la Germania.
Il secondo motivo, al primo strettamente collegato, è che il populismo di destra è tutt’altro che sconfitto nel nostro paese come nel resto d’Europa e non gli pare vero di cavalcare un sentimento antieuro che rischia di diffondersi facilmente nelle classi popolari. Il terzo motivo è assai più malizioso e quindi probabilmente più reale. Come ha recentemente osservato anche Nouriel Roubini, molti industriali, finanzieri e società del nostro paese hanno accumulato ingenti quantità di euro all’estero dopo una vita di evasioni fiscali e di trafugamento di capitali all’estero, facilitati dai vari condoni. Se si tornasse alla nostra antica moneta nazionale si verificherebbe un doppio movimento: da un lato queste fortune giacenti all’estero potrebbero venire rivalutate e dall’altro le passività domestiche verrebbero conteggiate in una lira svalutata. Al contrario i depositi in euro derivanti dai risparmi delle famiglie, gli stipendi e le pensioni dei lavoratori a reddito fisso cadrebbero vittima della svalutazione. Nel contempo, avendo poco da esportare, dopo anni di declino produttivo, la nostra economia trarrebbe troppo modesti vantaggi dal ritorno alla lira, comunque non tali da compensare la perdita di valore dei redditi dei meno abbienti.
Il guaio è che il continuo prevalere delle dottrine rigoriste alimenta ogni tentativo di fuga dalla moneta unica. Del resto soluzioni di questo tipo, anche se per altri fini e con maggiore raffinatezza teorica, sono coltivate anche nel campo della sinistra d’alternativa. La crisi si sta avvitando su sé stessa e i vertici internazionali, con quello del prossimo fine giugno saremo a 25, passano invano, quando non sono del tutto negativi. Nemmeno una piccola moderazione del “rapacismo” della grande finanza è riuscita ad andare in porto. Gli ultimi dati che ci provengono da Mediobanca sono sconvolgenti. Il peso dei titoli derivati sul Pil europeo è tornato ad aumentare: era il 42,8% nel 2009, era poi sceso al 41,3% nell’anno successivo, per rimbalzare al 53,2% alla fine del 2011, pari a 5.854 miliardi di euro. Intanto la distanza fra il sud e il nord dell’Europa si approfondisce sempre più. L’Europa a due velocità più che una soluzione futura – per chi ci crede – è già una triste realtà.
Il primo ce lo abbiamo sotto gli occhi. La situazione economica nell’Eurozona è pessima e le previsioni future pure. Si oscilla dalle valutazioni più ottimiste dell’Iwf, l’importante centro di ricerca dell’università di Kiel in Germania – che prevedono una discesa del Pil nell’Europa a 17 dello 0,4% nel 2012 (per l’Italia -1,7%) e una modesta crescita dello 0,9% nell’anno successivo (+0.4% per l’Italia) – a quelle ancora più pessimistiche di Oxford Economics che vede il nostro paese in calo quest’anno del 2,3% e di un ulteriore 0,2% nel 2013. E’ evidente che in un quadro così fosco più d’uno si interroga se conviene ancora al nostro paese rimanere nella moneta unica, quando è chiaro che chi ne trae il massimo vantaggio è solo la Germania.
Il secondo motivo, al primo strettamente collegato, è che il populismo di destra è tutt’altro che sconfitto nel nostro paese come nel resto d’Europa e non gli pare vero di cavalcare un sentimento antieuro che rischia di diffondersi facilmente nelle classi popolari. Il terzo motivo è assai più malizioso e quindi probabilmente più reale. Come ha recentemente osservato anche Nouriel Roubini, molti industriali, finanzieri e società del nostro paese hanno accumulato ingenti quantità di euro all’estero dopo una vita di evasioni fiscali e di trafugamento di capitali all’estero, facilitati dai vari condoni. Se si tornasse alla nostra antica moneta nazionale si verificherebbe un doppio movimento: da un lato queste fortune giacenti all’estero potrebbero venire rivalutate e dall’altro le passività domestiche verrebbero conteggiate in una lira svalutata. Al contrario i depositi in euro derivanti dai risparmi delle famiglie, gli stipendi e le pensioni dei lavoratori a reddito fisso cadrebbero vittima della svalutazione. Nel contempo, avendo poco da esportare, dopo anni di declino produttivo, la nostra economia trarrebbe troppo modesti vantaggi dal ritorno alla lira, comunque non tali da compensare la perdita di valore dei redditi dei meno abbienti.
Il guaio è che il continuo prevalere delle dottrine rigoriste alimenta ogni tentativo di fuga dalla moneta unica. Del resto soluzioni di questo tipo, anche se per altri fini e con maggiore raffinatezza teorica, sono coltivate anche nel campo della sinistra d’alternativa. La crisi si sta avvitando su sé stessa e i vertici internazionali, con quello del prossimo fine giugno saremo a 25, passano invano, quando non sono del tutto negativi. Nemmeno una piccola moderazione del “rapacismo” della grande finanza è riuscita ad andare in porto. Gli ultimi dati che ci provengono da Mediobanca sono sconvolgenti. Il peso dei titoli derivati sul Pil europeo è tornato ad aumentare: era il 42,8% nel 2009, era poi sceso al 41,3% nell’anno successivo, per rimbalzare al 53,2% alla fine del 2011, pari a 5.854 miliardi di euro. Intanto la distanza fra il sud e il nord dell’Europa si approfondisce sempre più. L’Europa a due velocità più che una soluzione futura – per chi ci crede – è già una triste realtà.
Riflessioni da Rio+20
[di Alex Zanotelli] - sudnet -
“Benvenuti a Rio+20”. Con questa scritta a caratteri cubitali siamo stati accolti all’aeroporto di Rio per il vertice sul pianeta Terra convocato dall’Onu (20-22 giugno). Come missionari comboniani abbiamo deciso di ritrovarci insieme nel contesto del Vertice per riflettere sul tema pianeta Terra, che ci tocca direttamente. La Terra infatti non sopporta più l’homo sapiens, il cosiddetto sviluppo e questo sistema economico finanziario che vive depredando il pianeta e rendendo i poveri sempre più poveri.
Sono arrivato la notte del 18 giugno nella Baixada fluminense, uno dei quartieri più violenti di Rio, dove vive e opera una comunità comboniana. Così ho avuto subito il sentore di che cos’è “l’altra Rio”. Una sensazione diventata ancora più netta il mattino seguente, attraversando in autobus la città. Mi sono parse chiare due città, spesso una di fronte all’altra: la Rio degli impoveriti e la Rio dell’opulenza. Va notato che il vertice Onu dei capi di stato si tiene a Barra de Tigiuca, la parte bene di Rio. Io invece mi sono recato subito a Aterro de Flamengo per partecipare alla Cupola dos Povos che ha trovato spazio nel lungomare Bahia da Gloria.
Due vertici. La Cupola dos Povos fatta di indigeni, di poveri, di cittadini, di associazioni. Mentre la “Cupola dos Ricos” è collocata nel cuore della ricchezza di Rio. Una vera e propria apartheid.
“Loro sono al centro, a Tigiuca”, ha detto il prof. Bonaventura de Souza. “Il circo del’Onu”, li ha definiti il prof. Martinez-Alier, che non decide mai nulla!”. Infatti l’impressione che abbiamo ora è che il Vertice della Terra rischia di essere un altro fallimento. Fra l’altro non hanno partecipato né Obama né la Merkel.
Ma la speranza non viene da lì, viene invece dai poveri, dagli indigeni, dalla cittadinanza attiva. E’ stato incredibile per me trovare Aterro de Flamengo così tanta vivacità, dibattiti, reti, campagne… Un’immensa fiera dell’inventiva umana, di culture, di associazioni…
E’ la stessa impressione che ho avuto quella stessa mattina partecipando ad un dibattito, promosso da Rigas (Rete italiana per la giustizia sociale e ambientale), sui nuovi paradigmi necessari per rispondere alle sfide della giustizia non solo distributiva ma anche ambientale. Vi hanno partecipato il teologo brasiliano Leonardo Boff, lo spagnolo prof. J. Martinez-Alier, l’economista portoghese Bonaventura de Souza, il coordinatore di Rigas Giuseppe de Marzo. Lavori presieduti da Marica de Pierri, dell’associazione “A Sud”, nella sala strapiena del Musero di arte moderna.
“Il Pil non può più essere l’indicatore per l’economia, ha detto il noto economista Martinez, dobbiamo andare verso la prosperità senza crescita, secondo quanto teorizzato dall’economista Usa Tim Jakson”. Martinez ha avuto parole di elogio e di sostegno per le due esperienza latinoamericane diEcuador e Bolivia.
Boff è partito citando Einstien: “Non si può pensare che chi ha creato la crisi trovi anche la soluzione”. Né si può accertate come principio etico quello del nostro vivere bene occidentale perché “questo ha significato vivere male per miliardi di persosne”. Per uscire dall’attuale crisi, Boff ha elencato 4 principi fondamentali: a) ogni essere ha un valore intrinseco che deve essere rispettato; b) il dovere di prendersi cura di ciò che ci circonda; c) una responsabilità planetaria; d) cooperazione e solidarietà universali. Ha sottolineato che non si può produrre per accumulare ma solo per condividere.
Giuseppe de Marzo ha ribadito che l’attuale crisi nasce dal non aver riconosciuto la natura e i diritti della Madre Terra. Ha urlato: “Noi siamo la terra. Basta con la crescita”.
Personalmente ho portato a conoscenza dell’assemblea le lotte popolari italiane sull’acqua con il referendum e sui rifiuti con la resistenza alle megadiscariche e agli inceneritori, per muoverci invece verso il riciclaggio totale.
Infine il prof. De Souza ha definito la green economy “il cavallo di Troia del capitalismo mondiale” e ha messo tutti in guardia tutti che “bisogna cambiare il potere prima di prenderlo”.
