Christine Lagarde, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, ha pronosticato tre mesi di vita per la moneta europea, se non verranno prese misure adeguate. Anche George Soros, che di finanza s'intende, condivide la stessa previsione. Non sono profezie di sovversivi. Oggi come oggi, la principale causa di instabilità non sono né i movimenti di protesta né le sinistre radicali. Se nel giro di breve tempo la zona euro potrebbe deflagrare, ciò avverrà non per l'incombere di un “nemico esterno", ma per le contraddizioni sistemiche che caratterizzano l'assetto monetario dell'Ue. La valuta europea potrebbe crollare motu proprio, per via delle dinamiche conflittuali che si riproducono al suo interno. Tempo ce n'è poco, fosse pure soltanto per attuare quei correttivi in corso d'opera che anche i difensori dell'Ue ormai invocano. Tutti i provvedimenti attualmente oggetto di studio - fondi salvastati, eurobond, meccanismi blocca-spread, obbligazioni per finanziare grandi opere infrastrutturali, cessioni di sovranità dei paesi membri, integrazione del sistema bancario - richiederebbero riforme tutt'altro che trascurabili dei Trattati europei. E quindi tempo. Che manca.
L'instabilità del sistema è l'effetto delle risposte (inadeguate) che i vertici europei hanno dato nei confronti della crisi. Ed ecco l'interrogativo. Cosa accadrebbe se la zona euro dovesse implodere? A chi toccherebbe gestire l'uscita dall'area valutaria europea? E, soprattutto, sarebbe preparata la sinistra ad affrontare uno scenario del genere. Qualche giorno fa, dal suo blog, in un articolo a commento del voto greco, l'economista Emiliano Brancaccio ha aperto una discussione. «A pensarci bene non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità», quanto piuttosto per «l'assenza di una chiara opzione di uscita dall'euro». Cosa avrebbe fatto quel partito «se la Germania e le autorità europee avessero rifiutato di avviare una profonda rinegoziazione del debito»? Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, «ha evitato di ammettere che, a quel punto, sarebbe stato costretto ad affrontare la crisi abbandonando la moneta unica europea e mettendo in discussione, se necessario, anche il mercato unico dei capitali e delle merci. Numerosi elettori greci potrebbero aver percepito questa ambiguità». L’unico modo per rendere credibile la richiesta di rinegoziazione del memorandum «doveva allora esser quello di ammettere l’ipotesi di una riconquista della sovranità monetaria del paese in caso di fallimento della trattativa. Ossia, una uscita dall’euro e al limite dal mercato unico europeo».
Fino a oggi le posizioni principali che hanno trovato cittadinanza nel dibattito politico sono fondamentalmente due: da un lato, quella dell'ortodossia liberista che sostiene le misure di austerità e il rigorismo monetario dell'establishment Ue; dall'altro, quella dei critici dell'attuale assetto monetario che vorrebbero cambiarne le regole in direzione di un'Europa più equa e sociale. C'è solo un punto sul quale le due posizioni convergono: nessuna delle due pone all'ordine del giorno l'uscita dall'euro. Men che mai l'opzione del ritorno alla lira trova spazio nei programmi delle sinistre di alternativa europee e non ci vuol molto a comprenderne il motivo. L'abbandono dell'euro può risultare attraente per una parte del mondo imprenditoriale. L'effetto di svalutazione della moneta nazionale ch'esso comporta, favorirebbe le esportazioni, ma eroderebbe il potere d'acquisto dei salari, a detrimento dei redditi medio-bassi. Non a caso, in questi giorni sta prendendo quota nel Pdl - per iniziativa dello stesso Berlusconi - un fronte antieuropeista, pronto a cavalcare un certo consenso che esiste nel paese circa l'idea di tornare alla lira.
