di Linda Santilli
Il padrone oggi può tutto o quasi. Può pretendere che tu lavori 12 ore al giorno per 2 lire. Può licenziarti senza giusta causa perché ti sei assentato quando avevi l’influenza o perché sei troppo vecchio e il mercato si sa è competitivo, o perché sei minimamente sindacalizzato e rappresenti un pericolo. Questo è la scenario sociale in cui viviamo. Ma quando succede che il padrone ti licenzia senza tanti complimenti perché sei un donna stiamo parlando di un’altra storia. Quando succede che ti viene sbattuta la porta in faccia perché hai un corpo riproduttivo, la cifra di quel gesto, che pare sbucare dall’androne più buio di epoche passate, si carica di significati terribili. E comunque in Italia può succedere anche questo. E’ successo a tante, tantissime, di vivere quello che è capitato solo alcuni giorni fa ad una giovane donna di Silvi Marina in Abruzzo. Aveva il contratto in mano, un misero contratto interinale di quelli che non garantiscono nulla se non qualche manciata di euro giusto per un paio di mesi come è in uso oggi. Mancava solo la sua firma, era tutto a posto per l’agenzia Gi Group (l’agenzia che prende a prestito i lavoratori per l’azienda di turno, in questo caso l’azienda pubblica Aptr), ma il tipo addetto a confermare l’assunzione le strappa dalle mani il foglio quando si accorge che la ragazza è incinta. Sei incinta? Non se ne parla di darti il lavoro. Punto e a capo e avanti il prossimo. Come nulla fosse. Umiliazione? Discriminazione? Punizione? Tutte e tre le cose in un colpo solo? Fate voi. Certo è che ciò che si addensa in quel secco no è una enormità. Come fosse un magma di contraddizioni antiche, ingiustizie arcaiche appunto, le stesse contro cui le donne hanno fatto la loro rivoluzione cambiando il mondo. Ma il mondo a ben vedere non è poi cambiato così tanto se possono accadere ancora episodi simili. Non si tratta di schegge sporadiche, di piccoli fatti di cronaca isolati sebbene ripetuti. Si tratta del fatto che la nostra contemporaneità liquida e velocissima e fragilissima, posa su un substrato culturale che al contrario è roccioso e profondo che si chiama patriarcato, che innerva dei suoi meccanismi perversi, dei suoi dispositivi punitivi, ogni pezzetto di ciò che è in superficie, primo tra tutti il mercato e le sue regole. Insomma, quello che Fitoussi definisce come lo “scandalo etico del capitalismo contemporaneo” si basa proprio su questa alleanza a doppio filo tra il capitalismo ed il sistema di dominio più antico e sofisticato che la Storia conosca. E’ uno scandalo che qui da noi assume la caratteristica aggiuntiva della doppia morale, un tratto antropologicamente distintivo della nostra tradizione. Infatti come altro chiamarla se non doppia morale la maniera in cui il mercato ingloba le donne come merce privilegiata e disponibile al cannibalismo capitalista ma poi le risputa a pezzettini non appena il loro corpo si sottrae ai dispositivi di controllo e contrattacca e si mostra riproduttivo? E’ proprio questo corpo femminile potente e fuori dal controllo maschile, per il cui controllo storicamente ha origine il patriarcato, a rappresentare oggi un intralcio alle leggi che regolano l’economia dominante. Perché? Perché così come il mercato non ammette freni né vincoli a statuti e leggi che impediscano al suo flusso impetuoso di raggiungere ogni sfera dell’esistenza per divorarla, allo stesso modo non ammette rigidità di tempi e di spazi e di nulla. Come può ammettere quindi il corpo riproduttivo femminile che impone tempi e regole che rispondono solo alla vita?
E sempre di doppia morale nostrana trattasi – sebbene in salsa differente- quando una donna si trova costretta a vivere la maternità: o come fardello se la sceglie, o come possibile disonore se non la sceglie. Ma quasi sempre non può scegliere un bel nulla perchè, benché viviamo nel paese più cattolico e familista del mondo che straparla di madri, esso fa meno di nulla per sostenerle anzi al dunque si accanisce contro di loro.
Tornando alla donna di Silvi Marina. E’ possibile che abbia considerato di aver commesso un errore per non aver utilizzato, in occasione dell’incontro per la fatidica firma del contratto di lavoro, un ampio abito per nascondere la maternità come facevano le ragazze “disonorate” dell’800. Ma certo di fronte al no vigliacco del tipo non si è lasciata zittire, scegliendo la parola al silenzio. E’ un gesto importantissimo. Fondamentale. Non tacere. Lottare. Pretendere che l’agenzia che ha praticato una simile discriminazione venga penalizzata e ad esempio non abbia più accesso a contratti di appalti pubblici, come è il caso della GiGroup attualmente.
E ottenere quel lavoro che spettava e spetta a lei. Sarebbe la vittoria di un principio di civiltà.