Questa di Rio è stata una tavola rotonda molto valida che prelude a tanti incontri. Provocazioni queste importanti anche per noi comboniani, a Rio siamo una trentina, che dobbiamo riuscire ad includere pienamente queste tematiche nel nostro fare missione.
Alex Zanotelli
19 giugno 2012, Rio de Janeiro
RIO-20. L'accordo ci riporta più di venti anni indietro. Ma intanto la crisi avanza
Un documento senza alcuna ambizione. Dopo una negoziazione finita all'alba, le delegazioni di 193 pesi hanno approvato ieri, in una plenaria simbolica durata meno di un minuto, il documento finale di Rio. Un vertice ribattezzato dall'interno Rio meno 20, come a dire che gli impegni sono ancor più vaghi di 20 anni fa, nonostante la crisi ecologica sia sempre più grave e profonda e rischi di divenire irreversibile.
Per approvarlo, le 193 delegazioni, con la diserzione di moltissimi capi di stato, soprattutto del mondo industrializzato – hanno dovuto escludere dal testo tutti i punti senza consenso.Il risultato è una scatola vuota, adorna di espressioni linguistiche tiepide e possibiliste, e priva di previsioni puntuali, di impegni e di azioni concrete per raggiungere il benchè minimo risultato.
Alcuni esempi: la green economy, il nuovo mantra scelto da governi, banche e IFI per prendere il posto dell'ormai logoro "sviluppo sostenibile", di cui si chiedeva una definizione inequivoca, viene così descritta: “uno degli strumenti disponibili per raggiungere lo sviluppo sostenibile e per l'adozione di politiche, ma che non deve essere sottoposta a regole rigide.” Un capolavoro di vaghezza che permetterà ogni estensione del concetto utile ai grandi interessi economici.
La proposta del G77 (il gruppo di 130 paesi meno industrializzati) di creare un fondo di 30 miliardi per finanziare azioni di sostenibilità è stata cassata senza appello. E neppure sull'eradicazione della povertà (tra l'altro solo di quella "estrema") si è raggiunto alcun accordo e il tema è stato escluso dal testo, proprio come chiedevano gli Stati Uniti. Il testo, non più emendabile, sarà consegnato oggi ai pochi Capi di Stato che arrivano per la parte finale della conferenza, che molti definiscono "teatro puro".
Nel frattempo, per le strade di Rio ha marciato ieri pomeriggio la grande Marcia dei Popoli per la Giustizia Ambientale e Sociale, contro la Mercificazione della Vita e in difesa dei Beni Comuni, il principale momento di mobilitazione previsto nei giorni di lavori di Rio+20.
Nel Vertice dei Popoli, riunito dal 15 giugno e fino al 23 nella lunga striscia di terra di fronte al lungomare Flamengo, circa 50.000 attivisti sono riuniti intanto in oltre 1200 attività, tra conferenze, dibattiti, workshop, tavoli di lavoro per discutere e articolare proposte che disegnino il campo dell'alternativa. Alternativa al modello di sviluppo - unico colpevole della crisi ecologica, sociale, economica, alimentare, migratoria e climatica in corso - e allo stesso paradigma di civilizzazione ormai in crisi.
Se ne discusso martedì nell'affollatissimo Panel “Nuovi paradigmi di civilizzazione” organizzato da A Sud al quale hanno partecipato il Teologo della Liberazione brasiliano Leonardo Boff, il sociologo Portoghese Boaventura de Sousa Santos, l'economista dell'Isee Joan Martinez Alier, Giuseppe De Marzo di A Sud e il missionario comboniano Alex Zanotelli. In discussione la giusta sostenibilità e la democratizzazione dello sviluppo come architravi, assieme ai diritti della natura, del nuovo paradigma che è sì “il futuro che vogliamo”.
Qui di seguito le clip alle videointerviste realizzate qui a Rio de Janeiro
giovedì 21 giugno 2012
La Deutsche Bank e il piano di dismissioni per i governi Ue
di Salvatore Cannavò -
- informarexresistere -
Un piano di dismissione gigantesco, proporzionale a quello che coinvolse la ex Germania dell’Est dopo la riunificazione del 1990. E’ questa la richiesta che la Deutsche Bank ha fatto all’Europa, e in particolare al governo tedesco, in suo rapporto di qualche mese fa e che ora abbiamo potuto leggere. Il documento è del 20 ottobre 2011 e si intitola “Guadagni, concorrenza, crescita” ed è firmato da Dieter Bräuninger, economista della banca tedesca dal 1987 e attualmente Senior Economist al dipartimento Deutsche Bank Researc. Un testo importante perché aiuta a capire meglio cosa sono “i mercati finanziari”, chi è che ogni giorno boccia o promuove determinate politiche di questo o quel governo. La richiesta che è rivolta direttamente alla cosiddetta Troika, Commissione europea, Bce e Fmi è quella della privatizzazione massiccia e profonda del sistema di welfare sociale e di servizi pubblici per un valore di centinaia di miliardi di euro per i seguenti paesi: Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Il rapporto stretto con gli “attacchi” dei mercati internazionali si vede a occhio nudo
Gli autori del rapporto hanno come modello di riferimento per questo piano di privatizzazione il vecchio Treuhandanstalt tedesco (l’Istituto di Gestione fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994 garanti la dismissione di cira 8000 aziende dell’ex Ddr soprattutto a vantaggio delle imprese dell’Ovest). Stiamo parlando di un valore patrimoniale di 600 miliardi di marchi tedeschi del 1990 secondo le stime ufficiali, circa 307 miliardi di euro attuali. Nonostante quell’agenzia abbia terminato il suo lavoro con una perdita di 256 miliardi di marchi, lo schema viene riproposto nel documento Deutsche Bank – e a giudicare dalle intenzioni, anche dai progetti governativi: “La situazione difficile sui mercati finanziari non è un ostacolo – scrive il rapporto. Una modalità consisterebbe nel trasferire gli attivi a un’agenzia incaricata esplicitamente di privatizzazione. Questa potrebbe in seguito, a seconda della congiuntura dei mercati, scaglionare la vendita nel tempo”. Si mette tutto in un fondo comune, dunque, senza fare di questa o quella privatizzazione l’emblema del progetto, in modo da non sapere più cosa e quando viene venduto, aggirando eventuali opposizioni.
Il capitolo che riguarda l’Italia è molto dettagliato, al pari di quelli degli altri stati. Dopo aver fatto una breve disamina della situazione pregressa – dall’Iri alle privatizzazioni di Telecom e delle altre grandi aziende - il documento ammette che “lo stato nel suo complesso nel corso dell’ultimo decennio si è ritirato in modo significativo” da diversi settori. Però esistono ancora “potenziali entrate derivanti dalla vendita di partecipazioni in grandi aziende”. Almeno 70-80 miliardi. Ma “particolare attenzione meritano gli edifici pubblici, terreni e fabbricati. Il loro valore è stimato dalla Cassa Depositi e Prestiti per un totale di 421 miliardi”. E, si aggiunge, “la loro vendita potrebbe essere effettuata relativamente con poco sforzo”.
“Secondo i dati ufficiali, è di proprietà dello Stato (comprese le regioni, i comuni) un patrimonio complessivo di 571 miliardi, ossia quasi il 37% del Pil”. Quindi, non si tratta di vendere solo qualche quota di Eni o Enel ma interi pezzi del patrimonio pubblico“in particolare l’approvvigionamento di acqua”, misura che appare “utile” soprattutto per via delle “enormi perdite, fino al 30%, dell’acqua distribuita”.
In effetti il testo dedica molto spazio ai servizi pubblici, non solo l’acqua pubblica: “A differenza delle telecomunicazioni, certe parti del settore energetico e dei trasporti (innanzitutto ferroviari) sono ancora suscettibili di privatizzazioni radicali e di una deregolamentazione, da condurre nell’insieme dell’Europa”. E nel testo non c’è alcun imbarazzo a scrivere che “in principio, la privatizzazione di servizi pubblici di interesse generale presenta dei vantaggi, come ad esempio l’approvvigionamento d’acqua, la gestione delle fognature, l’assistenza sanitaria e le attività non statali dell’amministrazione pubblica”.
Oltre all’Italia, come detto, il rapporto si occupa di altri paesi. La Francia, ad esempio dovrebbe avere circa 88 miliardi di euro di beni capitalizzabili sul mercato, il 4,6% del Pil ma, spiega la Deutsche Bank, “l’intervento statale nell’economia va oltre queste cifre”. Ci sono le infrastrutture, le centrali idroelettriche a partire dall’Edf che è di proprietà statale e ampi spazi del settore bancario. Per quanto riguarda la Spagna, l’accento è posto sulla vendita di aeroporti, sui servizi di navigazione, i cantieri navali, le Poste, le ferrovie. Infine, per quanto riguarda la Grecia, si ricorda che gli impegni presi dal paese nei confronti della Troika riguardano il 22% del Pil, circa 50 miliardi di euro di privatizzazioni. Ma, si sottolinea, “lo Stato controlla il 70% del Paese”, quindi c’è ancora molto da fare.