Non necessariamente dovrebbe avvenire così, sostiene però Brancaccio. «La storia ci dice che nel momento in cui viene a deflagrare un sistema di cambi fissi irrevocabili - e la zona euro è un sistema di questo tipo - vi sono diversi modi attraverso i quali si può uscire da esso. Semplificando al massimo, esistono modi che potremmo definire “di destra” e modi che potremmo definire “di sinistra”. Un modo di “destra” è quello di lasciare che i capitali possano liberamente fuggire dal paese, e di scaricare interamente sui salari il costo della svalutazione della moneta». E quali sarebbero i meccanismi di “sinistra” per evitare che il peso di un'eventuale fuoriuscita dall'euro gravi tutto sui lavoratori? «Si potrebbero recuperare i vecchi sistemi di limitazione della circolazione dei capitali e, al limite, delle merci, che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. L’attuale informatizzazione delle transazioni renderebbe oltretutto anche più facili i controlli. Sistemi di questo tipo consentirebbero di governare la svalutazione e il suo impatto sui salari. C’è poi una questione che attiene alla proprietà estera o nazionale dei capitali di un paese, a partire dai capitali bancari. Un’eventuale uscita dalla zona euro implica una svalutazione dei capitali e quindi la possibilità, per soggetti esteri, di effettuare “shopping a buon mercato”. Assecondare gli acquisti da parte di investitori esteri oppure limitarli non è una scelta indifferente per le condizioni future dei lavoratori».
Tuttavia, un conto è ragionare sulle eventuali strategie da adottare nel caso di un'eventuale deflagrazione della zona euro. Se dovesse crollare l'intero sistema per via delle sue dinamiche interne, si sarebbe costretti per necessità a imboccare la via del ritorno alla moneta nazionale e non perché la si considererebbe la via migliore. Altro conto, invece, sarebbe considerare l'uscita dall'euro non il piano B, da tenere nel cassetto e tirare fuori all'occorrenza, ma l'opzione principale da preferire alle altre e intorno alla quale la sinistra dovrebbe costruire la propria strategia politica. Nel secondo caso, insomma, ci sarebbe da fare una scelta. Rimanere nell'euro per cambiare le regole dell'Ue o uscirne per riappropriarsi della sovranità monetaria? Secondo Brancaccio «le due strategie sono logicamente interconnesse. Per risultare credibili, le rivendicazioni per una riforma dei Trattati europei dovrebbero essere accompagnate da un esplicito avvertimento alla Germania: senza cambiamenti sostanziali negli assetti dell’Unione, non soltanto la moneta unica è a rischio, ma può saltare anche il mercato unico europeo. I gruppi di interesse prevalenti in Germania sono infatti disposti a fare a meno dell’euro, ma tengono molto alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Se tale libera circolazione venisse esplicitamente messa in dubbio, le autorità tedesche potrebbero diventare più disponibili a una riforma sostanziale dei Trattati europei».
Di nuovo, però, si pone l'interrogativo: quella di uscire dall'euro è solo una minaccia da brandire come arma negoziale nei confronti della Germania per indurre un cambiamento delle regole o è, a tutti gli effetti, la strategia principale attorno alla quale la sinistra deve lavorare? Un'ipotesi, quest'ultima, che un altro economista, Guido Viale, respinge senza mezzi termini.
«Innanzitutto, non esistono procedure per uscire. Secondo, se uno stato davvero uscisse, in maniera incontrollata e non concordata – e ci riuscisse – questo avrebbe effetti immediati su tutto il sistema monetario europeo. Ma anche nel caso di un tracollo dell'euro a breve, secondo me, non ci sono le condizioni per introdurre le monete nazionali, né in un singolo stato che facesse default, né nell'insieme degli stati. Quindi andremo avanti con l'euro e se anche l'euro dovesse fallire, questo sarebbe un problema che gestirebbero le autorità monetarie europee e gli stati nazionali tutti assieme». Più che nella prospettiva di un ritorno alla moneta nazionale e di una chiusura nei confini di ogni singolo paese, uno scenario eventuale di deflagrazione dell'euro andrebbe collocato in «una dimensione planetaria». La via è la stessa imboccata da Syriza, che «non puntava a uscire dall'euro, ma a rinegoziare il debito». Ma esistono i margini per rinegoziare? «I margini ci sono. Basta che qualcuno si impunti. Il governo Monti avrebbe molta più forza della Grecia perché il fallimento dell'Italia avrebbe conseguenze più drammatiche su tutto il sistema europeo. Se poi si formasse un fronte dei paesi che oggi sono sotto scacco – Portogallo, Spagna, Italia e Grecia – con una piattaforma unitaria per la rinegoziazione dei loro debiti, imponendo la moratoria sul pagamento degli interessi e sulla restituzione del debito, senza annullarlo, ma semplicemente procrastinandolo e annullandolo, la voce di questo gruppo di paesi verrebbe ascoltata per forza. Se, invece, questi stati vanno avanti in forma sparsa o, addirittura, facendosi la concorrenza, la loro posizione è molto più debole».