Il padrone oggi può tutto o quasi. Può pretendere che tu lavori 12 ore al giorno per 2 lire. Può licenziarti senza giusta causa perché ti sei assentato quando avevi l’influenza o perché sei troppo vecchio e il mercato si sa è competitivo, o perché sei minimamente sindacalizzato e rappresenti un pericolo. Questo è la scenario sociale in cui viviamo. Ma quando succede che il padrone ti licenzia senza tanti complimenti perché sei un donna stiamo parlando di un’altra storia. Quando succede che ti viene sbattuta la porta in faccia perché hai un corpo riproduttivo, la cifra di quel gesto, che pare sbucare dall’androne più buio di epoche passate, si carica di significati terribili. E comunque in Italia può succedere anche questo. E’ successo a tante, tantissime, di vivere quello che è capitato solo alcuni giorni fa ad una giovane donna di Silvi Marina in Abruzzo. Aveva il contratto in mano, un misero contratto interinale di quelli che non garantiscono nulla se non qualche manciata di euro giusto per un paio di mesi come è in uso oggi. Mancava solo la sua firma, era tutto a posto per l’agenzia Gi Group (l’agenzia che prende a prestito i lavoratori per l’azienda di turno, in questo caso l’azienda pubblica Aptr), ma il tipo addetto a confermare l’assunzione le strappa dalle mani il foglio quando si accorge che la ragazza è incinta. Sei incinta? Non se ne parla di darti il lavoro. Punto e a capo e avanti il prossimo. Come nulla fosse. Umiliazione? Discriminazione? Punizione? Tutte e tre le cose in un colpo solo? Fate voi. Certo è che ciò che si addensa in quel secco no è una enormità. Come fosse un magma di contraddizioni antiche, ingiustizie arcaiche appunto, le stesse contro cui le donne hanno fatto la loro rivoluzione cambiando il mondo. Ma il mondo a ben vedere non è poi cambiato così tanto se possono accadere ancora episodi simili. Non si tratta di schegge sporadiche, di piccoli fatti di cronaca isolati sebbene ripetuti. Si tratta del fatto che la nostra contemporaneità liquida e velocissima e fragilissima, posa su un substrato culturale che al contrario è roccioso e profondo che si chiama patriarcato, che innerva dei suoi meccanismi perversi, dei suoi dispositivi punitivi, ogni pezzetto di ciò che è in superficie, primo tra tutti il mercato e le sue regole. Insomma, quello che Fitoussi definisce come lo “scandalo etico del capitalismo contemporaneo” si basa proprio su questa alleanza a doppio filo tra il capitalismo ed il sistema di dominio più antico e sofisticato che la Storia conosca. E’ uno scandalo che qui da noi assume la caratteristica aggiuntiva della doppia morale, un tratto antropologicamente distintivo della nostra tradizione. Infatti come altro chiamarla se non doppia morale la maniera in cui il mercato ingloba le donne come merce privilegiata e disponibile al cannibalismo capitalista ma poi le risputa a pezzettini non appena il loro corpo si sottrae ai dispositivi di controllo e contrattacca e si mostra riproduttivo? E’ proprio questo corpo femminile potente e fuori dal controllo maschile, per il cui controllo storicamente ha origine il patriarcato, a rappresentare oggi un intralcio alle leggi che regolano l’economia dominante. Perché? Perché così come il mercato non ammette freni né vincoli a statuti e leggi che impediscano al suo flusso impetuoso di raggiungere ogni sfera dell’esistenza per divorarla, allo stesso modo non ammette rigidità di tempi e di spazi e di nulla. Come può ammettere quindi il corpo riproduttivo femminile che impone tempi e regole che rispondono solo alla vita?
E sempre di doppia morale nostrana trattasi – sebbene in salsa differente- quando una donna si trova costretta a vivere la maternità: o come fardello se la sceglie, o come possibile disonore se non la sceglie. Ma quasi sempre non può scegliere un bel nulla perchè, benché viviamo nel paese più cattolico e familista del mondo che straparla di madri, esso fa meno di nulla per sostenerle anzi al dunque si accanisce contro di loro.
Tornando alla donna di Silvi Marina. E’ possibile che abbia considerato di aver commesso un errore per non aver utilizzato, in occasione dell’incontro per la fatidica firma del contratto di lavoro, un ampio abito per nascondere la maternità come facevano le ragazze “disonorate” dell’800. Ma certo di fronte al no vigliacco del tipo non si è lasciata zittire, scegliendo la parola al silenzio. E’ un gesto importantissimo. Fondamentale. Non tacere. Lottare. Pretendere che l’agenzia che ha praticato una simile discriminazione venga penalizzata e ad esempio non abbia più accesso a contratti di appalti pubblici, come è il caso della GiGroup attualmente.
E ottenere quel lavoro che spettava e spetta a lei. Sarebbe la vittoria di un principio di civiltà.
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