Un piano di dismissione gigantesco, proporzionale a quello che coinvolse la ex Germania dell’Est dopo la riunificazione del 1990. E’ questa la richiesta che la Deutsche Bank ha fatto all’Europa, e in particolare al governo tedesco, in suo rapporto di qualche mese fa e che ora abbiamo potuto leggere. Il documento è del 20 ottobre 2011 e si intitola “Guadagni, concorrenza, crescita” ed è firmato da Dieter Bräuninger, economista della banca tedesca dal 1987 e attualmente Senior Economist al dipartimento Deutsche Bank Researc. Un testo importante perché aiuta a capire meglio cosa sono “i mercati finanziari”, chi è che ogni giorno boccia o promuove determinate politiche di questo o quel governo. La richiesta che è rivolta direttamente alla cosiddetta Troika, Commissione europea, Bce e Fmi è quella della privatizzazione massiccia e profonda del sistema di welfare sociale e di servizi pubblici per un valore di centinaia di miliardi di euro per i seguenti paesi: Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Il rapporto stretto con gli “attacchi” dei mercati internazionali si vede a occhio nudo
Gli autori del rapporto hanno come modello di riferimento per questo piano di privatizzazione il vecchio Treuhandanstalt tedesco (l’Istituto di Gestione fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994 garanti la dismissione di cira 8000 aziende dell’ex Ddr soprattutto a vantaggio delle imprese dell’Ovest). Stiamo parlando di un valore patrimoniale di 600 miliardi di marchi tedeschi del 1990 secondo le stime ufficiali, circa 307 miliardi di euro attuali. Nonostante quell’agenzia abbia terminato il suo lavoro con una perdita di 256 miliardi di marchi, lo schema viene riproposto nel documento Deutsche Bank – e a giudicare dalle intenzioni, anche dai progetti governativi: “La situazione difficile sui mercati finanziari non è un ostacolo – scrive il rapporto. Una modalità consisterebbe nel trasferire gli attivi a un’agenzia incaricata esplicitamente di privatizzazione. Questa potrebbe in seguito, a seconda della congiuntura dei mercati, scaglionare la vendita nel tempo”. Si mette tutto in un fondo comune, dunque, senza fare di questa o quella privatizzazione l’emblema del progetto, in modo da non sapere più cosa e quando viene venduto, aggirando eventuali opposizioni.
Il capitolo che riguarda l’Italia è molto dettagliato, al pari di quelli degli altri stati. Dopo aver fatto una breve disamina della situazione pregressa – dall’Iri alle privatizzazioni di Telecom e delle altre grandi aziende - il documento ammette che “lo stato nel suo complesso nel corso dell’ultimo decennio si è ritirato in modo significativo” da diversi settori. Però esistono ancora “potenziali entrate derivanti dalla vendita di partecipazioni in grandi aziende”. Almeno 70-80 miliardi. Ma “particolare attenzione meritano gli edifici pubblici, terreni e fabbricati. Il loro valore è stimato dalla Cassa Depositi e Prestiti per un totale di 421 miliardi”. E, si aggiunge, “la loro vendita potrebbe essere effettuata relativamente con poco sforzo”.
“Secondo i dati ufficiali, è di proprietà dello Stato (comprese le regioni, i comuni) un patrimonio complessivo di 571 miliardi, ossia quasi il 37% del Pil”. Quindi, non si tratta di vendere solo qualche quota di Eni o Enel ma interi pezzi del patrimonio pubblico“in particolare l’approvvigionamento di acqua”, misura che appare “utile” soprattutto per via delle “enormi perdite, fino al 30%, dell’acqua distribuita”.
In effetti il testo dedica molto spazio ai servizi pubblici, non solo l’acqua pubblica: “A differenza delle telecomunicazioni, certe parti del settore energetico e dei trasporti (innanzitutto ferroviari) sono ancora suscettibili di privatizzazioni radicali e di una deregolamentazione, da condurre nell’insieme dell’Europa”. E nel testo non c’è alcun imbarazzo a scrivere che “in principio, la privatizzazione di servizi pubblici di interesse generale presenta dei vantaggi, come ad esempio l’approvvigionamento d’acqua, la gestione delle fognature, l’assistenza sanitaria e le attività non statali dell’amministrazione pubblica”.
Oltre all’Italia, come detto, il rapporto si occupa di altri paesi. La Francia, ad esempio dovrebbe avere circa 88 miliardi di euro di beni capitalizzabili sul mercato, il 4,6% del Pil ma, spiega la Deutsche Bank, “l’intervento statale nell’economia va oltre queste cifre”. Ci sono le infrastrutture, le centrali idroelettriche a partire dall’Edf che è di proprietà statale e ampi spazi del settore bancario. Per quanto riguarda la Spagna, l’accento è posto sulla vendita di aeroporti, sui servizi di navigazione, i cantieri navali, le Poste, le ferrovie. Infine, per quanto riguarda la Grecia, si ricorda che gli impegni presi dal paese nei confronti della Troika riguardano il 22% del Pil, circa 50 miliardi di euro di privatizzazioni. Ma, si sottolinea, “lo Stato controlla il 70% del Paese”, quindi c’è ancora molto da fare.
Paura della crisi? Venditi un rene.
di Massimiliano Ferraro - eastjournal -
La crisi economica può far perdere la testa e anche qualcos’altro. Sebbene la vendita di organi umani sia illegale, nella vecchia Europa c’è chi sta prendendo in considerazione questa ipotesi estrema per sbarcare il lunario. Secondo il New York Times, gli sconvolgimenti finanziari stanno causando una crescita sorprendente del mercato nero degli organi. È il caso della Grecia dove persone disperate mettono in vendita su internet parti del loro corpo, in quello che si presenta come un macabro commercio basato sulla disperazione reciproca di chi compra e chi vende. C’è l’imprenditore del Pireo che ha confessato ai giornali di aver venduto un rene per 100.000 dollari per non soccombere alla crisi, e il pescatore dell’isola di Rodi che ha offerto al miglior offerente lo stesso organo. Ma nel bel mezzo della tragedia greca non è difficile trovare altri casi simili come ad esempio l’annuncio apparso recentemente sulla bacheca di un popolare forum online: “Selling my kidney will help my family survive”, scrive un trentasettenne di Atene, “vendo il mio rene per aiutare la mia famiglia a sopravvivere”.
In Europa sono circa sessantamila le persone in attesa di un trapianto e dieci pazienti al giorno muoiono per mancanza di organi. Il terreno per la commercializzazione illegale è fertile.
Concorrenza a pezzi
La piaga del contrabbando di organi interessa principalmente paesi come la Cina, l’India, il Pakistan, il Brasile e le Filippine, dove uomini, donne e bambini vengono utilizzati come pezzi di ricambio da criminali senza scrupoli. Succede nelle provincie cinesi, dove il costo di un rene oscilla intorno ai 40.000 dollari, o nei dintorni di Nuova Delhi dove per lo stesso trapianto ne bastano appena 20.000. In Europa invece, fino a poco tempo fa, erano pochi gli organi disponibili a chilometri zero. Ai facoltosi pazienti occidentali in attesa di trapianto non rimaneva che rivolgersi a trafficanti di esseri umani attivi in Ucraina, Moldavia ed ex Jugoslavia, pagando cifre fino a 200.000 dollari per un rene.
Ora l’ingresso sul mercato dei nuovi “donatori” europei pronti a tutto sta spingendo al ribasso il costo degli organi. Centomila, settantacinque mila, cinquantamila euro, con queste cifre su alcuni siti internet con dominio russo si può trovare davvero di tutto: dai reni al midollo osseo, dalle cornee al latte materno. L’organo più caro è il polmone, il cui valore può arrivare a superare i 300.000 euro. I reni sono invece gli organi per cui è presente maggiore offerta (il 75% degli organi). I dati forniti dalle Nazioni Unite indicano che una percentuale compresa tra il 5 e il 10% dei trapianti di rene eseguiti ogni anno è frutto del traffico di organi. Nel Vecchio Continente le offerte sono centinaia: “Vendo il mio rene in tutta Europa per 100.000 euro”, scrive un altro utente di internet greco, “non ho mai avuto problemi di cuore, diabete e colesterolo”.
Complessivamente le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità parlano di circa 10.000 interventi chirurgici all’anno svolti dopo una compravendita illegale di organi. Sempre secondo l’ONG “il traffico di organi è aumentato a dismisura, con una frequenza pari alla cessione di un organo ogni ora”.
Pronti a vendersi l’anima
“La crisi fa paura? Hai bisogno di contanti? Vendi le tue parti del corpo!”, si legge in una pubblicità sul web. Di seguito viene poi spiegato con rammarico che, per legge, non si possono cedere legalmente i propri organi prima della morte. Tuttavia si può comunque mettere in vendita il proprio sangue e i propri capelli per “ottenere qualche soldo in più con cui finanziare una vacanza all’estero o l’acquisto di una casa”.
L’Europa impara in fretta e il ragazzo cinese che si è venduto un rene per comprare un Ipad presto potrebbe non avere più nulla da insegnare. Non resterà che provare a vendere anche l’anima.
Un’altra strada per l’Europa
Un’alternativa all’immobilismo dell’Europa, allo strapotere delle finanza e alle politiche di austerità viene dal Forum internazionale “Un’altra strada per l’Europa” che si terrà il 28 giugno a Bruxelles, al Parlamento europeo. L’iniziativa è promossa dall’appello “Un’altra strada per l’Europa”. L’Appello Promosso da un gruppo che comprende Rossana Rossanda e Susan George, Zygmunt Bauman e Samir Amin, Seyla Benhabib e Monica Frassoni, Paul Ginsborg e Mary Kaldor, Maurizio Landini e Giulio Marcon, Chantal Mouffe e Saskia Sassen, l’Appello – sottoscritto da oltre cento protagonisti dei movimenti, della politica e della cultura europea – denuncia che “L’Europa è in crisi perché è stata sequestrata dal neoliberismo e dalla finanza” e propone sei obiettivi da cui partire: ridimensionare la finanza, rilanciare l’economia, difendere il lavoro e ridurre le disuguaglianze, proteggere l’ambiente, assicurare la pace, praticare la democrazia.