Di tipo negoziale, invece, è la posizione dell'economista Vladimiro Giacché, che giudica l'opzione dell'uscita dall'area valutaria una questione “subordinata". L'abbandono dell'euro è una decisione alla quale si può arrivare in determinate condizioni, ma non è la questione da cui partire. «La verità è che noi siamo di fronte a processi in gran parte oggettivi. Anche se rispetto ad essi, ovvio, sono sempre possibili scelte politiche da parte di chi ha il boccino in mano». Sta di fatto che tutte le scelte finora compiute dall'establishment europeo hanno innescato una catena di effetti “sistemici” nella zona euro. L'aver attuato una serie di politiche - l'austerità, l'abbassamento degli standard di protezione dei lavoratori, le privatizzazioni, solo per citarne alcune - ha peggiorato la situazione. «In Italia - spiega Giacché - si è ridotta la domanda interna, è crollato il Pil che è a meno due, e credo che chiuderemo l'anno a meno 2,5. Risultato? E' aumentato il rischio di insolvenza del nostro paese. Se scende il Pil, anche tenendo sotto controllo il debito pubblico, la proporzione tra debito e Pil peggiora». Se poi si guarda all'Europa nel suo complesso, i meccanismi che si sono innescati hanno aggravato «la divergenza tra singole economie. Questa è la vera minaccia per l'euro, non quello che può dire un partito di opposizione o di governo. Ci tengo a dirlo perché è un punto fondamentale. Oggi i veri nemici dell'euro sono non quelli che criticano l'Europa, ma coloro che si proclamano a parole difensori dell'euro. Con queste politiche, prima o poi, l'euro salta. Questa storia è iniziata nel marzo 2011 quando il consiglio europeo ha deciso di dare il via al Fiscal pact, che poi è diventato il Fiscal compact». Con quella modifica dei Trattati i vertici europei «hanno spostato l'attenzione dal deficit al debito e, di conseguenza, hanno indotto i mercati a considerare il debito come un problema». Ma non è tutto. Le autorità dell'Ue «si sono spinte a dire che chi ha un debito oltre il sessanta per cento, deve ridurre la quota eccedente nella misura del cinque per cento annuo. Per l'Italia, ad esempio, questo significa una manovra di correzione di bilancio di 45 miliardi di euro all'anno, cui si aggiungerebbero le spese per gli interessi che si pagano sul debito. Il che significa per almeno una decina di anni non fare più alcun investimento pubblico, attuare misure depressive e non crescere più. Infatti, gli spread erano a centoventi a marzo 2011, da metà aprile hanno cominciato ad alzarsi e da allora non si sono più fermati. Questa dinamica, unita al fatto che la Bce non offre protezione ai titoli di stato sotto attacco, è un invito alla speculazione a colpire i paesi considerati a rischio».