- sbilanciamoci -
Il Forum
Un intenso dialogo tra le reti europee di movimenti ed esperti, sindacati e associazioni ha portato all’appuntamento del Forum internazionale “Un’altra strada per l’Europa”, il 28 giugno al Parlamento europeo a Bruxelles. L’obiettivo è mettere a confronto queste proposte di alternative con la politica espressa dai parlamentari democratici, verdi e della sinistra di tutta Europa. Tre le sessioni: 1. Controllare la finanza: euro, debito e politiche fiscali. 2. Evitare una grande depressione: lavoro, new deal verde, beni comuni. 3. Un’Europa democratica. Ciascuna sessione sarà aperta da una sintesi delle proposte avanzate da movimenti e società civile, cinquanta interventi daranno concretezza alle alternative possibili e trenta politici e parlamentari europei dialogheranno su come far cambiare rotta all’Europa. Tra i relatori italiani ci saranno la fondatrice del Manifesto Rossana Rossanda, l’economista Mario Pianta, il segretario della Fiom-Cgil Maurizio Landini, il coordinatore di Sbilanciamoci! Giulio Marcon, Massimo Torelli di Rete@sinistra, Antonio Tricarico di Re:Common, Andrea Baranes della Fondazione Etica, Lorenzo Marsili di European Alternatives, Raffaella Bolini dell’Arci,
Tommaso Fattori delle campagne sull’acqua pubblica, e molti altri. Tra i politici, la verde Monica Frassoni, il responsabile economia del Pd Stefano Fassina, gli eurodeputati Pd Gianni Pittella e Leonardo Dominici e altri ancora. Accanto a queste voci italiane ci saranno gli europei della rete di economisti Euromemorandum, esponenti di Attac da Germania, Francia e altri paesi, gli “economisti sgomenti” francesi, gli inglesi di Red Pepper e OpenDemocracy, movimenti greci e spagnoli, diversi sindacati europei.
Il Forum del 28 giugno si tiene nel giorno di apertura del Consiglio europeo in cui si prenderanno decisioni chiave. Quasi un controvertice, l’incontro di Bruxelles presenterà le priorità per cambiare rotta rispetto alle politiche dei governi europei. Alle 13 si terrà una conferenza stampa a Bruxelles. Il dibattito e le proposte Materiali e proposte su questi temi sono stati raccolti da Sbilanciamoci! e Il manifesto nei due volumi su “La rotta d’Europa” (e-book scaricabili gratis)
Per informazioni: anotherroadforeurope@gmail.com
WELCOME
BACK 1941-2012
MERKEL-MARKET
: Loan only allowed previous contract to buy 170 Leopards,223 guns and 4
discarded submarines (Tyssen-krupp)
"They
fucked-up our youth and now they are fucking up our pensions"
mercoledì 20 giugno 2012
Tsipras, la Merkel e il Furore dei popoli europei
- micromega -
Se la Merkel temeva il famoso moral hazard incentivato da un “cedimento” alle richieste degli “estremisti di Syriza”, non c'era migliore condizione di una affermazione del centrodestra greco per dimostrare elasticità e pragmatismo. Ma la Cancelliera ha detto il suo ennesimo “no”. E l'Europa precipita nella crisi.
di Emilio Carnevali
Se il leader di Syriza, il giovane Alexis Tsipras, fosse un uomo terribilmente cinico, il più contento del risultato delle elezioni greche oggi sarebbe proprio lui. Nel giro di quattro anni, grazie al dramma che si è abbattuto sulla popolazione greca, il suo partito è passato dal 4% al 27%. E ora non è nemmeno costretto a “scoprire il bluff” – per usare una espressione mutuata dal poker, non inappropriata visto il contesto – della rinegoziazione del memorandum di intesa con la Trojka. O a trarre le conseguenze di un prevedibile Niet – il proverbiale “Vedo” temuto anche dal bluffatore più consumato – pronunciato da Berlino alle sue richieste.
Per quanto tutti i giornali abbiano titolato “La Grecia sceglie l'Euro”, infatti, la posizione ufficiale di Syriza non era affatto contraria alla moneta unica e all'Unione europea. Lo scorso 21 maggio, in un'intervista al quotidiano britannico The Guardian, Tsipras lo aveva ribadito per l'ennesima volta, rispondendo ad una precisa domanda della giornalista Helena Smith: «Lei è contrario all'euro?». «È ovvio che noi non siamo contrari all'Euro e all'idea di una unione politica e monetaria», era stata la presa di posizione nettissima del giovane leader greco. Ciò a cui era contrario, se mai, era la politica di sola austerity imposta al suo paese: le misure grazie alle quali, anche nel primo trimestre del 2012, il Pil greco è sceso del 6,5%, la disoccupazione giovanile è volata al 54% e la spirale di deterioramento dei conti pubblici (deficit e debito, è bene ricordarlo, sono sempre valutati in rapporto al Pil) non sembra arrestarsi. Per questo Tsipras proponeva un «diverso piano di aggiustamento fiscale» per la Grecia e auspicava che l'Europa, consapevole del carattere continentale della crisi, mettesse in campo un New Deal (la politica con il quale il presidente democratico Roosevelt affrontò la Grande Depressione degli anni Trenta) e conferisse alla Bce un vero mandato per lottare contro la speculazione finanziaria che colpisce i debiti sovrani dei paesi della “periferia”.
di Emilio Carnevali
Se il leader di Syriza, il giovane Alexis Tsipras, fosse un uomo terribilmente cinico, il più contento del risultato delle elezioni greche oggi sarebbe proprio lui. Nel giro di quattro anni, grazie al dramma che si è abbattuto sulla popolazione greca, il suo partito è passato dal 4% al 27%. E ora non è nemmeno costretto a “scoprire il bluff” – per usare una espressione mutuata dal poker, non inappropriata visto il contesto – della rinegoziazione del memorandum di intesa con la Trojka. O a trarre le conseguenze di un prevedibile Niet – il proverbiale “Vedo” temuto anche dal bluffatore più consumato – pronunciato da Berlino alle sue richieste.
Per quanto tutti i giornali abbiano titolato “La Grecia sceglie l'Euro”, infatti, la posizione ufficiale di Syriza non era affatto contraria alla moneta unica e all'Unione europea. Lo scorso 21 maggio, in un'intervista al quotidiano britannico The Guardian, Tsipras lo aveva ribadito per l'ennesima volta, rispondendo ad una precisa domanda della giornalista Helena Smith: «Lei è contrario all'euro?». «È ovvio che noi non siamo contrari all'Euro e all'idea di una unione politica e monetaria», era stata la presa di posizione nettissima del giovane leader greco. Ciò a cui era contrario, se mai, era la politica di sola austerity imposta al suo paese: le misure grazie alle quali, anche nel primo trimestre del 2012, il Pil greco è sceso del 6,5%, la disoccupazione giovanile è volata al 54% e la spirale di deterioramento dei conti pubblici (deficit e debito, è bene ricordarlo, sono sempre valutati in rapporto al Pil) non sembra arrestarsi. Per questo Tsipras proponeva un «diverso piano di aggiustamento fiscale» per la Grecia e auspicava che l'Europa, consapevole del carattere continentale della crisi, mettesse in campo un New Deal (la politica con il quale il presidente democratico Roosevelt affrontò la Grande Depressione degli anni Trenta) e conferisse alla Bce un vero mandato per lottare contro la speculazione finanziaria che colpisce i debiti sovrani dei paesi della “periferia”.
MA I MERCATI CHI???
Apri il telegiornale e senti il giornalista dire: "I mercati soffrono... ", "I mercati chiedono...". Poi parte un contributo con Mario Monti che dice "I mercati patiscono un vizio di orgine della pur bella costruzione dell'euro". E allora non ce la fai più e sbotti: "Ma i mercati chi???".
No, perché deve essere chiaro che i mercati non esistono come soggetto antropomorfo né come entità giuridica. Sono solo l'insieme dell'interazione di tante piccole (e alcune gigantesche) operazioni di compravendita. Nessuno sa perché la borsa scende o sale. Forse giusto quelli di Piazza Affari, a fronte di un'analisi di massima, e in ogni caso non te lo vengono certo a dire né possono aver parlato con ognuno dei milioni di risparmiatori che hanno venduto e comprato. Caso mai con quelli grossi grossi che hanno speculato. Ma lì vai nel penale.
Quindi delle due l'una: quello che vi spiega cosa vogliono i mercati o sta mentendo per poterne concludere che "I mercati chiedono più Europa", cioè quello che interessa a lui sostenere, e allora è un bugiardo, oppure lo sa perché conosce personalmente le grandi banche d'affari e le grandi organizzazioni che, con le loro operazioni di compravendita gigantesche, influenzano le borse e portano alle stelle i rendimenti dei titoli di Stato. Ma in questo caso è un criminale, perché sa bene chi affama milioni di persone, ci parla al telefono e ciononostante li copre, non li porta allo scoperto e quindi ne è complice.
La prossima volta che qualcuno vi dice "I mercati pensano che...", chiedetegli se è uno stupido oppure se per caso sa esattamente chi è che ogni giorno, da mesi, decide la politica che devono subire i popoli delle grandi democrazie occidentali. E se lo sa, fatevi dire quali sono i nomi e le facce perché possano essere opportunamente processati. O perlomeno si possa avviare una trattativa, che suona tanto come quella più famosa tra Stato e mafia.
Quindi delle due l'una: quello che vi spiega cosa vogliono i mercati o sta mentendo per poterne concludere che "I mercati chiedono più Europa", cioè quello che interessa a lui sostenere, e allora è un bugiardo, oppure lo sa perché conosce personalmente le grandi banche d'affari e le grandi organizzazioni che, con le loro operazioni di compravendita gigantesche, influenzano le borse e portano alle stelle i rendimenti dei titoli di Stato. Ma in questo caso è un criminale, perché sa bene chi affama milioni di persone, ci parla al telefono e ciononostante li copre, non li porta allo scoperto e quindi ne è complice.
La prossima volta che qualcuno vi dice "I mercati pensano che...", chiedetegli se è uno stupido oppure se per caso sa esattamente chi è che ogni giorno, da mesi, decide la politica che devono subire i popoli delle grandi democrazie occidentali. E se lo sa, fatevi dire quali sono i nomi e le facce perché possano essere opportunamente processati. O perlomeno si possa avviare una trattativa, che suona tanto come quella più famosa tra Stato e mafia.
Perchè la Grecia non può fallire
Da una parte le nazioni del centro-europa, Germania su tutti, con la loro efficienza, il loro rigore, la loro saccente, cattedratica presupponenza nel voler essere da esempio. Dall'altra quel che rimane delle democrazie in svendita del sud Europa, con la loro inefficienza, il loro permissivismo, la loro inciviltà, la loro corruzione. Ma sotto la patina dei luoghi comuni, a ben vedere, i buoni non sono poi così buoni, e si scopre che i cattivi non erano soli, nella parte.
Forse, più semplicemente, tutto il mondo è paese.
Così, accade che l'ex ministro della Difesa greco, Akis Tsochatzopoulos, sia finito dentro con l'accusa di corruzione, insieme alla sua bella moglie di 35 anni più giovane. E se c'è un corrotto, come insegna il caso Mills, da qualche parte c'è un corruttore. Peccato che il corruttore questa volta non sia un greco, ma guardacaso un tedesco. Dodici anni fa, la tedesca Ferrostaal avrebbe pagato sotto banco 8 milioni di euro a Tsochatzopoulos per acquistare quattro sottomarini di Classe U-214, tra l'altro di cui tre ancora da consegnare. Il tutto mentre la Goldman Sachs di cui Draghi era vicepresidente aiutava Atene a falsificare i bilanci, in cambio di 300 milioni di euro. Non male per Berlino, che oggi punta il dito contro la corruzione del popolo greco. Ma c'è di più. Secondo il Wall Street Journal
la Merkel avrebbe preteso dalla Grecia, in cambio degli stanziamenti da 130 miliardi della troika, l'acquisto dei suoi armamenti. La Grecia in passato aveva già acquistato dalla Germania 170 panzer Leopard costati 1,7 miliardi di euro, 223 cannoni dismessi dalla la Difesa tedesca e 4 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp, che Papandreou non voleva (un buon motivo per farlo fuori). Tutta roba usata, di cui il vice di Papandreu aveva denunciato pubblicamente l'inutilità. Come puoi chiedere a un Paese di tagliare i salari e le pensioni, e contemporaneamente obbligarlo a comprare le tue armi? Tra il 2001 e il
2006 la Grecia era il quarto acquirente mondiale in fatto di produzioni belliche, concentrando sulle sue esili spalle il 15% dell'export dell'industria militare tedesca e il 10% di quella francese. Già, perché anche Sarkozy, in una visita di Papndreou a Parigi, ha obbligato Atene ad acquistare 6 fregate e 15 elicotteri francesi, per un totale di 4 miliardi di euro. E venerdì scorso, a due giorni dal voto, i greci hanno comprato dagli olandesi 13 milioni e mezzo di euro in munizioni per i carri armati, quelli tedeschi. Una spesa militare che per il 2012 assommerà a 7 miliardi di euro.
Certo, tutti questi miliardi di euro in commesse militari sarebbero di difficile esigibilità per la Germania e per la Francia, se la Grecia fallisse. Se a questo si aggiunge che l'esposizione delle banche tedesche nei confronti di Atene è di 18,6 miliardi, mentre il sistema bancario di Parigi teme addirittura per i suoi 47,9 mliardi, il quadro è completo. L'uscita dall'euro della Grecia non sarebbe un dramma di per sè, dato che una popolazione di 11 milioni di persone con un debito pubblico di 300 e rotti miliardi non è esattamente un Armageddon inaffrontabile. Ma chi pagherebbe i conti delle aziende tedesche e di quelle francesi?
Prestiti subito, dunque! Ma per saldare i crediti dell'asse franco-tedesco si usano i soldi degli aiuti internazionali, che sono i nostri!
Così, accade che l'ex ministro della Difesa greco, Akis Tsochatzopoulos, sia finito dentro con l'accusa di corruzione, insieme alla sua bella moglie di 35 anni più giovane. E se c'è un corrotto, come insegna il caso Mills, da qualche parte c'è un corruttore. Peccato che il corruttore questa volta non sia un greco, ma guardacaso un tedesco. Dodici anni fa, la tedesca Ferrostaal avrebbe pagato sotto banco 8 milioni di euro a Tsochatzopoulos per acquistare quattro sottomarini di Classe U-214, tra l'altro di cui tre ancora da consegnare. Il tutto mentre la Goldman Sachs di cui Draghi era vicepresidente aiutava Atene a falsificare i bilanci, in cambio di 300 milioni di euro. Non male per Berlino, che oggi punta il dito contro la corruzione del popolo greco. Ma c'è di più. Secondo il Wall Street Journal
martedì 19 giugno 2012
La Grecia torna al circolo vizioso
Fonte: il manifesto | Autore: Vassilis K. Fouskas *
I corrotti al governo, ancora rigore e memorandum. Chi ha vinto?
Dopo una campagna senza precedenti di paura, ricatti e minacce contro Syriza da parte di leader tedeschi, europei e del Fondo monetario internazionale (Fmi), Nuova democrazia (Nd), il partito di centro-destra pro-memorandum ha vinto di un soffio ed è pronta a formare un governo col suo compagno di corruzione, il Pasok. Un simile esecutivo potrà durare a lungo? Ne dubito.
La Germania è sotto pressione da parte di Obama e Hollande che le chiedono di cambiare direzione e rinegoziare gli accordi di «salvataggio» già sottoscritti con i governi della periferia europea. Ma le crisi in Spagna e altrove, specialmente in Portogallo e a Cipro, sono molto dure e richiedono riforme profonde, come un’unione bancaria e un’unione di trasferimento (di ricchezza dai paesi più ricchi a quelli più poveri, ndt) attraverso un fondo di riscatto paneuropeo e l’emissione di eurobond, il che significa che la Germania dovrebbe condividere la sua carta di credito con i paesi debitori. Tuttavia uno scenario simile pone ulteriori problemi a qualsiasi governo europeo, perché configura proposte politiche che consegnano l’indipendenza nazionale nelle mani della Germania (soprattutto l’unione di trasferimento). Inoltre – sia che queste proposte vengano approvate sia che vengano respinte – le politiche di «austerità» nella periferia continueranno, e daranno vita a nuove mobilitazioni popolari e agitazioni sociali. In Grecia il blocco politico della destra governerà sulla base del programma imposto dalla troika (Fmi, Bce, Ue) nella speranza di raggiungere un avanzo primario di bilancio, in modo che il paese possa fare default ufficialmente, all’interno dell’area euro. Ma tutto ciò richiederà ulteriore «austerità», più tasse e tagli ai salari, più prestiti. In altre parole un circolo vizioso di proliferazione del debito, della disoccupazione e di contrazione del prodotto interno lordo.
Dall’altro lato, Syriza è forte. In meno di tre anni il suo blocco elettorale è cresciuto dal 4,6% (nel 2009) al 16,8% (il 6 maggio scorso), al 27% (17 giugno 2012). Una progressione politica e sociale spettacolare che non ha precedenti nella storia della Grecia e dell’Europa del dopoguerra, e che non si fermerà. Ora Syriza ha 71 deputati nel Parlamento ellenico, di 300 membri. È il partito della sinistra radicale più forte d’Europa e ha messo su reti di solidarietà e assemblee popolari in tutto il Paese. Con ogni probabilità, formerà un governo ombra che attaccherà ogni singolo provvedimento che verrà preso dal blocco di centro-destra e dai suoi protettori stranieri. La troika ha già annunciato che è pronta a mandare ad Atene i suoi ispettori appena verrà formato il nuovo governo. Nello stesso tempo, e a causa della continua «austerità», Syriza avrà sempre più sostegno nella società, erodendo ulteriormente la base sociale del Pasok e di Nd. In altre parole, la coalizione di destra pro-memorandum che si formerà dopo il voto di ieri, non ha alcuna possibilità di sopravvivere a lungo.
Un elemento chiave è tuttavia cosa farà la troika. Darà la possibilità al nuovo governo di rinegoziare il memorandum? Se sì, probabilmente si tratterà di cambiamenti di facciata, per tranquillizzare la società greca. Ma se le cose andranno davvero in questo modo, allora la vita del nuovo governo sarà brevissima. Date le pressioni che la Germania subisce da ogni lato, è probabile che il tentativo di applicare nella sua interezza il memorandum porti a un’uscita disordinata della Grecia dall’area euro. In qualsiasi scenario una cosa è certa: i voti in favore di Syriza continueranno ad aumentare.
(Vassilis K. Fouskas è professore di Relazioni internazionali alla Richmond University, Londra)
La Germania è sotto pressione da parte di Obama e Hollande che le chiedono di cambiare direzione e rinegoziare gli accordi di «salvataggio» già sottoscritti con i governi della periferia europea. Ma le crisi in Spagna e altrove, specialmente in Portogallo e a Cipro, sono molto dure e richiedono riforme profonde, come un’unione bancaria e un’unione di trasferimento (di ricchezza dai paesi più ricchi a quelli più poveri, ndt) attraverso un fondo di riscatto paneuropeo e l’emissione di eurobond, il che significa che la Germania dovrebbe condividere la sua carta di credito con i paesi debitori. Tuttavia uno scenario simile pone ulteriori problemi a qualsiasi governo europeo, perché configura proposte politiche che consegnano l’indipendenza nazionale nelle mani della Germania (soprattutto l’unione di trasferimento). Inoltre – sia che queste proposte vengano approvate sia che vengano respinte – le politiche di «austerità» nella periferia continueranno, e daranno vita a nuove mobilitazioni popolari e agitazioni sociali. In Grecia il blocco politico della destra governerà sulla base del programma imposto dalla troika (Fmi, Bce, Ue) nella speranza di raggiungere un avanzo primario di bilancio, in modo che il paese possa fare default ufficialmente, all’interno dell’area euro. Ma tutto ciò richiederà ulteriore «austerità», più tasse e tagli ai salari, più prestiti. In altre parole un circolo vizioso di proliferazione del debito, della disoccupazione e di contrazione del prodotto interno lordo.