Cosa si dovrebbe fare in una situazione del genere? Conviene ancora per i paesi dell'Ue che vedono sotto attacco i propri titoli di stato, rimanere nell'area valutaria? «Io credo che già nel marzo 2011 - risponde Giacché - l'allora ministro dell'economia Tremonti avrebbe dovuto mettere il veto sul Fiscal pact. In quel momento avevamo maggiore potere negoziale e avremmo dovuto mettere sul tavolo la minaccia di una nostra uscita dall'euro. La convenienza a rimanere dentro ancora c'è e ci sarà almeno fino a un certo limite, che io quantificherei attorno al sette per cento. Nel momento in cui un paese cominciasse a pagare un sette per cento di interessi sul debito e questa circostanza dovesse protrarsi per un certo numero di settimane, sarebbe costretto a chiedere aiuto. Gli interessi sarebbero così pesanti che bisognerebbe avere un avanzo primario del sette per cento. Senza considerare la norma delirante della riduzione del debito pubblico del cinque per cento all'anno. Una situazione insostenibile. A quel punto uno dovrebbe porsi il problema. L'euro non è una religione, è una moneta che si è acquisita per convenienza reciproca». Attenzione, però. «Tutti si focalizzano sull'euro e sull'uscita dall'euro. Ma questo in realtà non basterebbe. La vera questione è l'imposizione di vincoli ai movimenti di capitali - soprattutto di capitali, che di merci. In caso contrario, puoi uscire, ma con il rischio di dover svendere i pezzi migliori a soggetti stranieri. L'uscita dall'euro non è una passeggiata, né una boccata di salute. Gli effetti, per molti versi, sarebbero devastanti. Io non condivido certe posizioni che vedo anche a sinistra, di qualcuno che abbraccia con entusiasmo la prospettiva di uscita dall'euro. Richiederebbe strategie che attualmente il nostro establishment non è disposto a tollerare. Il controllo sui movimenti di capitale è qualcosa che collide con l'ideologia di Monti. Qui è la vera partita. Se fai l'una cosa senza l'altra, l'uscita dall'euro senza il controllo sui capitali, avresti come risultato immediato il deflusso di capitali e la svendita di tutti i pezzi pregiati. Il vero problema sono le alternative. Certo, se l'alternativa è, poniamo, un'agonia di cinque anni durante i quali hai fatto politiche regressive e al termine della quale c'è il default - che implicherebbe in ogni caso l'uscita dall'euro - a questo punto non avrebbe senso percorrere fino in fondo una strada del genere. A quel punto sì, preferirei far saltare il tavolo io. La mia è una proposta negoziale. Mettiamo le carte sul tavolo e poi vediamo».
A Guido Viale l'ipotesi di uscita dall'euro non piace in nessuna forma, anche soltanto come esito possibile di un negoziato. «Il ritorno alla lira, in Italia, lo propongono solo Grillo – e non so se abbia un'idea precisa nel merito – e alcuni economisti, sia di destra, sia di sinistra. A me è capitato di polemizzare con Alberto Bagnai che sostiene questa ipotesi. Io penso che sia una posizione irrealistica che si regge soltanto sulla previsione che l'uscita dalla moneta unica provocherebbe una svalutazione della moneta nazionale e, quindi, un aumento di competitività. C'è chi ritiene che in questo modo l'Italia possa ripetere quelle manovre di svalutazione che nei vent'anni precedenti all'introduzione dell'euro le avevano consentito di rafforzare il proprio export. Ma nelle condizioni attuali quella situazione non si potrebbe ripetere. E' impossibile che le esportazioni italiane possano crescere a discapito di quelle tedesche, neppure se la nostra moneta valesse la metà di quello che vale oggi con l'euro. E poi la ripresa del nostro apparato produttivo, come quello di tutti i paesi in crisi, non può avvenire che tramite una riconversione ecologica, un cambiamento delle basi produttive e del tipo di prodotto. La produzione va orientata soprattutto sul mercato interno e meno sulle esportazioni».
L'instabilità del sistema è l'effetto delle risposte (inadeguate) che i vertici europei hanno dato nei confronti della crisi. Ed ecco l'interrogativo. Cosa accadrebbe se la zona euro dovesse implodere? A chi toccherebbe gestire l'uscita dall'area valutaria europea? E, soprattutto, sarebbe preparata la sinistra ad affrontare uno scenario del genere. Qualche giorno fa, dal suo blog, in un articolo a commento del voto greco, l'economista Emiliano Brancaccio ha aperto una discussione. «A pensarci bene non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità», quanto piuttosto per «l'assenza di una chiara opzione di uscita dall'euro». Cosa avrebbe fatto quel partito «se la Germania e le autorità europee avessero rifiutato di avviare una profonda rinegoziazione del debito»? Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, «ha evitato di ammettere che, a quel punto, sarebbe stato costretto ad affrontare la crisi abbandonando la moneta unica europea e mettendo in discussione, se necessario, anche il mercato unico dei capitali e delle merci. Numerosi elettori greci potrebbero aver percepito questa ambiguità». L’unico modo per rendere credibile la richiesta di rinegoziazione del memorandum «doveva allora esser quello di ammettere l’ipotesi di una riconquista della sovranità monetaria del paese in caso di fallimento della trattativa. Ossia, una uscita dall’euro e al limite dal mercato unico europeo».
Fino a oggi le posizioni principali che hanno trovato cittadinanza nel dibattito politico sono fondamentalmente due: da un lato, quella dell'ortodossia liberista che sostiene le misure di austerità e il rigorismo monetario dell'establishment Ue; dall'altro, quella dei critici dell'attuale assetto monetario che vorrebbero cambiarne le regole in direzione di un'Europa più equa e sociale. C'è solo un punto sul quale le due posizioni convergono: nessuna delle due pone all'ordine del giorno l'uscita dall'euro. Men che mai l'opzione del ritorno alla lira trova spazio nei programmi delle sinistre di alternativa europee e non ci vuol molto a comprenderne il motivo. L'abbandono dell'euro può risultare attraente per una parte del mondo imprenditoriale. L'effetto di svalutazione della moneta nazionale ch'esso comporta, favorirebbe le esportazioni, ma eroderebbe il potere d'acquisto dei salari, a detrimento dei redditi medio-bassi. Non a caso, in questi giorni sta prendendo quota nel Pdl - per iniziativa dello stesso Berlusconi - un fronte antieuropeista, pronto a cavalcare un certo consenso che esiste nel paese circa l'idea di tornare alla lira.
Non necessariamente dovrebbe avvenire così, sostiene però Brancaccio. «La storia ci dice che nel momento in cui viene a deflagrare un sistema di cambi fissi irrevocabili - e la zona euro è un sistema di questo tipo - vi sono diversi modi attraverso i quali si può uscire da esso. Semplificando al massimo, esistono modi che potremmo definire “di destra” e modi che potremmo definire “di sinistra”. Un modo di “destra” è quello di lasciare che i capitali possano liberamente fuggire dal paese, e di scaricare interamente sui salari il costo della svalutazione della moneta». E quali sarebbero i meccanismi di “sinistra” per evitare che il peso di un'eventuale fuoriuscita dall'euro gravi tutto sui lavoratori? «Si potrebbero recuperare i vecchi sistemi di limitazione della circolazione dei capitali e, al limite, delle merci, che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. L’attuale informatizzazione delle transazioni renderebbe oltretutto anche più facili i controlli. Sistemi di questo tipo consentirebbero di governare la svalutazione e il suo impatto sui salari. C’è poi una questione che attiene alla proprietà estera o nazionale dei capitali di un paese, a partire dai capitali bancari. Un’eventuale uscita dalla zona euro implica una svalutazione dei capitali e quindi la possibilità, per soggetti esteri, di effettuare “shopping a buon mercato”. Assecondare gli acquisti da parte di investitori esteri oppure limitarli non è una scelta indifferente per le condizioni future dei lavoratori».
Tuttavia, un conto è ragionare sulle eventuali strategie da adottare nel caso di un'eventuale deflagrazione della zona euro. Se dovesse crollare l'intero sistema per via delle sue dinamiche interne, si sarebbe costretti per necessità a imboccare la via del ritorno alla moneta nazionale e non perché la si considererebbe la via migliore. Altro conto, invece, sarebbe considerare l'uscita dall'euro non il piano B, da tenere nel cassetto e tirare fuori all'occorrenza, ma l'opzione principale da preferire alle altre e intorno alla quale la sinistra dovrebbe costruire la propria strategia politica. Nel secondo caso, insomma, ci sarebbe da fare una scelta. Rimanere nell'euro per cambiare le regole dell'Ue o uscirne per riappropriarsi della sovranità monetaria? Secondo Brancaccio «le due strategie sono logicamente interconnesse. Per risultare credibili, le rivendicazioni per una riforma dei Trattati europei dovrebbero essere accompagnate da un esplicito avvertimento alla Germania: senza cambiamenti sostanziali negli assetti dell’Unione, non soltanto la moneta unica è a rischio, ma può saltare anche il mercato unico europeo. I gruppi di interesse prevalenti in Germania sono infatti disposti a fare a meno dell’euro, ma tengono molto alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Se tale libera circolazione venisse esplicitamente messa in dubbio, le autorità tedesche potrebbero diventare più disponibili a una riforma sostanziale dei Trattati europei».
Di nuovo, però, si pone l'interrogativo: quella di uscire dall'euro è solo una minaccia da brandire come arma negoziale nei confronti della Germania per indurre un cambiamento delle regole o è, a tutti gli effetti, la strategia principale attorno alla quale la sinistra deve lavorare? Un'ipotesi, quest'ultima, che un altro economista, Guido Viale, respinge senza mezzi termini.