Dall’altro lato, Syriza è forte. In meno di tre anni il suo blocco elettorale è cresciuto dal 4,6% (nel 2009) al 16,8% (il 6 maggio scorso), al 27% (17 giugno 2012). Una progressione politica e sociale spettacolare che non ha precedenti nella storia della Grecia e dell’Europa del dopoguerra, e che non si fermerà. Ora Syriza ha 71 deputati nel Parlamento ellenico, di 300 membri. È il partito della sinistra radicale più forte d’Europa e ha messo su reti di solidarietà e assemblee popolari in tutto il Paese. Con ogni probabilità, formerà un governo ombra che attaccherà ogni singolo provvedimento che verrà preso dal blocco di centro-destra e dai suoi protettori stranieri. La troika ha già annunciato che è pronta a mandare ad Atene i suoi ispettori appena verrà formato il nuovo governo. Nello stesso tempo, e a causa della continua «austerità», Syriza avrà sempre più sostegno nella società, erodendo ulteriormente la base sociale del Pasok e di Nd. In altre parole, la coalizione di destra pro-memorandum che si formerà dopo il voto di ieri, non ha alcuna possibilità di sopravvivere a lungo.
Un elemento chiave è tuttavia cosa farà la troika. Darà la possibilità al nuovo governo di rinegoziare il memorandum? Se sì, probabilmente si tratterà di cambiamenti di facciata, per tranquillizzare la società greca. Ma se le cose andranno davvero in questo modo, allora la vita del nuovo governo sarà brevissima. Date le pressioni che la Germania subisce da ogni lato, è probabile che il tentativo di applicare nella sua interezza il memorandum porti a un’uscita disordinata della Grecia dall’area euro. In qualsiasi scenario una cosa è certa: i voti in favore di Syriza continueranno ad aumentare.
(Vassilis K. Fouskas è professore di Relazioni internazionali alla Richmond University, Londra)
Traduzione di Michelangelo Cocco
Grecia – Europa, punto e a capo
Fonte: il manifesto | Autore: Marco D'Eramo
Adesso è chiaro che il problema non è, non è mai stata la Grecia. Che anche se dalle urne è arrivato primo il partito degli obbedienti di Nea Democratia (gli stessi che hanno condotto Atene al disastro), non è stato fatto nessun passo avanti per risolvere la crisi dell’euro. E, al di là delle congratulazioni di maniera, anche la cancelliera tedesca Angela Merkel non deve essere troppo soddisfatta. Era chiaro pure agli orbi che la Germania stava cercando qualcunque appiglio per estromettere la Grecia dall’euro. Se la formazione di sinistra Syriza avesse ottenuto il primato, Berlino avrebbe avuto l’alibi che cercava per espellere Atene dall’unione monetaria e avviare il processo di messa in riga che auspica fin dall’inizio: commissariare o radiare tutti i paesi Pigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Ora invece Berlino, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea si trovano in un bel guaio: non possono punire i greci per aver votato come gli veniva chiesto, ma non possono neanche «premiare» la Grecia colpevole e debitrice. E il voto non ha ridotto il debito né rinviato le scadenze delle rate.
Ecco perché i padroni dell’Europa si ritrovano punto e a capo, quasi impotenti, con però due mesi in più trascorsi e quindi con il sistema bancario della Spagna sempre più vicino al crac, pronto a trascinare l’Italia con sé.
Nel 2009 alla Germania sarebbero bastati 50 miliardi di euro per risolvere il problema alla radice: per fermare la speculazione, l’unica è far perdere denaro agli speculatori. Se i brookers che scommettevano contro l’euro ci avesso subito rimesso, non avrebbero proseguito negli attacchi. Ma ragioni elettorali, di convenienza finanziaria (lasciare alle banche tedesche e francesi il tempo di disincagliarsi dai Pigs), di strategia politica (usare la crisi dell’euro per serrare la presa franco-tedesca sull’Europa) ci hanno portato al punto in cui non basterebbero 2.000 miliardi per salvare l’euro, perché tutta l’economia di riferimento è ferma, con molti paesi in recessione gravissima. In Italia migliaia di piccole e medie imprese chiudono o vendono a ritmo accelerato. I privati convertono i propri beni in lingotti d’oro, gli assets vengono ritirati dalle banche e trasferiti all’estero: il clima è da «si salvi chi può».
Il problema dell’euro è sempre stato politico, non finanziario: non ci può essere moneta unica senza politica economica comune e questa non è possibile se non è gestita da un soggetto legittimo, cioè eletto a suffragio universale europeo. Ma ora non c’è tempo materiale per avviare la costruzione di un’entità politica «Euro» e – francamente – i popoli non ne hanno nemmeno la volontà, dopo il modo in cui l’euro li ha trattati e continua a punirli.
Al summit G20 apertosi ieri a Los Cabos (Messico) ci sarà di certo ammannita un’altra ragionevole (e vana) esortazione del presidente degli Stati uniti Barack Obama. L’unica speranza, anch’essa assai improbabile, è che venerdì, almeno nello stadio di Danzica (ah la memoria storica!) la nazionale di calcio greca dimostri a quella tedesca che il Dio dello Spread non è onnipotente e può essere mandato nel pallone.
Ora invece Berlino, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea si trovano in un bel guaio: non possono punire i greci per aver votato come gli veniva chiesto, ma non possono neanche «premiare» la Grecia colpevole e debitrice. E il voto non ha ridotto il debito né rinviato le scadenze delle rate.
Ecco perché i padroni dell’Europa si ritrovano punto e a capo, quasi impotenti, con però due mesi in più trascorsi e quindi con il sistema bancario della Spagna sempre più vicino al crac, pronto a trascinare l’Italia con sé.
Nel 2009 alla Germania sarebbero bastati 50 miliardi di euro per risolvere il problema alla radice: per fermare la speculazione, l’unica è far perdere denaro agli speculatori. Se i brookers che scommettevano contro l’euro ci avesso subito rimesso, non avrebbero proseguito negli attacchi. Ma ragioni elettorali, di convenienza finanziaria (lasciare alle banche tedesche e francesi il tempo di disincagliarsi dai Pigs), di strategia politica (usare la crisi dell’euro per serrare la presa franco-tedesca sull’Europa) ci hanno portato al punto in cui non basterebbero 2.000 miliardi per salvare l’euro, perché tutta l’economia di riferimento è ferma, con molti paesi in recessione gravissima. In Italia migliaia di piccole e medie imprese chiudono o vendono a ritmo accelerato. I privati convertono i propri beni in lingotti d’oro, gli assets vengono ritirati dalle banche e trasferiti all’estero: il clima è da «si salvi chi può».
Il problema dell’euro è sempre stato politico, non finanziario: non ci può essere moneta unica senza politica economica comune e questa non è possibile se non è gestita da un soggetto legittimo, cioè eletto a suffragio universale europeo. Ma ora non c’è tempo materiale per avviare la costruzione di un’entità politica «Euro» e – francamente – i popoli non ne hanno nemmeno la volontà, dopo il modo in cui l’euro li ha trattati e continua a punirli.
Al summit G20 apertosi ieri a Los Cabos (Messico) ci sarà di certo ammannita un’altra ragionevole (e vana) esortazione del presidente degli Stati uniti Barack Obama. L’unica speranza, anch’essa assai improbabile, è che venerdì, almeno nello stadio di Danzica (ah la memoria storica!) la nazionale di calcio greca dimostri a quella tedesca che il Dio dello Spread non è onnipotente e può essere mandato nel pallone.
Attesa per Grecia-Germania: «Angela non ci butterai fuori (dall'euro)»
Fonte: unita
I ricchi e virtuosi contro i poveri e dissoluti. Germania-Grecia, quarto di finale di Euro 2012, di venerdì prossimo a Danzica è anche questo, una metafora calcistica applicata alla crisi economica. È stretta attualità, perchè cadrà proprio nel giorno del vertice a Roma tra Monti, Merkel, Hollande e Rajoy, che molto probabilmente non consentirà alla cancelliera di essere presente alla partita dei 'panzer'. All'indomani dell'accoppiamento, un giornale greco si è lanciato in un titolo emblematico nel presentare un match dai sapori particolari, «Angela non ci butterai fuori»: se dall'euro o da Euro 2012 bisognerà vedere e comunque si presta ad una lettura 'double facè, economica o sportiva. Mai, insomma, come questa volta il doppio senso appare realistico. E quando venerdì sera Germania e Grecia si sfideranno per l'accesso nell'elite dell'Europa calcistica, conterà poco il rating o lo spread, anche perchè nel calcio, a differenza che nei fondamentali economici, basta buttare la palla in rete, senza dover per forza far conto del differenziale con i bund tedeschi. «Fatelo come Delikaris» (il «George Best» greco che segnò due reti alla Germania ovest nel '74 e nel '75), urla il sito greco 'Goal News' presentando la sfida; mentre 'Ta neà preferisce la cronaca politica («Senza Merkel in tribuna per la partita Germania-Grecia»), a cui si rifà anche il più ironico Sport Day: «La Merkel scappa via. Vedrà la partita seduta sulla poltrona di casa sua!!!». E Zougla.gr rincara la dose a tutta pagina: «Merkel sei pronta?....è la tua ora!». Battute (fino a un certo punto) a parte, se la partita la giocassero Fitch o Moody's avrebbe un destino già segnato (una tripla A contro un rischio default sarebbe come mettere a confronto il Barcellona al Gubbio appena retrocesso in Lega Pro), ma il bello del calcio è che regala sorprese. La Grecia non è nuova a simili incursioni contro la storia: ne sa qualcosa il Portogallo, 'padrone di casà di Euro 2004, sconfitto a Lisbona da una sorprendente Grecia; e chissà che il miracolo non posso ripetersi, alla faccia della crisi e dello spread. Costas Katsouranis, centrocampista del Panathinaikos e colonna della Nazionale ellenica ci crede. Di più. Alla vigilia della partita con la Russia aveva pronosticato la vittoria greca per 1-0 e adesso punta al bis: «Batteremo i tedeschi ai rigori - le sue parole riportate dal sito Ekathimerini - Tutti i gol che ci siamo tenuti da parte nelle partite precedenti finiranno dentro la rete tedesca», ha aggiunto tra il serio e il faceto. «Non so quanto andremo lontani - insiste il giocatore parlando dell' ipotesi che possa ripetersi il 'miracolò del 2004 - ma questa partita è un'occasione grande per la squadra e per l'intero Paese. Tutti i 23 giocatori che hanno trionfato in Portogallo nel 2004 hanno contribuito a farci arrivare fin qui. Anche i ragazzi che hanno smesso di giocare ci hanno lasciato qualcosa di importante e noi dobbiamo continuare a crederci». «Per noi questa partita ha una rilevanza solo calcistica, e su questa ci concentriamo. Ma capisco che per la Grecia ed il suo popolo, che è così orgoglioso, possa avere altri significati, vista la situazione in Europa», gli fa eco il difensore tedesco Holger Badstuber, facendo capire che quella di venerdì contro la Grecia non sarà una partita qualunque. «Sono molto rilassato dopo che abbiamo vinto tre partite su tre nel girone di ferro - le parole del ct Joachim Loew - e mi sentirò così anche se a questo match con i greci vogliono dare un significato politico». «Sono tranquillo - aggiunge con una battuta - perchè Angela Merkel non interferirà nelle mie scelte tecniche ed io non interferirò nella sua agenda politica».
Grecia: sconfitta l'alternativa
Vincenzo Comito
I greci hanno votato e il particolare meccanismo della legge elettorale di quel paese permette ora il ritorno al potere di quegli stessi partiti –Nuova Democrazia e Pasok- che hanno contribuito a trascinare la nazione nel baratro, mentre Syriza, che presentava l’unica speranza di cambiamento, viene sconfitta di misura. La paura ha vinto sulla speranza, come ha subito dichiarato lo stesso leader della sinistra radicale.
La vittoria dei partiti tradizionali, con in testa quel Samaras che a suo tempo aveva truccato i dati relativi ai deficit pubblici e all’indebitamento del paese, ha ricevuto una spinta importante da parte di tutti gli interessi costituiti interni ed internazionali, dalla Banca Mondiale alla Merkel, che sono intervenuti pesantemente ed indebitamente nel dibattito preelettorale minacciando tragedie per il paese, per l’Europa, per il mondo, se avesse vinto il candidato della sinistra. Ora sia essi che gli oligarchi greci esultano per la vittoria. Ma si tratta di un’esultanza che, visto lo stato delle cose, probabilmente avrà vita breve.
Il paese si trova di fronte a un piano di austerità che in ogni caso appare destinato al fallimento.
Le colpe della troika e quelle dei greci
Non possiamo non ricordare che la cosiddetta troika, l’Unione Europea, l’FMI, la BCE, ha imposto alla Grecia misure di austerità molto pesanti e irragionevoli che, se portate ancora avanti, uccideranno molto presto il malato. E bisogna anche sottolineare, per come si sono svolti i fatti, che i greci hanno subito, in particolare da parte dei tedeschi - come è stato scritto - un’umiliazione cocente nella loro dignità nazionale. Ricordiamo i versi che Gunter Grass ha di recente dedicato all’argomento e che costituiscono un atto di accusa verso chi ha concepito il misfatto del Memorandum.
Accanto alla troika, bisogna ricordare le colpe della finanza internazionale, che prima ha irresponsabilmente indirizzato una montagna di denaro verso il paese, contribuendo a creare una bolla del credito e poi, quando ha visto la mala parata, ha cercato di scappare precipitosamente, provocando altri danni gravi.
Così, il paese sta soffrendo il suo quinto anno di recessione, mentre la disoccupazione ha ormai raggiunto il 23% della forza lavoro e continuano le fughe di capitali e il ritiro dei fondi dalle banche. Nel frattempo, il reddito pro-capite è diminuito nel periodo di circa il 30% e l’apparato industriale è quasi scomparso, con molte imprese emigrate all’estero o fallite (Gatinois, 2012). Intanto anche la crisi della Spagna si aggrava, dimostrazione una volta di più del fatto che salvare solo le banche non porta da nessuna parte. In ogni caso, il salvataggio si è svolto in forme tecnicamente sbagliate. Per altro verso, Gunter Grass come molti altri a sinistra, dimenticano di sottolineare le pesanti colpe della stessa Grecia nella vicenda.
Certo, il popolo greco non è composto di fannulloni e di irresponsabili, come sembra indicare una parte della stampa tedesca. I dipendenti greci lavorano in media 2120 ore all’anno, molto più degli stessi tedeschi, hanno vacanze più corte della media europea e l’età media del collocamento in pensione è di 61,7 anni, di nuovo maggiore della media europea (Andreu, 2012).
Per altro verso, bisogna ricordare che si tratta di un paese con un altissimo livello di corruzione, di inefficienza statale, di evasione fiscale, collocato, su questi come su altri fronti, un po’ peggio della stessa Italia.
Il paese si trova di fronte a un piano di austerità che in ogni caso appare destinato al fallimento.
Le colpe della troika e quelle dei greci
Non possiamo non ricordare che la cosiddetta troika, l’Unione Europea, l’FMI, la BCE, ha imposto alla Grecia misure di austerità molto pesanti e irragionevoli che, se portate ancora avanti, uccideranno molto presto il malato. E bisogna anche sottolineare, per come si sono svolti i fatti, che i greci hanno subito, in particolare da parte dei tedeschi - come è stato scritto - un’umiliazione cocente nella loro dignità nazionale. Ricordiamo i versi che Gunter Grass ha di recente dedicato all’argomento e che costituiscono un atto di accusa verso chi ha concepito il misfatto del Memorandum.
Accanto alla troika, bisogna ricordare le colpe della finanza internazionale, che prima ha irresponsabilmente indirizzato una montagna di denaro verso il paese, contribuendo a creare una bolla del credito e poi, quando ha visto la mala parata, ha cercato di scappare precipitosamente, provocando altri danni gravi.
Così, il paese sta soffrendo il suo quinto anno di recessione, mentre la disoccupazione ha ormai raggiunto il 23% della forza lavoro e continuano le fughe di capitali e il ritiro dei fondi dalle banche. Nel frattempo, il reddito pro-capite è diminuito nel periodo di circa il 30% e l’apparato industriale è quasi scomparso, con molte imprese emigrate all’estero o fallite (Gatinois, 2012). Intanto anche la crisi della Spagna si aggrava, dimostrazione una volta di più del fatto che salvare solo le banche non porta da nessuna parte. In ogni caso, il salvataggio si è svolto in forme tecnicamente sbagliate. Per altro verso, Gunter Grass come molti altri a sinistra, dimenticano di sottolineare le pesanti colpe della stessa Grecia nella vicenda.
Certo, il popolo greco non è composto di fannulloni e di irresponsabili, come sembra indicare una parte della stampa tedesca. I dipendenti greci lavorano in media 2120 ore all’anno, molto più degli stessi tedeschi, hanno vacanze più corte della media europea e l’età media del collocamento in pensione è di 61,7 anni, di nuovo maggiore della media europea (Andreu, 2012).
Per altro verso, bisogna ricordare che si tratta di un paese con un altissimo livello di corruzione, di inefficienza statale, di evasione fiscale, collocato, su questi come su altri fronti, un po’ peggio della stessa Italia.
HIS
HOLINESS DALAI LAMA
Nobel
prize for peace, Tibet's spiritual leader is touring Britain promoting
NON-VIOLENCE
lunedì 18 giugno 2012
Sette brevi lezioni dal voto in Grecia
Il voto greco che ha portato i moderati di Nuova Democrazia alla maggioranza relativa, guadagnando un bonus di 50 seggi, ci regala qualche breve lezione per il futuro. Italiano ed europeo.
PRIMA, Non è vero, come è accaduto in Grecia, che le forti proteste non incidono sul quadro politico istituzionale. In tre anni Pasok e Nuova democrazia sono passate da una percentuale vicina all'80 per cento a poco più del 40. Da partiti alternativi sono stati costretti a coalizzarsi contro il resto della società greca. Oggi in Grecia la rappresentanza politica antiausterità è attorno al 50 per cento dei voti.
PRIMA, Non è vero, come è accaduto in Grecia, che le forti proteste non incidono sul quadro politico istituzionale. In tre anni Pasok e Nuova democrazia sono passate da una percentuale vicina all'80 per cento a poco più del 40. Da partiti alternativi sono stati costretti a coalizzarsi contro il resto della società greca. Oggi in Grecia la rappresentanza politica antiausterità è attorno al 50 per cento dei voti.
- senzasoste -
SECONDA, non è vero che alle elezioni i premi di maggioranza garantiscono la governabilità e sono politicamente neutri. Con una legge simile a quella studiata da Violante mesi fa, uno dei due ex partiti reciprocamente alternativi entro schemi di compatibilità sistemica (Nuova Democrazia) ha guadagnato il bonus e si è potuto permettere di attirare in una alleanza l'ex avversario (il Pasok). In Italia questo esempio potrebbe dire qualcosa.