«Innanzitutto, non esistono procedure per uscire. Secondo, se uno stato davvero uscisse, in maniera incontrollata e non concordata – e ci riuscisse – questo avrebbe effetti immediati su tutto il sistema monetario europeo. Ma anche nel caso di un tracollo dell'euro a breve, secondo me, non ci sono le condizioni per introdurre le monete nazionali, né in un singolo stato che facesse default, né nell'insieme degli stati. Quindi andremo avanti con l'euro e se anche l'euro dovesse fallire, questo sarebbe un problema che gestirebbero le autorità monetarie europee e gli stati nazionali tutti assieme». Più che nella prospettiva di un ritorno alla moneta nazionale e di una chiusura nei confini di ogni singolo paese, uno scenario eventuale di deflagrazione dell'euro andrebbe collocato in «una dimensione planetaria». La via è la stessa imboccata da Syriza, che «non puntava a uscire dall'euro, ma a rinegoziare il debito». Ma esistono i margini per rinegoziare? «I margini ci sono. Basta che qualcuno si impunti. Il governo Monti avrebbe molta più forza della Grecia perché il fallimento dell'Italia avrebbe conseguenze più drammatiche su tutto il sistema europeo. Se poi si formasse un fronte dei paesi che oggi sono sotto scacco – Portogallo, Spagna, Italia e Grecia – con una piattaforma unitaria per la rinegoziazione dei loro debiti, imponendo la moratoria sul pagamento degli interessi e sulla restituzione del debito, senza annullarlo, ma semplicemente procrastinandolo e annullandolo, la voce di questo gruppo di paesi verrebbe ascoltata per forza. Se, invece, questi stati vanno avanti in forma sparsa o, addirittura, facendosi la concorrenza, la loro posizione è molto più debole».
Di tipo negoziale, invece, è la posizione dell'economista Vladimiro Giacché, che giudica l'opzione dell'uscita dall'area valutaria una questione “subordinata". L'abbandono dell'euro è una decisione alla quale si può arrivare in determinate condizioni, ma non è la questione da cui partire. «La verità è che noi siamo di fronte a processi in gran parte oggettivi. Anche se rispetto ad essi, ovvio, sono sempre possibili scelte politiche da parte di chi ha il boccino in mano». Sta di fatto che tutte le scelte finora compiute dall'establishment europeo hanno innescato una catena di effetti “sistemici” nella zona euro. L'aver attuato una serie di politiche - l'austerità, l'abbassamento degli standard di protezione dei lavoratori, le privatizzazioni, solo per citarne alcune - ha peggiorato la situazione. «In Italia - spiega Giacché - si è ridotta la domanda interna, è crollato il Pil che è a meno due, e credo che chiuderemo l'anno a meno 2,5. Risultato? E' aumentato il rischio di insolvenza del nostro paese. Se scende il Pil, anche tenendo sotto controllo il debito pubblico, la proporzione tra debito e Pil peggiora». Se poi si guarda all'Europa nel suo complesso, i meccanismi che si sono innescati hanno aggravato «la divergenza tra singole economie. Questa è la vera minaccia per l'euro, non quello che può dire un partito di opposizione o di governo. Ci tengo a dirlo perché è un punto fondamentale. Oggi i veri nemici dell'euro sono non quelli che criticano l'Europa, ma coloro che si proclamano a parole difensori dell'euro. Con queste politiche, prima o poi, l'euro salta. Questa storia è iniziata nel marzo 2011 quando il consiglio europeo ha deciso di dare il via al Fiscal pact, che poi è diventato il Fiscal compact». Con quella modifica dei Trattati i vertici europei «hanno spostato l'attenzione dal deficit al debito e, di conseguenza, hanno indotto i mercati a considerare il debito come un problema». Ma non è tutto. Le autorità dell'Ue «si sono spinte a dire che chi ha un debito oltre il sessanta per cento, deve ridurre la quota eccedente nella misura del cinque per cento annuo. Per l'Italia, ad esempio, questo significa una manovra di correzione di bilancio di 45 miliardi di euro all'anno, cui si aggiungerebbero le spese per gli interessi che si pagano sul debito. Il che significa per almeno una decina di anni non fare più alcun investimento pubblico, attuare misure depressive e non crescere più. Infatti, gli spread erano a centoventi a marzo 2011, da metà aprile hanno cominciato ad alzarsi e da allora non si sono più fermati. Questa dinamica, unita al fatto che la Bce non offre protezione ai titoli di stato sotto attacco, è un invito alla speculazione a colpire i paesi considerati a rischio».
Cosa si dovrebbe fare in una situazione del genere? Conviene ancora per i paesi dell'Ue che vedono sotto attacco i propri titoli di stato, rimanere nell'area valutaria? «Io credo che già nel marzo 2011 - risponde Giacché - l'allora ministro dell'economia Tremonti avrebbe dovuto mettere il veto sul Fiscal pact. In quel momento avevamo maggiore potere negoziale e avremmo dovuto mettere sul tavolo la minaccia di una nostra uscita dall'euro. La convenienza a rimanere dentro ancora c'è e ci sarà almeno fino a un certo limite, che io quantificherei attorno al sette per cento. Nel momento in cui un paese cominciasse a pagare un sette per cento di interessi sul debito e questa circostanza dovesse protrarsi per un certo numero di settimane, sarebbe costretto a chiedere aiuto. Gli interessi sarebbero così pesanti che bisognerebbe avere un avanzo primario del sette per cento. Senza considerare la norma delirante della riduzione del debito pubblico del cinque per cento all'anno. Una situazione insostenibile. A quel punto uno dovrebbe porsi il problema. L'euro non è una religione, è una moneta che si è acquisita per convenienza reciproca». Attenzione, però. «Tutti si focalizzano sull'euro e sull'uscita dall'euro. Ma questo in realtà non basterebbe. La vera questione è l'imposizione di vincoli ai movimenti di capitali - soprattutto di capitali, che di merci. In caso contrario, puoi uscire, ma con il rischio di dover svendere i pezzi migliori a soggetti stranieri. L'uscita dall'euro non è una passeggiata, né una boccata di salute. Gli effetti, per molti versi, sarebbero devastanti. Io non condivido certe posizioni che vedo anche a sinistra, di qualcuno che abbraccia con entusiasmo la prospettiva di uscita dall'euro. Richiederebbe strategie che attualmente il nostro establishment non è disposto a tollerare. Il controllo sui movimenti di capitale è qualcosa che collide con l'ideologia di Monti. Qui è la vera partita. Se fai l'una cosa senza l'altra, l'uscita dall'euro senza il controllo sui capitali, avresti come risultato immediato il deflusso di capitali e la svendita di tutti i pezzi pregiati. Il vero problema sono le alternative. Certo, se l'alternativa è, poniamo, un'agonia di cinque anni durante i quali hai fatto politiche regressive e al termine della quale c'è il default - che implicherebbe in ogni caso l'uscita dall'euro - a questo punto non avrebbe senso percorrere fino in fondo una strada del genere. A quel punto sì, preferirei far saltare il tavolo io. La mia è una proposta negoziale. Mettiamo le carte sul tavolo e poi vediamo».
A Guido Viale l'ipotesi di uscita dall'euro non piace in nessuna forma, anche soltanto come esito possibile di un negoziato. «Il ritorno alla lira, in Italia, lo propongono solo Grillo – e non so se abbia un'idea precisa nel merito – e alcuni economisti, sia di destra, sia di sinistra. A me è capitato di polemizzare con Alberto Bagnai che sostiene questa ipotesi. Io penso che sia una posizione irrealistica che si regge soltanto sulla previsione che l'uscita dalla moneta unica provocherebbe una svalutazione della moneta nazionale e, quindi, un aumento di competitività. C'è chi ritiene che in questo modo l'Italia possa ripetere quelle manovre di svalutazione che nei vent'anni precedenti all'introduzione dell'euro le avevano consentito di rafforzare il proprio export. Ma nelle condizioni attuali quella situazione non si potrebbe ripetere. E' impossibile che le esportazioni italiane possano crescere a discapito di quelle tedesche, neppure se la nostra moneta valesse la metà di quello che vale oggi con l'euro. E poi la ripresa del nostro apparato produttivo, come quello di tutti i paesi in crisi, non può avvenire che tramite una riconversione ecologica, un cambiamento delle basi produttive e del tipo di prodotto. La produzione va orientata soprattutto sul mercato interno e meno sulle esportazioni».
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