TERZA, I governi neoliberisti e i media europei influiscono sul voto degli altri paesi mentre le sinistre no. La Merkel si è augurata, prima delle elezioni, una vittoria di Nuova Democrazia, i media europei (per tacere di quelli italiani) hanno presentato una eventuale vittoria di Syriza come il caos. Tirando la volata ai grandi fondi speculativi per un'eventuale affossamento di ciò che resta della Grecia. Le sinistre europee, quelle italiane in testa, non hanno fatto presenza nello spazio comunicativo continentale. Quando si vota in un paese che si sente isolato, tutto questo conta e sposta voti. Per esempio, era così impossibile per Vendola, Landini, die Linke, Front de Gauche andare in Grecia a non far sentire solo Tsipras? Provincialismo delle sinistre e internazionalizzazione del capitale producono un flusso di opinione pubblica che qualche voto decisivo, per la destra, lo sposta.
QUARTA. Il neoliberismo in Grecia si aggrappa a residui di consenso e di clientelismo. In Grecia la chiesa ortodossa non paga un'euro di tasse, i partiti ex sistemici hanno un residuo di clientele e favoritismi e tutto questo conta. Poi in Grecia c'è stata una spaccatura generazionale marcata. Giovani contro ND e Pasok, generazioni più mature, specie meno scoperte dalla crisi, a favore dei due partiti ex sistemici. La BBC, ad esempio, ha aperto un servizio su Nuova Democrazia come un partito sostanzialmente di anziani. Su questo genere di elettorato, facilmente strumentalizzabile nella crisi e incline ad ancorarsi a vecchie soluzioni, si basa molto del consenso liberista europeo. In un continente che invecchia, puntare solo al giovanilismo politico può essere un errore.
QUINTA. I mantra della propaganda neoliberista devono essere smontati. L'euro ha fatto rinascere i nazionalismi, dividendo un continente tra nazioni e partiti nazionali come mai prima della caduta del muro. Una moneta non è un continente e si vede. E soprattutto il continente può vivere benissimo senza una moneta neoliberista. Il terrorismo che vive dello slogan euro=europa=pace e stabilità è un dispositivo orwelliano che va saputo ancora smontare.
SESTA. I governi neoliberali, come abbiamo visto in Grecia, perdono anche metà dei consensi in pochi anni. L'alternativa può crescere anche velocemente, come ha fatto Syriza, ma non sostuisce il vecchio in tempo reale. Questo per capire, specie in Italia, che nessun cartello elettorale (per quanto auspicabile come Syriza) può egemonizzare o addirittura esaurire lo spazio del politico. Per delle sinistre italiane in declino, drogate di opinione pubblica come spazio prevalente del politico, minimaliste emerge un doppio classico problema (il governo e il movimento). A dimostrazione che la storia presenta sempre il conto di tutto ciò che è stato rimosso dalle generazioni precedenti. Hic Rhodus hic salta.
SETTIMA. Lo spazio politico tedesco è centrale, quanto la politica nazionale di ogni singolo paese, per il presente e il futuro dell'Europa. Oggi abbiamo una portavoce dei verdi che, a proposito della Grecia, parla come un'ultraliberista, il partito dei pirati che cresce (molto) come se esistesse solo la Germania, la Linke in crisi, la Spd pronta ad un prossimo governo di grande coalizione della Merkel. Sono tutte pessime notizie: altro che primarie e candidati, un'offensiva diplomatica verso lo spazio politico tedesco è qualcosa di vitale per ogni spazio politico nazionale, vista l'importanza della Germania.
Infine, complimenti ad Alexis Tsipras. Nessuno rimuove i difetti, i problemi, le aporie di una esperienza come Syriza. Ma Tsipras e Syriza hanno mostrato una dote sconosciuta alla politica attuale delle sinistre del continente: il coraggio. Un coraggio non certo irresponsabile e romantico ma tutto politico. Un coraggio che ha coalizzato attorno a sé la voglia di futuro di una parte significativa e giovane della Grecia. Un esempio per guardare positivamente alla dissoluzione della attuale sinistra italiana decadente e ruffiana, incapace di staccarsi dal Pasok italiano (il Pd). E chissà se stavolta Leonida non torni a casa da vincitore.
per Senza Soste, nique la police
SECONDA, non è vero che alle elezioni i premi di maggioranza garantiscono la governabilità e sono politicamente neutri. Con una legge simile a quella studiata da Violante mesi fa, uno dei due ex partiti reciprocamente alternativi entro schemi di compatibilità sistemica (Nuova Democrazia) ha guadagnato il bonus e si è potuto permettere di attirare in una alleanza l'ex avversario (il Pasok). In Italia questo esempio potrebbe dire qualcosa.
TERZA, I governi neoliberisti e i media europei influiscono sul voto degli altri paesi mentre le sinistre no. La Merkel si è augurata, prima delle elezioni, una vittoria di Nuova Democrazia, i media europei (per tacere di quelli italiani) hanno presentato una eventuale vittoria di Syriza come il caos. Tirando la volata ai grandi fondi speculativi per un'eventuale affossamento di ciò che resta della Grecia. Le sinistre europee, quelle italiane in testa, non hanno fatto presenza nello spazio comunicativo continentale. Quando si vota in un paese che si sente isolato, tutto questo conta e sposta voti. Per esempio, era così impossibile per Vendola, Landini, die Linke, Front de Gauche andare in Grecia a non far sentire solo Tsipras? Provincialismo delle sinistre e internazionalizzazione del capitale producono un flusso di opinione pubblica che qualche voto decisivo, per la destra, lo sposta.
QUARTA. Il neoliberismo in Grecia si aggrappa a residui di consenso e di clientelismo. In Grecia la chiesa ortodossa non paga un'euro di tasse, i partiti ex sistemici hanno un residuo di clientele e favoritismi e tutto questo conta. Poi in Grecia c'è stata una spaccatura generazionale marcata. Giovani contro ND e Pasok, generazioni più mature, specie meno scoperte dalla crisi, a favore dei due partiti ex sistemici. La BBC, ad esempio, ha aperto un servizio su Nuova Democrazia come un partito sostanzialmente di anziani. Su questo genere di elettorato, facilmente strumentalizzabile nella crisi e incline ad ancorarsi a vecchie soluzioni, si basa molto del consenso liberista europeo. In un continente che invecchia, puntare solo al giovanilismo politico può essere un errore.
QUINTA. I mantra della propaganda neoliberista devono essere smontati. L'euro ha fatto rinascere i nazionalismi, dividendo un continente tra nazioni e partiti nazionali come mai prima della caduta del muro. Una moneta non è un continente e si vede. E soprattutto il continente può vivere benissimo senza una moneta neoliberista. Il terrorismo che vive dello slogan euro=europa=pace e stabilità è un dispositivo orwelliano che va saputo ancora smontare.
SESTA. I governi neoliberali, come abbiamo visto in Grecia, perdono anche metà dei consensi in pochi anni. L'alternativa può crescere anche velocemente, come ha fatto Syriza, ma non sostuisce il vecchio in tempo reale. Questo per capire, specie in Italia, che nessun cartello elettorale (per quanto auspicabile come Syriza) può egemonizzare o addirittura esaurire lo spazio del politico. Per delle sinistre italiane in declino, drogate di opinione pubblica come spazio prevalente del politico, minimaliste emerge un doppio classico problema (il governo e il movimento). A dimostrazione che la storia presenta sempre il conto di tutto ciò che è stato rimosso dalle generazioni precedenti. Hic Rhodus hic salta.
SETTIMA. Lo spazio politico tedesco è centrale, quanto la politica nazionale di ogni singolo paese, per il presente e il futuro dell'Europa. Oggi abbiamo una portavoce dei verdi che, a proposito della Grecia, parla come un'ultraliberista, il partito dei pirati che cresce (molto) come se esistesse solo la Germania, la Linke in crisi, la Spd pronta ad un prossimo governo di grande coalizione della Merkel. Sono tutte pessime notizie: altro che primarie e candidati, un'offensiva diplomatica verso lo spazio politico tedesco è qualcosa di vitale per ogni spazio politico nazionale, vista l'importanza della Germania.
Infine, complimenti ad Alexis Tsipras. Nessuno rimuove i difetti, i problemi, le aporie di una esperienza come Syriza. Ma Tsipras e Syriza hanno mostrato una dote sconosciuta alla politica attuale delle sinistre del continente: il coraggio. Un coraggio non certo irresponsabile e romantico ma tutto politico. Un coraggio che ha coalizzato attorno a sé la voglia di futuro di una parte significativa e giovane della Grecia. Un esempio per guardare positivamente alla dissoluzione della attuale sinistra italiana decadente e ruffiana, incapace di staccarsi dal Pasok italiano (il Pd). E chissà se stavolta Leonida non torni a casa da vincitore.
per Senza Soste, nique la police
Da Atene messaggi di unità a sinistra.
controlacrisi.org
Ferrero (Prc) lancia invito a Vendola: Anche in Italia occorre costruire una sinistra unita e autonoma dal Pd.
Paolo Ferrero è ad Atene insieme agli altri rappresentanti della Sinistra Europea, di cui fanno parte tra gli altri Syriza, Fronte de Gauche e la stessa Rifondazione Comunista, per sostenere la battaglia dei compagni greci, che hanno ottenuto un gran risultato alle elezioni appena conclusesi. E Ferrero dalla capitale ellenica lancia un messaggio chiaro a Vendola, leader di Sel: "In Grecia vincono le forze che stanno distruggendo l'Europa con le politiche di austerità ed antisociali ma la sinistra avanza moltissimo e dice che larga parte del popolo non accetta più queste politiche, le politiche della Merkel e di Monti. Syriza raggiunge il 27% dei voti e complessivamente le forze della sinistra antiliberista raggiungono il 40%. Anche in Grecia verrà fatto un "governo Monti" - che vede insieme centro sinistra e conservatori - ma Monti ha poco da festeggiare perché l'unica strada per salvare l'Europa dal disastro è quella indicata da Syriza e dal Partito della Sinistra Europa di cui Syriza fa parte insieme a Rifondazione Comunista. A Vendola vogliamo dire che da Atene arriva un messaggio chiaro: occorre costruire una sinistra unita e autonoma dal Pd".
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